Giustizia: carcerazione preventiva, obbrobrio da cancellare. Proposta di legge Pd-Sel di Pierluigi Magnaschi Italia Oggi, 14 maggio 2013 Attualmente, contro la posizione della Costituzione italiana sulla presunzione di innocenza e contro ciò che prescrive la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, in Italia è spesso possibile imprigionare un imputato senza che le sue responsabilità siano state accertate, sia pure anche solo in primo grado, attraverso un pubblico dibattimento, nel corso del quale accusa e difesa abbiano avuto la possibilità di confrontarsi pubblicamente in un’aula di tribunale. In pratica, il pm (con la foglia di fico del gip) può oggi incarcerare un cittadino sulla base delle sole sue imputazioni, che spesso sono anche solo sue supposizioni. Questa anomalia è devastante nei confronti degli inalienabili diritti della persona. Questo non è un problema di schieramenti politici ma di naturale e obbligata tutela della società di diritto che riguarda tutti e non solo gli appartenenti a un parte politica. Purtroppo, per una serie di circostanze, il centrodestra non può sperare di presentare e vedere approvate delle modifiche del codice di procedura penale di questo tipo perché tali richieste vengono oggi vissute come dei lasciapassare per Berlusconi. E d’altra parte, da sinistra, si è a lungo flirtato a favore del giustizialismo, visto come un grimaldello per far saltare l’antagonista che non si riesce a battere attraverso il voto. E quindi molto importante (una vera svolta) che adesso esponenti del Pd e del Sel abbiano presentato la proposta di legge n. 631 dal titolo: “Modifiche al codice di procedura penale in materia di misure cautelari personali”. La prima firmatrice è un ex magistrato del Pd, Donatella Ferranti, oggi presidente della Commissione giustizia della camera. Dietro di lei, ci sono le firme di Andrea Orlando, responsabile giustizia del Pd e di Gennaro Migliore, del Sei, nonché Giampiero Bocci del Pd. Ci sono poi altre 17 firme di deputati Pd. In questa proposta di legge si prevede che l’eventuale pericolo di fuga o di reiterazione di reato debbano essere, non solo “concreti” ma anche “attuali”. In carcere cioè può essere mandato solo l’imputato che, in quel momento, sta progettando la fuga o sta per compiere per la seconda volta il reato di cui è stato imputato. Giustizia: allarme hiv ed epatite nelle carceri, un detenuto su tre non sa di essere malato Corriere della Sera, 14 maggio 2013 La positività per il test di epatite C è del 28% dei detenuti, per l’epatite B del 7%, e il 3,5% per l’Hiv. Nelle carceri italiane due persone su tre sono malate e una persona su tre non è consapevole del proprio stato di salute. Parliamo di malattie infettive gravi: epatite, Hiv, tubercolosi, sifilide. Se ne è parlato in chiusura del quinto Congresso Nazionale Icar (Italian Conference on Aids and retrovirus) dedicato a Aids e Hiv, con 600 specialisti radunati al Centro Congressi del Lingotto a Torino. “La positività per il test di epatite C è del 28% dei detenuti, per l’epatite B del 7%, e il 3,5% per l’Hiv. Inoltre il 20% ha una tubercolosi latente e il 4% ha presentato test positivi per la sifilide - ha spiegato Evangelista Sagnelli, professore di Malattie Infettive alla Seconda Università di Napoli -. Il dato più preoccupante è che una persona su tre non è a conoscenza del suo stato di salute in relazione a queste infezioni: occorre quindi essere molto cauti per evitarne un’ulteriore diffusione”. Lo studio sulle carceri italiane è stato fatto dalla Simit (Società Italiana Malattie Infettive e Tropicali) e Nps (Network Persone Sieropositive) in venti istituti, su un campione pari al 60% dei detenuti, circa 2.700 persone. Al Congresso è stato ricordato come si sia ridotta la percentuale di nuovi casi di infezione di Hiv legato alla tossicodipendenza in relazione agli altri fattori di rischio: i Sert, infatti, riescono a contenere la diffusione, grazie a un accurato controllo dei soggetti tossicodipendenti. Aumentano invece i casi per diffusione sessuale, ad oggi la causa principale dei nuovi contagi. Secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità, dal 1985, escludendo le persone di età inferiore ai 15 anni diagnosticate con Hiv, si osserva un aumento costante dell’età media al momento della diagnosi di infezione, che è passata da 26 anni per i maschi e 24 anni per le femmine nel 1985 a, rispettivamente, 38 e 34 anni nel 2011. Nel 2010 la classe di età più rappresentata è quella 35-44 anni, nel 2011 quella 25-34 anni. La proporzione di donne era aumentata all’inizio degli anni 2000 ma negli ultimi anni sta diminuendo di nuovo. L’età media alla diagnosi dei casi adulti di Aids mostra un aumento nel tempo, sia tra gli uomini che tra le donne. Infatti, se nel 1991 la mediana era di 31 anni per i maschi e di 29 per le femmine, nel 2011 le medie sono salite rispettivamente a 44 e 42 anni. Nell’ultimo decennio, la proporzione di casi di Aids di sesso femminile tra i casi adulti è rimasta sostanzialmente stabile intorno al 23-25%. Le regioni con la maggiore incidenza sono, in ordine, Lazio (3,2%), Liguria (2,9%), Toscana (2,7%) e Piemonte (2,7%); quelle con il minor numero di casi Trentino Alto Adige (0,2%), Umbria (0,7%), Molise, Campania e Sardegna (0,9%). Giustizia: storia di Antonio, 31 anni, internato da 8 all’Opg per un’estorsione da 20 euro di Elisabetta Tomaiuolo (Associazione radicale Maria Teresa Di Lascia) www.statoquotidiano.it, 14 maggio 2013 “Chiudere gli Opg non vuol dire liberarsi del concetto di manicomio e internati”. Svoltosi sabato 11 maggio - al Tribunale di Foggia - il convegno “Chiusura Opg: verso il superamento dell’ospedale psichiatrico giudiziario” promosso dall’associazione radicale Mariateresa Di Lascia e dall’Unione delle Camere Penali, con il sostegno dell’associazione Legali di Capitanata e dell’Ordine degli Avvocati. Tra gli invitati l’assessore al welfare pugliese Elena Gentile. Lo scopo del convegno è stato quello identificare i ruoli e le responsabilità dei soggetti coinvolti in questo passaggio alle Regioni. Resta infatti il rischio che una volta chiusi i 6 Opg (con circa 1200 internati) presenti in Italia vengano istituiti nelle singole Regioni dei mini-manicomi, se non si riuscirà a variare la logica della presa in carico di soggetti che hanno commesso reati perché affetti da patologie psichiatriche. Nasce dunque la necessità di intavolare un dialogo tra le istituzioni competenti e gli esperti del settore che porti a delle “soluzioni concrete e degne di uno stato civile”. Con gli istituti penitenziari, gli Opg - nei quali, da anni, viene perpetrata la violazione dei diritti umani - rappresentando “la vergogna e l’umiliazione dello Stato italiano in Europa e nel mondo”, “risultato della degenerazione del sistema Giustizia”. “Uno Stato esso stesso reo nei confronti dei propri cittadini - come emerso nel tavolo di sabato - perché incapace di far rispettare le proprie leggi e garantire lo Stato di Diritto”. Il Senato, dopo l’inchiesta della Commissione Sanità, presieduta da Ignazio Marino, ha dichiarato che le condizioni di vita e di cura all’interno degli Opg sono attualmente incompatibili con le disposizioni costituzionali di diritto alla salute