Giustizia: il programma possibile.. via sedi inutili, processo telematico e pene alternative di Pierluigi Mantini Italia Oggi, 24 maggio 2013 Per ripartire, tenendo insieme crescita e coesione, è necessaria una strategia complessa, di cui la giustizia rappresenta un tassello centrale. Una giustizia inefficiente, infatti, comprime e disgrega i legami sociali e limita ogni possibilità di sviluppo economico. Con “atteggiamento laico guarderò esclusivamente al merito dei problemi e alla ricerca della più ampia convergenza nell’individuazione di soluzioni utili a garantire la pienezza dei diritti dei cittadini, rafforzando credibilità e fiducia nella politica e nelle istituzioni”. Sic Anna Maria Cancellieri dixit, nell’illustrare alla Commissione Giustizia della Camera le linee della sua azione di governo come nuovo guardasigilli Dimostrando subito realismo politico e chiarezza di idee il ministro Cancellieri evita gli scogli, almeno per ora. Nessuna “grande, grande, grande riforma della giustizia”, cavallo di battaglia di Berlusconi e disegno avanzato dall’ex guardasigilli Angelino Alfano, ma neppure promuove nuove norme sulla corruzione o i conflitti di interesse, richiesti dal Partito Democratico. Il governo pone al centro della sua azione il completamento della revisione della “geografia giudiziaria,” per recuperare risorse eliminando le sedi inutili, il processo telematico, le pene alternative al carcere, anche per sconfiggere l’incivile sovraffollamento, lo strumento della mediazione, rivisto e perfezionato per ridurre l’enorme “debito giudiziario.” D’altronde cambiano i governi ma i numeri sono sempre lì, duri come la pietra. Al 15 maggio 2013 erano presenti, nei 206 istituti penitenziari italiani, 65.891 detenuti, di cui oltre 23 mila stranieri, a fronte di una capienza regolamentare di 47.040 detenuti. Di questi, 24.691 sono indagati o imputati in custodia cautelare, 40.118 sono condannati e 1.176 internati. La situazione è drammatica oltre ogni misura. A giugno 2012 nei Tribunali erano pendenti 3.357.528 procedimenti civili e 1.279.492 penali. In Corte d’Appello erano pendenti 439.506 procedimenti civili e 239.125 penali. In Cassazione 99.487 procedimenti civili e 28.591 penali. Certo, su questi temi, non si potranno riproporre stancamente le ricette del passato. Ad esempio, in materia di sanzioni alternative al carcere non si dovrà insistere solo sull’esecuzione (domiciliari, messa alla prova, lavori socialmente utili ecc.) ma, finalmente, si dovrà procedere ad una seria depenalizzazione dei reati minori perché il ritiro di una licenza o altre sanzioni amministrative e pecuniarie sono spesso più efficaci ed afflittive delle “grida” carcerarie. Ed inoltre, se si vuole puntare sulla mediazione civile, perché non tutte le controversie possono essere portate dinanzi al giudice togato, occorre allora un restyling dell’istituto, prevedendo che negli organismi di mediazione possano stare gli avvocati e non un laureato triennale in qualunque disciplina. Un programma realista, quello illustrato dalla Cancellieri, ispirato all’efficienza della giustizia e perciò pragmaticamente riformatore. Sembra un programma minimo, perché evita i nodi che generano conflitto, ma proprio per questo dobbiamo definirlo ambizioso. Riforme concrete e pacificazione, se non ora quando? Giustizia: Letta vada a rassicurare anche Strasburgo… su rispetto diritti umani in carcere di Stefano Anastasia, Patrizio Gonnella, Mauro Palma Il Manifesto, 24 maggio 2013 Nei giorni in cui il nostro presidente del consiglio Enrico Letta va in giro per l’Europa a rassicurare Stati e mercati sulla tenuta dei nostri conti e sul rispetto dei paletti imposti a Bruxelles, va ricordato ai nostri governanti che l’Europa non ha una, bensì due capitali. Se a Bruxelles si discute di debito pubblico, rigore e patto di stabilità, a Strasburgo si dibatte e si viene condannati per violazione dei diritti umani. Eventualità che ultimamente capita spesso all’Italia. Il prossimo 27 maggio la Grande Chambre della Corte europea dei Diritti umani deciderà sul ricorso italiano contro la sentenza pilota della Corte dello scorso 8 gennaio. Riepiloghiamo cosa prevedeva quella sentenza. L’Italia viene condannata a pagare circa 100 mila euro a sette detenuti costretti a vivere in carceri dove mancava lo spazio ritenuto vitale, ovvero tre metri quadri a persona. Visti i 500 e passa ricorsi, di cui un circa terzo presentati dal nostro Difensore civico, la Corte ha proposto all’Italia, per evitare 500 condanne e milioni di euro di risarcimenti, di intervenire entro un anno per porre rimedio sistemico a quella condizione di affollamento che provoca la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea del 1950 il quale proibisce la tortura e i trattamenti crudeli, inumani e degradanti. Il governo italiano ha accettato il compromesso. Solo che in virtù di una deteriore furbizia italiana ha presentato ricorso alla Grande Chambre. Un ricorso evidentemente dilatorio, un po’ da azzeccagarbugli di provincia, che è servito solo a spostare in avanti l’anno entro cui dover riportare le carceri nella legalità costituzionale e internazionale. Va ricordato che a oggi abbiamo 66 mila detenuti, mentre i posti letto regolamentari accertati sono solo 37 mila (e non 45 mila come dicono le statistiche ufficiali). Un tasso di affollamento che ci posiziona al primo posto in tutta Europa. Quello che sta scorrendo è un anno decisivo per le riforme della giustizia penale e della vita nelle 206 carceri italiane. C’è da rispondere a Strasburgo, ovvero c’è da decidere come liberare circa 30 mila detenuti. Inoltre c’è da decidere che fare della legge sulla detenzione domiciliare e dell’intero sistema delle misure alternative, visto che la legge Alfano-Severino va a scadenza a fine anno. A ciò si aggiunga che, proprio in questi giorni, il parlamento ha approvato la legge che sposta al primo aprile 2014 la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari, dove sono rinchiuse oltre 1.000 persone di cui una parte indebitamente, visto che pur non più pericolose restano ugualmente internate. Infine, sempre entro aprile 2014 l’Italia, dopo che il capo dello Stato ha depositato la ratifica del protocollo alla Convenzione Onu contro la tortura, dovrà istituire quello che alle Nazioni unite chiamano National preventive mechanism, ovvero dovrà finalmente dar vita a un organismo indipendente di controllo di tutti i luoghi di detenzione, non solo carceri, ma anche Cie, caserme e commissariati. Insieme a molte organizzazioni abbiamo dato vita a una campagna pubblica per stare dentro questo dibattito, per condizionare le forze politiche che siedono in parlamento. Le nostre sono tre proposte di legge per la giustizia (3leggi.it) che riguardano i grandi temi della introduzione del delitto di tortura nel codice penale, del cambio radicale della legge sulle droghe Fini-Giovanardi e della legalità contabile e sostanziale nelle carceri. Dobbiamo raccogliere 50 mila firme. Siamo a quota 20 mila. Vogliamo dimostrare che si tratta di temi istituzionali e sociali che hanno base di consenso e meritano rispetto politico. Di questo parleremo in una assemblea, alla quale parteciperanno anche molti parlamentari, che si terrà oggi alla Camera, a Roma, in via del Seminario 76. Giustizia: l’amnistia avrebbe l’effetto di far respirare il rovente agone giudiziario di Guido Brambilla (Magistrato di Sorveglianza di Milano) Tempi, 24 maggio 2013 Un importante istituto che potrebbe favorire un clima di pacificazione in questo momento storico è rappresentato dall’amnistia. Essa, infatti, non avrebbe solo lo scopo di deflazionare l’insopportabile sovraffollamento carcerario, che ha raggiunto ormai livelli “sudamericani” con numerose sentenze di condanna dell’Italia da parte della Corte di giustizia europea, ma anche quello “simbolico” di far respirare il rovente agone giudiziario introducendo quella serenità necessaria per por mano alle nuove sfide che la riforma della giustizia impone. Intendo qui però chiarire entro quale orizzonte e con quali finalità ultime dovrebbe - sotto il primo profilo sopra esposto - inserirsi un auspicabile provvedimento di clemenza. Senza soffermarmi (anche se si tratta di un problema importante e delicato) sul problema dei detenuti in attesa di giudizio (per i quali sarebbe innanzitutto auspicabile una maggior celerità dei processi con una semplificazione globale dell’iter procedi-mentale), per quanto concerne i detenuti cosiddetti “definitivi” (quindi condannati con sentenza irrevocabile) è diffusa, infatti, nell’opinione comune, amplificata dal sensazionalismo mass-mediatico, una concezione della “sicurezza” ridotta a mera “espulsività-segregazione-isolamento”: il carcere viene visto pertanto nel solo aspetto custodialistico, specie quando si tratta di stranieri e ritenuto l’unico mezzo utile a placare il dilagante senso di insicurezza dei cittadini. L’articolo 27, 3° comma, della Costituzione, invece, recita che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Già il noto giurista Francesco Carnelutti affermava in quei tempi che il processo penale avrebbe fallito il suo scopo se anche con l’irrogazione della giusta pena non si fosse raggiunto l’obiettivo del riabbraccio ultimo tra la società e il reo. Se dunque il principio dell’effettività della pena non può essere disatteso, va anche evidenziato che la rieducazione è la tensione propria dell’esecuzione penale e che vi è una stretta correlazione tra la rieducazione e lo stesso bisogno di sicurezza. Non esiste una definizione normativa o giurisprudenziale del concetto di rieducazione, sicché gli operatori del settore, per lo più, fanno coincidere tale concetto con quello laico e pragmatico di “abbattimento o riduzione della recidiva”. A mio parere, tale definizione rappresenta, però, più una conseguenza della rieducazione, che non la sua essenza. Tuttavia, anche accettandola così formulata, non si può non percepire come un successo riabilitativo abbia benefici effetti anche in tema di sicurezza sociale. Non basta lo Stato a rieducare Quando viene condannata, una persona viene consegnata sì ad un luogo (in principalità il carcere), ma anche a una serie di rapporti con altre persone; un universo di incontri con soggetti preposti alla custodia, ma soprattutto al percorso trattamentale e rieducativo. Durante la sua vita detentiva il carcerato è seguito (oltre che dalla polizia penitenziaria), dai direttori degli istituti di pena, dai magistrati di sorveglianza, e poi da educatori, volontari, medici, psicologi, criminologi, assistenti sociali, insegnanti ecc. Nell’organizzazione della città detentiva intervengono, a fini di sostegno e aiuto, anche gli Enti locali, banche, fondazioni, imprese e cooperative, proprio perché l’interesse alla promozione umana e alla reinclusività sociale è prevalente rispetto a quello, pur indispensabile, della mera retribuzione, anche in termini di riduzione dei costi sociali, di valorizzazione delle risorse umane e del territorio. Chiarito quello che a me pare esse re l’essenza dell’intervento rieducativo, ritengo che il medesimo non possa essere solo monopolio dello Stato. Abbiamo visto che attraverso l’intervento di una pluralità di soggetti, pubblici e privati, più vicini al detenuto (nel tempo dell’esecuzione della pena e nello spazio ove essa viene espiata), può realizzarsi appieno, attraverso il recupero del reo e all’interno di rapporti significativi, quella “sicurezza inte grata” che più efficacemente tutela i cittadini e il territorio dalla devianza di ritorno e quindi dalla recidiva. Ed è per questo che lo Stato deve abbandonare una politica meramente “segregativa-assistenzialistica” del detenuto, lasciando, in una piena attuazione del principio di sussidiarietà, agli enti locali e al privato-sociale il compito di un intervento più capillare e fattivo che possa investire in modo costruttivo nel rapporto con i detenuti. Ma il carcere dovrebbe poi costituire, in un sistema orientato al recupero e all’emenda, l’extrema ratio” dell’intervento punitivo. In tale logica, lo Stato, dopo (o con) una terapeutica amnistia, dovrebbe quindi potenziare le misure alternative (affidamento in prova, affidamento terapeutico, le varie forme di detenzione domiciliare ecc.), rendendole visibili alla collettività come vere e proprie sanzioni tese al reinserimento più che come forme di assistenzialismo sociale, con una contestuale semplificazione delle stesse (le predette misure alternative potrebbero unificarsi in una sola misura, chiamata efficacemente da un ex Dirigente dell’Ufficio esecuzione penale esterna di Milano-Lodi, “Pena Comunitaria”: in altri termini una pena alternativa unica che verrebbe poi calibrata individualmente tenendo conto dei profili di pericolosità sociale del soggetto e delle sue necessità riabilitative). Le potenzialità del privato sociale Tra il carcere così come attualmente esistente e le misure alternative potrebbero poi essere realizzate strutture detentive “a bassa sicurezza”, recuperando caserme o edifici pubblici dismessi. Non ha senso infatti, oggi come oggi, mantenere una promiscuità tra soggetti considerati, per la natura dei reati commessi ed i profili criminologici, come altamente pericolosi ed altri la cui eteroaggressività è talmente bassa o di diverso tipo (ad esempio gli autori di reati in materia economico-finanzaria, contro il patrimonio, i tossicodipendenti, i semiliberi, o stranieri privi di un domicilio) da non rendere necessaria una contenzione “severa” con impiego di personale di polizia penitenziaria. Tali strutture intermedie potrebbero essere gestite con accordi tra il settore pubblico ed il privato sociale, senza presenza di personale di polizia penitenziaria all’interno, con la permanenza di controlli solo al di fuori delle mura. Nel modello “modulare” spagnolo, per esempio, il controllo delle persone è stato sostituito quasi interamente dalla tecnologia (così come nelle carceri svedesi); l’uso delle chiavi è limitatissimo e quasi tutti i cancelli sono automatizzati, compresi quelli delle celle : la sicurezza interna è assicurata prevalentemente da “ civili”. Solo all’esterno la sicurezza è invece garantita dalla “Guardia Civil” (l’equivalente dei nostri Carabinieri). La legge, peraltro, offre già dei criteri orientativi in tal senso: l’articolo 101, comma 8, del Dpr 30.06.2000, n. 230 (Regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario), prevede, ad esempio, che “sezioni autonome di istituti per la semilibertà possono essere ubicate in edifici o in parti di edifici di civile abitazione”. Tali soluzioni, oltre ad un possibile risparmio economico, rappresenterebbero sicuramente un rimedio al problema del sovraffollamento. Concludo, benché un tema simile richieda ben altri spazi, osservando che non ci si deve occupare dei detenuti, anche nei modi sopra descritti, solo per “far del bene”, per un buonismo o per praticare “outing” culturale. Ma perché conviene. Conviene a tutti: ai detenuti, a chi se ne occupa e alla società. Ciò in termini di recupero delle marginalità, di valorizzazione delle risorse e di sicurezza della collettività, per una riduzione dei costi sociali e per fare anche “impresa” dentro un’autentica carità. Giustizia: gli auspici di Bonino, i “piani” di Cancellieri, continua l’emergenza nelle carceri di Valter Vecellio www.lindro.it, 24 maggio 2013 Sovraffollamento, diminuzione degli spazi a disposizione dei detenuti, drastica riduzione delle risorse. Sono i problemi che affliggono il sistema penitenziario. È quanto emerge da una ricerca condotta dalla Fondazione Michelacci. Secondo la ricerca, la popolazione detenuta in Italia ha raggiunto cifre senza precedenti, ben superiori alle oltre 61mila presenze del luglio 2006, data dell’ultimo provvedimento di indulto. Al 31 marzo la popolazione detenuta è pari a 65.831 unità: 4.800 in più del giugno 2006. Alla dichiarazione dello stato di emergenza per il sovraffollamento carcerario, proclamato il 13 gennaio 2010, nelle carceri italiane c’erano 64.791 persone, a fronte di una capienza di 44.073, con un tasso di affollamento del 147 per cento (147 detenuti ogni 100 posti). Dal 31 dicembre 2009 al 31 marzo 2013 la capienza del sistema penitenziario nazionale è passata da 44.073 a 47.045 posti, registrando così ufficialmente un aumento di 3.000 posti, pari ad una crescita di oltre il 6 per cento. È l’associazione “Antigone” a richiamare l’attenzione sulla progressiva riduzione delle risorse. Nel 2007, con una presenza media giornaliera di 44.587 detenuti, il bilancio del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ammontava a quasi 3 milioni e 100mila euro. Nel 2011, a fronte di una presenza media giornaliera di 67.174 detenuti, il bilancio è sceso a poco più di 2 milioni e 760mila euro, con un taglio del 10,6 per cento. I costi del personale sono calati solo del 5,3 per cento, quelli per gli investimenti (edilizia penitenziaria, acquisizione di mezzi di trasporto, di beni, macchine ed attrezzature, etc.) del 38,6 per cento; quelli per il mantenimento, l’assistenza, la rieducazione ed il trasporto detenuti, addirittura del 63,6 per cento. Nel primo semestre 2012 a lavorare sono stati 13.278 detenuti, meno di un quinto del totale dei reclusi e comunque una cifra assai inferiore rispetto al numero dei condannati (che al 30 giugno erano 38.771). È la percentuale più bassa dal 1991, conseguenza dei drastici tagli del budget previsto nel bilancio del Dap per le retribuzioni dei detenuti che negli ultimi anni si è ridotto del 71 per cento: dagli 11 milioni di euro del 2010 si è passati ai circa 3 del 2013. Una ricercatrice, Catia Ferrieri, per conto dell’Università di Perugia, ha realizzato uno studio sulle condizioni dei detenuti disabili e dei reparti che li accolgono. 210 i detenuti disabili presenti negli istituti penitenziari italiani: 84 quelli che ha potuto prendere in esame la ricerca. Dei 416 istituti penitenziari italiani, infatti, solo 14 hanno risposto al questionario, inviato dalla ricercatrice a tutte le regioni; la ricerca così si è concentrata su 84 detenuti disabili rilevati in queste strutture. “Una ricerca molto faticosa”, spiega Ferrieri, “nonostante la grande disponibilità delle amministrazioni, che però hanno tempi di risposta molto lunghi e non sempre disponevano dei dati che servivano alla mia indagine. Tante amministrazioni poi non hanno risposto, quindi i dati sono parziali, perché non riguardano la totalità delle regioni italiane, ma solo le 10 che hanno risposto al questionario: precisamente, Umbria, Piemonte, Liguria, Calabria, Campania, Friuli Venezia Giulia, Sardegna, Valle d’Aosta, Lombardia e Veneto”. Le presenze: la regione con il maggior numero di detenuti disabili è la Liguria, con 44 presenze tra la casa circondariale di Genova (40) e quella di Sanremo (4). Seguono la Calabria, con 19 presenze tra Castrovillari e Reggio Calabria e la Campania, con 7 detenuti disabili. Il 79,3 per cento dei detenuti disabili è di sesso maschile. Il 35,7 per cento ha un età compresa tra i 40-50 anni; il 20,2 per cento tra i 50-60 anni, il 15,4 per cento tra i 30 e i 40, il 5,9 per cento ha più di 70 anni. Il 40,4 per cento è celibe, mentre il 41,6 per cento è coniugato, il 7,1 per cento è separato o divorziato. Circa la metà dei detenuti disabili ha figli cittadinanza, istruzione, formazione. I detenuti disabili sono in gran parte italiani (92,8 per cento), circa la metà ha un diploma di scuola media inferiore, il 21,4 per cento ha la licenza elementare, il 14,2 per cento è diplomato alla scuola superiore, il 7,14 per cento è laureato. Il 61,9 per cento non ha seguito corsi di formazione né prima dell’ingresso nell’istituto penitenziario, né durante l’attuale detenzione. Tipologia di detenzione e di reparto: il 51,1 per cento dei detenuti disabili monitorati è sottoposto ad esecuzione penale, mentre il 27,3 per cento è in custodia cautelare. Per il 19 per cento il dato non è conosciuto. Il 47,6 per cento dei detenuti disabili monitorati è attualmente assegnato a reparti ordinari, a fronte del 14,2 per cento assegnati a reparti per disabili. Tipologia di disabilità: il 79,7 per cento dei detenuti è affetto da una disabilità fisica, mentre l’11,9 per cento ha una disabilità sia fisica che psichica. Per il 3,5 per cento il dato non è conosciuto. Il 19 per cento dei soggetti ha una disabilità legata a una patologia immunitaria, il17,8 per cento è affetto da problemi legati all’apparato cardiocircolatorio, il 17,8 per cento, ha una disabilità legata all’apparato nervoso centrale. Indennità e lavoro. Circa il 50 per cento dei detenuti usufruisce attualmente di una indennità di disabilità erogata dall’Inps o da altri enti, mentre il 38 per cento non ne usufruisce. Per quanto riguarda il lavoro, il 96,4 per cento dei detenuti disabili monitorati non è inserito in una attività all’interno dell’istituto penitenziario. Un esempio isolato e positivo è quello della Casa Circondariale di Reggio Calabria, dove i detenuti disabili sono inseriti nell’attività di lavanderia e di lavoro all’esterno dell’istituto. Il 55,9 per cento dei detenuti disabili è ospitato in sezioni o reparti detentivi con ridotte barriere architettoniche, mentre il 44 per cento in reparti o sezioni aventi barriere architettoniche. Il 42,8 per cento dei detenuti disabili monitorati utilizza ausili per la deambulazione, mentre il 57,1 per cento non ne utilizza. Tra gli ausili, prevalgono la sedia a ruote (16,6 per cento) e i bastoni canadesi (11,9 per cento). Pena espiata e pena residua. La pena espiata più lunga è di 28 anni, mentre la più breve è di 8 giorni. La pena espiata più lunga è di 19 anni, la più breve è di 16 giorni. Fin qui, le cifre. Poi ci sono le singole storie. Come Giuseppe C., ergastolano di 67 anni, detenuto nel carcere “Lorusso e Cutugno” di Torino. Giuseppe è morto nel Repartino Detenuti dell’Ospedale “Molinette”, dove era stato trasportato in seguito dell’aggravamento delle patologie di cui soffriva. Con il decesso di Giuseppe C. salgono a 71 i detenuti che hanno perso la vita da inizio anno: 21 per suicidio, 32 per malattia, 18 per cause “da accertare”. Otto di loro avevano più di 65 anni e 5 avevano superato i 70 anni, limite oltre il quale è possibile scontare la pena in detenzione domiciliare presso la propria abitazione, o presso un luogo di cura, come previsto dalla Legge. Nonostante la suddetta norma sia in vigore da oltre 7 anni, 31 dicembre 2012 gli ultrasettantenni presenti nelle carceri italiane risultavano ben 587, mentre i detenuti con un’età compresa tra i 60 ed i 70 anni erano 2.489. L’attuale situazione carceraria, caratterizzata in molti Istituti di Pena da sovraffollamento, condizioni igieniche ed ambientali degradate, carenze dell’assistenza sanitaria e insufficiente presenza di Personale penitenziario, per i detenuti anziani rappresenta una vera e propria condanna a “morire di carcere”. Una