Da Padova si alza richiesta di una pena diversa… Redattore Sociale, 17 maggio 2013 Alla Giornata di Studi “Il male che si nasconde dentro di noi”, esperti e detenuti si sono trovati d’accordo sull’importanza di non pensare che qualcuno sia “irrecuperabile”, ma al contrario di promuovere il cambiamento possibile. Un recluso: “Istituzioni spesso miopi e sorde”. Dal carcere di Padova torna ad alzarsi la richiesta di una pena diversa, che dia un senso alla detenzione. L’appello è stato lanciato durante la giornata di studi “Il male che si nasconde dentro di noi”, ospitata nel carcere Due Palazzi. Esperti e detenuti si sono trovati d’accordo sull’importanza di non pensare che qualcuno sia “irrecuperabile”, ma al contrario di promuovere il cambiamento possibile. Un’opportunità spesso negata all’interno del sistema detentivo, come racconta Luigi, un detenuto della redazione: “Qui a Padova grazie a Ristretti Orizzonti c’è un uso diverso della pena, ma non riesco a dimenticare la violenza delle istituzioni nelle mie esperienze detentive passate: istituzioni miopi e sorde, che non ammettono che una persona negli anni possa maturare e così negano di fatto la possibilità di cambiamento”. Marina Valcarenghi, psicoanalista che lavora all’interno del carcere, presidente dell’associazione Viola, si dice convinta che “tutti hanno qualcosa da salvare, non ci sono persone irrecuperabili per definizione”. E aggiunge: “Una persona non si esaurisce nel delitto che ha commesso, la possibilità di riscatto sociale c’è sempre”. Parlare, riflettere sui propri errori e guardare, appunto, il male che c’è in noi (come dice il titolo del convegno) è una strada da percorrere per raggiungere il cambiamento. “Un detenuto una volta mi ha detto: “come fa bene e come fa male andare a vedere il proprio male”. Significa che questo lavoro è davvero utile per dare un senso alla detenzione” evidenzia l’esperta. La sfida per Mauro Grimoldi, presidente dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia, è di “riuscire a superare la dimensione retributiva della pena, in base alla quale “tanto hai fatto, tanto vieni punito”. Questo approccio dà alle vittime e ai loro parenti vendetta, ma forse non è la migliore risposta possibile. Dobbiamo chiederci se preferiamo vivere in un paese vendicativo o in un paese in cui si agisca in ottica preventiva per evitare che atti di violenza si compiano. In questo caso ci sono delle opzioni, come ad esempio la messa alla prova degli adulti, alla quale sono favorevole”. Donne vittime di violenza, ma non solo Redattore Sociale, 17 maggio 2013 Il binomio donne e violenza ha catalizzato questa mattina i lavori del convegno “Il male che si nasconde dentro di noi”, a cura della redazione Ristretti Orizzonti. Violenza domestica, la regista Archibugi: “Non si ha a che fare con un raptus”. Il binomio donne e violenza ha catalizzato questa mattina i lavori del convegno “Il male che si nasconde dentro di noi”, a cura della redazione Ristretti Orizzonti. Uno sguardo alle donne come vittime, ma anche come autrici di violenza perché, come sottolinea la direttrice di Ristretti Orizzonti Ornella Favero, “è troppo facile, soprattutto per le altre donne, identificarsi con le vittime, senza mai considerare che la violenza può anche provenire da una donna”. Sono le parole di Ulderico, detenuto della redazione, a introdurre il tema della “violenza che cancella le donne”: “Sono stato con mia moglie 35 anni, abbiamo raggiunto insieme tanti obiettivi. Non c’era nessun motivo che potesse portare al mio gesto, eppure ho distrutto la mia famiglia: oltre ad aver ucciso mia moglie ho tolto a mio figlio la madre”. Per Francesca Archibugi, regista e sceneggiatrice, non è impossibile prevenire la violenza domestica, imparando a riconoscere alcuni segnali: “Dal mio incontro con i centri antiviolenza ho capito che non si ha a che fare con un raptus, ma con una spirale che comincia con un amore molto romantico, che a piano a piano si stringe in una sorta di coercizione fino ad arrivare all’assassinio. Riconoscendo queste tappe penso sia possibile fermarsi prima”. Ma svincolarsi da questa spirale non è così facile: “Entrano in gioco condizionamenti culturali e psicologici - evidenzia Fanny Marchese del centro antiviolenza del Policlinico di Milano -, il desiderio di preservare la propria famiglia, la paura, la mancanza di autonomia e spesso un senso di impotenza”. Tutt’altre donne sono quelle ritratte da Renate Siebert, sociologa che si è occupata della presenza femminile all’interno della mafia. “Un ruolo per lungo tempo sottovalutato, ma preponderante” avverte. “Non commettono violenza in prima persona, ma la conoscono. In famiglia il loro compito è di trasmettere ai figli il pensiero del padre. Molte volte hanno un ruolo attivo eliminando, ad esempio, le prove di un delitto, come le tracce di sangue dai vestiti. Sono feroci nel contrasto con i nemici, luttuose e vendicative quando viene fatto del male ai loro cari”. Ma talvolta sono anche vittime di tutta questa violenza che entra in casa riversandosi contro di loro: “La violenza sessuale e domestica è conseguenza della violenza in cui il marito è immerso”. Ornella Favero: non ci sono mostri, male si nasconde in noi Redattore Sociale, 17 maggio 2013 È il messaggio lanciato dall’annuale giornata di studi Ristretti Orizzonti a Padova. La direttrice, Ornella Favero: “Identificarsi con le vittime è facile, ma non si pensa mai di poter essere dall’altra parte”. Smontare il pregiudizio che “gli altri” siano i cattivi e che noi siamo i “totalmente buoni”: è questo l’obiettivo del convegno “Il male che si nasconde dentro di noi”, organizzato oggi all’interno della casa di reclusione Due Palazzi di Padova dalla redazione di Ristretti Orizzonti. Un’occasione per smontare qualche luogo comune e suggerire un nuovo modo di vedere il carcere: non un contenitore di mostri ma un posto in cui sono recluse delle persone. “Vogliamo far capire che non ci sono predestinati - sottolinea Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti. Dobbiamo accettare l’idea che il male ci riguarda tutti. La gente riesce sempre benissimo a identificarsi con una vittima, mentre è molto più difficile riuscire a pensare che si potrebbe essere dall’altra parte”. Eppure invertire la prospettiva è possibile. Un modo per farlo è ascoltare le storie di quegli “altri” visti come così lontani, sentire le loro storie, provare empatia. Da qui nascono iniziative come il convegno odierno, giunto all’undicesima edizione, e il progetto “Il carcere entra a scuola. La scuola entra in carcere”. Dare voce e volto ai “cattivi” aiuta a riflettere su quanto può essere sottile la linea che divide il bene dal male. Su quanto può essere difficile cadere. Lo dimostra l’esperienza di un padre che ha assistito a un incontro tra scuola e carcere e d’un tratto si è spogliato di ogni pregiudizio: “Mi sono sentito io stesso possibile carcerato - scrive in una lettera - perché la realtà che ci circonda ci spinge ad azioni violente che mi potrebbero portare dietro le sbarre”. Riccardo Iacona: l’Italia è un Paese ostile alle donne Redattore Sociale, 17 maggio 2013 Al convegno di Ristretti Orizzonti, l’accusa del giornalista: “Endemica violenza di genere. Non facendo nulla di fatto accettiamo la violenza”. Ma non c’ solo questo. “Paese ostile anche per il gender gap che ci caratterizza e per l’assenza di pari opportunità. “Le donne italiane sono soggette a un’endemica violenza di genere”. Non usa mezzi termini Riccardo Iacona, giornalista ideatore di Presa Diretta, che alla violenza contro le donne ha dedicato un’ampia inchiesta sfociata nel libro “Se questi sono gli uomini”. Intervenendo al convegno di Ristretti Orizzonti “Il male che si nasconde dentro di noi” (vedi lanci precedenti), il giornalista ha parlato di “un paese ostile alle donne, non solo perché le uccidiamo, ma anche per il gender gap che ci caratterizza e per l’assenza di pari opportunità”. Nel raccontare la sua esperienza sul campo, Iacona ammette di aver incontrato “una forte rimozione sul tema del femminicidio, tanto che nessuno sembrava volersi prendere la responsabilità di dire qualcosa”. E incalza: “Questo è il nostro Afghanistan. non facendo nulla, di fatto accettiamo la violenza sulla donna”. Oggi la situazione sta migliorando: i media affrontano l’argomento quotidianamente, la politica se ne sta interessando, ma non basta. “Bisogna passare dalle parole ai fatti. C’è ancora tempo per intervenire, non è troppo tardi. Bisogna difendere la donna facendo rispettare la legge”. Serve, dunque, un’assunzione di responsabilità della politica: “L’impegno della presidente della Camera Boldrini e del ministro Idem sono segnali importanti”. Ma si deve agire anche sul piano culturale: “Per ottenere un vero cambiamento servono azioni concrete. Non possiamo accettare di essere un paese afgano. Dobbiamo anche capire che abbattere la differenza ha un valore economico: i paesi con minore disparità sono più ricchi”. Giustizia: vittime per caso di Adriano Sofri La Repubblica, 17 maggio 2013 In strada, al bar, davanti scuola, in ufficio, Un killer colpisce, ferisce, uccide. Bersagli senza un perché. Dalle studentesse di Mesagne alle impiegate di Perugia. Dai carabinieri di Roma agli uomini di Milano Come si ricordano e si piangono le persone amate e ammazzate “per caso”? Domani sarà passato un anno dall’attentato di Brindisi che costò la vita a Melissa Bassi, studentessa di sedici anni, tenne fra la vita e la morte Veronica Capodieci, e ferì altre sei loro compagne. Ci sarà una commemorazione solenne, a Brindisi e a Mesagne, il paese di Melissa e Veronica, parteciperanno ministri e altre autorità, ci saranno cerimonie religiose e civili e concerti. Sarà presentato il librodiario che Selena Greco, compagna di banco di Melissa, anche lei ferita, ha intitolato “I giorni dopo il tramonto”. Intanto va verso la conclusione il processo all’autore confesso di quella tentata strage, che ora piagnucola in aula e chiede perdono e dice che aveva