libertà personale e umanità di trattamento. È questa una situazione ormai riconosciuta da tutte le forze politiche, come riconosciuta è stata la necessità di intervenire, ma ad oggi non è stato intrapreso nessun percorso di riforma strutturale. Dopo i saluti iniziali dei rappresentanti delle associazioni, in cui il presidente della Camere Penali avv. Gianluca Ursitti ha espresso la vicinanza ai radicali nella battaglia sulla Giustizia e ha affermato il dovere morale della categoria degli avvocati di occuparsi degli ultimi e dei più deboli, si è entrati nel vivo degli interventi. Il magistrato di sorveglianza di Bari, Mastropasqua, dopo un excursus sull’origine giuridica del manicomio criminale, si è soffermato sulle competenze in materia di misure di sicurezza - il regime di detenzione a cui chi commette un reato deve essere sottoposto - attualmente attribuite totalmente alla magistratura di sorveglianza. Ad esso spetta stabilire il luogo più idoneo ad ospitare il condannato prosciolto. Di seguito è intervenuta la ex-parlamentare Rita Bernardini, da sempre impegnata sul fronte carceri. La Bernardini ha sottolineato la necessità che nelle nuove strutture che accoglieranno i detenuti con patologie psichiatriche il personale riabilitativo sia preponderante sul personale sanitario, finalizzato ad un reale reintegro e riabilitazione del paziente-reo. Ha inoltre sollevato il problema non solo della sorveglianza ma anche della scarsa vigilanza da parte dei magistrati. In maniera netta Bernardini ha affermato che i magistrati non assolvono al loro dovere ispettivo nell’accogliere le istanze dei detenuti e verificare le condizioni di detenzione, tanto che l’Italia è stata condannata ripetutamente dalla Cedu (Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) che ha ordinato allo Stato italiano a di ristabilire i diritti dei detenuti entro il gennaio 2014. Negli Opg infatti almeno il 40% degli internati non è più socialmente pericoloso, e potrebbe accedere a forme di cura alternative. Ma se queste situazioni non verranno accertate si potrebbero verificare i cosiddetti ergastoli bianchi, anche per reati banali, per cui una volta varcata la soglia dell’Opg il detenuto rischia di essere dimenticato senza alcuna speranza di uscire dalla struttura. Come nel caso di Antonio, racconta la Bernardini, “che è internato da 8 anni, per una denuncia di estorsione di venti euro, in seguito ritirata, da parte della nonna”. L’ex parlamentare ha infine auspicato che “il caso di Antonio diventi simbolo dello scandalo degli Opg” e che venga presto “intrapresa un’azione concreta in aiuto di questo ragazzo di 31 anni perché casi come questo non si verifichino più”. Lo psichiatra Danilo Montinaro di Psichiatria Democratica ha esordito con una frase riferitagli da un paziente internato; “siamo sagome trasparenti disegnate sulla parete di una cella”. Una frase simbolo della “condizione in cui si trovano a vivere i detenuti degli Opg, per i quali non esiste nessuna prospettiva di cura, sottoposti solo a sedazione contenitiva”. Lo psichiatria ha inoltre approfondito il concetto di “pericolosità sociale”: in molti casi “piuttosto arbitrario”, un “mezzo di controllo sociale di comportamenti percepiti come non giusti e non normali” come il caso riscontrato da Marino durante l’inchiesta di un internato da venticinque anni “per essersi mostrato vestito da donna fuori da un istituto scolastico”. Nel 20% dei casi i reati commessi da internati non sarebbero infatti di una “gravità tale da comportare il ricovero degli Opg e addirittura il 4% di essi sono privi di diagnosi psichiatra”, dunque non si sa nemmeno “il motivo per cui una persona ci finisca dentro”. Montinaro ha chiuso l’intervento con una carrellata di diagnosi improbabili che, in molti casi, “denotano la superficialità degli operatori”. L’intervento del dottor Tranfaglia - che esercita come psichiatra nel carcere di Foggia e Lucera - ha delineato il quadro delle casistiche e delle patologie psichiatriche con le quali bisogna confrontarsi all’interno del carcere, “che spesso sfociano in episodi di autolesionismo e tentativi di suicidio”. Quelli più comuni, e in forte aumento, riguardano disturbi della personalità e il senso di alienazione all’interno della società; c’è poi una serie di psicosi provocate dall’abuso di sostanze che richiedono un intervento non solo psichiatrico. La difficoltà maggiore all’interno del carcere sembrerebbe quella di “gestire un individuo già affetto da disagio mentale, che da un giorno all’altro, cioè dopo l’arresto, rischia di perdere i suoi punti di riferimento”. Nel 2006 la Regione Puglia ha infatti stanziato, con un decreto, delle risorse affinché l’assistenza sanitaria venisse integrata dai Csm “proprio per evitare una frattura traumatica nel percorso terapeutico”. Purtroppo, però, nella pratica ciò non avviene, “per la mancanza di risorse e la difficoltà dei colleghi a venire in carcere e mantenere i contatti con i detenuti”. “Sarebbe dunque auspicabile un maggiore coinvolgimento del territorio nel trattamento psichiatrico dei detenuti”. Tranfaglia ha concluso sostenendo che “l’istituzione di queste nuove strutture alternative agli Opg dovranno tener conto delle difficoltà di gestione delle patologie psichiatriche all’interno delle carceri, riconsiderando le modalità di cura perché queste persone ricevano un’assistenza adeguata.” Nonostante la comunicazione di “importanti impegni” all’incontro ha presenziato anche l’assessore alla Sanità regionale Elena Gentile. “Dal punto di vista delle responsabilità formali la Regione è pronta, le strutture sono state individuate e siamo al punto della progettazione. Tre in tutto - ha continuato la Gentile - una in provincia di Foggia, una a Brindisi, una a Taranto, per un numero di pazienti non superiore a 60”. Poche le indicazioni su modalità di gestione e tempi di realizzazione: la “configurazione del luogo che accoglierà gli internati non dovrà più rappresentare un luogo di detenzione - ha detto l’assessore regionale - ma dovrà cercare di offrire la percezione della sicurezza” - dato che “le comunità dove sono previste queste strutture sono spaventate” - “un luogo di cura nel quale avviare percorsi di integrazione e socializzazione, questa è la sfida che che mi propongo”. Conclusione del convegno al Garante dei detenuti della regione Puglia Piero Rossi: “la stortura degli Opg non risiede nel sistema legislativo - ha detto Rossi - l’istituzione totale è stupida, gli Opg non possono funzionare a meno che non ci siano risorse sufficienti e maggiore personale”. “Gli Opg devono chiudere perché c’è scarso controllo - ha continuato il garante dei detenuti regionale - e le Regioni devono essere pronte ad accogliere queste persone in istituti alternativi, mentre i territori dovrebbero recuperare l’orgoglio di accogliere persone che hanno avuto dei problemi e che ora sono cittadini come tutti gli altri e che per giunta hanno pagato più di quello che avrebbero dovuto. Questo si chiama welfare”. Questo primo incontro, con interventi autorevoli e qualificati, non ha certo esaurito una tematica complessa come quella della detenzione di individui affetti da malattia mentale, e si pone come un primo passo di un processo di