situazione, quella delle carceri, che ha indotto Salvo Fleres, garante dei detenuti siciliani ha scrivere una dura lettera aperta: “Secondo il dott. Pietro Grasso, allora procuratore nazionale antimafia, oggi autorevole presidente del Senato, “la criminalità si pone come rete di servizi”. Credo che la definizione sia assolutamente calzante e rispondente al metodo che essa, soprattutto quella organizzata, adotta nei confronti dei suoi interlocutori intesi sia come aderenti, sia come simpatizzanti, sia come vittime. Nulla, infatti, giova di più alla criminalità se non uno Stato assente, inadeguato, litigioso, autoreferenziale, impastoiato, instabile. Giova alla criminalità uno Stato che trascura parti del proprio territorio, come accade al Sud; giova alla criminalità uno Stato rappresentato da una classe politica non all’altezza del compito che essa dovrebbe svolgere; giova alla criminalità un sistema istituzionale che esalta il conflitto piuttosto che la soluzione; giova alla criminalità uno Stato che non guarda agli amministrati bensì agli amministratori, come accadrebbe se si pensasse che le ferrovie debbano essere funzionali ai ferrovieri piuttosto che ai passeggeri, le scuole agli insegnanti piuttosto che agli allievi, gli ospedali ai medici piuttosto che agli ammalati; giova alla criminalità una burocrazia incompetente, corrotta o semplicemente svogliata. Insomma, giova alla criminalità un sistema inefficiente, incerto ed insicuro, a cui sostituirsi, con “una rete di servizi”, ogni volta che ciò sia possibile, magari grazie a qualche aiutino più o meno consapevole. In tutti questi casi la criminalità si insinua nelle fessure provocate dalle lesioni dello Stato e dilaga, come sta accadendo nel sistema penitenziario italiano, che ormai fa acqua da tutte le parti, per responsabilità varie e diffuse. Già, perché se lo Stato delegittima se stesso, tradendo il dettato costituzionale e le disposizioni sulle carceri, se legifera male, se amministra peggio, se non offre opportunità scolastiche o lavorative, se non contrasta l’offensivo sovraffollamento, se ostacola, attraverso il ricorso a maldestri quanto sprovveduti funzionari, l’azione di chi, come i garanti dei diritti dei detenuti, tenta di contribuire a ricostituire atteggiamenti legali nelle carceri, ecco, in questi casi, lo Stato, con la complicità, anzi, grazie all’opera di taluni ben individuati soggetti, diviene il migliore e più sicuro alleato della criminalità che, invece, dovrebbe voler contrastare. Intendo dire che è alleato del crimine chi allunga i tempi della giustizia, chi ammassa i reclusi come se fossero bestie, chi non adegua gli organici della polizia penitenziaria, chi non recepisce le norme sulla sanità in carcere, chi definanzia le leggi per il lavoro ai detenuti. Così come è alleato della criminalità chi tenta di indebolire, con iniziative che somigliano tanto ad un “avvertimento”, l’azione dei Garanti dei diritti dei detenuti e chi tutela la burocrazia inetta quanto infedele, che costituisce l’humus nel quale meglio attecchirà la corruzione, il crimine, la violenza e la sfiducia verso atteggiamenti legali. Non credo che una tale situazione possa essere ulteriormente tollerata, anzi, penso che sia dovere di ciascuno, dei Garanti in particolare, non tollerare affatto persone, luoghi o situazioni che costituiscono, consapevolmente o non consapevolmente, il terreno di coltura dell’antistato. Lo Stato vince se ha la forza di resistere persino ai mali che esso stesso rischia di causare. Per raggiungere la meta non vi sono scorciatoie né giustizialiste, né securitarie, ciò che serve è il buonsenso e la legalità da parte di tutti, persone e istituzioni”. Una lettera rimasta senza risposta. E anche questa è, volendo, una risposta. Un’alta non meno dura denuncia viene dal ministro degli Esteri Emma Bonino: l’Italia può diventare più credibile in tema di diritti umani solo affrontando i problemi, come il sovraffollamento delle carceri e la lunghezza dei processi, per i quali ha ricevuto “tantissime” condanne dalla Corte europea per i diritti dell’uomo. “Spero davvero, con l’appoggio parlamentare, che ci sia un nuovo inizio certamente la questione delle minoranze e dei diritti è fondamentale e uno dei modi per poterla affrontare “è quello di essere credibili anche a casa propria”. L’Italia è stata condannata su diversi aspetti ed è necessario che il governo assuma delle iniziative che ci facciano uscire da una situazione che mina la credibilità del paese, al di là di quanto è dolorosa per i cittadini che non vedono rispettati i propri diritti alla difesa, o nelle condizioni delle carceri”. Nel frattempo il ministro Anna Maria Cancellieri si prepara ad affrontare per prima l’emergenza delle prigioni sovraffollate. Ai suoi più stretti collaboratori: “Questo carcere, così com’è, non migliora certo le persone”. Sono in molti ad aspettare al varco il ministro che siede sulla poltrona più scomoda del governo di larghe intese, non a caso un tecnico sganciato dai partiti. Le visioni di Pdl e Pd sulla giustizia sono praticamente inconciliabili e le feroci polemiche di questi giorni, dalla manifestazione di Brescia in poi, sono lì a dimostrarlo. Il Guardasigilli si è finora segnalato per il silenzio, nonostante le sollecitazioni di ogni tipo, e lo stesso Enrico Letta sulla giustizia si è tenuto sulle generali anche in sede di presentazione del programma di governo. In via Arenula meditano di esordire con un “pacchetto carceri” che segua tre direttrici: la costruzione di nuovi penitenziari, un maggior utilizzo dei braccialetti elettronici e la proroga del decreto “svuota carceri”. Ma ci sono anche riforme più strutturali, già chiaramente delineate nella relazione finale dei Saggi del presidente Napolitano, come un maggior ricorso all’affidamento in prova e alla detenzione domiciliare, un vasto processo di depenalizzazione dei reati meno gravi e “l’introduzione su larga scala di pene alternative alla detenzione”. Con oltre 65 mila detenuti su 44 mila posti regolamentari l’Italia è ampiamente fuori legge e a gennaio scade la moratoria concessa all’Italia dalla Corte di Strasburgo per evitare altre condanne per “trattamenti inumani e degradanti”. “Mi auguro che questo governo riesca a girare pagina sulle condizioni delle carceri”, dice Emma Bonino. E sulla materia vigila il presidente della Repubblica, che sarebbe addirittura pronto a firmare un’amnistia, se solo i partiti trovassero un’intesa. “L’Europa ci ha messo in mora per quanto riguarda la situazione delle carceri. Versano in condizioni che non sono più prevedibili. Credo che non servano nuovi indulti o amnistie. Ci sono altri strumenti da valorizzare rispetto alle pene detentive. Per esempio le sanzioni patrimoniali e interdittive. Il reato non deve essere più conveniente perché i benefici economici che si ricavano non possono essere più conservati. In questo modo chi compie un reato deve sapere che non ne trarrà benefici. Il problema delle carceri va quindi affrontato nella sua interezza”, sostiene Rodolfo Maria Sabelli, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati: “Diciamo che cosa serve: serve una giustizia più efficiente, servono delle carceri. Questi sono i temi sui quali concentrarsi. Serve una forte attenzione sui temi della criminalità e dell’infiltrazione criminale nella realtà economica e finanziaria”. Che sia la volta buona? Auguriamocelo, anche se l’esperienza giustifica pessimismo. Giustizia: il ministro Cancellieri “bisogna ripensare il sistema delle pene” La Sicilia, 24 maggio 2013 “Le nostre carceri non sono degne di un paese civile”. Parola del ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, che ieri - alla commemorazione della strage di Capaci - ha lanciato alcune proposte per risolvere una questione che è da tempo un’emergenza e sulla quale anche l’Ue ha più volte bacchettato l’Italia. a gennaio il nostro Paese ha ricevuto una condanna dalla Corte europea dei diritti umani per le condizioni in cui vengono reclusi i detenuti. A giorni dovrebbe esserci la pronuncia sul ricorso dell’Italia. Secondo il Guardasigilli “per risolvere il problema non bastano nuovi carceri, ma bisogna ripensare il sistema delle pene, valutando se ci sono spazi per quelle alternative”. “È necessario - ha puntualizzato Cancellieri - che in carcere si paghino gli errori commessi, ma anche che se ne esca migliori”. Per il ministro, resta il problema delle carceri vecchie: “Vanno sostituite, per garantire a ciascun detenuto una possibilità decente di alloggio, di sanità e di spazi per poter lavorare. È un’impresa titanica, ma ce la metteremo tutta per riuscirci”. Le parole del ministro Cancellieri sulla necessità di risolvere il problema delle carceri hanno catturato l’attenzione dei sindacati di polizia penitenziaria che continuamente cercano di richiamare l’attenzione delle istituzioni sulle condizioni degli istituti di pena. Il segretario dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, ha spiegato che “da tempo sollecita interventi concreti volti a riformare il sistema detentivo ed introdurre, per alcuni reati, misure alternative, perché l’attuale condizione non solo è inaccettabile, ma ci espone a continue sanzioni da parte dell’Europa”. Il segretario generale della Uil Penitenziari, Eugenio Claudio Sarno - che martedì incontrerà a Roma il ministro Cancellieri - ha invece detto che citerà Bolzano come il carcere peggiore d’Italia, Trento come il migliore. “Bolzano è uno dei carceri peggiori d’Italia, se non il peggiore. Questo struttura - ha spiegato - potrebbe contenere al massimo 70 detenuti, dentro ce ne sono esattamente il doppio. Per non parlare di pulci e zecche che non rendono certo facile la permanenza all’interno della struttura sia per gli agenti che per i detenuti”. Intanto ieri Patrizio Gonella, presidente dell’associazione Antigone, ha reso noto che “l’amministrazione penitenziaria ha confermato ieri che nelle carceri italiane ci sono circa 8 mila posti letto regolamentari in meno rispetto ai 45.000 calcolati dal Dap”. Il Dap, ha spiegato Gonella, ha cominciato un mese fa una ricognizione dei posti letto “formalmente certificati”, cioè regolamentari (accezione non del tutto definita, è certo solo che sotto i tre metri quadri di spazio vitale si parla di tortura). I risultati saranno resi noti a breve, ma già a livello informale l’associazione ha avuto la conferma di quanto già da tempo diceva, cioè che a fronte di 66.000 detenuti, i posti letto certificati non sono 45.000 ma 37.000. Nella cifra di 45.000, infatti, venivano conteggiati anche reparti chiusi per ristrutturazione. “Siamo a circa 180 detenuti ogni 100 posti letto - ha spiegato Gonella - mentre, a esempio, in Germania il rapporto è di 92 detenuti ogni 100 posti”. Giustizia: Antigone; ok ministro, ma adesso occorre passare dalla preoccupazione ai fatti Ansa, 24 maggio 2013 Sul terreno della esecuzione penale mai come in questo momento c’è una universale presa di coscienza dell’esistenza del problema. Ieri il ministro della Giustizia Cancellieri ha fatto affermazioni preoccupate, le autorità laiche e religiose concordano che bisogna fare qualcosa per uscire da una situazione di violazione dei diritti fondamentali”. Ma, afferma il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella “occorre passare dalla preoccupazione ai fatti”. Per questo l’associazione, che oggi tiene la sua assemblea nazionale, rilancia la campagna sui tre disegni di legge di