due figlie anche lui; che in carcere si fece sorprendere mentre rivelava il suo proposito di fare il pazzo; che ricavò “dall’enciclopedia” le istruzioni per comandare a distanza un ordigno fatto di bombole di gas. I giudici l’hanno dichiarato lucido e padrone di sé, com’è evidente, e l’hanno imputato anche di terrorismo. “Ho fatto tutto da solo”, ha detto, a metà fra la speranza d’attenuante e la rivendicazione. La sentenza si pronuncerà anche su questo terrorismo di un uomo solo, che voleva vendicarsi di qualcosa, della vita degli altri, e stampare così la propria orma, o compiacersi dello spavento suscitato. Nelle ragazze ferite nel corpo e nell’anima, che per mesi rifiutavano di uscire di casa, “perché là mi vogliono ammazzare”. Una è venuta a testimoniare in tribunale, sulle menomazioni irreversibili che ha subito e su come è cambiata la sua vita: “Tantissimo, è cambiata”. C’è un’espressione usata, quando qualcuno muore oscuramente, si dice: “Non aveva nemici”. Quell’espressione riprende il suo significato. Non avevano nemici le ragazze della scuola brindisina. Non ne avevano le persone uscite di buon mattino nelle strade di Niguarda. Non le signore Margherita Peccati e Daniela Crispolti, impiegate della Regione a Perugia, al cui assassino non è bastato proclamarsi Dio e decidere di suicidarsi. Non i carabinieri in servizio a Montecitorio. I loro aggressori assassini li avevano i nemici, avevano saputo inventarseli, e se no si erano accontentati dei primi esseri umani che capitassero loro a tiro - il loro “prossimo”, i più vicini, quelli che una provvidenza alla rovescia mettesse sulla loro strada. Questa condizione mostruosamente squilibrata turba ogni intelligenza. Quando, un minuto dopo l’esplosione di Brindisi, in troppi sostennero che fosse roba di mafia o terrorismo - e avevano le loro brave ragioni: la scuola delle ragazze è intitolata a Francesca Morvillo Falcone, la carovana antimafia stava per arrivare in città - erano mossi soprattutto da una speranza spaventata. La speranza è sempre quella che si tratti del “gesto di un pazzo isolato”. (Il pazzo isolato è una figura insieme arcaica e “americana”). Si può esorcizzarlo più facilmente, sentirsene più al riparo che non dalla minaccia della strage di mafia o terrorista. Tuttavia, in un angolo dei pensieri, la violenza della mafia o del terrore pretende di essere più spiegata, più prevedibile. Ha i suoi fini, i suoi bersagli, anche quando colpisce indiscriminatamente nel mucchio: la morte degli innocenti, degli estranei - la morte per caso - serve alla sua causa. Succede il contrario quando la decisione di uccidere non si cura dei suoi bersagli: omicidi volontari, spesso premeditati - come a Brindisi - dalle vittime impreviste, offerte dal caso. A Niguarda, dopo il troppo tempo trascorso senza alcun intervento, si è di nuovo evocato l’impiego dell’esercito a presidio degli “obiettivi sensibili”: ma occorre chiamare sensibili obiettivi come il giovane che a ogni alba distribuisce i giornali con suo padre, il pensionato che porta il cane ai giardini, le ragazze che vanno a scuola, i carabinieri nella piazza, le impiegate di un ufficio. In questo privato terrorismo asimmetrico, fra assassini volontari e vittime fortuite, ciascuno e dovunque diventa meritevole di una scorta: e dunque è la società intera e la sua socievolezza che deve reimparare a far da scorta a se stessa. (Altro affare è la consunzione dei normali servizi di polizia, la famosa polizia di quartiere, fra usi impropri e denari distolti, auto vecchie e ferme e straordinari non pagati dalla seconda settimana e concorsi bloccati). Anche il perdono, in questa sgretolata guerra asimmetrica, sfugge ai suoi confini. Si può, chi voglia e ci riesca, perdonare ai propri nemici: ma occorrerebbe rassegnarsi a onorare come nemici i pazzi o i farabutti che hanno deciso di soddisfare su persone ignote e ignare la loro inimicizia universale. Le persone che perdono i loro cari in circostanze come queste hanno uno speciale dolore che non può darsi spiegazioni, che non rintraccia abbastanza né una, per deforme che sia, causa umana, né una sciagura, com’è l’ingiustizia della morte naturale dei giovani. Il monumento ai loro caduti non evoca guerre di stati e di bande criminali o guerriglie civili: non c’è milite ignoto a rappresentarli, perché non c’era milite, solo ragazze di sedici anni che preparavano la sfilata scolastica dei loro modelli, signori di una mattina milanese, signore di un ufficio umbro. “Mio padre e io - ha detto la figlia del brigadiere Giangrande, Martina - ci chiamavamo un esercito sgangherato: ora siamo un mezzo esercito, e pure tanto sgangherato”. Nel febbraio dell’anno scorso un tribunale milanese ha dichiarato non punibile Oleg Fedchenko perché affetto da schizofrenia, e l’ha assegnato a un Ospedale psichiatrico giudiziario. Fedchenko era il giovane ucraino, pugile dilettante, che nell’agosto del 2010 era uscito dalla casa materna annunciando di voler uccidere la prima donna in cui si fosse imbattuto per strada. “La prima che incontro”. Lo fece: lei era Emlou Aresu, era filippina, aveva due figli, all’indomani sarebbe ripartita per le Filippine. Faceva i lavori nelle case, “andava sempre di fretta”, come raccontarono i conoscenti, e così di fretta arrivò in viale degli Abruzzi, all’appuntamento con quel venticinquenne che voleva vendicarsi di un amore deluso e di chissà quale altro delirio. Si apprese allora che i criminologi li chiamano “delitti casuali”, e li considerano i più difficili da prevenire e impedire. Pensai allora che non è casuale esser donna, e filippina per giunta. Forse quell’aggettivo, casuale, verrà lasciato cadere per tutti. Forse, retorica a parte, prenderemo tutti congedo da quell’altra espressione così usata: “Non c’entravano niente”. C’entriamo, scriveremo sul monumento a questi caduti. Giustizia: ricorso Italia su condanna sovraffollamento, Corte Strasburgo decide 27 maggio Ansa, 17 maggio 2013 La Corte europea dei diritti umani deciderà il prossimo 27 maggio se accettare o meno il ricorso presentato dal governo italiano per portare davanti alla Grande Camera il “caso” Torreggiani sul sovraffollamento carcerario. È quanto appreso dall’Ansa dalla stessa Corte di Strasburgo. A prendere la decisione sulla richiesta del governo italiano sarà un panel di cinque giudici. Se il ricorso non dovesse essere accettato, la sentenza di condanna dell’Italia pronunciata l’8 gennaio scorso da una delle sezioni della Corte diventerebbe immediatamente definitiva. L’Italia avrebbe allora un anno di tempo per mettere in atto una serie di misure per risolvere il problema del sovraffollamento e risarcire coloro che ne sono stati danneggiati. Se al contrario la Corte dovesse decidere che le argomentazioni del governo italiano per un rinvio davanti alla Grande Camera sono valide, dovrà essere fissata una data per l’udienza e il verdetto finale potrebbe non arrivare prima di un anno o più. Giustizia: Fondazione Michelucci; in Italia ci sono sempre 21mila detenuti oltre la capienza Adnkronos, 17 maggio 2013 Sovraffollamento, diminuzione degli spazi a disposizione dei detenuti, drastica riduzione delle risorse. Sono gli annosi problemi che continuano ad affliggere il sistema penitenziario, nazionale e toscano, così come sono stati messi in evidenza da una ricerca condotta dalla Fondazione Michelucci e presentata stamattina nel corso del seminario “Il carcere al tempo della crisi: il caso della Toscana”. L’incontro, che si è tenuto nello stand della Regione a Terra Futura, è stato organizzato da Regione Toscana e Fondazione. Secondo la ricerca, la popolazione detenuta in Italia ha raggiunto cifre senza precedenti, ben superiori alle oltre 61mila presenze del luglio 2006, data dell’ultimo provvedimento di indulto. Al 31.03.2013 la popolazione detenuta è pari a 65.831 unità, 4.800 in più del giugno 2006. In Toscana ci sono 4.124 detenuti, erano 4.001 nel giugno 2006. Alla dichiarazione dello stato di emergenza per il sovraffollamento carcerario, 13 gennaio 2010, nelle carceri italiane c’erano 64.791 persone, a fronte di una capienza di 44.073, con un tasso di affollamento del 147% (147 detenuti ogni 100 posti). Lievemente migliore, ma sostanzialmente analoga, la situazione toscana: 4.344 detenuti in 3.233 posti, tasso di affollamento del 134%. Attualmente la situazione è pressoché identica. Il dato nazionale al 31 dicembre 2012 era del 139,7%, quello regionale del 128%, inferiore alla media nazionale anche se la capienza delle carceri toscane è decisamente sovrastimata. In cima alla classifica gli istituti da sempre alle prese col problema, Firenze e Pistoia. Dal 31 dicembre 2009 al 31 marzo 2013 la capienza del sistema penitenziario nazionale è passata da 44.073 a 47.045 posti, registrando così ufficialmente un aumento di 3.000 posti, pari ad una crescita di oltre il 6%. Anche in Toscana la capienza regolamentare è cresciuta di 331 unità, +11%. Ma in realtà la crescita delle capienze dipende da un diverso calcolo degli spazi disponibili piuttosto che dalla effettiva disponibilità di nuovi spazi i quali invece sembrano essere sempre meno. La ricerca segnala poi il calo degli ingressi: dal primo semestre 2010 a quello 2012 è stato di circa il 26% a livello nazionale e di circa il 22% in Toscana. Calo da imputare soprattutto alla consapevolezza del sovraffollamento da parte di chi opera gli arresti, ovvero le forze dell’ordine. Anche l’abrogazione della possibilità di mettere in detenzione, nonché l’arresto obbligatorio, lo straniero in caso di mancata ottemperanza all’ordine del Questore di allontanarsi dal territorio italiano, ha contribuito al calo anche se l’incidenza è stata inferiore rispetto alle attese. Se infatti nel primo semestre del 2010 i detenuti stranieri rappresentavano il 43,9% del totale dei detenuti che entravano nelle carceri italiane dalla libertà (il 57,8% in Toscana), nel primo semestre 2012 questa percentuale era del 42,6% a livello nazionale (e del 62,5% in Toscana). La riduzione delle