monitoraggio, perché le istituzioni assolvano al loro dovere, e non si rendano colpevoli di continuare la vergogna degli Opg. Giustizia: taglio e cucito per ricominciare a vivere, il network delle cooperative di detenute di Andrea Rustichelli La Repubblica, 14 maggio 2013 Non carità, ma lavoro. È calzante la citazione con cui Silvia Venturini Fendi, presidente di Alta Roma, saluta la nascita del progetto Sigillo: il marchio di qualità, promosso e finanziato con 413mila euro dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Su questo brand convergerà la produzione tessile e di pelletteria realizzata nei reparti femminili di alcuni carceri italiani (una quindicina), tra cui Rebibbia. Una porzione non trascurabile di manifattura specializzata, che procedeva però in ordine sparso ed era per lo più rivolta a un mercato di nicchia. Sigillo, prima agenzia nazionale di coordinamento per il settore, esce invece dal contesto meramente solidaristico e punta sul mercato di serie A, come testimonia il sostegno di Alta Roma. L’obbiettivo è compattare la filiera e conferire ai suoi prodotti un posizionamento adeguato, lavorando su strategie e marketing. Uno spaccato di imprenditorialità femminile, forte oltretutto di una competitività pienamente made in Italy. “Il nostro laboratorio dentro Rebibbia è specializzato nella pelletteria, utilizziamo materiali riciclati per fare borse e altri articoli”, spiega Marilena Miceli, responsabile del progetto Sigillo per la cooperativa Ora d’Aria, che opera nel carcere romano. “Questa nuova iniziativa, a cui abbiamo aderito con entusiasmo, è molto utile perché porta commesse attraendole su un marchio uniforme, attorno al quale fanno rete tutti i carceri italiani coinvolti. Qui a Roma contiamo, così, di poter estendere le nostre attività, coinvolgendo sempre più detenute”. Un punto da sottolineare è il pieno statuto lavorativo che le donne in carcere vengono ad avere. “Il nostro laboratorio - spiega Miceli - esiste dal 1988 come associazione “Ora d’Aria”. Ma come cooperativa, conservando lo stesso nome, ci siamo costituite da due anni proprio per darci maggiore forza imprenditoriale: le detenute da noi sono socie fondatrici, perché siamo imprenditrici a tutti gli effetti, senza nulla togliere all’aspetto solidaristico”. Fa scuola il successo di un marchio come Made in carcere (che ora aderisce a Sigillo), frutto del lavoro delle detenute negli istituti di Lecce e Trani. La cooperativa di riferimento, animata da un’imprenditrice con un nome che sembra fatto apposta, Luciana Delle Donne, dal 2007 a oggi ha dato lavoro a un centinaio di detenute, con un fatturato annuo che in media si è attestato sui 300mila euro. Sigillo agisce anche a monte della filiera. Le donne beneficiarie del progetto, a Rebibbia come negli altri carceri che aderiscono, seguiranno percorsi di formazione professionale in ambito sartoriale. Si punta, infatti, al raggiungimento di standard qualitativi adeguati. “Dobbiamo fornire nuovi strumenti professionali alle imprese sociali - afferma Luisa Della Morte, direttore di Sigillo - affinché siano in grado di consolidarsi e crescere. Bisogna però abbandonare le logiche assistenzialistiche ed essere innovativi nelle proposte individuando forme di dialogo tra profit e non profit”. Lettere: la condanna dei figli di detenuti di Fabrizio Ravelli Corriere della Sera, 14 maggio 2013 Ricevo una mail che dice: “Il carcere, quello di San Vittore, e la mia infanzia si sono intersecati per tanti anni, tanti quanti gli anni di condanna dati a mia madre. Mi chiamo Greta e ho ventitré anni. Durante la mia infanzia non ho potuto avere la mamma vicina nei momenti più importanti perché era detenuta”. E racconta: “Varcare la soglia di questo antico carcere era difficile, ma i giorni più tristi erano tutte le occasioni di festa o importanti: il Natale, i compleanni, il primo giorno di scuola, le recite di fine anno, il ritiro delle pagelle. Mia mamma non era mai presente”. La realtà dura e semplice è dunque questa: “Essere figli di detenuti vuol dire subire una condanna per qualcosa che non si è commesso”. Oggi ai detenuti non è concesso di uscire dal carcere per essere presenti ad eventi importanti della vita familiare. L’unica eccezione è la morte di persone molto vicine al detenuto, ma anche in questi casi i divieti sono frequentissimi. Carenza di organici? Non solo. E comunque esiste un principio sancito dalla Carta Onu sui diritti del fanciullo: “Il bambino ha diritto di intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con entrambi i genitori”. E certo non si può dire che gli incontri in carcere siano qualcosa di sufficiente. Dice Greta, parlando della sua esperienza: “La sala colloqui di San Vittore non era predisposta per i bambini. I colloqui erano con tutti gli altri detenuti, tra me e la mamma c’era un tavolo di marmo freddo e non era permesso abbracciarsi”. Greta chiede di firmare una petizione per alleviare la condanna di tutti questi bambini, a cura dell’associazione Bambinisenzasbarre via change.org. Toscana: il Garante; emergenza sovraffollamento nelle carceri toscane è sempre più grave Asca, 14 maggio 2013 Lo ha detto il Garante regionale per i diritti dei detenuti Alessandro Margara, nella relazione tenuta in apertura della seduta speciale dedicata all’emergenza regionale conseguente all’eccessivo sovraffollamento degli istituti penitenziari. Nelle parole del garante numeri e ragioni di una crisi che strangola il sistema penitenziario nel nostro Paese, trascinando con sé le condizioni del regime carcerario in Toscana. Anche qui, ha ricordato Margara, la situazione è sostanzialmente identica al gennaio 2010 (anno della dichiarazione di stato di emergenza nazionale conseguente all’eccessivo sovraffollamento degli istituti penitenziari): all’epoca in Toscana erano detenute 4.334 persone in 3.233 posti, con un tasso di affollamento del 134 per cento. Oggi quel tasso è del 127,2 per cento ed è condizionato dalla crescita della capienza del sistema penitenziario, in Toscana pari a 331 unità (11 per cento, superiore rispetto al 6 per cento a livello nazionale). Ma questa crescita di capienza dipende, secondo Margara, da un diverso calcolo degli spazi disponibili quindi questi dati, pur diffusi dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, non appaiono attendibili. L’altro coefficiente che influisce sul tasso di affollamento, e cioè il numero delle presenze negli istituti di detenzione, anche per la Toscana appare in calo (2010: 4.664 presenze; 2013: 4.163), ma anche per essa vale la considerazione che le stesse forze dell’ordine non hanno più i mezzi necessari, perchè ne sono state private, per svolgere elficamente i loro interventi. La sintonia con l’andamento nazionale per quanto riguarda il calo degli ingressi nelle carceri toscane - un calo pari al 22 per cento tra il 2010 e il 2012 -, sarebbe comunque riconducibile, secondo il garante, alla consapevolezza del sovraffollamento da parte di chi opera gli arresti. Avellino: Sappe; nel carcere di Bellizzi Irpino l’acqua è razionata, intervenga il ministro www.irpiniaoggi.it, 14 maggio 2013 Nuovi problemi per le carceri della Campania, ed il primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, chiede l’intervento del Ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri. “L’apertura del nuovo padiglione detentivo all’interno del carcere di Avellino, che ha visto aumentare i detenuti da 450 a 650 unità, ha mandato in tilt la fornitura dell’acqua ed i poliziotti sono costretti a chiudere l’acqua in determinate fasce orarie della giornata per consentire all’impianto idrico di riacquistare pressione per la successiva erogazione con evidente malessere presso la popolazione reclusa, destinato a crescere nella imminente stagione estiva con ricadute sul piano della sicurezza e delle condizioni igienico-sanitarie”, spiegano il Segretario Generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe Donato Capece ed il Segretario Nazionale Emilio Fattorello, che questa mattina hanno incontrato a Roma la Vice Capo Dipartimento Amministrazione Penitenziaria Simonetta Matone. “Sarebbe opportuno procedere quanto prima ad uno sfollamento della vecchia struttura, al fine di allentare la tensione detentiva: non si può prescindere dall’impellente esigenza di fornitura dell’acqua costante e proporzionata ai fabbisogni della popolazione detenuta, che vede la presenza anche della sezione detentiva femminile in cui sono presenti i bambini. Esigenza ovviamente avvertita anche dal personale del Corpo di Polizia Penitenziaria e da quello amministrativo”. Il Sindacato più rappresentativo dei Baschi Azzurri chiede l’intervento del Guardasigilli anche per altre criticità del nuovo reparto detentivo, operativo dal maggio 2012: a cominciare dalla carenza di poliziotti (“100 in meno rispetto agli organici previsti”) e dalla precarietà degli attuali sistemi di sicurezza e vigilanza della struttura. Il Sappe, nella nota al Ministro della Giustizia, sottolinea anche “come analoghe disfunzioni si presenteranno in relazione alla prossima apertura del nuovo padiglione detentivo annesso al carcere di Santa Maria Capua Vetere con particolare riferimento alla fornitura dell’acqua già compromessa da un impianto idrico inadeguato, a cui si accompagna il fenomeno della non potabilità dell’acqua, come da accertamenti compiuti dall’Arpac”. Teramo: i Radicali svelano la lettera-denuncia delle detenute Il Centro, 14 maggio 2013 I radicali tornano a denunciare le condizioni in cui vivono i detenuti nel carcere di Castrogno, uno dei più sovraffollati del Paese. Lo fanno con una lettera denuncia, che oggi renderanno pubblica nel corso di una conferenza stampa, scritta da alcune recluse nel penitenziario teramano. Nella lettera le donne segnalano carenze nell’assistenza sanitaria, a cominciare dalla distribuzione dei farmaci. “Nella lettera le donne scrivono una frase che dice tutto”, racconta Vincenzo Di Nanna, referente regionale di Amnistia, Giustizia e Libertà, “scrivono se non riuscite ad immaginare l’inferno veniteci a trovare: questo è il girone dei senza speranza”. I radicali, che più volte hanno lanciato l’allarme sulle condizioni della struttura teramana, tornano a parlare del carcere dopo l’ennesima morte di un detenuto: qualche giorno, fa, infatti, è morto un recluso di 73 anni stroncato da un infarto in una cella del reparto protetti. “Il numero dei morti a Castrogno”, scrive Di Nanna, “sale a 14 e raggiunge un triste primato nazionale”. Morti in carcere: Di Nanna (Agl): “A Teramo la situazione è grave” Il dato più eclatante emerso dall’odierna conferenza tenuta dai radicali della lista Amnistia, Giustizia e Libertà è che nel carcere di Castrogno c’è un maggiore tasso di mortalità rispetto a quello di Roma. A Rebibbia, che ha una popolazione tre volte superiore alla struttura penitenziaria teramana, si muore di meno. Sono tre le persone decedute dall’inizio del 2013 a Castrogno, in un edificio che prevede 270 detenuti ma che ne ospita 420. Detenuti controllati da un insufficiente numero di personale addetto. La denuncia è del referente regionale di AGL, Vincenzo Di Nanna, che in conferenza si è soffermato sul contenuto della lettera di un gruppo di detenute di Castrogno: “Rivolgiamo un appello a chi di dovere - ha ripetuto Di Nanna - affinchè sia dato impulso alla nostra legge sull’amnistia con la quale affrontare il problema dell’affollamento delle carceri. Oggi è la depressione la principale causa di morte negli istituti di pena”. Presenti in conferenza anche Filomena Gallo (segretario dell’associazione Luca Coscioni), Ariberto Grifoni (referente regionale Agl) e Rosa Quasibene, segretario di Radicali Abruzzo. Brescia: a Canton Mombello ristrutturato un reparto che ospiterà una ventina di detenuti www.bsnews.it, 14 maggio 2013 Non è la soluzione del problema, che rimane gigantesco, ma se non altro servirà a migliorare significativamente le condizioni di vita di una ventina di persone. È stata inaugurata ieri una nuova ala all’interno del carcere cittadino di Canton Mombello, un settore in grado ora di ospitare detenuti che potranno usufruire di spazi condivisi dalle 7 alle 21, tutti i giorni, ed avere nelle celle doccia e frigorifero. La cosa stupefacente è che il nuovo reparto è stato ricavato da una vecchia ala per detenuti speciali, in isolamento, grazie ai contributi di tanti anonimi benefattori bresciani: sono stati raccolti quasi centomila euro, l’amministrazione carceraria ha dovuto solo sborsare 700 euro. L’ala ristrutturata grazie all’impegno dei privati e della direzione carceraria era praticamente abbandonata da anni, cosa assai riprovevole in una struttura cronicamente sovraffollata. L’inaugurazione del nuovo reparto è avvenuta all’interno dell’incontro per fare il punto della situazione sulle carceri (leggi la notizia), durante il quale sono state trattate tante delle problematicità che affliggono da anni la struttura di Canton Mombello, che ormai ha quasi cento anni di storia alle spalle. Brescia: un grande passo per il carcere, ma ricordiamoci anche di chi ieri protestava di Carlo Alberto Romano (Presidente Associazione Carcere e Territorio) Corriere della Sera, 14 maggio 2013 Il battito delle sbarre e di altri oggetti di metallo da parte dei detenuti risuona forte mentre la delegazione delle persone invitate dalla Direzione é intenta a visitare il reparto ristrutturato di Canton Mombello e destinato ad essere utilizzato come “sezione a regime aperto”: simbolica ed efficace rappresentazione del mondo penitenziario, diviso fra sempre più improcrastinabili soluzioni al problema del sovraffollamento e una quotidianità fatta ancora da molte, troppe, persone detenute in cerca di identità, la cui unica prospettiva di affermazione, appare essere, almeno per qualche istante, quella della invadenza acustica. La strada è quella giusta: il raccordo fra l’istituzione pubblica e le risorse presenti sul territorio per realizzare un reparto ove la detenzione possa evitare di produrre quella afflittività costituzionalmente non prevista, ma sempre più spesso presente (come la corte europea dei diritti dell’uomo ci sta da tempo dicendo) che è il sacrificio della dignità. La sorveglianza dinamica è uno strumento concreto, indicato dalle esperienze più avanzate in Europa e auspicato dall’Amministrazione penitenziaria, che non consiste solo nella riperimetrazione degli spazi disponibili, comunque necessaria, ma si muove nella direzione del reperimento di risorse