iniziativa popolare che porta avanti da prime delle elezioni. E oltre a questo ritiene necessario un provvedimento di clemenza “studiato”. “Abbiamo davanti quattro scadenze e qualcosa bisognerà fare per forza”, spiega Gonnella, elencando la chiusura degli Opg entro aprile 2014, l’introduzione obbligatoria, entro la stessa data, di un organismo indipendente di controllo di tutti i luoghi di detenzione (anche in aree non penali, ma amministrativa, come il Cie e i commissariati e le caserme), la scadenza delle due leggi Alfano-Severino sulla detenzione domiciliare, e la decisione, attesa per lunedì, della Grand Chambre della Carte europea dei diritti umani sul ricorso italiano contro la sentenza Torreggiani. La conferma della sentenza di primo grado imporrà entro un anno - spiega Gonnella - l’adeguamento del rapporto tra posti letto disponibile (secondo Antigone non più di 40mila e non 47mila come dicono per adesso i dati ufficiali) e il numero di detenuto (circa 66 mila). Per questo Antigone ritiene necessaria intavolare subito una discussione sulle tre proposta di legge di iniziativa popolare sull’introduzione del reato di tortura, abolizione della Fini-Giovanardi, e le misure alternative. ‘Se le nostre proposte sono troppo ‘divisive”, afferma Gonnella rivolto ai parlamentari presenta all’assemblea di Antigone, ‘c’è una proposta già scritta dal professor Glauco Giostra del Csm. Che deve essere affiancata da un provvedimento di clemenza che porti i detenuti da 66mila a 40mila. Che da questo numero non si torni più indietro”. Giustizia: Boldrini; Paese civile non può sopportare questa situazione drammatica carceri Ansa, 24 maggio 2013 “Un Paese civile non può sopportare una simile violazione delle norme più elementari del diritto”. Lo dice il presidente della Camera, Laura Boldrini, in riferimento al dramma delle carceri, in un messaggio inviata all’associazione Antigone, che oggi tiene la sua assemblea nazione. “Ricevo - ha scritto Boldrini - ogni giorno molti messaggi di persone detenute che denunciano la particolare afflizione a cui sono sottoposti a causa del sovraffollamento e delle condizioni materiali in cui versano i nostri istituti di pena”. E, ha aggiunto, “auspico fermamente che questa legislatura dia risposte coraggiose e puntuali al dramma della condizione carceraria”. La presidente della Camera ha anche annunciato che Palazzo Madama discuterà certamente le tre proposte di legge di iniziativa popolare promossa da Antigone e da numerose altre associazioni. A questo proposito, ha spiegato, che “la giunta per il regolamento ha iniziato una importante discussione sull’ammodernamento della nostra normativa interna e uno dei punto qualificanti in discussione è proprio quello di dare percorsi certi e tempestivi all’esame delle proposte di legge di iniziativa popolare”. Una innovazione a cui la presidente tiene molto - sottolinea lei stessa: “Sono convinta che le istituzioni debbano essere sempre più aperte e permeabili alla partecipazione attiva dei cittadini”. Giustizia: Laboratorio Banca dati Dna; le 13 domande del Sappe a Tamburino, capo Dap Comunicato Sappe, 24 maggio 2013 “Considerata l’inutilità di proseguire nella polemica sul Laboratorio del Dna, soprattutto con chi ha scelto di attaccare il ragionatore anziché il ragionamento, abbiamo deciso di porre pubblicamente 13 domande al Presidente dell’Amministrazione Penitenziaria Giovanni Tamburino”. Lo annuncia Donato Capece, Segretario Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, che replica al comunicato stampa diffuso dal Dap nei giorni scorsi. “È vero o no che il 13 maggio 2013 nel Laboratorio Dna di Rebibbia si è tenuta una “cerimonia” per la consegna (e quindi l’inaugurazione) della struttura? È vero o no che a questa “cerimonia” era presente il Direttore Generale Beni e Servizi, Dirigenti dell’Università di Tor Vergata, Ufficiali dei Carabinieri in uniforme e Funzionari della Polizia di Stato in uniforme? È vero o no che alla “cerimonia” non era presente nessuno della Polizia Penitenziaria? Se non la dobbiamo chiamare “cerimonia d’inaugurazione” come la dobbiamo chiamare e perché erano presenti Carabinieri e Polizia di Stato e non la Polizia Penitenziaria? Chi e perché ha deciso di procedere in questo modo?”. E ancora, si chiede il Sappe, “È vero o no che è stato deciso di affidare ad un Ufficiale dei Carabinieri la responsabilità della parte biologica per il controllo della qualità dei reperti? È vero o no che è stato deciso di affidare ad un Funzionario della Polizia di Stato la Responsabilità della parte informatica? È vero o no che il personale della Polizia Penitenziaria “formato” ha fatto soltanto due giorni di corso presso la Scuola della Polizia di Stato di Nettuno (a fronte dei 4 mesi previsti dalla legge)? È vero o no che nonostante decine di richieste ufficiali non sono mai stati convocati i sindacati dal 2007 ad oggi? È vero o no che in questi anni si sono tenute numerose riunioni al Dap con la partecipazione di Ufficiali dei Carabinieri e della Polizia di Stato? È vero o no che dal 2010, anche se il Laboratorio non funziona, si sta pagando la convenzione all’Università di Tor Vergata per un totale di oltre 300.000 (trecentomila) euro? Perché dal 2007 (data del primo intervento del Sappe sul Laboratorio) ad oggi non è mai stato fatto un interpello alla Polizia Penitenziaria per individuare la presenza di personale già qualificato? È vero o no che nei ruoli tecnici è stato già previsto l’inquadramento di personale civile che verrà collocato fino alla qualifica di dirigente della Polizia Penitenziaria? Non cerchiamo spiegazioni e/o giustificazioni” conclude il Sappe: “vogliamo soltanto risposte precise a ciascuna domanda. Dopo aver ottenuto queste risposte discuteremo di chi diffonde notizie infondate, di chi strumentalizza, di chi dice il falso e di chi offende l’onore e il prestigio della Polizia Penitenziaria”. Lettere: il saluto di un “Uomo ombra” a Don Gallo, Primo Firmatario contro l’ergastolo di Carmelo Musumeci (detenuto a Padova) Ristretti Orizzonti, 24 maggio 2013 È da poco calata la sera dentro la mia cella e il blindato è già chiuso, ho appena saputo dalla televisione della tua morte. E le ombre dentro questo buco si sono fatte più fitte. Ciao Don Gallo, oggi sono un uomo ombra ancora più triste, la tua partenza lascia un altro vuoto nella mia vita e nel mio cuore. Non ti ho mai conosciuto di persona e non ho mai avuto tanta simpatia per i preti dopo tutte le botte che ho preso da loro in collegio da piccolo, ma tu eri uno di quelli che da grande mi hanno fatto venire dei dubbi. Tu, Don Gallo, prete di strada, prete degli ultimi, non avevi esitato a metterti dalla parte dei cattivi e colpevoli per sempre, degli ergastolani ostativi. Quando ti ho chiesto di aiutarmi a far conoscere che in Italia esiste la “Pena di Morte Viva”, l’ergastolo ostativo ad ogni beneficio, che fa morire in carcere un uomo senza la compassione di ucciderlo prima, tu sei stato davvero uno dei primi che ha aderito e il tuo nome è in prima pagina nella lista dei Primi Firmatari dell’iniziativa “Firma contro l’ergastolo”. Ciao Don Gallo, grazie per tutte le volte che hai fatto sentire la tua voce per noi, che ci hai prestato un po’ della tua luce per dire alla società civile che il male non potrà mai essere sconfitto con altro male, che non serve a nessuno la sofferenza di un uomo destinato a morire dentro una cella che è già la sua tomba. Ciao Don Gallo, ti avevo scritto nella settimana prima di Pasqua per dirti che nella mia disperazione non volevo festeggiare la resurrezione, perché io sono un’ombra che cammina, né vivo né morto, e per me e per tutti i miei compagni ergastolani non c’è resurrezione e speranza da festeggiare. Tu non mi hai attaccato e criticato, come hanno fatto in molti, ma mi hai scritto queste semplici e sostanziali parole: Carissimo do la mia completa solidarietà alla vs. lotta. Sempre “su la testa” nonostante tutto. Ciao, Don Gallo. Ho ancora queste parole attaccate nella mia cella e nel mio cuore. Ciao Don Gallo, ci mancherai. Ora dovremo fare anche senza di te e la lotta qui si fa sempre più dura: adesso ci chiedono anche di dividere la nostra tomba con altri cadaveri, non ci lasciano neanche più la nostra solitudine nella cella, come vorrebbe la legge. Ciao Don Gallo, tu vai, io rimango qui a lottare con degli umani che mi puniscono perché da giovane ho infranto la legge e dopo 23 anni di carcere devo ancora subire le loro scelte che vanno contro la legge. Ciao Don Gallo, tu ora che sei libero nell’universo, non dimenticarti di noi che ancora viviamo murati vivi tra ferro e cemento per tutti i nostri giorni. E se incontri il Dio in cui hai creduto, digli per favore se viene a prendere anche noi: gli uomini non ci vogliono dare la libertà, anche se dopo tutti questi anni noi non abbiamo più niente a che fare con l’uomo di 20-30 anni fa che ha commesso i reati per i quali siamo qui. Ciao Don Gallo, sempre “su la testa” e un sorriso mesto tra sbarre, nonostante tutto. Lettere: gli psicologi impegnati nel Progetto “Mare Aperto” temono chiusura dell’attività Ristretti Orizzonti, 24 maggio 2013 I professionisti psicologi annoverati nel Progetto Mare Aperto, molti dei quali vincitori del concorso pubblico per psicologo, sono attualmente incaricati di svolgere attività professionali sia nell’ambito delle indagini dalla libertà (cd. 13 OL), sia nei percorsi trattamentali per soggetti in regime di esecuzione penale esterna i quali, per le problematiche patite, esulano dal target dei Servizi Territoriali sebbene rivelino una matrice psicologica nel loro percorso criminogenetico. I percorsi trattamentali attuati, volti non da ultimo anche al contenimento del rischio di recidiva, richiedono un’adeguata continuità temporale ovvero la necessità per i professionisti coinvolti di potere prevedere con debito anticipo l’arco temporale nel quale sarà necessario condurli a termine; ciò al fine di massimizzarne l’efficacia, ma prima ancora di non interrompere senza appropriato preavviso un processo di sostegno, che spesso rappresenta per l’utenza interessata una risorsa significativa all’interno della misura alternativa al carcere. Nonostante la volontà più volte espressa dal Dap, anche attraverso l’ultima proroga concessa al fine di “non interrompere le attività proficuamente intraprese” e gli esiti positivi del lavoro sin qui riscontrati e più volte riconosciuti (come da ultima nota del Dr. Di Somma relativa alla certificazione di qualità ottenuta dall’Esecuzione Penale Esterna, grazie al contributo del Progetto “Mare Aperto”), a una settimana dalla scadenza del Progetto Mare Aperto, non è stata data alcuna comunicazione né ai professionisti, né agli uffici di Esecuzione Penale Esterna in merito al prosieguo o all’interruzione delle attività. La presente comunicazione è motivata dall’auspicio di ottenere risposte chiare e positive da parte del Dap rispetto alla proroga di Mare Aperto, ed è volta a richiedere tempi appropriati di comunicazione delle sorti del Progetto stesso agli Uffici preposti ed ai professionisti psicologi coinvolti, nel rispetto del lavoro svolto ed in considerazione delle sue delicate e precipue caratteristiche. Lombardia: 34mln € per chiudere l’Opg Castiglione Stiviere e creare strutture alternative Redattore Sociale, 24 maggio 2013 La regione stanzia 1,7 milioni, lo Stato ne metterà altri 32 milioni. Attualmente nella struttura sono detenuti 310 persone (90 donne), anche se la capienza massima sarebbe di 200. Al posto dell’Opg create strutture della capienza massima di 20 posti. La Regione Lombardia stanzia 1,7 milioni per chiudere l’ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) di Castiglione delle Stiviere. Lo Stato ne metterà inoltre altri 32. Attualmente nella struttura sono detenuti 310 persone (di cui 90 donne), anche se la capienza massima sarebbe di 200. Al posto dell’Opg (che verrà chiuso entro aprile del 2014), verranno create delle strutture della capienza massima di 20 posti, nelle provincie di Brescia (sotto l’Asl di Desenzano), Monza-Brianza (a Limbiate) e Como. Resterà aperta inoltre una parte della struttura di Castiglione delle Stiviere. È quanto ha annunciato ieri Mario Mantovani, vicepresidente della Regione e assessore alla Sanità, durante la seduta della Commissione speciale sul sistema carcerario. Il progetto prevede anche la creazione di 16 posti letto presso San Vittore e altri 5 nella Casa circondariale di Monza, specifici per l’osservazione psichiatrica. In cantiere, infine, c’è la progettazione, all’interno del carcere di Pavia, di un’area per l’accoglienza temporanea dei soggetti portatori di patologie psichiatriche. Il piano territoriale Uno psichiatra per 20 ore e uno psicologo per 30 ogni 100 detenuti. 