risorse viene sottolineata da alcuni dati recentemente diffusi dall’Associazione Antigone. Nel 2007, con una presenza media giornaliera di 44.587 detenuti, il bilancio del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria ammontava a quasi 3 milioni e 100mila euro. Nel 2011, a fronte di una presenza media giornaliera di 67.174 detenuti, il bilancio è sceso a poco più di 2 milioni e 760mila euro, con un taglio del 10,6%. I costi del personale sono calati solo del 5,3%, quelli per gli investimenti (edilizia penitenziaria, acquisizione di mezzi di trasporto, di beni, macchine ed attrezzature, etc.) del 38,6% e quelli per il mantenimento, l’assistenza, la rieducazione ed il trasporto detenuti, addirittura del 63,6%. La sofferenza maggiore è per il mantenimento di attività trattamentali adeguate, come ad esempio l’accesso al lavoro, previsto per i detenuti con condanna definitiva come vero e proprio diritto. Nel primo semestre 2012 a lavorare sono stati 13.278 detenuti, meno di un quinto del totale dei reclusi e comunque una cifra assai inferiore rispetto al numero dei condannati (che al 30 giugno erano 38.771). È la percentuale più bassa dal 1991, conseguenza dei drastici tagli del budget previsto nel bilancio del Dap per le retribuzioni dei detenuti che negli ultimi anni si è ridotto del 71%: dagli 11 milioni di euro del 2010 si è passati ai circa 3 del 2013. In Toscana la percentuale dei lavoranti detenuti è pressoché analoga, anche se superiore alla media nazionale, 22,4%. Esiguo il numero dei detenuti che lavorano non alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria: i semiliberi sono solo 76, quelli che lavorano all’esterno 88, quelli che invece lavorano in carcere per datori diversi solo 8. Giustizia: emergenza carceri, quella “prepotente urgenza” di cui non ci si ricorda mai… Tempi, 17 maggio 2013 “Stiamo costruendo un progetto per l’emergenza carceraria”, ha affermato il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri, in visita al carcere di Rebibbia. “Un progetto variegato su diversi sistemi”, ha precisato il ministro: “Parlerò in parlamento dell’audizione che farò la prossima settimana, lo stiamo mettendo a punto, l’unica cosa che so con certezza è che ci sarà un forte impegno, determinato e molto sentito”. Sul Corriere della Sera, Luigi Ferrarella ha parlato dell’emergenza carceraria. Critico nei confronti dell’indagine “conoscitiva” promossa dalla Commissione giustizia del Senato presieduta da Nitto Palma, l’editorialista e cronista giudiziario del quotidiano di Via Solferino striglia la politica, accusandola di traccheggiare sulle decisioni da prendere: “Già si sa tutto, e da molto tempo. Ci sono i dati ministeriali dell’incivile sovraffollamento di 21.000 persone più della capienza teorica”. Nonostante tante “condanne dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo per le detenzioni di persone in meno di 3 mq a testa”, “vetustà dell’edilizia carceraria, riduzioni di organico nella polizia penitenziaria, sanità negata di fatto in molte celle”, scrive Ferrarella, partiti e parlamento si rifiutano di agire. La “politica, che ipocrita suole inchinarsi al capo dello Stato” “da due anni disattende “la prepotente urgenza” additata da Napolitano nel 2011, ora s’inventa l’ennesima “indagine conoscitiva” solo perché non ha la capacità e il coraggio di scegliere tra le ben note opzioni in campo”. Perché non si vuole sanare l’emergenza?, si chiede Ferrarella. Perché in un modo o nell’altro c’è un problema di consenso o di realtà: “Chi propende per il successo rieducativo delle misure alternative al carcere non se la sente di spiegarlo all’opinione pubblica. Chi vuole solo costruire più carceri non sa dire dove trovare i soldi. Chi condivide la proposta radicale di un provvedimento di clemenza ha paura che al treno dell’indulto o dell’amnistia, per i detenuti, qualcuno in Parlamento agganci il vagoncino dell’impunità invece per gli indagati eccellenti”. Giustizia: il ministro Cancellieri comincerà dalle carceri di Francesco Bonazzi Il Secolo XIX, 17 maggio 2013 Una via di fuga chiamata carcere. Per evitare le forche caudine di intercettazioni e responsabilità civile dei magistrati, ma anche di un inasprimento della lotta alla corruzione, il ministro Anna Maria Cancellieri si prepara a sparigliare il gioco affrontando per prima l’emergenza delle prigioni sovraffollate. Forte di una convinzione espressa più volte con i suoi più stretti collaboratori: “Questo carcere, così com’è, non migliora certo le persone”. Sono in molti ad aspettare al varco il ministro che siede sulla poltrona più scomoda del governo di larghe intese, non a caso un tecnico sganciato dai partiti. Le visioni di Pdl e Pd sulla giustizia sono praticamente inconciliabili e le feroci polemiche di questi giorni, dalla manifestazione di Brescia in poi, sono lì a dimostrarlo. Il Guardasigilli si è finora segnalato per il silenzio, nonostante le sollecitazioni di ogni tipo, e lo stesso Enrico Letta sulla giustizia si è tenuto sulle generali anche in sede di presentazione del programma di governo. In via Arenula meditano di esordire con un “pacchetto carceri” che segua tre direttrici: la costruzione di nuovi penitenziari, un maggior utilizzo dei braccialetti elettronici e la proroga del decreto “svuota carceri”. Ma ci sono anche riforme più strutturali, già chiaramente delineate nella relazione finale dei Saggi del presidente Napolitano, come un maggior ricorso all’affidamento in prova e alla detenzione domiciliare, un vasto processo di depenalizzazione dei reati meno gravi e “l’introduzione su larga scala di pene alternative alla detenzione”. Con oltre 65 mila detenuti su 44 mila posti regolamentari l’Italia è ampiamente fuori legge e a gennaio scade la moratoria concessa all’Italia dalla Corte di Strasburgo per evitare altre condanne per “trattamenti inumani e degradanti”. “Mi auguro che questo governo riesca a girare pagina sulle condizioni delle carceri”, afferma il ministro degli Esteri Emma Bonino. E sulla materia vigila il presidente della Repubblica, che sarebbe addirittura pronto a firmare un’amnistia, se solo i partiti trovassero un’intesa. Giustizia: Bonino; Italia più credibile sui diritti umani soltanto se risolve problema carceri Agi, 17 maggio 2013 L’Italia può diventare più credibile in tema di diritti umani solo affrontando i problemi, come il sovraffollamento delle carceri e la lunghezza dei processi, per i quali ha ricevuto “tantissime” condanne dalla Corte europea per i diritti dell’uomo. Lo ha detto il ministro degli Esteri Emma Bonino nella sede della corte di Strasburgo dove ha partecipato a una riunione ministeriale del Consiglio d’Europa: era dal 2000, quando l’Italia era presidente di turno dell’istituzione, che un ministro italiano (in quel caso si trattava di Lamberto Dini) non partecipava alle riunioni dei colleghi al Palazzo dell’Europa. Spero davvero, con l’appoggio parlamentare, che ci sia un nuovo inizio - ha detto il ministro - certamente la questione delle minoranze e dei diritti è fondamentale e uno dei modi” per poterla affrontare “è quello di essere credibili anche a casa propria”. L’Italia è stata condannata su diversi aspetti ed è necessario che il governo assuma delle iniziative che ci facciano uscire da una situazione che mina la credibilità del paese, al di là di quanto è dolorosa per i cittadini che non vedono rispettati i propri diritti alla difesa, o nelle condizioni delle carceri”. Si tratta di “temi che conosco piuttosto bene”, ha sottolineato Bonino secondo cui la situazione è a un punto tale da “necessitare di iniziative coraggiose per uscirne”. Infatti, “solo essendo così credibili possiamo anche essere più efficaci nel combattere altre violazioni dei diritti umani in altri paesi del Consiglio d’Europa”, ha concluso. Moretti (Ugl): bene impegno Bonino nel chiedere nuovo inizio “L’impegno del ministro degli Esteri nel cercare soluzioni concrete al problema delle carceri e nel sollecitare iniziative coraggiose per evitare ulteriori condanne da Strasburgo ci sembra un importante segnale di attenzione”. Lo dichiara il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, in merito alle dichiarazioni del ministro Bonino alla ministeriale del Consiglio d’Europa, aggiungendo che “è nota la sensibilità della responsabile della Farnesina verso le problematiche del sistema detentivo, confermata da anni di battaglie per rivendicare condizioni di vivibilità e di rispetto dei diritti umani, ma ci preme ricordare che la condizione detentiva si interfaccia con la condizione lavorativa degli agenti di Polizia Penitenziaria, anch’essi da tempo in attesa di risposte”. “Auspichiamo - conclude il sindacalista - che riscontri positivi per la categoria possano venire già dall’incontro che il ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, ha convocato per il prossimo 22 maggio, e che si possano finalmente gettare le basi di un sistema penitenziario più moderno, con condizioni di vita e di lavoro dignitose”. Giustizia: Veronesi; l’ergastolo va abolito, è anticostituzionale, antiscientifico e antistorico Agi, 17 maggio 2013 L’ergastolo è “un oltraggio alla scienza”, “come il 41 bis anticostituzionale, antiscientifico e antistorico” e pertanto “va abolito”. Umberto Veronesi continua senza mezzi termini la propria battaglia contro il carcere duro e l’ergastolo ostativo, rei secondo l’oncologo di confliggere senza rimedio con l’obbligo della rieducazione. Nel corso del suo intervento al convegno su detenzione e diritti umani, organizzato dalla Camera penale di Milano, l’oncologo ha ricordato che “il male non esiste nell’uomo, che ha soltanto un’origine ambientale e non genetica e che la scienza ha dimostrato come il cervello si rigeneri continuamente durante la vita”. In base questi due presupposti, secondo Veronesi, “condannare un uomo di 40 anni per un delitto commesso a 20 è come condannare un’altra persona perché, ormai, non è più lui”. Portando ad esempio gli ordinamenti dove “il carcere è una scuola”, che manifestano