trattamentali presenti nel territorio e introdotte in carcere con la necessaria adesione del personale che in carcere ci lavora, polizia penitenziaria in primis. E in questo senso l’apertura del reparto a regime aperto pone Canton Mombello in linea con gli orientamenti più evoluti, consentendo di avviare una iniziativa che si spera possa essere d’esempio anche per altri Istituti, non solo della nostra regione. Dalle parole del vice Capo del Dipartimento è del resto emerso con chiarezza come questa sia una scelta quasi obbligata: la costruzione e gestione di nuove carceri appare una strada sempre meno praticabile e deve essere affiancata (o forse sostituita) dalla restituzione di funzionalità al sistema penitenziario, comprendendo quelle opportunità già oggi disponibili, come per esempio la Giustizia riparativa ancora decisamente e incomprensibilmente sottoutilizzata nel nostro Paese. Quelle sbarre battute però ci dicono che dobbiamo fare in fretta, dobbiamo adottare ogni strumento per diminuire il livello di problematicità della reclusione, all’interno della quale l’affollamento è solo uno degli elementi più vistosi e dobbiamo riuscire a dare risposte a tutti e non solo al selezionato gruppo di detenuti per i quali si spalancheranno le porte del reparto presentato ieri a Canton Mombello. Lo dobbiamo fare perché ci ha messo in mora la Cedu, e il fronte delle centinaia di ricorsi per un anno chiusi nel cassetto è pericolosamente prossimo; lo dobbiamo fare per ridurre il rischio di recidiva, consegnando ai cittadini un rinnovato senso di fiducia nei confronti dell’esecuzione della pene; lo dobbiamo fare soprattutto per ridare una speranza a migliaia di persone, il cui reinserimento sociale può e deve iniziare nel rispetto dei diritti altrui, che Lo stato esige ma che deve essere anche in grado di dimostrare. Pavia: uno spazio in carcere per incontri tra padri e figli, finanziato con spettacolo teatrale La Provincia Pavese, 14 maggio 2013 Un luogo in cui incontrarsi senza sbarre e senza lucchetti, con i colori alle pareti, librerie e tavoli, più simile a una casa che al carcere. È lo spazio in cui, all’interno della Casa circondariale di Torre del Gallo, i padri detenuti possono incontrare i loro figli. Una volta alla settimana. Il progetto, fortemente voluto dalla direttrice Iolanda Vitale, viene realizzato in collaborazione con Comune e Provincia e con l’associazione Synodeia (un centro di consulenza psicologica). Per finanziarlo è stato organizzato uno spettacolo teatrale, un “Gran galà di magia” che si terrà sabato 1 giugno alle 15 al teatro della casa circondariale sulla Vigentina. La prevendita (alla sala Politeama, tel. 0382.3011980) è già iniziata e si concluderà il 27 maggio. Posto unico 5 euro. “È un’occasione per avvicinare la città al carcere e per sostenere un progetto in cui crediamo molto” spiega la direttrice Iolanda Vitale. Al mattino i maghi si esibiranno per i detenuti e al pomeriggio per la città che è invitata a partecipare. Il progetto “Ti presento la mia famiglia: promozione di una genitorialità responsabile in carcere” è partito nell’ottobre del 2012 e permette ad un gruppo di detenuti di riflettere sulla propria condizione di padre attraverso gruppi di auto mutuo aiuto che si tengono con gli psicologi di Synodeia ogni settimana e incontri strutturati con le famiglie a cadenza mensile nel teatro del carcere. Gli incontri di gruppo sono stati orientati a raccogliere il disagio mostrato dai padri nella relazione con i figli, dettata in alcuni casi da un abbandono in una fase critica dello sviluppo, dall’altra dalla mancanza della relazione paterna fin dalla nascita del bambino, vissute quindi all’interno del contesto carcerario. “Attraverso questo percorso, di successo anche per il forte coinvolgimento emotivo e motivazionale del gruppo, si è evoluto il concetto di paternità e genitorialità, con una riflessione rispetto ad uno sviluppo sano dal punto di vista psicofisico del proprio figlio” spiegano gli organizzatori. All’interno del teatro dell’istituto le famiglie si sono riunite mensilmente, per dare possibilità ai genitori padri di mettere a frutto i contenuti delle riflessioni nei gruppi, fornendo anche agli specialisti un buon strumento di osservazione delle dinamiche interne alla famiglia. Lo spazio famiglie ha inoltre costituito per madri e figli la possibilità di incontri strutturati in un contesto informale e molto simile a quello quotidiano, in cui poter svolgere insieme attività laboratoriali e ludico espressive. Caserta: dall’Associazione “Sostegno Solidale”, interventi a favore dei detenuti www.campanianotizie.com, 14 maggio 2013 L’Associazione S.O.S. “Sostegno Solidale”, con un impegno costante verso i cittadini - volto ad offrire servizi di sportello legale, consulenza psicologica solidale, vestiario solidale, e occupandosi, inoltre, di casi di donne vittime di violenza - attraverso un’intervista rilasciata dalla responsabile dell’Associazione, dott.ssa Esposito Angela Palma, comunica un fondamentale evento di sensibilizzazione sociale. Grazie all’aiuto della diocesi di Sessa Aurunca, infatti, l’Associazione è riuscita nell’intento di risoluzione di un problema familiare. Si tratta della reintegrazione sociale di un uomo, condannato in precedenza a scontare una pena carceraria, reinserito in un contesto rieducativo, al fine di scontare gli ultimi mesi della pena, attraverso, appunto, una “pena rieducativa”, fuori dal carcere. La Dott.ssa, ha sottolineato l’impegno dell’Associazione riguardo alla vicenda: “S.O.S. si è occupata in prima persona del caso in questione, prendendo provvedimenti alternativi di sostegno, anche per la moglie dell’uomo”. Le iniziative dell’Associazione, radicate sul territorio di Falciano del Massico, Mondragone e Calvi Risorta, ma in espansione anche nella zona di Sessa Aurunca, si contraddistinguono per il dogma “Impegnarsi per il sociale è un dovere”, motto di presentazione della dott.ssa Esposito che, tra l’altro, è Responsabile dell’A.N.T. In realtà, si sta assistendo ad una fitta rete di iniziative. Tra le tante ricordiamo la stretta collaborazione con Don Luigi Merola, col quale l’associazione ha indetto, prossimamente, la presentazione di un libro a favore del diritto d’infanzia contro la camorra, nel comune di Calvi Risorta. In agenda, inoltre, l’apertura della nuova sede falcianese (attualmente presso Villa luise), corrispondente della quale Annamaria Palmieri Presso Villa Luise, in corso Oriente, unita a progetti alternativi che hanno lo scopo di rivalorizzare la stessa Villa. La Dott.ssa, infine, ha rivolto parole di riconoscimento verso le forze dell’ordine, dalle quali l’Associazione ha, e continua a ricevere, il sostegno necessario: “vorrei ringraziare sentitamente il Comandante dei Carabinieri di Mondragone Lorenzo Iacopone; i Vigili Urbani del Comune di Falciano del Massico,il Comandante della Guardia di Finanza Marco Biondi, il Comandante dei Carabinieri di Mondragone Giovanni Graziani; il responsabile dell’area di vigilanza di Falciano del Massico Bernardo Scialò, ed Questore del Carcere di Carinola Egidio Giramma, schierato favore dei detenuti”. Ricordiamo che tutti i progetti dell’Associazione sono autofinanziati, contando numeri che si