16 posti letto presso San Vittore e altri 5 nella Casa circondariale di Monza, specifici per l’osservazione psichiatrica. In cantiere, infine, la progettazione, all’interno del carcere di Pavia, di un’area per l’accoglienza temporanea dei soggetti portatori di patologie psichiatriche. Sono alcuni degli impegni sottolineati dall’assessore alla Sanità e vicepresidente della Giunta regionale lombarda Mario Mantovani nella Commissione speciale sul sistema carcerario, presieduta da Fabio Angelo Fanetti (Lista Maroni). Durante la seduta l’assessore e alcuni consiglieri si sono soffermati sulla situazione dell’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Castiglione delle Stiviere ( che ospita detenuti affetti da particolari patologie psichiatriche e destinato a chiudere entro aprile 2014). Nel centro sono ricoverati anche residenti in Piemonte e Valle d’Aosta ed è l’unico ad avere una sezione femminile: a fronte di una capienza massima di circa 200 pazienti, Castiglione ne ospita 310 di cui 90 donne. A seguito del decreto legge 25 marzo 24/2013, che prevede la chiusura definitiva di questi istituti, la Regione ha dunque predisposto un programma per la creazione di strutture (fino ad un massimo di 12) per un numero massimo di 20 ospiti. Le aree identificate si troverebbero nelle province di Brescia (sotto l’Asl di Desenzano) a Limbiate (Monza/Brianza) e a Como. Resterebbe operativa inoltre una parte della struttura di Castiglione delle Stiviere. I costi della riconversione ammonterebbero a 1,7 milioni a carico della Regione e 32 dello Stato. Il presidente Fabio Angelo Fanetti (Lista Maroni) ha poi annunciato una nuova audizione con l’Assessore Mantovani nel mese di giugno e per le prossime settimane incontri col Provveditore regionale del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria Aldo Fabozzi e a seguire con i direttori degli istituti di pena lombardi, gli assessori regionali all’istruzione, alla Famiglia, allo Sport e Politiche per i giovani, alla Casa e alla Sicurezza. “Ringrazio l’assessore per la disponibilità, a dimostrazione di una reale collaborazione tra Giunta e Consiglio”, ha detto Fanetti. “È partendo proprio dall’ascolto e il contributo di chi conosce la situazione carceraria che la Commissione sceglierà quelle che saranno le linee strategiche per l’adozione di un Piano d’azione regionale sulla condizione carceraria”. La Garante dei detenuti: non si chiude l’Opg per aprirne altri… Per Alessandra Naldi il piano di superamento della regione “è troppo concentrato sulla creazione di nuove strutture”: “Quei soldi andrebbero spesi anche per potenziare i servizi psichiatrici sul territorio” “Non si chiude l’Opg di Castiglione delle Stiviere per aprirne altri più piccoli”: per Alessandra Naldi, garante dei detenuti del Comune di Milano, il progetto della Regione per il superamento dell’unico ospedale psichiatrico della Lombardia “è troppo concentrato sulla creazione di nuove strutture”. Il piano della Giunta Maroni, presentato ieri dall’assessore alla Sanità Mario Mantovani, prevede uno stanziamento di 1,7 milioni di euro, ai quali si aggiungono i 32 provenienti dalla Stato, per aprire nuove strutture con massimo 20 detenuti, provenienti da Castiglione delle Stiviere (vedi lancio precedente). “Quei soldi andrebbero spesi anche per potenziare i servizi psichiatrici sul territorio -spiega Alessandra Naldi-. Lo spirito della legge è che la chiusura degli Opg porti a curare fuori dal carcere i pazienti psichiatrici che hanno commesso reati”. Non sono solo i detenuti di Castiglione delle Stiviere ad avere problemi di salute mentale. “A San Vittore circa un terzo dei reclusi ha patologie psichiatriche, a volte molto gravi - sottolinea Alessandra Naldi. E quando escono dal carcere non hanno nessun tipo di assistenza. Quasi sempre si interrompe bruscamente il trattamento farmacologico, con conseguenze sulla salute che possono essere pesanti. Alla Regione chiedo quindi che faccia un piano in cui siano potenziati i servizi territoriali”. E sul Castiglione delle Stiviere aggiunge: “Per ogni detenuto bisogna valutare se è possibile rilasciarlo e curarlo affidandolo ai servizi territoriali o a comunità”. Lombardia: Lucia Castellano (Lista Ambrosoli); il carcere deve essere l’extrema ratio Ansa, 24 maggio 2013 “Il carcere deve essere l’extrema ratio e non la prima risposta ai reati minori”. Ne è convinta Lucia Castellano, capogruppo regionale della Lista Ambrosoli, che si dice d’accordo con il ministro Cancellieri, per la quale “le carceri italiane sono indegne di un paese civile”. “Dopo vent’anni di lavoro all’interno degli istituti penitenziari desidero offrire il mio contributo - scrive Castellano in una nota - per cercare soluzioni a questo problema. La prima azione spetta al governo con l’ abolizione delle leggi: Bossi-Fini, Fini-Giovanardi e ex Cirielli, riportando così il carcere ad essere l’extrema ratio e non la prima risposta ai reati minori. Come peraltro ribadisce la Costituzione. La seconda azione - conclude l’ex Direttore della Casa di Reclusione di Milano - spetta all’amministrazione penitenziaria, aprendo le celle ai detenuti cosiddetti comuni, come già avviene da diverso tempo nel carcere di Bollate”. Sardegna: Pili (Pdl); il ministro deve bloccare il trasferimento nell’isola di 300 capimafia La Nuova Sardegna, 24 maggio 2013 “Ora che vengono smentite le dilettantesche rassicurazioni sulla impossibilità di infiltrazioni mafiose in Sardegna il ministro della giustizia deve bloccare il trasferimento nell’isola di 300 capimafia. La presenza di patrimoni legati ai boss è la conferma di un pericolo gravissimo di infiltrazioni nell’Isola che sarebbe ancora più colpita da questo rischio se si dovesse concentrare nelle carceri sarde il 50 % dei capi afia affidati al carcere duro del 41 bis”. Lo ha chiesto il deputato sardo Mauro Pili, del Pdl, in una interrogazione dopo le notizie giunte da Palermo sul sequestro di beni mafiosi in Sardegna. “Legami erano già emersi sul fronte eolico - dice in sostanza Mauro Pili - e adesso con questi nuovi sviluppi c’è da nutrire ulteriori preoccupazioni concrete”. Livorno: al carcere delle Sughere otto detenuti in celle da tre, in attesa di nuovo padiglione di Lara Loreti Il Tirreno, 24 maggio 2013 “Il problema principale delle Sughere è l’apertura del nuovo padiglione che è tuttora in sospeso. Mi auguro che apra al più presto e sto lavorando personalmente per questo. Ma il punto è che il carcere dovrà ospitare la popolazione locale per evitare tutti i disagi connessi”. Il senatore Marco Filippi due settimane fa è stato in visita alle Sughere. “Il clima in carcere ora è respirabile - dice - e il problema del sovraffollamento è quanto meno sotto controllo. Però resta aperto il problema del rientro della popolazione detenuta che con l’inizio dei lavori è emigrata in tutta la Toscana. Portarli fuori vuol dire: spese per lo Stato per la difesa e disagi per la famiglia. Non dimentichiamo che il 40 per cento dei detenuti sono in attesa di giudizio e quindi è ancora più importante che vivano nella migliore condizione possibile, e quindi vicino casa”. Celle sovraffollate, lavori in sospeso e incertezza sul futuro del carcere. La nuova vita delle Sughere è piena di incognite. Il nuovo padiglione, che in teoria doveva essere pronto lo scorso dicembre, è ancora in alto mare. Mancano alcuni arredi e il collaudo. L’inaugurazione è di nuovo slittata e forse ci sarà dopo l’estate. Ma soprattutto manca l’accordo su quale sarà la destinazione della struttura: ospiterà detenuti di alta sicurezza (la maggior parte dei quali vengono da fuori) o sarà destinata alla media sicurezza? All’incertezza sulle nuove strutture si aggiungono i vecchi problemi, a partire dall’eccessiva di concentrazione di detenuti dentro la stessa cella. Oggi le sezioni aperte sono tre: l’ex femminile, che ospita due sezioni da 25-30 persone l’una; la “semiliberi”, dove ci sono detenuti che lavorano fuori più alcuni interni, 20 in tutto; infine c’è la sezione più critica, la “transito”: dovrebbe ospitare 50 persone, e invece dentro ce ne sono 90, quasi il doppio. Come denunciano i sindacati, nella sezione transito ci sono camere per due, di 11 metri quadri, in cui vivono in 4, e stanze da tre che ospitano fino a 8 persone. In tutto sono 177 persone a fronte di una capienza massima di 148. In sintesi sono tre i punti interrogativi sul futuro. Che destinazione avrà il nuovo padiglione, in ristrutturazione da due anni? Quando arriveranno i nuovi detenuti (130 persone), l’attuale numero di agenti penitenziari sarà aumentato per garantire una sorveglianza adeguata? Infine, il carcere riaprirà alle donne? Partiamo dal primo punto. Secondo indiscrezioni che circolano con forza nel carcere, è in corso un acceso confronto fra dipartimento centrale della penitenziaria e il provveditorato regionale sul futuro del nuovo padiglione. Lo conferma Mauro Barile, coordinatore provinciale della Uil Penitenziari: “A Roma vorrebbero che la nuova struttura ospitasse l’alta sicurezza, mentre Firenze spinge per la media sicurezza. La verità è che ad oggi non c’è niente di certo. Si accavallano voci di corridoio. E ancora non si sanno i tempi di apertura. Doveva essere tutto pronto a febbraio, poi hanno detto maggio e ora di parla di settembre”. A questo proposito interviene anche il garante dei detenuti, Marco Solimano, che il 29 maggio parteciperà a un’audizione sul tema in commissione Pari opportunità in Comune. “Noi vorremmo che il nuovo padiglione fosse destinato alla media sicurezza in maniera tale che a Livorno possano rientrare i detenuti livornesi - dice Solimano. Alle Sughere c’è un turn over molto alto: mille persone all’anno” Ma quando arriveranno i 130 nuovi detenuti la polizia penitenziaria sarà rafforzata? “Ora siamo circa 200, compresi i colleghi che si occupano degli spostamenti, per 177 detenuti - dice Barile della Uil - Ma il rischio è che si ripresenti il problema del sottodimensionamento del personale. Noi ci opporremo”. Quanto alla sezione femminile, per ora il Ministero ha sospeso con un decreto la presenza delle donne. “Le Sughere hanno sempre avuto il femminile - dice