percentuali di recidiva molto inferiori a quella italiana, Veronesi ha invitato a credere nella certezza del cambiamento, insito negli essere umani, purché stimolato. Per questo, tanto il 41 bis quanto l’egastolo ostativo sarebbero “Anticostituzionali, antiscientifici e antistorici. La Costituzione - ha concluso - implica e obbliga alla rieducazione. È evidente che condanna a vita e rieducazione siano in banale contraddizione”. Giustizia: Sabelli (Anm); dopo condanna Europa su carceri, ripensare il sistema delle pene Asca, 17 maggio 2013 “L’Europa ci ha messo in mora per quanto riguarda la situazione delle carceri. Versano in condizioni che non sono più prevedibili. Credo che non servano nuovi indulti o amnistie. Ci sono altri strumenti da valorizzare rispetto alle pene detentive. Per esempio le sanzioni patrimoniali e interdittive. Il reato non deve essere più conveniente perché i benefici economici che si ricavano non possono essere più conservati. In questo modo chi compie un reato deve sapere che non ne trarrà benefici. Il problema delle carceri va quindi affrontato nella sua interezza”. Lo ha dichiarato Rodolfo Maria Sabelli, presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati, a margine di un convegno promosso dalla Anm che si tiene nel residence Ripetta. E a proposito di riforme, il presidente dell’Anm ha indicato le priorità. “Diciamo che cosa serve: serve una giustizia più efficiente, servono delle carceri. Questi sono i temi sui quali concentrarsi. Serve una forte attenzione sui temi della criminalità e dell’infiltrazione criminale nella realtà economica e finanziaria, nella Pubblica amministrazione. Facciamo tutti quegli interventi nel penale, ma anche nel civile, perché la scarsa attenzione al processo civile produce delle conseguenze ed una caduta di legalità che si riflette sul sistema complessivo”, ha concluso Sabelli. Giustizia: ricucirsi la vita, dietro le sbarre di Elisa Manacorda www.galileonet.it, 17 maggio 2013 Anziché parlare di sovraffollamento questa volta affrontiamo il tema delle carceri italiane sotto un altro punto di vista: quello dell’imprenditoria e dell’economia sostenibile. Le parole chiave sono occupazione, professionalità, riabilitazione. Ma anche mercato, business, profit. L’occasione è la presentazione - a Roma nei giorni scorsi - di Sigillo, la prima agenzia nazionale di coordinamento dell’imprenditorialità delle donne detenute. Un esperimento primo in Italia e in Europa, per curare le strategie di prodotto, comunicazione e posizionamento sul mercato di quanto realizzato nei laboratori sartoriali dalle donne detenute in alcuni dei più affollati penitenziari italiani. Quello dietro le sbarre è un mondo che ha idee, e che vuole rispettare la legalità creando occasioni di riscatto. “Il nostro obiettivo”, spiega Giovanni Tamburino, a capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria (Dap) del Ministero della Giustizia, “è quello di ridurre l’innaturalità della situazione carceraria, come in effetti è il privare una persona della sua libertà personale”. E il lavoro è una tappa importante verso questo traguardo. Soprattutto una volta fuori dalla cella. “La vera uscita dal carcere non è il fine pena”, continua Tamburino, “ma arriva quando si sa provvedere a sé stessi. Quando si prova la fatica ma anche la soddisfazione del lavoro. Quando si raggiunge un’autonomia economica che consente di non rientrare nel giro della malavita”. In effetti, dicono le statistiche del Ministero, imparare un mestiere dietro le sbarre consente di limitare al 10 per cento il rischio di recidiva. Dunque il lavoro come investimento per la sicurezza sociale, come “vaccino” contro le ricadute: ma un lavoro vero, non assistenzialistico. Che dia vita a un prodotto spendibile sul mercato, con una sua logica economica, sostenuto da una strategia comunicativa efficace. Ecco perché dell’agenzia faranno parte esperti di queste diverse aree, con il compito di gettare un ponte tra il mondo profit a quello non profit, e conciliare il business con il rispetto delle persone: sviluppando progetti imprenditoriali, e consentendo alle aziende di trovare nel carcere un luogo dove investire risorse. Al progetto hanno già aderito 14 laboratori sartoriali attrezzati in altrettanti penitenziari italiani, e cinque cooperative sociali attive nei carceri di San Vittore e Bollate, al Lorusso-Cotugno di Torino (ex carcere di Vallette), e negli istituti penitenziari di Lecce e Trani. L’offerta è ampia: non soltanto magliette, felpe e cappellini, ma anche biancheria per la casa, con tovaglie, asciugamani, grembiuli, e ancora borse, porta cellulari e contenitori in stoffa per prodotti. Al centro del progetto ci sono le donne. Quasi tremila potenziali lavoratrici pronte a dimostrare di essere in grado di ricucire la propria vita e il proprio futuro, come sottolinea il direttore generale dell’agenzia Luisa Della Morte. Perché ago e filo? Perché, dopo tre anni e mezzo di ricerche nelle sezioni femminili degli istituti penitenziari, appare chiaro come più della metà delle detenute sappia cucire, ma solo il 5 per cento possa contare su vere e proprie opportunità lavorative offerte da aziende e imprese sociali. “Un dato”, conclude Della Morte, “che sottolinea in maniera evidente il disagio ancora oggi vissuto dalle donne all’interno di un’istituzione, quella carceraria, nata dagli uomini per gli uomini”. Giustizia: il “direttore” del carcere?... ben 86 prigioni italiane sono dirette da donne di Cartotta Zavattero Sette, 17 maggio 2013 Preparate e tenaci, gestiscono realtà difficili e combattono contro il pregiudizio. Ecco le loro storie, tra battaglie civili e delusioni. E qualche consiglio per il governo. Sono diretti da dorme, ma la cifra è in difetto perché molte sono direttori aggiunti, o vice, Perché così tante alla guida delle carceri italiane? Cosa le ha portate a lavorare nel settore più difficile della pubblica amministrazione? Una direttrice opera oltre tutto in un ambiente dove l’elemento maschile prevale anche fra i detenuti: le donne recluse, attualmente 2.857, rappresentano solo il 4,2% delle presenze, che in totale sono 66.685. A rendere più dura e pesante la vita delle direttrici donna - una di loro, Armida Miserere (cui si ispira un film, Come il vento, interpretato da Valeria Golino, di prossima uscita), si è persino suicidata - è il fatto che gli istituti di pena italiani, di frequente ubicati nel cuore delle città, sono cittadelle che rischiano di scoppiare: i detenuti sono troppi; 142,5%, è il tasso di affollamento, oltre 140 detenuti ogni 100 posti, che, rispetto al 99,6% della media europea, fa dell’Italia il Paese con le carceri più piene dell’Unione. H personale è insufficiente. I dati dell’Osservatorio Antigone smascherano alcuni luoghi comuni: il deficit più critico non è quello della polizia penitenziaria, pari all’8,9%, bensì quello degli assistenti sociali, -35,1%, dei funzionari giuridico-pedagogici ossia gli ex educatori, carenti in percentuale del 27,2%, e dei diligenti, vale a dire i direttori: 22,1% in meno rispetto alle necessità. Molti di loro - spesso donne - hanno la reggenza di più istituti, un extra carico di lavoro per una professione già faticosa: un direttore deve essere disponibile 24 ore al giorno per tutto l’anno. L’ultimo concorso per assumere un vicedirettore è del 1997: il 70% dei vincitori erano donne. Più preparate e tenaci. Le donne studiano di più: questo spiega la loro significativa presenza in un lavoro, cui si accede per concorso, ma che poi “cattura”. Caterina Zurlo, direttrice della casa circondariale di Piacenza, vive la professione in maniera totalizzante: “Ho sempre pensato che non fai il direttore del carcere, lo sei. Indipendentemente dal fatto della reperibilità totale, per qualunque situazione lo richieda, non si finisce mai di lavorare perché in realtà è un abito mentale che si indossa sempre”. Un’altra direttrice, Annunziata Passannante, alla giuda deificati - l’Istituto a custodia attenuata per il trattamento dei tossicodipendenti della III casa circondariale di Roma Rebibbia -, ammette che la professione coinvolge, ma avverte anche dei pericoli: “Si rischia di entrare in un tunnel di paranoia. Sono necessari sangue freddo, una misurata fiducia e stare tranquilli”. Passannante inizia al San Vittore di Milano dove è stata vicedirettrice per 6 anni. Ha vissuto l’epoca “Luigi Pagano”, direttore che per 16 anni ha svolto uno straordinario lavoro di apertura e oggi vicecapo del Dap, il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Spostiamoci in un’altra realtà, quella della casa di reclusione Giuseppe Passerini di Civitavecchia, dal 2009 diretta da Patrizia Bravetti, che ha iniziato da vicedirettore al Marassi di Genova. A chi le chiede che tipo di lavoro sia il suo Bravetti risponde: “Il carcere dall’esterno è un mondo frainteso. Dovrebbe essere utilizzato come extrema ratio. Per reati minori servirebbero pene e condanne più funzionali, ma la gente pensa che pena alternativa sia sinonimo di libertà, invece non è così”. Sul totale dei 66.685 detenuti, il 40,1%, ossia 26.804 persone, è in carcere per custodia cautelare e non per scontare una condanna definitiva. Il Consiglio d’Europa (dati marzo 2012) segnala una media europea del 28,5%: 23,7% in Francia, 19,3% in Spagna e 15,3% in Germania, Inghilterra e Galles. Patrizia Bravetti ha per il premier Enrico Letta e il suo governo delle proposte concrete: “Occorre abbreviare i tempi dei processi e rivedere alcune parti del codice penale. Serve un coordinamento a livello europeo dei flussi migratori: gli straniai che arrivano sono il prodotto dell’emarginazione, ma anche dell’esodo da Paesi poveri, con guerre e instabilità politiche”. Gli stranieri sono 23.789, il 35.6% del totale. Le nazioni più rappresentate nelle nostre carceri sono il Marocco (19,4%), la Romania (15,3%), la Tunisia (12,7%), l’Albania (11,9%) e la Nigeria (4,4%). Da Ancona si leva la denuncia della direttrice del carcere di Montacuto, Santa Lebboroni: “Violenza e autolesionismo sono connessi al sovraffollamento. In cui si incontrano e scontrano una moltitudine di etnie diverse per fede religiosa, abitudini di vita, cultura, modo divedere le relazioni umane. Ospitiamo in media 400 detenuti e qualche tempo fa abbiamo contato 18 etnie differenti”. Anche la sanità carceraria ha bisogno urgente di riforme. Lebboroni sottolinea: “Il carcere, luogo deputato al contenimento di soggetti pericolosi socialmente, necessario per tutelare la società, oggi è anche il refugium peccatorum per accogliere soggetti disagiati dal punto di vista psichico ed economico, persone con problemi di dipendenze, senza riferimenti affettivi”. A Grosseto invece, la direttrice della casa circondariale, Maria Cristina Morrone, lamenta gli enormi carichi di lavoro: oltre a Grosseto deve gestire altri due istituti della Regione Toscana. “Le sedi vacanti sono numerose in tutto il Paese, per i pensionamenti e la mancanza di ricambio. Da 7 anni, inoltre, i direttori degli istituti penitenziari e degli Uepe - gli Uffici per l’esecuzione penale estrema - attendono il loro primo contratto di categoria, che regoli da un punto di vista giuridico ed economico la figura del dirigente penitenziario”. È in sofferenza dirigenziale anche la casa circondariale San Vittore di Milano. Un decreto ministeriale del 2007 prevedeva uno staff “apicale” di 1 dirigente e altri 3 dirigenti aggiunti, col ruolo di vicedirettori. Gloria Manzelli (dirigente) e Teresa Mazzetta (dirigente aggiunto) guidano invece da sole una struttura dove il 60% dei detenuti presenti è composto da stranieri e indigenti. Circa 100 detenute vivono in una sezione femminile di tre piani mentre nel settore maschile - circa 1.600 presenze - ci sono celle che ospitano dai 6 ai 10 detenuti. La media giornaliera di ingressi è alta: da 35 a 50. Teresa Mazzetta, originaria di Vibo Valentia, ammette: “In Lombardia l’interesse di enti locali, terzo settore, fondazioni, comunità, associazionismo, volontariato è molto alto: noi non ce la faremmo senza di loro”. 1 detenuti le preferiscono Lucia Di Feliciantonio, direttrice del carcere di Ascoli Piceno, parla del maschilismo: “Quando ho iniziato, venti anni fa, effettuavo i colloqui coi boss mafiosi in presenza del comandante: loro mi salutavano con grande rispetto, ma poi esponevano i problemi rivolgendosi al comandante uomo, non a me, donna!”. Di Feliciantonio, attenta all’aspetto relazionale, sa quanto sia importante motivare il personale penitenziario. Anche la gestione del carcere di Benevento è affidata a due donne: il direttore Maria Luisa Palma e una collega più giovane, Marianna Adanti, vice direttore. Palma, che ha iniziato nel 1986 alle Nuove di Torino, denuncia: “Ci si trova a dover combattere con la cultura ancora maschilista della maggior parte del personale di polizia. Non tanto di quello dei ruoli apicali, quanto del personale dei ruoli più bassi”. E conclude: “Per la sensibilità e la disponibilità all’ascolto credo che dal punto di vista dei detenuti la presenza di un direttore donna sia preferibile”. Alba Casella, direttrice del carcere di Modena (dopo aver diretto Rovigo, Imperia, Forlì e Monza), racconta: “La mia scelta professionale suscitava molte perplessità: ero giovane, oltre che donna e quindi secondo molti inadatta a un ruolo considerato maschile poiché legato all’idea della forza. Ho dovuto dimostrare di saper fare il mio lavoro e bene, poiché a una donna non si fanno sconti”. Spostiamoci in Sicilia; Francesca Vazzana dirige un carcere difficile in una città altrettanto difficile come Palermo, ad alta densità mafiosa. Come direttrice della casa circondariale di Pagliarelli è responsabile di 2.120 persone: 1.320 detenuti e circa 800 unità di personale. È un lavoro, spiega Vazzana, che “apre la mente perché al direttore si rivolgono tutti per risolvere i problemi”. Una visione di lungo periodo. A Enna dal 2003, la direttrice Letizia Bellelli spiega che conciliare vita privata e professionale non è semplice: “Come tutte le donne che lavorano ho avuto momenti di grande confusione: quando ti sembra di privare la famiglia, i bambini piccoli 0 i genitori anziani della tua presenza se ti trattieni di più sul lavoro e, viceversa, ti senti inadeguata se devi correre per una riunione a scuola e sei costretta a interrompere riunioni, a rinviare decisioni, ad accumulare pratiche”. In provincia di Enna, a Nicosia, ha sede il carcere diretto da Gabriella Di Franco dal novembre 2011, convinta che esista un plusvalore delle direttrici donne: “Noto che abbiamo una visione di lungo periodo, siamo più portate a fare interventi strutturali. Gli uomini sono più legati al breve termine”. A Ravenna, dal 2009, il direttore della casa circondariale è Carmela De Lorenzo. Viene da una famiglia di avvocati di Avellino. Oltre a Ravenna (120 detenuti, 60 agenti di polizia penitenziaria e ima decina di unità di personale civile) ha la reggenza del carcere di Ferrara (370 detenuti). Tutti i direttori subiscono le politiche economiche del Dap, il cui bilancio nel 2007, con una presenza media giornaliera di 44.587 detenuti, ammontava a 3.095.506.362 euro. Nel 2011 la presenza media giornaliera dei detenuti era già salita a 67.174, un aumento di circa il 50%, ma il bilancio era sceso a 2.766.036.324 euro, effetto di un taglio del -10,6%. Carmela De Lorenzo aggira i limiti imposti dal necessario rigore con la creatività; da quando è direttrice, nel carcere non esiste più una parete bianca. Solo colori vivaci, azzurro, panna, arancione. PIE forti del pregiudizi. Maria Grazia Giampiccolo dirige la casa di reclusione di Volterra (Pisa): un’antica fortezza medicea, maestosa e imponente. Proviene da una famiglia di avvocati e mastica diritto sin da bambina. Inizia da vicedirettrice al Marassi di Genova nel 1991 e si rende subito conto che la professione è problematica in sé. Giampiccolo, che dirige anche Gorgona, è sbrigativa, concreta. “Ovvio che con un simile stile di vita non sempre c’è il tempo di dedicare alla vita privata tutto lo spazio che si vorrebbe”. Ma ciò che conta davvero per un direttore “è realizzare progetti che portano risultati. Come le “serate galeotte”, cene organizzate dal 2006 dai detenuti per ospiti esterni: sino a ora 18 detenuti sono stati assunti da ristoranti di Volterra e uno di loro, una volta terminata la pena, ha aperto un suo ristorante”. Così il carcere è il duplice specchio di una speranza: detenuti che si reinseriscono e direttrici simbolo di una emancipazione femminile concreta. Toscana: l’Assessore Allocca, il luogo di pena non deve essere una discarica sociale Adnkronos, 17 maggio 2013 “La crisi del carcere non è soltanto di risorse economiche. La crisi si traduce anche nell’impossibilità del sistema di funzionare efficacemente come ponte con la realtà fuori dagli istituti di pena, nella difficoltà a disporre di luoghi dove dare concretezza alle misure alternative. Non è attraverso il taglio con quella parte di società problematica che si risolvono i problemi del recupero sociale e della sicurezza. Il carcere in questo modo finisce per diventare una discarica sociale”. Lo ha detto l’assessore regionale al welfare della Toscana, Salvatore Allocca, presentando a Firenze, alla mostra-convegno Terra Futura, una ricerca della Fondazione Michelucci sulla situazione carceraria italiana. Vibo Valentia: detenuto tenta il suicidio, salvato dalla Polizia Penitenziaria Agi, 17 maggio 2013 Un detenuto di 30 anni, sottoposto al regime di alta sicurezza, ha tentato il suicidio questa mattina, nel carcere di Vibo Valenzia, , utilizzando i lacci delle scarpe, con i quali ha fatto un rudimentale cappio. Lo rende noto un comunicato del sindcato di polizia penitenziaria Sappe. “Solo grazie al pronto intervento della polizia penitenziaria - affermano Giovanni Battista Durante, Segretario generale aggiunto del Sappe e Damiano Bellucci, segretario nazionale - è stata evitata un’altra tragedia all’ interno delle carceri italiane, le cui notizie sono ormai un bollettino di guerra, tra suicidi, 60/70 ogni anno, tentativi di suicidio, circa 1.100 ogni anno, sempre sventati dalla polizia penitenziaria, aggressioni e gesti di autolesionismo, oltre 5.000 ogni anno. Negli ultimi 20 anni la polizia penitenziaria ha salvato oltre 17.000 detenuti, nonostante le gravi carenze di personale: mancano oltre 7500 agenti a livello nazionale, destinati ad aumentare a causa dei tagli alla spesa pubblica. La situazione - continuano - è ormai insostenibile e la politica continua a fare inutili proclami e passerelle mediatiche, senza alcun risultato concreto”. Roma: Masini (Pd); a Rebibbia rischio incolumità per detenuti e personale penitenziario Prima Pagina News, 17 maggio 2013 “Nel carcere di Rebibbia è a serio rischio l’incolumità dei detenuti e del personale. Da cinque mesi una stanza che dovrebbe essere destinata alla socialità è occupata da 20 letti per altrettanti detenuti che condividono un solo bagno e l’intera struttura è al collasso: 1800 presenti a fronte di una capienza di 900 posti. Questa situazione è pericolosa per i detenuti e per il personale, che non solo è impossibili tato ad assolvere al compito istituzionale di garantire la sicurezza e la rieducazione, ma rischia la propria incolumità in condizioni limite come quella di alcuni turni in cui sono in servizio 2 agenti ogni 300 detenuti. Garantire la sicurezza e la vivibilità delle carceri è anche la necessaria condizione per raggiungere obiettivi di rieducazione e reinserimento, come quelli ottenuti negli anni da progetti e buone pratiche realizzate con l’impegno delle associazioni che l’amministrazione comunale dovrà incoraggiare e sostenere”. Così il consigliere comunale Paolo Masini (Pd) a margine dell’assemblea che ha tenuto con i poliziotti della casa circondariale. De Robert: a Rebibbia situazione esplosiva “La denuncia del consigliere Paolo Masini è la fotografia di una drammatica realtà che peggiora ogni giorno di più”. Lo dichiara in una nota la candidata della Lista Civica