aggirano intorno alle 250 attività annue (tra iniziative di visite oncologiche, visite mediche ed informazione solidale), con 1.100 tesserati tra Mondragone, Calvi Risorta e Falciano del Massico. Con il suo cartellino da visita, l’associazione S.O.S. sembra rappresentare una vera e propria risorsa sociale per il nostro Comune e per buona parte del territorio ad esso circostante. Bari: Cospe; aggressioni nel carcere di Turi, scarsità di personale penitenziario www.turiweb.it, 14 maggio 2013 Il Coordinamento Sindacale Penitenziario - denuncia che presso la terza Sezione detentiva adibita a Centro Clinico che ospiterebbe all’incirca 18 reclusi di patologie diverse anche mentali un Agente del Corpo della Polizia Penitenziaria è stato aggredito violentemente da un recluso. Presto soccorso dal restante personale di servizio è poi stato ricoverato d’urgenza presso il più vicino Ospedale per le cure mediche. L’Agente di polizia Penitenziaria è stato colpito con inaudita brutalità da una testata al volto dal recluso in escandescenza per futili motivi. Il carcere di Turi nei giorni scorsi è stato teatro di altri analoghi episodi di aggressività ma di meno sempre ai danni della polizia penitenziaria che qui lavora in un sotto organico di almeno trenta unità. Attualmente sarebbero solo 98 poliziotti su una dotazione organica pari a 130 agenti di polizia penitenziaria e mancano per l’appunto 32 unità necessaria per mantenere l’ordine, la disciplina, la sicurezza ed il Nucleo Traduzioni e Piantonamenti. Il Carcere di Turi che fu residenza detentiva partigiana del già Presidente Sandro Pertini e di altri Storici dell’Italia del dopo Guerra su una capienza regolamentare di 112 posti letto si manterrebbe oltre il numero di 160 detenuti gran parte allocati presso il Centro Cinico per motivi di cure provenienti da altri istituti della repubblica. I Poliziotti a Turi si lamentano anche dell’attuale gestione mensa obbligatoria di servizio spettante per pranzo e cena agli operatori della Sicurezza, come si lamentano sulla qualità e quantità del cibo servito tanto che sempre nella giornata di ieri sarebbero scattati operazioni di Polizia Giudiziaria e sequestro cautelativo di merce apparentemente scaduta ed i cui controlli saranno effettuati presso il laboratorio Sanitario esterno nella giornata di lunedì p.v. per accertamento. La Puglia mantiene ancora oggi una situazione di sovraffollamento 4.100 detenuti su una capienza di 2.459 posti letto regolamentari. I Poliziotti sarebbero 2.448 mentre servono almeno un incremento di 600 tra Uomini e Donne per le diverse Carceri ed attività di polizia penitenziaria. Preoccupazione viene esternata dal Coordinamento Sindacale Penitenziario CO.S.Pe. su quanto accade a Turi e su quello che si verificherebbe presso la Mensa nonostante elevata e particolare sia stata la sensibilità e l’attenzione dell’Autorità dirigente Turese alle sollecitazioni immediate dei dipendenti di polizia. Piacenza: il “Jazz Fest” entra al carcere delle Novate con lo Spirit Gospel Choir www.piacenza24.eu, 14 maggio 2013 Nell’ambito della decima edizione della manifestazione “Piacenza Jazz Fest”, l’Associazione culturale “Piacenza Jazz Club” è lieta di proporre per il quinto anno consecutivo l’ormai tradizionale concerto jazz alla Casa Circondariale di Piacenza, organizzato con il supporto della Direzione dell’Istituto e in collaborazione con l’Associazione di volontariato penitenziario “Oltre il muro”. L’iniziativa, che gli anni scorsi ha riportato un alto indice di gradimento da parte dei detenuti, è coerente con l’intento degli organizzatori, che fin dalla prima edizione del festival si prefiggono di portare il jazz in ogni luogo della città, anche nelle realtà più disagiate. Mercoledì 15 maggio 2013 il “Piacenza Jazz Fest”, entrerà, dunque, alle “Novate”, con il concerto dello Spirit Gospel Choir diretto da Andrea Zermani e Annachiara Farneti, riservato ai detenuti e in programma alle ore 13.00. I musicisti e gli organizzatori saranno accompagnati all’interno dell’Istituto da Valeria Viganò Parietti, dell’Associazione “Oltre il Muro”. Lo “Spirit Gospel Choir”, che è già stato protagonista di un bel concerto nella Basilica di Sant’Antonino nell’ambito delle iniziative denominate “Aspettando il Jazz Fest”, è nato dall’iniziativa di un gruppo di amici, legati dalla passione per la musica e dalla convinzione dell’enorme potere che essa possiede nell’arrivare diritta all’anima e canta la “parola di Dio” (“God spell”) attraverso sonorità coinvolgenti e ritmiche, ma anche melodiche e meditative. Il coro si presenta ai detenuti con una trentina di elementi, diretti da Andrea Zermani, musicista, musicologo e co-direttore dei corsi della “Milestone School of Music” di Piacenza. La cura delle voci è affidata ad Anna Chiara Farneti, cantante, musicologa, canto-terapeuta ed esperta nelle diverse applicazioni della voce, in ambito sia artistico, sia olistico. L’intento, peraltro riuscitissimo, dello “Spirit Gospel Choir” è di arrivare a toccare i cuori di tutti coloro che ascoltano, inducendo un’emozione reciproca attraverso il canto, l’armonia, l’energia dell’amore e della gioia, la condivisione di un unico sentimento. In scaletta diversi brani provenienti dalla tradizione “Gospel” e “New Gospel”. Libri: intervista a Annalisa Chirico autrice di “Condannati preventivi” (Ediz. Rubbettino) di Gaetano Veninata Public Policy, 14 maggio 2013 La custodia cautelare (o meglio: la carcerazione preventiva) è diventata “un antidoto alla lentezza dei processi e uno strumento per estorcere di fatto delle confessioni”. La giustizia italiana è “un manicomio” e le riforme sono impossibili perchè l’Anm (Associazione nazionale magistrati) è “la corporazione più potente in Italia”. Questo il ritratto, sintetico e secco, che Annalisa Chirico (classe 1986, radicale e giornalista) fa della giustizia italiana in “Condannati preventivi - Le manette facili di uno Stato fuorilegge” (edizioni Rubbettino). La incontriamo alla Luiss durante un incontro sul libro, alla presenza, tra gli altri, di Giuliano Amato e Paolo Mieli. Carcerazione preventiva, di che numeri parliamo? Al 30 aprile 2013, su una popolazione carceraria di 66mila detenuti, un 40% si trova in carcerazione preventiva. Una percentuale abbastanza stabile, tra persone che attendono il giudizio di primo grado e persone che attendono il giudizio di secondo grado in Cassazione. Perchè si è arrivati a questo punto? C’è stata una deformazione, una metamorfosi di questo istituto: da istituto di tutela delle indagini è diventato uno strumento di anticipazione della pena a fronte della lentezza dei processi. In qualche modo è diventato un antidoto alla lentezza dei processi ed è diventato uno strumento per estorcere di fatto delle confessioni. Esiste una data simbolo dell’inizio di questa metamorfosi? Negli anni Settanta abbiamo avuto questo uso abnorme della carcerazione preventiva legata agli anni del terrorismo, il caso di Giuliano Naria è il più lungo della storia repubblicana (attivista di Lotta continua, nel 1976 fu accusato di aver partecipato all’attentato compiuto dalle Br al giudice Francesco Coco; rimase in prigione per 9 anni e 16 giorni e fu rilasciato nel 1986. Fu assolto definitivamente con