Solimano Ora invece le donne detenute vengono portate a Firenze, Prato ed Empoli, e quando va bene al carcere di Pisa, che però di solito è sempre pieno. Chiederemo al Ministero di ripristinare la sezione”. Porto Azzurro (Li): il Garante; va chiusa sezione fatiscente del carcere, ha gabinetti a vista Il Tirreno, 24 maggio 2013 “Venti persone in una sezione fatiscente nel carcere di Porto Azzurro in cui, oltre ai disagi strutturali, esiste una cella con un gabinetto a vista, in cui vivono in due. È un’indecenza. Per questo ho chiesto al provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Carmelo Cantone, che quella sezione venga chiusa. Quando verrà aperto il nuovo padiglione delle Sughere, quei venti detenuti potremmo prenderli noi. Oltre tutto, all’interno ci sono anche molti livornesi”. A parlare è Marco Solimano, garante dei detenuti, molto sensibile alle problematiche che ruotano intorno agli istituti detentivi. Qualche giorno fa, Solimano ha fatto un sopralluogo a Porto Azzurro insieme al capogruppo del Pd in Consiglio regionale, Marco Ruggeri, e a Enzo Brogi, consigliere regionale. I tre hanno constatato di persona e denunciato le pessime condizioni in cui versa il carcere, peggiorate da un paio di anni a questa parte, cioè da quando a Livorno sono in corso i lavori di ristrutturazione, con conseguente migrazione di detenuti dalla città all’isola. “La situazione a Porto Azzurro è drammatica - commenta Solimano - Ma la cosa che ci ha colpito di più è che, al di là dei deficit strutturali, il carcere sia diventato una casa circondariale. Storicamente ha sempre ospitato dai 180 ai 200 detenuti, oggi ce ne sono circa 400”. Solimano spiega di aver sottoposto il problema al provveditore regionale: “Ho chiesto personalmente a Cantone che la sezione 14 venga chiusa: non si può vivere così. Ci sono in particolare due detenuti che vivono quotidianamente gli odori e gli umori legati alla propria intimità a causa del wc a vista. Questo è scandaloso”. Belluno: progetto di Fondazione Cariverona e Caritas, per un lavoro a chi esce dal carcere di Alessia Forzin Corriere delle Alpi, 24 maggio 2013 Il lavoro come strumento per ricostruirsi una vita dopo il carcere. Per ridare speranza e l’occasione di reinserirsi in società a chi ha sbagliato e scontato la sua pena, Fondazione Cariverona e Caritas tre anni fa hanno stretto un patto di solidarietà e promosso il progetto “Esodo”, che prevede una serie di azioni mirate a sviluppare nei detenuti capacità lavorative che consentano loro di occupare le lunghe giornate in carcere, di procurarsi un minimo reddito e di imparare un lavoro che sarà utile una volta usciti dalla cella. Nel nome del progetto c’è tutto il suo significato: “Esodo viene dal latino e significa uscita”, ha spiegato la direttrice del carcere, Tiziana Paulini. “I suoi obiettivi sono di favorire lo sviluppo di competenze lavorative nella popolazione carceraria, al fine di reinserire in società queste persone una volta scontata la pena”. Il progetto è partito grazie al contributo economico della fondazione Cariverona, che lo ha finanziato in tre province (Belluno, Vicenza e Verona) in collaborazione con le Caritas diocesane. In totale la fondazione ha investito 4,8 milioni di euro in tre anni, nel Bellunese quasi un milione: 440 mila euro nel 2011, 283 mila nel 2012 e 2013. “Il progetto prevede la realizzazione di percorsi giudiziari di inclusione socio lavorativa per detenuti ed ex detenuti e persone in misura alternativa della pena”, ha illustrato il consigliere bellunese della fondazione Cariverona Paolo Conte. “In collaborazione con gli enti competenti si propone una programmazione organica per integrare le realtà presenti sul territorio al fine di sostenere e realizzare percorsi di inclusione sociale e lavorativa”. A Belluno gli enti capofila sono il Ceis, con le cooperative Energie sociali e Mani intrecciate e il consorzio Sacs, con le coop Metalogos e Lavoro associato. Il reinserimento dell’ex carcerato non è un percorso semplice: pregiudizi e un po’ di diffidenza rischiano di emarginare il soggetto, e di compromettere il suo ritorno a una vita normale. “Basta parlare con loro, però, per capire che sono persone, con una testa e un cuore”, ha detto don Giorgio Soccol (Caritas). “Hanno sbagliato e pagano per questo, ma non meritano di essere emarginati”. Nel 2012 il progetto Esodo ha seguito 494 persone nelle tre province, attivando 889 azioni. A Baldenich nel 2011 è stata ristrutturata una porzione del capannone dove oggi i detenuti producono cerniere per mobili per conto della Bortoluzzi sistemi. Sono stati gli stessi detenuti a effettuare i lavori di riqualificazione (ne sono stati occupati in media trenta). Nel 2012 sono state prese in carico 45 persone, e sono stati avviati 92 percorsi: 32 di formazione, quattro di residenzialità (fuori dal carcere), 16 di sostegno e accompagnamento, prevalentemente di tipo educativo, 16 di orientamento al lavoro e 24 di inserimento occupazionale. Il capannone ristrutturato, inoltre, ben si presta per svolgere commesse lavorative di vario genere. L’appello della direttrice è che altre aziende, oltre alla Bortoluzzi sistemi, se ne avvalgano (il percorso funziona con la mediazione delle cooperative): chi lo fa può beneficiare di sgravi fiscali grazie alla legge 193/2000, sull’assunzione temporanea di persone in condizioni di disagio (come i carcerati). Chi inizia un percorso lavorativo in carcere, inoltre, può avere la possibilità di continuarlo all’esterno (Lavoro associato ha assunto un paio di ex detenuti). Il progetto, dunque, ha molti punti di forza, e soprattutto incontra l’interesse e l’apprezzamento dei detenuti. A quanto sembra Cariverona lo finanzierà anche il prossimo anno: “La commissione che se ne occupa sta lavorando per garantire che ci siano i fondi necessari”, ha rassicurato Gioacchino Bratti. Extracomunitari e in attesa di giudizio Sono centoventi i detenuti ospitati al momento nel carcere di Baldenich. La maggior parte sono uomini (90), le donne sono sette, una ventina invece i transessuali. Questi ultimi sono collocati nella sezione ristrutturata di recente, dove le celle sono dignitose e le condizioni di vivibilità buone. Il settore maschile, invece, è nella porzione più vecchia del fabbricato, che risale agli anni ‘30. Qui oltre a problematiche di natura strutturale (celle vecchie, bagni molto piccoli) ci sono quelle legate al sovraffollamento, che rendono difficile la permanenza a chi si trova a dover scontare una pena. Anche per questo progetti come “Esodo” sono molto importanti, per impegnare le giornate ai detenuti ma anche per consentire loro di passare meno tempo in cella. La struttura di Baldenich è una casa circondariale, che può ospitare detenuti in attesa di giudizio (sono piuttosto numerosi anche in questo momento) o chi ha da scontare una pena fino a cinque anni. Chi ha una condanna definitiva si trova in carcere soprattutto per reati legati allo spaccio di sostanze stupefacenti, per furti o rapine. Nella sezione dei transessuali, invece, molti si trovano in cella per reati legati allo sfruttamento della prostituzione. La popolazione carceraria è fatta in massima parte di stranieri: sono il 58 per cento, e la maggior parte di loro sono extracomunitari. Fra gli italiani, molti non sono bellunesi. L’età media è piuttosto bassa: il 60 per cento dei detenuti ha tra i 26 e i 45 anni. Bolzano: ieri in tribunale l’incidente probatorio per i presunti pestaggi nel carcere di Mario Bertoldi Alto Adige, 24 maggio 2013 “Solidarietà ai detenuti, odio ai loro aguzzini”. È lo slogan impresso su uno striscione di tela bianca srotolato ieri mattina davanti a palazzo di giustizia da un gruppo di anarchici roveretani che hanno voluto far sentire indirettamente la loro voce in occasione dell’ultima udienza dell’incidente probatorio per i presunti pestaggi nel carcere di Bolzano in occasione della rivolta del gennaio scorso. Per evitare possibili tensioni davanti al tribunale sono stati mobilitati una ventina di poliziotti intervenuti in assetto anti-sommossa. Tutto si è risolto in una piccola manifestazione silenziosa (seppur inneggiante all’odio nei confronti della polizia penitenziaria) mentre davanti al giudice Walter Pelino gli avvocati difensori degli indagati hanno chiuso l’udienza chiedendo l’archiviazione del procedimento. Al centro dell’inchiesta, come noto, ci sono undici agenti penitenziari accusati di aver abusato del loro ruolo all’interno della casa mandamentale di via Dante in occasione dei momenti drammatici della rivolta del 23 gennaio scorso. Ieri l’incidente probatorio (voluto dal pubblico ministero per il pericolo che alcuni detenuti a conclusione del periodo di detenzione possano risultare irreperibili) prevedeva la ricognizione di alcuni indagati con il sistema del riconoscimento all’americana. Alcuni agenti effettivamente sono stati riconosciuti dai detenuti che sostengono di essere stati malmenati ma si tratta di un riconoscimento di limitata importanza processuale posto che comunque si tratta di agenti penitenziari che abitualmente lavoravano all’interno della struttura di via Dante. La Procura dovrà in realtà valutare se il racconto dei detenuti siano attendibili o se vi possano essere sospetti di piccole grandi vendette nei confronti degli agenti. Secondo gli avvocati di difesa non ci sono dubbi. Il quadro complessivo è talmente indefinito sotto il profilo delle responsabilità che il procedimento dovrebbe essere archiviato. Sarà però la Procura (con il pubblico ministero Axel Bisignano) a dover decidere se chiedere al giudice di procedere o meno ai rinvii a giudizio. “Ci sono delle incertezze sui riconoscimenti che indicano già una difficoltà per l’accusa di sostenere il dibattimento in aula - ha puntualizzato a fine udienza l’avvocato Beniamino Migliucci - inoltre è stato sottovalutato che in carcere in quel momento vi era una vera e propria rivolta. Quindi non si sta parlando di pestaggi gratuiti ma di una rivolta con incendio che autorizzava anche la possibilità di intervenire in termini di antisommossa”. L’avvocato Alberto Valenti, altro legale di difesa, ha parlato di “stato emergenziale” dimostrato dall’incendio e dai danni provocati dalla rivolta , unica del suo genere nel carcere di Bolzano (rimasto per mesi inutilizzabile in alcuni blocchi). Uil-Pa: Bolzano peggiore carcere d’Italia “Martedì incontrerò a Roma il ministro Cancellieri: citerò Bolzano come il carcere peggiore d’Italia, Trento come il migliore”. Lo ha detto il segretario generale della Uil Penitenziari, Eugenio Claudio Sarno. Il carcere bolzanino - ha spiegato - “potrebbe contenere al massimo 70 detenuti, dentro ce ne sono esattamente il doppio”. A Trento il nuovo penitenziario è stato inaugurato nel gennaio 2011. A Bolzano il nuovo carcere dovrebbe invece entrare in funzione nel 2015. Pescara: 1 agente ogni 3 detenuti, Polizia penitenziaria protesta contro riduzione personale Asca, 24 maggio 2013 Protesta della polizia penitenziaria pescarese, davanti al carcere di San Donato il sit-in contro le riduzioni del personale: una guardia ogni tre detenuti. Sit-in di protesta, questa mattina all’esterno del carcere di San Donato, della polizia penitenziaria di Pescara. Davanti alla sede del Provveditorato regionale Abruzzo e Molise del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, una ventina di agenti, in rappresentanza di tutto il personale, hanno contestato la carenza di personale che li