Marino Sindaco Daniela de Robert, che da anni svolge attività di volontariato nel carcere di Rebibbia. “Dignità e sicurezza non sono più di casa nelle carceri di Rebibbia. Le celle con i letti a castello anche a 3 piani, gli spazi di socialità trasformati in celle, l’aumento dei detenuti e la carenza di operatori penitenziari allontanano il carcere dalla sua finalità di favorire il reinserimento delle persone detenute e lo rendono un luogo a rischio per chi ci vive e per chi ci lavora. Da tempo le associazioni della città che operano in carcere chiedono che Roma si faccia carico anche di questi suoi cittadini e di questo suo territorio. Il reinserimento è la vera sfida della sicurezza cui Roma Capitale è chiamata a rispondere”. Mantova: Opg di Castiglione delle Stiviere; in tre anni 480 dimessi, restano 280 ricoverati Redattore Sociale, 17 maggio 2013 Lucia Castellano, consigliere regionale del Pd visita la struttura: “Un luogo dove si lavora per la produzione di libertà”. In vista della chiusura, la Regione ha investito 33,6 milioni per realizzare 12 strutture psichiatriche da 20 posti. L’Ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere (Mantova) è “un luogo dove si respira, totalmente ospedalizzato, dove non ci sono guardie”. Lo descrive così Lucia Castellano, consigliere regionale nella Lista Ambrosoli, poche ore dopo la chiusura della visita: “È un luogo dove si lavora per la produzione di libertà: in tre anni sono stati dimessi 480 malati”. Personale medico ed educatori rendono Castiglione delle Stiviere un luogo di riabilitazione: “Per questo la convenzione con la Asl costa di più”, chiarisce Castellano. Il 14 maggio, quando la Giunta regionale ha votato il Programma regionale per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari, è stato stabilito che i suoi ospiti, 280 al momento (per 220 posti letto, però), andranno curati in sei comunità, divise a seconda della situazione medica e della pericolosità. Regione Lombardia ha investito 33,6 milioni di euro per realizzare 12 strutture psichiatriche da 20 posti ciascuna, pronte ad accogliere pazienti dal prossimo anno. “Controlleremo che i nuovi presidi immaginati dalla riforma siano conformi alla legge, quindi non altre strutture di internamento, cioè mini Opg, ma presidi medici territoriali”, dichiara Castellano. La difficoltà di affrontare la psichiatria giudiziaria, sottolinea Castellano, non è l’idea di superare l’internamento, concetto che trova tutti d’accordo. Semmai il nodo sta nella duplice natura di chi sta negli Opg, che sono insieme detenuti e malati psichiatrici: “Non scordiamoci che manteniamo il codice penale inalterato”. Non si va da nessuna parte se i territori non creano comunità in grado di accogliere le esigenze di chi esce da un Opg. Proprio per questo Castellano e Valmeggi si impegnano a fare delle audizioni nella Commissione sanità e nella Commissione carceri per sapere come le Asl intendono rafforzare le comunità territoriali già esistenti. “Tremo - confessa Castellano - all’idea di cosa può accadere in altre zone d’Italia, meno ricettive della Lombardia”. Busto Arsizio e Varese: la metà dei detenuti sono stranieri e il 90% di loro è “clandestino” La Provincia di Varese, 17 maggio 2013 Il 50% della popolazione carceraria in provincia di Varese è di origine straniera. Per l’esattezza il 42% dei detenuti ai Miogni (in tutto 57 persone) sono extracomunitari; a Busto, dove la capienza della Casa circondariale è maggiore e maggiore è anche il problema di sovraffollamento, la percentuale tocca quota 60%: su 435 detenuti, 252 sono extracomunitari. Il 90% di queste persone è entrata in Italia clandestinamente. E “Clandestino è reato” è lo slogan scelto dalla Lega per la raccolta firme in programma domani e domenica: cento gazebo in tutta la provincia per la raccolta firme a sostegno del no del Carroccio allo ius soli e alla proposta del ministro dell’integrazione Cecile Kyenge di abolire il reato di clandestinità. “Assurdo - commenta Matteo Bianchi, segretario provinciale della Lega - Potersi tutelare è un diritto: inaccettabile che chiunque possa entrare clandestinamente nel nostro Paese restando impunito. La clandestinità è un reato”. A fronte dei dati sulla popolazione carceraria in provincia, Bianchi commenta: “Il dato è ancora più rilevante se guardato in proporzione. Gli stranieri in provincia sono il 10% della popolazione, oltre la metà di queste persone ha commesso un reato. Gli italiani sono il 90% della popolazione territoriale: è chiaro che il rapporto diventa sui reati uno a cinque”. Bianchi precisa: “Non affermo che, se una persona è straniera è un delinquente di sicuro, ma i numeri parlano chiaro”. I numeri identificano anche le tipologie dei reati che vedono protagonisti degli stranieri con maggior frequenza: reati contro il patrimonio, ovvero furti e rapine, e reati relativi allo spaccio di stupefacenti. Terni: delegazione Pd visita carcere; troppi detenuti e pochi agenti, la politica se ne occupi Asca, 17 maggio 2013 Delegazione del Pd fra i 390 i reclusi: le loro voci. Intanto il numero è destinato ad aumentare: in arrivo anche 9 ex brigatisti. Una visita per toccare con mano la realtà del carcere di Terni, da tempo alle prese con croniche carenze di fondi e personale. Un contatto diretto con gli operatori, la dirigenza e i detenuti di un istituto che attualmente ospita 390 persone e che nel prossimo futuro è destinato ad ampliarsi ulteriormente. Da parte dei parlamentari Democratici “nessuna promessa illusoria, ma l’impegno a portare all’attenzione delle istituzioni nazionali le problematiche segnalate”. La vicepresidente della camera, Marina Sereni, il capogruppo Pd in commissione giustizia Walter Verini e il capogruppo democratico in commissione finanze Gianluca Rossi sono stati accolti e guidati dal direttore del carcere, Chiara Pellegrini; dal comandante della polizia penitenziaria, Fabio Gallo; dal suo vice Claine Montecchiani; dal responsabile sanitario, Antonio Marozzo e dall’ispettore superiore, Giancarlo Valenti. La visita è iniziata nel padiglione ‘storico’ che ospita attualmente oltre 300 persone. Qui i parlamentari hanno incontrato, fra gli altri, un 75enne, detenuto per bancarotta e gravemente malato, il cui caso è stato sollevato dalla trasmissione “Radio Carcere” di Radio Radicale. La delegazione si è poi spostata nell’unico piano finora aperto del nuovo padiglione, in cui sono si trovano 50 persone con condanne definitive. La struttura, moderna e funzionale, potrà entrare pienamente in funzione soltanto se arriverà nuovo personale. Il viaggio è poi proseguito nell’area ‘as2’ dove a breve verranno trasferiti nove ex brigatisti, otto dei quali condannati all’ergastolo. Durante la visita i parlamentari hanno ascoltato anche il punto di vista dei detenuti, lucidi e ben informati. Fra i tanti problemi sollevati, quello del lavoro (“anche noi siamo schiacciati dalla crisi, dalla mancanza di lavoro dentro e fuori dal carcere, visto che la vita ha un costo anche qui dentro”), della riabilitazione (“chiediamo che ci vengano date responsabilità e occasioni di formazione. Se usciamo soltanto a fine pena, il fallimento è nostro e delle istituzioni”) e della vita carceraria (“si sta male, le giornate sembrano fotocopie, quando mia moglie viene a trovarmi parlo sempre delle stesse cose. Io non ho argomenti e parla solo lei”). E c’è anche chi lancia un appello ‘politico’ ai parlamentari: “Affrancatevi dalle questioni di Berlusconi, i problemi della giustizia italiana sono altri e riguardano centinaia di migliaia di persone”. A fare il punto sulla situazione del personale di polizia, ci ha pensato il comandante Fabio Gallo: “Lo scorso settembre sono arrivate 25 nuove unità con cui siamo riusciti a far funzionare un piano del nuovo padiglione. Al momento servono almeno altre 42 unità, di cui 35 per completare l’apertura del padiglione e altre 7 per compensare gli agenti impiegati nell’area destinata agli ex brigatisti. Le carenze riguardano anche gli ispettori, coloro che danno impulso all’azione quotidiana”. Il direttore Chiara Pellegrini individua tre aree - lavoro, rapporti con la famiglia e sport - che rappresentano “i pilastri del trattamento”. La realtà deve però fare i conti con la carena di risorse: “Basti pensare - ha spiegato alla delegazione parlamentare - che al carcere di Terni, per il 2013, sono stati assegnati appena 2.500 euro per il trattamento dei quasi 400 detenuti presenti. Mille li abbiamo già spesi ed è difficile andare avanti così”. Dal canto loro gli esponenti del Pd hanno sottolineato “la scarsa sensibilità della politica rispetto ai problemi del mondo carcerario. Cercheremo - hanno detto - di portare all’attenzione delle istituzioni tutti i temi che ci avete segnalato. Non vogliamo fare promesse, ma semplicemente dare voce alle persone, portando avanti alcune questioni concrete che riguardano questa struttura e, più in generale, il contesto carcerario umbro”. Cagliari: Sdr; dopo crollo lastra marmo a Buoncammino intervengano vigili del fuoco Ristretti Orizzonti, 17 maggio 2013 “Una ricognizione dei tecnici del Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria non è sufficiente a tranquillizzare i familiari dei cittadini privati della libertà, i detenuti, gli Agenti e quanti operano nel carcere cagliaritano di Buoncammino. Occorre un intervento dei Vigili del Fuoco per la messa in sicurezza della struttura”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, sottolineando che “la caduta della lastra di circa 80 chili di peso, che ha reso necessario evacuare tre celle del settore destro, non è un caso isolato ma soltanto il più grave. Il boato è stato talmente forte che molti hanno temuto fosse esplosa una bombola di gas”. “L’Istituto di Buoncammino - sottolinea Caligaris - risente di una scarsa manutenzione dovuta anche al fatto che la nuova struttura di Uta registra un ritardo di diversi anni. Il Dipartimento dell’Amministrazione ha quindi ritenuto di non dover fare investimenti sul carcere cagliaritano