formula piena solo all’inizio degli anni novanta. Morì di tumore nel 1997; ndr). Poi negli anni di Tangentopoli è tornato questo uso criminale della carcerazione preventiva, l’emergenza non era più il terrorismo ma la corruzione politica. Anche in questi giorni, dopo il caso Enzo Tortora, ci rendiamo conto che in realtà, a distanza di 30 anni, davvero poco è cambiato. Notizia di questi giorni, il caso di Danilo Coppola, imprenditore accusato di bancarotta fraudolenta che si è fatto 2 anni di carcere inclusi 100 giorni di isolamento ed è stato poi assolto in appello perchè il fatto non sussiste. Questo significa che la giustizia italiana è diventata un manicomio dove è più facile entrare in carcere prima della condanna e poi uscire magari una volta che la condanna viene emanata. Che ne pensi di come i media si occupano di giustizia? I media hanno una grande responsabilità: la ricerca del sensazionalismo, uno strisciante giustizialismo di cui Il Fatto Quotidiano è l’esempio più emblematico. La stampa sbatte in prima pagina le carte dell’inchiesta come fossero una verità già stabilita mentre si tratta solo di una parte del processo: l’accusa. Il problema è che si fanno inchieste dove le persone vengono lapidate e se poi vengono assolte c’è solo un trafiletto che non serve a ripristinare un’immagine irrimediabilmente lesa. Nel libro parli anche del fallimento del braccialetto elettronico, introdotto in Italia solo in forma sperimentale mentre in altri paesi funziona… È una questione di non volontà, di attitudine culturale dei magistrati. L’ho chiesto anche a ex ministri della Giustizia e a magistrati, e nessuno riesce a dare una spiegazione chiara. Perchè fondamentalmente la spiegazione non c’è. Noi abbiamo dato un contratto multimilionario a Telecom per realizzare dei braccialetti elettronici e alla fine ne sono stati utilizzati 10 in fase sperimentale e sulla base di qualche disfunzione che c’è stata si è deciso di abbandonare questo strumento. Non basta, è ovvio, come non bastano i domiciliari: è l’idea che il carcere sia la panacea di una giustizia che non funziona a dover cambiare. I processi durano a lungo e molto spesso vanno in prescrizione, e di fronte a una giustizia in bancarotta il rimedio è mettere la gente in carcere e così dare l’idea che in qualche modo si stia facendo giustizia. Partiamo dall’amnistia. E poi? L’amnistia deve essere adottata per far entrare lo stato italiano nella legalità. La Cedu (Convenzione europea dei diritti dell’uomo; ndr) ci ha sanzionato dicendo che nelle nostre carceri c’è una pratica di tortura. Questo vuol dire che per far rispettare la legge lo Stato italiano deve innanzitutto rispettarla per primo. Per quanto riguarda una riforma complessiva della giustizia: ancora oggi ho sentito Nitto Palma (Pdl, presidente della commissione Giustizia al Senato; Ndr) dire che è tempo di occuparsi della crisi economica. È un refrain che va avanti da sempre, con motivazioni diverse. E la riforma viene di volta in volta superata. Ma non bisogna dimenticare che l’Anm è la corporazione più potente in Italia. Che tipo di riforma immagini? Io vorrei una riforma all’americana: separazione delle carriere; responsabilità civile dei magistrati, un referendum tradito su cui gli italiani si erano espressi a gran voce e poi c’è stato il niet della politica; e sicuramente una riforma sostanziale della carcerazione preventiva, che dev’essere extrema ratio, come prevede il codice di procedura penale e non può essere ridotta a panacea di tutti i mali. Libri: “Cucinare in massima sicurezza”… e con i lacci delle scarpe si lega la pancetta di Giulia Basso Il Piccolo, 14 maggio 2013 All’epoca degli stampi per dolci in silicone e del forno combinato, di Masterchef e della Prova del cuoco, è difficile pensare a un manico di scopa usato come mattarello o ai lacci delle scarpe che legano la pancetta arrotolata per la stagionatura. Eppure nelle carceri italiane, al cui interno si trovano anche ottimi cuochi, sono questi gli utensili da cucina più gettonati. Lo racconta Matteo Guidi nel suo volume “Cucinare in massima sicurezza”, edito da Stampa Alternativa/Nuovi Equilibri di Viterbo, che verrà presentato alle 18 al Double Room arti visive di via Canova 9. Prima tappa di un progetto che farà poi il giro d’Italia in 12 città, la presentazione del libro di Guidi, ideato e scritto insieme a un gruppo di detenuti, sarà arricchita da una mostra di disegni di Mario Trudu, a cura di Gino Gianuizzi dello spazio Neon di Bologna. Libro e disegni sono un tutt’uno, il risultato di una serie di laboratori condotti nel 2009 da Guidi all’interno della sezione di alta sicurezza del carcere di Spoleto con un gruppo di persone detenute, il MoCa collective, acronimo di Mondo Carcerario, che prende nome dalla caffettiera, la moka appunto, oggetto multitasking per eccellenza nelle carceri dello Stivale. Guidi, autore e curatore del libro, è infatti un artista con una formazione in comunicazione visiva ed etno-antropologia, che focalizza la sua ricerca sulle azioni quotidiane, osservate però in situazioni di forzata esclusione sociale e in ambienti caratterizzati da alti livelli di controllo sulla persona. Il libro “Cucinare in massima sicurezza” e i disegni in mostra, che illustrano ricette e utensili, raccontano per parole e immagini i metodi usati nelle celle per cucinare con le poche risorse disponibili. In ogni ricetta, prima ancora della lista degli ingredienti, c’è quella degli strumenti per realizzarla. Gli utensili da cucina, che nei ricettari sono solitamente omessi, diventano qui il filo conduttore dell’intero lavoro: se ne descrive sia la costruzione, sia l’utilizzo. Sono oggetti semplici, che acquistano nell’uso un nuovo valore: il manico di scopa diventa appunto matterello, i lacci delle scarpe legano la pancetta, il televisore facilita la lievitazione del pane o della pizza, l’armadietto o lo sgabello sono trasformati in un buon forno. Nella cornice della cucina il libro e la mostra rileggono le difficoltà della vita da reclusi, ma anche le capacità e l’impegno spesi per migliorare la scoraggiante esperienza della detenzione, se non altrove, almeno a tavola. L’autore dei disegni, realizzati a penna a sfera nera su carta, è egli stesso un detenuto nella sezione di alta sorveglianza della casa di reclusione di Spoleto. Mario Trudu, nato nel 1950 in Sardegna, prima della sua carcerazione era allevatore. Arrestato nel 1979, è detenuto da quasi 32 anni, interrotti da 10 mesi di latitanza. Deve scontare una condanna all’ergastolo: nel frattempo si è diplomato all’Istituto d’arte e ha composto la sua prima autobiografia. La mostra, che raccoglie una ventina di suoi disegni originali, nasce dalla necessità di dare visibilità alle doti nascoste dietro le mura delle carceri. Si concluderà sabato 18 maggio alle 18, con una tavola rotonda sul rapporto fra detenzione e creatività con la partecipazione di Pino Roveredo e in compagnia dell’autore del libro, del curatore della mostra e dei principali attori che operano nel mondo delle carceri del nostro territorio, Duemilauno Agenzia sociale e Reset Cooperativa sociale. Immigrazione: al Cie di Modena situazione allarmante, sta per mancare assistenza medica www.modena2000.it, 14 maggio 