costringe ad affrontare turni di lavoro straordinario, spesso di 12 ore giornaliere a fronte delle 6 ordinarie. “Una situazione logorante con un carico di lavoro che non possono essere sopportati a lungo”, spiega il rappresentante Maurizio La Cioppa, “In base alle nuove piante organiche siamo sotto di 63 unità, considerato che siamo 131 effettivi e lavoriamo con 300 detenuti. Nel momento in cui è stato aperto il nuovo padiglione abbiamo ricevuto la promessa di almeno 24 unità in più (ne avevamo sollecitate 35) e invece ce ne sono state assegnate solo 20 mentre altre 4 non sono mai arrivate. Di queste 20 soltanto dieci sono assegnate in maniera definitiva all’istituto mentre le altre in maniera distaccata per cui un po’ alla volta questi agenti avranno altre destinazioni. Andiamo avanti, conclude, grazie agli straordinari del personale, ma non è possibile pensare che questa situazione si trascini così”. Alla manifestazione hanno partecipato l’onorevole Vittoria D’Incecco e il consigliere comunale Antonio Blasioli, entrambi del Pd, che hanno preso atto delle problematiche del personale e hanno annunciato una interpellanza parlamentare da presentare alla Camera e un ordine del giorno in Consiglio comunale. Rimini: Petitti e Arlotti (Pd) in visita al carcere; sovraffollamento, 175 detenuti in 90 posti Agenparl, 24 maggio 2013 I deputati Pd Emma Petitti e Tiziano Arlotti hanno visitato questa mattina la Casa circondariale di Rimini e incontrato il direttore della struttura penitenziaria, Palma Mercurio. “Il problema del sovraffollamento del carcere di Rimini permane, nonostante sia stato segnalato più volte (anche nei giorni scorsi) dal Garante dei detenuti, dai sindacati di polizia penitenziaria, dall’amministrazione comunale, e sia stato oggetto di interrogazioni al ministro della Giustizia nella passata legislatura - osservano i parlamentar i riminesi. A fronte di una capacità ricettiva di 90 detenuti, ne sono attualmente presenti 175 (ovvero quasi il doppio), con un’alta percentuale di stranieri e persone con dipendenze. È invece ampiamente sotto la quota necessaria il personale: 109 agenti di polizia penitenziaria su una pianta organica di 149, 5 addetti amministrativi e 5 educatori. Inadeguate anche le condizioni strutturali del carcere, dove la seconda sezione è stata chiusa in attesa di ristrutturazione, mentre prima sezione (già oggetto di un intervento dell’Asl per la situazione di degrado e le pessime condizioni igienico sanitarie) è aperta a metà e vede detenuti ammassati in celle che necessitano di un profondo risanamento. Nei mesi estivi il numero di detenuti arriva anche a 300 unità e l’istituto di Rimini è quello con il maggior numero di ingressi, con la conseguenza di un ulteriore ammassamento e di rischi di atti di autolesionismo o aggressione al personale. Le carceri italiane non sono degne di un Paese civile, ha affermato ieri il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri, e purtroppo il carcere di Rimini non rappresenta un’eccezione. La soluzione non è semplicemente realizzare nuove carceri, ma ripensare il sistema delle pene e delle misure alternative alla detenzione, dando inoltre possibilità di studio, di formazione ed effettivo recupero ai detenuti. Riteniamo che sia indispensabile intervenire - per quanto di nostra competenza - per colmare il deficit di organico della polizia penitenziaria e degli psicologi nella casa circondariale di Rimini, per assicurare l’assoluto rispetto dei livelli essenziali di assistenza, per potenziare le attività di alfabetizzazione e formazione dei detenuti. Crediamo non più procrastinabile, inoltre, la ristrutturazione non solo della seconda sezione, ma anche della prima, con lo stanziamento delle necessarie risorse. Ci impegniamo a presentare un’interrogazione al ministro Cancellieri sui problemi del carcere di Rimini, chiedendo quali provvedimenti urgenti il Governo intenda adottare per riportare il numero dei detenuti entro la capienza regolamentare così da garantire agli stessi condizioni di detenzione conformi al dettato costituzionale, alla legge e ai regolamenti penitenziari”. Giustizia: Sdr; messaggio detenuti Buoncammino “Aspettiamo fiduciosi Papa Francesco” Ristretti Orizzonti, 24 maggio 2013 “Ci prepariamo ad accogliere Papa Francesco. Lo aspettiamo fiduciosi perché possa accogliere il nostro benvenuto e le nostre speranze di scontare le pene con dignità. Siamo certi che a settembre Papa Francesco non mancherà di fare una visita a Buoncammino, il carcere simbolo del disagio”. Con queste parole, affidate ai volontari di Socialismo Diritti Riforme, un gruppo di detenuti di Buoncammino ha inteso manifestare il desiderio di poter abbracciare il Santo Padre che giungerà in Sardegna nel prossimo mese di settembre. “Il nostro - hanno aggiunto - è un invito ma soprattutto una speranza. Il Santo Padre ha manifestato una umanità e una vicinanza ai più deboli che ci ha particolarmente colpiti facendoci riflettere. La fede è per la maggior parte di noi l’unico conforto. Speriamo quindi - hanno concluso - di poter mettere nelle mani del Pontefice le nostre più profonde meditazioni”. Nella realtà dei ristretti - sottolinea Maria Grazia Caligaris presidente di Sdr - emergono in modo più accentuato le contraddizioni della società ed è forte la volontà di riscatto. L’incontro con Papa Francesco, che non a caso ha scelto la Cattedrale di Bonaria, rappresenterebbe un significativo segnale di attenzione verso chi ha sbagliato ma anche un’occasione per conoscere, dopo l’Istituto Minorile, la realtà delle Case Circondariali come Buoncammino. L’auspicio è che nel programma del Santo Padre in città, accogliendo l’appello sincero degli ultimi, possa essere inserita una visita a Buoncammino. Bologna: Sappe; detenuto ricoverato all’ospedale per overdose di oppiacei, è stato salvato Dire, 24 maggio 2013 Questa notte un carcerato straniero di 55 anni detenuto alla Dozza di Bologna è stato trasportato d’urgenza all’ospedale Sant’Orsola, per eccessivo uso di sostanze stupefacenti. “In base al referto si tratterebbe di un’overdose di oppiacei”, fa sapere in un comunicato il segretario generale aggiunto del Sappe, Giovanni Battista Durante. Il 55enne si trovava in carcere da pochi giorni per reati riguardanti fatti di droga ed è stato riportato in carcere dopo le cure. “Ancora una volta, grazie all’intervento della Polizia penitenziaria, è stato evitato il peggio, ma continuiamo a denunciare l’assenza di iniziative concrete da parte dei vertici dell’amministrazione penitenziaria sul contrasto alla droga, considerato che dal 1995 è prevista la costituzione delle unità cinofili, ma ancora oggi operano solo in poche regioni, tra le quali non c’è l’Emilia-Romagna”, dichiara Durante in una nota. I tossicodipendenti in carcere sono il 25% della popolazione detenuta, con punte di 40% e oltre in alcune regioni, segnala il sindacato. “Peraltro - aggiunge Durante - esistono percorsi di recupero alternativi al carcere, come l’affidamento terapeutico e la sospensione della pena, ma nulla o poco viene fatto in questa direzione”. Saluzzo (Cn): falso allarme bomba in carcere, nel pacco postale c’era una radiolina Fm Asca, 24 maggio 2013 Al passaggio sotto lo scanner, si era temuto che potesse esserci un congegno per la detonazione di materiale esplosivo, nell’involucro arrivato oggi verso le 13,30 nel carcere di Saluzzo. Un pacco bomba, inviato all’indirizzo di un detenuto dai familiari. E invece per fortuna si trattava solo di una radiolina FM. E non c’era tritolo nei quattro pacchetti sospetti, ma gomme da masticare. “In realtà non avrebbero potuto spedire quel materiale - spiega il capitano Roberto Costanzo dei Carabinieri di Saluzzo - ma solo portarlo a mano e mostrarlo. Per questo si è creato l’equivoco e il personale del carcere si è insospettito. Ci hanno chiamati all’una e mezza e alle 16 gli artificieri avevano già decretato il falso allarme”. Oltre alla radiolina provvista di cuffiette, nel pacco c’erano anche delle lamette e alcune confezioni di gomme. Milano: violenze sessuali su 12 detenuti, a processo l’ex Cappellano di San Vittore Il Giornale, 24 maggio 2013 I “favoriti” - poveri loro - erano quelli ammessi direttamente nel suo ufficio. Per gli altri, c’erano le rassicurazioni. “Non ti preoccupare, è normale”. Era normale per Don Alberto Barin - l’ex cappellano del carcere di San Vittore - avvicinare i detenuti, promettergli qualche piccolo regalo, e chiedere in cambio dei favori sessuali. È una storia - una brutta storia - andata avanti per anni, almeno dal 2008 al 2012, quando il sacerdote è stato arrestato con l’accusa di violenza sessuale. Dodici i casi contestati. E per don Barin, ora, si apre la strada del processo. Ieri, infatti, il gip Enrico Manzi ha disposto per il prete il giudizio con rito immediato. Nel decreto del giudice vengono ricostruite le storie di abusi a cui sarebbero stati costretti 12 detenuti di San Vittore, le “tecniche” con cui don Barin avrebbe adescato le sue vittime, e gli stratagemmi usati per evitare di finire nei guai. Su tutte, spicca uno specchietto retrovisore utilizzato per controllare “l’eventuale arrivo di persone” mentre approfittava dei detenuti. Un trucco che non gli ha evitato il carcere, dove è finito lo scorso 20 novembre. Secondo l’accusa, l’ex cappellano di San Vittore faceva leva sullo “stato di bisogno” dei detenuti, che si rivolgevano a lui per avere sigarette, shampoo, saponette, spazzolini - piccoli beni per rendere meno dura la vita in cella - per poi chiedere in cambio favori sessuali. Ma non bastava. Quando i carcerati uscivano dal penitenziario dopo aver scontato la pena, li invitava a passare a casa sua per altre prestazioni sessuali, facendo credere loro che i suoi pareri di “buona condotta” fossero stati utili per le scarcerazioni. Le vittime erano ragazzi africani di un’età che varia tra i 23 anni e i 43 anni. Dallo scorso aprile Barin è agli arresti domiciliari, che sta scontando in un convento. Come si legge nel decreto del giudice Manzi, l’ex cappellano controllava “l’eventuale arrivo di persone a mezzo di specchietto retrovisore, in modo da tranquillizzare il detenuto”, che subiva abusi, “in merito ad una possibile sorpresa in flagranza”. Inoltre, Barin “tranquillizzava” i detenuti che manifestavano il proprio “disagio” dicendo che “la sua era una condotta normale, segni di amicizia e che a Napoli ?tutti sono soliti fare così?”