in attesa del trasferimento. In realtà la situazione strutturale si è notevolmente compromessa e la MOF (Manutenzione Ordinaria Fabbricati) opera solo piccoli interventi. Basta entrare nelle celle per rendersi conto delle condizioni delle pareti, degli infissi e dei servizi”. “La situazione però appare ancora più grave se si osservano i cornicioni interni ed esterni, le torrette dove stazionano gli Agenti per garantire la sicurezza e le aree adibite ai passeggi. Non si può inoltre trascurare - osserva la presidente di SdR - che nel carcere c’è un via vai di adulti e bambini che effettuano le visite ai parenti ristretti attraversando zone poco sicure e utilizzando scalinate dov’è facile inciampare o quanto meno prendere una storta. Buoncammino ha barriere architettoniche insormontabili non solo per un disabile ma anche per una persona anziana”. “Considerato il crollo - conclude Caligaris - sarebbe auspicabile quindi un intervento dei Vigili del Fuoco per una ricognizione più precisa. La buona volontà e l’impegno dei tecnici del Prap è apprezzabile ma forse non basta dopo un evento così preoccupante”. Empoli: accordo Asl-Opg Montelupo, per migliorare interventi igienico-sanitari e sociali Ansa, 17 maggio 2013 Accordo fra Asl 11 di Empoli e Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo Fiorentino per migliorare gli interventi igienico-sanitari e di carattere sociale nella struttura penitenziaria ospitata nella Villa Medicea dell’Ambrogiana. Si parte da un sistema informatico collegato con la rete dell’azienda sanitaria in modo da assicurare la continuità e l’integrazione assistenziale grazie alla possibilità per i medici specialisti di accedere alle cartelle cliniche elettroniche dei pazienti. L’Asl 11, da parte sua, assicurerà un incremento il supporto per l’assistenza di base e per le attività di formazione e supervisione degli operatori che si occupano delle pulizie degli ambienti nelle tre sezioni dell’Opg, sono coinvolti anche alcuni pazienti che effettuano attività di utilità sociale nella struttura. L’azienda sanitaria prevede di incrementare la dotazione di lenzuola e federe in modo da favorire una maggiore frequenza di cambio in relazione anche alla tipologia delle sezioni. L’obiettivo è quello di favorire l’igiene personale, curare l’abbigliamento degli internati, la pulizia e l’ordine delle celle e degli spazi comuni. Bologna: Garante regionale detenuti, Desi Bruno, docente a scuola giurisprudenza ateneo Ristretti Orizzonti, 17 maggio 2013 Si è concluso in mattinata il Seminario dedicato alle figure di garanzia dei diritti delle persone private della libertà personale riservato agli studenti del corso di Diritto penitenziario della Scuola di Giurisprudenza di Bologna. Un percorso articolato in quattro lezioni, affidato alla docenza della Garante dei diritti dei detenuti della Assemblea legislativa Emilia-Romagna, Desi Bruno. L’attività si inserisce nell’ambito della Convenzione tra Garante dei detenuti e il Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Alma Mater, allo scopo di favorire una più puntuale conoscenza delle figure che l’ordinamento pone a presidio dei diritti delle persone che, a qualunque titolo, si trovano a vivere all’interno di una istituzione totale. Anche se la pena detentiva dovrebbe privare il condannato esclusivamente della libertà di locomozione, nei fatti tutti gli altri diritti fondamentali della persona risultano compromessi dall’esperienza della reclusione. Da qui, l’esigenza di figure di garanzia dotate di indipendenza e degli adeguati strumenti giuridici per garantire una piena vigilanza sulle condizioni di vita e sul rispetto della legalità nei luoghi di privazione della libertà personale. Il corso si è quindi concentrato sulle funzioni e sui provvedimenti della Magistratura di Sorveglianza, per poi passare alla presentazione della figura del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale nell’esperienza italiana. Interessante il taglio proposto, che ha saputo alternare alla presentazione degli elementi teorici (come il diritto di reclamo e il problema della natura delle decisioni sul reclamo p la modifica dell’articolo dell’Ordinamento penitenziario che ha consentito anche ai Garanti la visita agli istituti penitenziari senza necessità di preventiva autorizzazione) anche svariate suggestioni derivanti dal lavoro quotidiano a contatto con le persone private della libertà personale. Con particolare riferimento al ruolo del Garante, poi, notevole importanza è stata riservata alla sua dimensione di “mediazione” tra “dentro” e “fuori” come fondamentale strumento di intervento e alla costante attività di informazione e sensibilizzazione sui temi dei diritti umani e della pena. “Ho trovato negli studenti degli interlocutori particolarmente attenti e interessati alle tematiche esposte, è importante che anche in ambito accademico venga promossa una cultura della legalità che non si traduca esclusivamente nella conoscenza della normativa, ma che sappia mettere in luce tutte le contraddizioni del sistema, per superarle- spiega Bruno-: magistratura di sorveglianza, garanti, rappresentanti delle istituzioni, società civile, ognuno nel rispetto del proprio ruolo e delle proprie prerogative, lavorano tutti con un obiettivo comune, e cioè assicurare anche agli ultimi della società il rispetto di quei diritti fondamentali che non possono essere negati a nessuno, qualunque sia la colpa commessa”. Oristano: detenuto testimonia su abusi che avrebbe subito ad opera dei compagni di cella La Nuova Sardegna, 17 maggio 2013 Fa molta fatica. Per il pubblico ministero Rossella Spano e per l’avvocato di parte civile Marco Martinez, quei tentennamenti sono dovuti all’enorme difficoltà che la vittima ha nel raccontare degli abusi che avrebbe subito ad opera dei compagni di cella nel carcere di piazza Manno. È in quegli angusti spazi che il detenuto S.B.P. sarebbe stato oggetto delle presunte angherie e persino di un abuso sessuale commesso dai compagni di detenzione. Sotto accusa ci sono l’orgolese Paolo Ungredda, 29 anni detenuto per rapine e furti (assistito dall’avvocato Lorenzo Soro), Graziano Pinna, 42 anni di Borore detenuto per una rapina a Paulilatino (assistito dall’avvocato Aurelio Schintu), Graziano Congiu 30 anni di Milis (assistito dall’avvocato Aurelio Schintu), detenuto per una rapina in una tabaccheria a Simala, e il sassarese di 26 anni Daniele Daga (assistito dall’avvocato Gabriele Satta). È contro di loro che il compagno di cella rivolge le accuse. Conferma che ha subito violenze e angherie e le descrive anche nei minimi dettagli. Ma qualche tentennamento ha indotto il collegio difensivo a ritenere che non sia vero o non sia tutto vero quel che si racconta. La presunta vittima ha parlato di bruciature, botte, frustate e persino di un abuso sessuale consistito nel costringere il compagno di cella a spogliarsi. L’udienza è durata in tutto quattro ore, per via anche delle deposizioni degli agenti di polizia penitenziaria che a loro volta hanno confermato tutte le circostanze di cui erano a conoscenza. La prossima udienza è fissata per il 13 novembre, quando ci sarà l’interrogatorio dei tre imputati. Tailandia: le catene alle caviglie tolte a centinaia di detenuti, le portavano tutto il giorno di Luca Pistone www.atlasweb.it, 17 maggio 2013 Entro i prossimi tre mesi le autorità thailandesi toglieranno le catene a tutti i prigionieri costretti ora a portarle alle caviglie per aver commesso un crimine grave. Come riportano i media locali, la premier Yinluck Shinawatra ha presieduto questa settimana la cerimonia durante la quale sono state tolte le catene a decine di detenuti del carcere di massima sicurezza di Bang Khwang a Nonthaburi, provincia adiacente a quella di Bangkok. Finora, un totale di 563 detenuti degli 800 del carcere sono stati liberati dalle catene. Di coloro che hanno beneficiato della misura, 513 si trovano nel braccio della morte, 34 scontano l’ergastolo e 16 sono condannati a pene inferiori ai 50 anni. L’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (Ohchr) ha accolto con favore questa iniziativa; tuttavia, critica il fatto che i prigionieri debbano continuare a portare le catene durante i processi e la “deplorevole” condizione delle carceri nel paese. Secondo Amnesty International, la Thailandia deve risolvere il sovraffollamento nelle carceri, la scarsa assistenza medica ai prigionieri e l’incarceramento comune dei colpevoli di delitti di differente gravità, anche quando questi sono sotto processo. Siria: Human Rights Watch; prove di torture regime nel carcere di Raqqa Aki, 17 maggio 2013 Ci sono prove di torture commesse dal regime siriano nelle carceri della città settentrionale di Raqqa. Lo afferma Human Rights Watch (Hrw), che cita la testimonianza di suoi attivisti sul posto. “I documenti, le celle, le sale degli interrogatori e gli strumenti di tortura che abbiamo visto nelle strutture di sicurezza governative coincidono con le torture che ex detenuti ci hanno descritto fin dall’inizio della rivolta in Siria”, ha spiegato Nadim Houdy, vice direttore di Hrw per il Medio Oriente. Tra gli strumenti di tortura ritrovati, c’è anche il cosiddetto “tappeto volante”, di cui molti detenuti hanno parlato nei loro racconti. Si tratta di uno strumento che immobilizza il prigioniero, bloccandogli gli arti e tendendolo indifeso ed esposto alle percosse. In alcune occasioni i prigionieri erano legati in modo tale che il loro corpo si contorcesse fino a permettere alla testa di toccare le gambe. Hrw riporta anche i racconti di alcuni testimoni, come quelli di due fratelli che erano torturati “a turno”. “Cominciavano a torturare mio fratello con i cavi elettrici per tre o quattro ore e poi lo gettavano in una cella di isolamento. Me lo facevano sentire mentre urlava, perché volevano che rivelassi chi veniva con me a manifestare”, ha raccontato il 24enne Ahmed. Raqqa e le sue prigioni oggi si trovano sotto il controllo dei ribelli, ai quali Hrw ha chiesto di conservare le prove delle torture commesse dal regime. “Distruggere questo materiale e questi documenti - dice Hrw - potrebbe indebolire la possibilità di portare davanti a un giudice i responsabili di questi crimini”. Bahrain: scompare in carcere attivista per i diritti umani di Michele Giorgio Il Manifesto, 17 maggio 2013 Si sono perse le tracce in prigione di Nabeel Rajab, il presidente del Centro per i diritti umani del Bahrain condannato a due anni di carcere per aver partecipato a manifestazioni di protesta contro la monarchia (assoluta) al Khalifa. Colleghi e amici di Rajab, uno degli esponenti di punta della società civile bahranita, hanno denunciato ieri che da quattro giorni la moglie, Sumaya, non ha più avuto notizie dell’attivista. Secondo quanto riferito da altri detenuti politici, Rajab sarebbe stato messo in isolamento per avere protestato per le molestie che subiva da giorni dalle guardie carcerarie. Il ministero dell’Interno si è limitato a comunicare sul suo sito web che Rajab “non è scomparso” e che sta scontando “regolarmente” la sua condanna. Crescono i timori anche per la sorte di un altro attivista dei diritti umani, Naji Fateel, della Società del Giovani del Bahrain, arrestato il 2 maggio e che sarebbe stato torturato sotto interrogatorio. La monarchia al Khalifa, stretta alleata degli Stati uniti, è tornata ad usare il pugno di ferro dopo aver promosso nei mesi scorsi il “dialogo nazionale” con alcune formazioni dell’opposizione. Negli ultimi giorni si sono moltiplicati soprattutto gli arresti di blogger e attivisti della rete. A ciò si aggiunge il permesso negato dalle autorità di Manama all’ingresso nel Paese del Rapporteur dell’Onu sulla tortura Juan Mendez, atteso in Bahrain questa settimana. “È stato un colpo durissimo per tutte quelle realtà della società civile che volevano presentare a Mendez un quadro preciso delle violazioni e degli abusi che sono commessi nel Paese”, ha detto al manifesto la giornalista Reem Khalifa. “Purtroppo - ha aggiunto Khalifa - dobbiamo constatare la scarsa attenzione del mondo verso la lotta che il popolo del Bahrain porta avanti da anni in nome della democrazia e dei diritti”. Brasile: per detenuti di Minas Gerais 3 giorni lavoro valgono 1 giorno di sconto della pena Ansa, 17 maggio 2013 Maglia e uncinetto in cambio di un futuro migliore. Succede in un penitenziario brasiliano, nello stato di Minas Gerais, dove i detenuti lavorano per conto di Raquell Guimaraes, un’imprenditrice locale a caccia di personale per far fronte alla domanda crescente, soprattutto per l’export. Guadagnano il 75 per cento del salario minimo (l’equivalente di poco più di 250 euro). Ma, incentivo maggiore, tre giorni di lavoro valgono un giorno di sconto della pena. Celio Tavares, finito in carcere per rapina, ha partecipato al programma e ora, in libertà provvisoria, studia e lavora: “È un progetto che aumenta l’autostima dei detenuti e apre le porte del mercato del lavoro a chiunque”. Sono 100 i carcerati che hanno preso parte al progetto dal suo inizio, 4 anni fa. E altri quindici sono in arrivo, a sostituire quelli rimessi in libertà. Pakistan: Governo annuncia rilascio 51 detenuti indiani, segnale di distensione tra Paesi Aki, 17 maggio 2013 Si susseguono i segnali di distensione in arrivo dal Pakistan nell’ambito delle sempre difficili relazioni con la vicina India. Il governo ad interim del premier Mir Hazar Khan Khoso ha annunciato l’imminente scarcerazione di 51 indiani, che hanno finito di scontare la pena in diverse prigioni del Pakistan. Si tratta di pescatori che erano stati sorpresi in acque contese. “Il premier ha espresso la speranza che il governo indiano replichi questo gesto e rilasci i prigionieri pakistani detenuti nelle carceri indiane”, si legge in una nota rilanciata dall’agenzia di stampa Dpa. Il primo ministro ha anche chiesto al ministero degli Esteri di Islamabad di “avviare il dialogo con l’India” per il rimpatrio dei 51 detenuti e per ottenere il rilascio dei pakistani rinchiusi nelle carceri indiane. Da anni pescatori indiani e pakistani finiscono in carcere con l’accusa di aver sconfinato in quelle che sono considerate acque territoriali dell’altro Paese. Nelle prigioni indiane, secondo la nota dell’ufficio del premier Khoso, sono rinchiusi 496 pakistani, mentre sono 482 gli indiani detenuti in Pakistan. La notizia dell’imminente scarcerazione dei detenuti indiani arriva a una settimana dalle elezioni politiche che in Pakistan hanno visto trionfare la Lega musulmana del Pakistan-Nawaz (Pml-N) dell’ex premier Nawaz Sharif. Il “Leone del Punjab” ha garantito che il miglioramento dei rapporti con l’India sarà tra le priorità del prossimo governo. Nelle sempre difficili relazioni tra Nuova Delhi e Islamabad, uno dei più recenti motivi di tensione sono state la morte dell’indiano Sarbjeet Singh, deceduto in seguito a un’aggressione subita in un carcere di Lahore, e la morte del pakistano Sanaullah Ranjay aggredito una prigione dello stato di Jammu e Kashmir. Germania: detenuto si sostituisce a compagno cella e riesce a evadere, “erano molto simili” di Paolo Lepri Corriere della Sera, 17 maggio 2013 “I due detenuti erano molto simili”, si è giustificato il direttore del carcere di Dresda, Ulrich Schwarzer, quando era ormai troppo tardi per rimediare. Un ungherese di 32 anni, arrestato per furto ma raggiunto da un secondo mandato di cattura per un reato più grave, è riuscito a sostituirsi al suo compagno di cella che doveva essere rimesso in libertà. I secondini venuti a prenderlo gli hanno consegnato i suoi effetti personali e lo hanno mandato a casa. Naturalmente ha fatto perdere subito le sue tracce. In prigione rischiava di rimanerci a lungo. Era accusato di aver fatto entrare illegalmente in Germania una ragazza di 15 anni per costringerla a prostituirsi. Un fenomeno in grande aumento, quello del traffico di donne dai Paesi dell’Est, che preoccupa ogni giorno di più l’opinione pubblica e le autorità tedesche. Come si annuncia solitamente in questi casi, “è stata avviata un’inchiesta”. Ma il direttore del carcere, secondo quanto ha scritto la Süddeutsche Zeitung, non ha riscontrato fino a questo momento “particolari negligenze”. “È la prima volta che mi capita una cosa del genere in trent’anni di lavoro”, ha dichiarato. Per rendere ancora più forte la somiglianza, il protagonista dell’inganno si era fatto tagliare i capelli esattamente come il complice-vittima che avrebbe convinto a lasciargli il posto. Gli agenti della polizia penitenziaria avevano a disposizione solo una fotografia per controllare le identità. Quella mattina, tra l’altro, era stato stabilito il rilascio di un ampio numero di detenuti. L’amministrazione della giustizia tedesca, intanto, è alle prese con un problema di dimensioni maggiori rispetto alla vicenda, sia pure dai risvolti clamorosi, dello scambio di persona del carcere di Dresda. In questo caso siamo a Berlino, dove i conti pubblici sono tradizionalmente in rosso e il Land rischia di dover sborsare alcuni milioni di euro che non ha. Sono infatti 318, ha scritto Der Spiegel, gli ex detenuti che chiedono di essere risarciti per le cattive condizioni in cui hanno vissuto durante il periodo di prigionia. Il settimanale di Amburgo cita il caso del cinquantaduenne Jochen Meier, che ha trascorso 659 giorni nel carcere di Moabit e in quello di Tegel e chiede 16.000 euro a titolo di compensazione. “Dovevo dormire con il cappotto a causa del freddo”, ha raccontato Meier, che ha citato nel suo ricorso anche i disagi provocati dalle celle anguste e dalla mancanza di pulizia. Tutto questo non sembra andare nella stessa direzione delle recenti polemiche sul nuovo carcere berlinese di Heidering, definito dalla stampa popolare “a cinque stelle”, e sui costi giornalieri troppo alti (problema che viene dibattuto frequentemente) per il mantenimento dei reclusi. Birmania: amnistia per 20 prigionieri politici, precede incontro presidente con Obama Tm News, 17 maggio 2013 La Birmania ha annunciato liberazione di più di 20 prigionieri politici oggi, quando mancano poche ore alla partenza per gli Stati Uniti del presidente Thein Sein che lunedì sarà ricevuto alla Casa Bianca da Barack Obama in uno storico incontro. L’amnistia è stata annunciata su Facebook e Tweeter da Zaw Htay, portavoce della presidenza e capo del gabinetto di Thein Sein, che ha tenuto a sottolineare che il provvedimento rientrava nel “processo politico” di riforme in corso nel Paese da due anni. “Il presidente birmano non utilizza i prigionieri politici come strumenti”, ha aggiunto, negando che la misura sia direttamente collegata al viaggio presidenziale. “La revisione dei prigionieri politici è un processo in corso. L’ultima decisione ne fa parte”, ha insistito Zaw. Centinaia di prigionieri politici birmani sono stati scarcerati in diversi momenti nell’ultimo un anno e mezzo. Lunedì il capo dello Stato sarà il primo leader birmano in visita ufficiale a Washington dall’incontro fra Ne Win e Lyndon Johnson nel lontano 1966. Il viaggio di Obama a Rangoon a novembre e la revoca di alcune sanzioni hanno suggellato lo spettacolare rilancio delle relazioni bilaterali. Il gruppo politico Generation 88 ha confermato all’Afp di essere stato informato della liberazione di 23 detenuti politici. Tunisia: morti alcuni detenuti salafiti in sciopero fame, media hanno ignorato vicenda Ansa, 17 maggio 2013 Alcuni giovani salafiti, detenuti da molti mesi nelle carceri tunisine, sono morti a causa di uno sciopero della fame ad oltranza. Lo ha reso noto il portavoce del movimento salafita Ansar al Sharia, Saifeddine Raies, nel corso di una conferenza stampa in cui ha pesantemente attaccato i media tunisini accusati di avere completamente e colpevolmente ignorato la vicenda. Secondo Raies, attualmente sono un centinaio i giovani salafiti detenuti in sciopero della fame. La protesta verte essenzialmente sulla richiesta di una definizione in tempi brevi dei processi che riguardano i salafiti, in maggioranza per atti di violenza.