. E ancora: il religioso “intensificava” le “visite” di alcuni detenuti “nel proprio ufficio” facendoli sentire come i “favoriti”. Il processo si aprirà il prossimo 10 luglio. Roma: Uisp; mercoledì a Rebibbia corsa con i detenuti, gara lungo mura nuovo complesso Dire, 24 maggio 2013 Dopo il grande successo del primo maggio per Vivicittà-Vivifiume, l’Uisp Roma rilancia la sua sfida di partecipazione. Mercoledì dalle 16 alle 18 le porte del Nuovo Complesso del carcere di Rebibbia si apriranno a tutti coloro che vorranno correre assieme ai detenuti per un pomeriggio di sport e umanità. È quanto si legge in una nota di Uisp Roma. Come accade da anni, la corsa principe dell’Uisp si corre anche dentro le mura del penitenziario. Ma oltre ai detenuti, molti dei quali tesserati Uisp tramite le associazioni Albatros e la Rondine, potrà partecipare chiunque voglia conoscere la realtà del carcere. Unica condizione è quella di iscriversi entro le 11 di lunedì compilando il modulo di autocertificazione che si trova sul sito www.uisp.it/roma e poi spedendolo a roma@uisp.it. Il termine è improrogabile per i necessari passaggi amministrativi indispensabili per entrare nel carcere. Per tutti gli iscritti poi l’appuntamento è fissato per mercoledì alle 15 all’ingresso di via Raffaele Majetti 70, per poter entrare alle 15.30. “Se per Vivicittà-Vivifiume l’obiettivo (raggiunto) era quello di far fare sport (corsa, canottaggio, canoa, pallavolo, giochi da tavolo) a mille persone sul Tevere- spiega la nota- in questo caso l’obiettivo è di raggiungere la cifra storica di 100 atleti partecipanti. Una cifra simbolica, un segno di quantità e di qualità al contempo, ricordando che lo scopo ultimo dell’Unione italiana sport per tutti è quello di portare lo sport ovunque, con impegno, passione e competenza”. Come per la prova classica, saranno allestiti due percorsi, uno da 4 chilometri per la prova non competitiva e uno da 12 per la prova competitiva. Si correrà lungo le mura di un carcere, ma senza accorgersene, fianco a fianco, con detenuti che avranno modo di divertirsi e competere anche con atleti di primo piano. Stati Uniti: Presidente Obama; l’America deve ridefinire linee guida guerra al terrorismo Asca, 24 maggio 2013 Nel suo discorso sulla sicurezza nazionale pronunciato ieri davanti alla platea della National Defense University di Washington, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha difeso la sua idea di lotta al terrorismo, esposto le nuove linee guida per l’uso dei droni e ribadito il suo impegno per risolvere il problema della prigione di Guantánamo - dove due terzi dei 166 prigionieri sono in sciopero della fame da mesi - attraverso il trasferimento dei prigionieri in Yemen. Per Obama l’America è a un bivio: deve superare le politiche e le tattiche usate a partire dall’11 settembre, basate sulle idee di un conflitto senza confini e di una guerra perpetua, tutte capaci di rivelarsi autolesioniste. “Dobbiamo definire la natura e la portata di questa lotta, altrimenti sarà destinata lei a definire noi”, ha detto il presidente degli Stati Uniti, facendo riferimento anche a quelle tattiche interrogatorie che hanno compromesso i valori degli Stati Uniti. Obama ha poi difeso la sua guerra al terrorismo, fatta con l’utilizzo dei droni: “I miliziani di al Qaeda passano più tempo a pensare a come difendersi da noi” ha detto Obama, “anche se la nostra operazione in Pakistan contro Osama bin Laden non può essere la norma”. Per questo, spiega Obama, il Presidente ha firmato una nuova direttiva che codifica le linee guida per l’utilizzo dei droni. Potranno essere utilizzati solo per prevenire attacchi imminenti, quando la cattura di un sospetto non è praticabile e se c’è una “quasi certazza” che non vengano coinvolti civili. Regole e criteri che, si precisa, valgono anche contro quei cittadini americani che si sono arruolati nei gruppi terroristici o combattono per loro. Obama ha poi ribadito che il carcere di Guantánamo deve essere chiuso; su questa strada intanto verrà ripreso il trasferimento dei detenuti verso lo Yemen; una procedura per cui bisognerà comunque analizzare caso per caso e per la quale Obama nominerà nuovi supervisori dal Dipartimento di Stato e dal Pentagono. Amnesty: bene Obama, ma ora passare all’azione “Il presidente degli Usa Barack Obama ha ribadito la necessità di chiudere il centro di detenzione di Guantánamo Bay, ha ammesso che occorre maggiore trasparenza e ha riconosciuto le questioni problematiche legate al programma di uccisioni mediante droni. Ora è tempo di passare immediatamente all’azione”. Lo si legge in un comunicato di Amnesty International. “Ciò significa riprendere sin da ora i trasferimenti da Guantánamo, portando i detenuti di fronte a un giudice federale per essere sottoposti a processo equo oppure rilasciandoli. Il presidente Obama ha fatto bene a non riproporre il concetto di detenzione a tempo indeterminato ma la sua proposta di processare i detenuti in terraferma di fronte alle commissioni militari va rigettata come illegale e non necessaria. Sui droni, è necessaria maggiore trasparenza sulle basi legali di tale programma, che comprenda la pubblicazione delle direttive presidenziali, recentemente approvate, indagini indipendenti sulle denunce di esecuzioni extragiudiziali tramite droni e risarcimenti alle vittime. Non c’è bisogno di attendere l’annullamento dell’Autorizzazione all’uso della forza militare del 2001. L’amministrazione Obama deve cessare di basarsi sulla teoria della guerra globale che ha ispirato detenzioni a tempo indeterminato, commissioni militari e uccisioni di presunti terroristi e civili”. “Il Congresso deve cessare di ostacolare le riforme - conclude l’organizzazione. I rappresentanti eletti delle istituzioni devono abolire gli ostacoli legislativi che impediscono la chiusura di Guantánamo. Il rapporto del Senato sulle torture della Cia dev’essere reso pubblico. Il presidente Obama ha ragione quando afferma che gli Usa sono a un bivio. È tempo di non proseguire sul sentiero sbagliato preso oltre 10 anni fa. È tempo di diritti umani”. Medio Oriente: a Gaza City in mostra quadri di detenuti palestinesi nelle carceri israeliane di Joe Catron Nena News, 24 maggio 2013 Per l’ex detenuto palestinese Abdelfattah Abu Jahil, l’arte in prigione è une vittoria. “All’inizio è stato molto difficile - dice dei dipinti, delle sculture e dei manufatti prodotti durante la sua prima detenzione nel 1983 - Era proibito. Dovevamo nasconderlo dalle guardie. E dovevamo contrabbandare gli strumenti, come perle e fili, per fare arte”. Tutto è cambiato quando uno sciopero della fame di massa ha costretto l’Israeli Prison Service a permettere ai detenuti palestinesi di avere strumenti per fare arte. “Le più grandi conquiste del movimento dei prigionieri sono arrivate nel 1985 - dice Abu Jahil - Abbiamo scioperato per costringere gli israeliani a fare delle concessioni. Io ho rifiutato il cibo per 79 giorni”. Il loro successo ha permesso all’arte in prigione di fiorire, spiega: “Siamo stati in grado di chiedere alle nostre famiglie di mandarci il materiale, o di comprarlo nei piccoli negozi della prigione”. Oggi Abu Jahil, che è stato finalmente rilasciato dalla sua quarta detenzione nel 2002, continua a fare arte e ha come tema i detenuti e il movimento dei prigionieri a Gaza. Collezione permanente. Con lo stipendio che il Ministero dei Prigionieri palestinese gli gira per il suo lavoro, ha realizzato molte opere per un’esibizione permanente dell’arte in prigione, ospitata dal Ministero. La collezione, che ha aperto i battenti nel 2010, occupa una stanza del quartier generale del dicastero a Gaza City, nel quartiere di Tal Al-Hawa. Ne fanno parte lavori di ogni tipo, come un modello dorato della Cupola della Roccia fatto con dentifricio, il foglietto di rame del tubetto e schizzi su carta velina usata per avvolgere la frutta e la verdura in prigione. I pezzi più stravaganti mostrano gli effetti dell’utilizzo di nuovi materiali dal 1985 ad oggi, così come la continua partecipazione al progetto degli ex detenuti. “Mai arrendersi”. Imponenti ritratti di prigionieri veterani, paesaggi pastello di Gerusalemme e della campagna di Gaza, sculture in cartapesta della mappa della Palestina e della nave Mavi Marmara diretta a Gaza con aiuti umanitari, sono stati ovviamente fatti a Gaza o trasportati qui dalle prigioni con il consenso dell’Israeli Prison Service. Alcuni dei manufatti più piccoli sono stati invece nascosti dai familiari in visita ai prigionieri o dagli stessi ex detenuti una volta rilasciati, raccontano gli impiegati del Ministero: “L’esibizione mostra che i palestinesi non si arrendono mai - dice la portavoce del Ministero, Mukarram Abu Alouf, che aiuta a curare la mostra - Noi possiamo essere creativi anche nelle circostanze più difficili. Mostra anche che i palestinesi, non importa di quale partito o classe siano, sono uniti”. Molte delegazioni che visitano Gaza vanno a vedere la mostra. Le università locali o altre gallerie spesso prendono in prestito alcune opere. Alcune sono state portate nella tenda di protesta che la Waed Captive and Liberators Society ha eretto nel complesso Saraya a Gaza City il 17 aprile, Giornata del Prigioniero Palestinese. Il sito è stato una della tre prigioni in cui Abu Jahil è stato detenuto: “Sono stato a Nafha, Ashkelon e Saraya. Era chiamata la galera di Gaza prima del 1994. È stata demolita dagli aerei israeliani il 28 dicembre 2008”. Emozioni. “Ho prodotto circa 50 opere di diverso genere - spiega raccontando dei sette anni di prigionia - Molte hanno a che fare con il folklore palestinese, con i contadini, i vestiti tradizionali e le vecchie case palestinesi. Un altro tipo riguarda la lotta palestinese contro l’occupazione israeliana, come la bandiera, la mappa e i combattenti. Il terzo tipo è più personale, fatto per mia madre, mia moglie, i miei figli. Sono le mie opere preferite”, dice mostrando un manufatto di perle che formano un cuore e due candele che ha preparato per il giorno della mamma. “Ci sono tante ragioni per fare arte - continua. Primo, per tenermi occupato, per non avere troppo tempo libero a non fare nulla. Secondo, per permettere alle mie emozioni di uscire. Terzo, perché è uno sforzo collettivo. Quarto, fare felici le nostre famiglie quando li ricevono. E infine, per provare al mondo che anche se sei in prigione, sotto pressione e torture, puoi ancora fare qualcosa. Le torture non hanno danneggiato il nostro stato mentale”. Rawsa Habeeb, ricercatrice ed ex detenuta artista, sottolinea che l’arte era un modo per portare l’eredità palestinese dentro le prigioni: “Amavamo farlo perché è parte della nostra cultura, di cui siamo tutti orgogliosi”. L’esercito israeliano ha catturato Habeeb il 20 maggio 2007 e l’ha condannato a due anni e mezzo di carcere. Come molti altri detenuti di Gaza, è stata arrestata mentre attraversava il checkpoint di Erez per andare in Israele per ragioni mediche. È stata liberato il 4 ottobre 2009, l’ultima delle 20 prigioniere rilasciate da Israele in cambio di un video del soldato dell’IDF Gilad Shalit. Lavoro di squadra. Suo cugino, il piccolo Yousef al-Zaq, è stato il 21esimo prigioniero rilasciato in quello scambio, insieme a sua madre, Fatima al-Zaq, la zia di Habeeb. Era il giorno del suo secondo compleanno, il più giovane prigioniero del mondo. Ha iniziato a frequentare l’asilo nido a Gaza lo scorso settembre. “Abbiamo fatto tanta arte, è parte della cultura palestinese - spiega Habeed parlando della sua detenzione nella prigione di Sharon - Preparavamo cuscini, dipinti, coperte e scatole di fazzoletti. Era un lavoro di squadra. Per esempio, quando volevamo fare un quadro ricamato, una di noi preparava il ricamo, una la cornice di legno e una il vetro. Ci siamo insegnate a vicenda come lavorare”. Mentre era in prigione, Habeed ha studiato servizi sociali. Dopo il rilascio, ha completato il corso di laurea all’università al-Azhar di Gaza City e si è focalizzato sulla vita fuori dalla prigione. “Non ho continuato a fare arte una volta fuori. Questo tipo di lavoro richiede molto tempo, che ora non ho. Ho un marito, quattro figli e un lavoro, però”. Abu Jahuil, che ha vissuto di acqua e sale per 79 giorni per ottenere pennarelli e pennelli, non ha intenzione di smettere: “I prigionieri possono essere creativi - dice. Sopravviviamo sempre. Essere arrestati e detenuti in una prigione israeliana non è la fine della nostra lotta. Continueremo sempre a lottare”.