2013 Il 10 maggio, Desi Bruno, Garante delle persone private della libertà personale della Regione Emilia-Romagna, si è di nuovo recata in visita al Cie di Modena dove la situazione, già critica, sta precipitando. Dall’inizio della gestione del centro da parte della consorzio L’Oasi (1 luglio 2012), a seguito di gara al massimo ribasso, si sono avvicendati diversi direttori, sino alla nomina, sempre come direttore, della dirigente sanitaria già assunta da L’Oasi. A prescindere dalla straordinarietà del doppio ruolo, che ha creato confusione anche nelle persone trattenute, e dalla riconosciuta abnegazione con cui l’attuale direttrice ha operato, la stessa ha formalmente comunicato le proprie dimissioni irrevocabili a far data dal 9 maggio, anche per il mancato pagamento di alcune mensilità di lavoro. In questi mesi, per lo stesso motivo, si erano già allontanati i medici e gli psicologi impiegati presso il Cie, rimasto del tutto privo dell’assistenza psicologica adeguata, come invece prevede il capitolato di appalto. Molte delle persone trattenute assumono farmaci (anche metadone), alcuni presentano serie patologie. Il personale dipendente di L’Oasi ha più volte protestato per il mancato pagamento degli stipendi, e anche oggi attendono di riscuotere le ultime mensilità. A ciò si aggiunge che spesso il Centro è stato sprovvisto di risorse per il soddisfacimento delle necessità elementari delle persone trattenute. L’attuale direttrice, su richiesta del rappresentante della Prefettura presente alla visita, ha dato la disponibilità a rimanere ancora una settimana e cioè sino a venerdì 17 maggio, per evitare ulteriori disservizi e scongiurare il fatto che il Centro rimanga del tutto privo di assistenza sanitaria. Desi Bruno, nel segnalare quanto verificato nell’ultima visita, ha scritto alle Autorità competenti che l’ente gestore è stato ripetutamente sollecitato a far fronte a una situazione che mette a repentaglio la sicurezza di tutte le persone presenti - trattenuti e operatori - ma non ha mai dato segnali concreti di buona gestione. Da qui a pochi giorni, potrebbe mancare del tutto l’assistenza sanitaria, dopo la scomparsa di quella psicologica. Di questa situazione sono stati informati mediatori culturali e operatori di polizia presenti alla visita effettuata dalla Garante. Avvertendo tutta la criticità della situazione, la Garante si recherà di nuovo al Cie di Modena il prossimo 17 maggio, venerdì. Droghe: Susanna Marietti; dal proibizionismo al repressionismo? occorre discontinuità Il Manifesto, 14 maggio 2013 Il tema delle droghe riguarda la politica, la giustizia, l’etica. Riguarda lo Stato e gli enti locali. È un tema complesso, oggi trattato con le armi semplificate della repressione. Non è un caso che il nuovo governo voglia affidarne la delega al ministro degli Interni. Ne parliamo con Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Antigone e candidata indipendente nelle liste di Sel al Comune di Roma. Si discute della delega alle politiche antidroga nel governo. San Patrignano chiede di dare continuità all’attività del Dipartimento capeggiato oggi da Serpelloni. Da un punto di vista interno al carcere, e su questa questione, cosa chiede Antigone al governo? Giovanni Serpelloni è stato il capo dipartimento di Carlo Giovanardi e con lui condivide tutte le responsabilità di una legge che ha puntato esclusivamente sulla repressione. Una legge vessatoria, ideologica, illiberale che va profondamente cambiata. Si versano lacrime di coccodrillo sul sovraffollamento penitenziario e poi si propone di dare la delega alle droghe a chi per vocazione si occupa di ordine pubblico, ovvero al ministero degli Interni. Sarebbe l’ennesimo capitolo della war on drugs. La questione delle droghe va riportata nei suoi confini naturali, che sono quelli del welfare. Altro nodo: gli immigrati. Costituiscono oltre un terzo dei detenuti, e molto incide la legge sulle droghe. Quanto incide invece il reato di clandestinità nella carcerazione degli stranieri? E cosa andrebbe fatto per ridurre questo tipo di popolazione penitenziaria? Abbiamo vissuto anni terribili, quelli della propaganda razzista e populista contro gli immigrati. Fortunatamente prima la Corte costituzionale e poi la Corte di giustizia della Ue hanno smontato il castello di norme xenofobe che producevano carcerazione ingiusta di immigrati irregolari. Resta il crimine di clandestinità. Non incide sui numeri della detenzione in quanto la pena prevista è pecuniaria. Inoltre pare che i giudici siano orientati a disapplicarlo. Detto questo, è una norma infame che va abrogata. Perciò la sua abrogazione è tra le norme che fanno parte del nostro pacchetto di tre proposte di legge di iniziativa popolare per i diritti e per la giustizia. Due parole voglio dirle sulla vergogna dei Cie. Ho visitato di recente con la campagna Lasciate-Cientrare quello di Ponte Galeria. È la visualizzazione plastica della crudeltà occidentale. Cosa è successo a Roma, dove lei è candidata: Alemanno ha applicato lo spoil system ai servizi per le tossicodipendenze? Qual è la sua priorità, in questo campo? A Roma l’Agenzia per le tossicodipendenze si è messa al servizio della politica clientelare di Alemanno. Faccio il più drammatico degli esempi: dopo trent’anni di impegno nel nome dei diritti e della riduzione del danno, la gloriosa Cooperativa il Cammino è stata espropriata dalla gestione della comunità di Città della Pieve, Alemanno ha vinto sul terreno friabile della paura e della sicurezza. Ora bisogna tornare ad affiancare la sicurezza alla coesione sociale. Per meglio capire qual è la sua sensibilità sul tema dei diritti, ricordo che aveva nominato un poliziotto penitenziario a Garante dei diritti dei detenuti. Era troppo persino per l’Amministrazione penitenziaria. Francia: il padre dell’italiano morto in carcere a Grasse “su corpo nessun segno violenza” Agi, 14 maggio 2013 “L’ho guardato in viso ed era tutto in ordine, non c’erano segni di violenza e alle 16 incontrerò il procuratore generale di Grasse. Se andrò avanti? Lo vedremo dopo l’autopsia”. Così Giancarlo Faraldi, padre di Claudio, 29 anni, di Ventimiglia, morto mercoledì 8 maggio in carcere a Grasse, dopo essere stato all’ospedale ‘Pasteur’ di Nizza per vedere il corpo. Questa mattina il padre, accompagnato dalla madre del giovane, Francesca prima di vedere il corpo del figlio, hanno avuto un incontro al Consolato Generale d’Italia, a Nizza, alla presenza di un consigliere dell’Ambasciata italiana a Parigi. “L’impressione - conclude Faraldi - mi è sembrata buona. Un grazie al Consolato italiano che ci è venuto incontro”. Granaiola (Pd): andare a fondo sulla vicenda “Prendo atto che dal consolato italiano a Nizza è arrivata la precisazione che la morte di Claudio Faraldi non ha nulla a che fare con il caso di Daniele Franceschi, ma è difficile da accettare come una tragica coincidenza il fatto che nello stesso carcere di Grasse in Costa Azzurra sia deceduto un altro connazionale in circostanze che, ancora una volta, richiedono accertamenti e autopsie”. Lo dichiara in aula la senatrice del Pd Manuela Granaiola al termine della seduta di Palazzo Madama sull’istituzione del Comitato per gli italiani all’estero. “Può essere che la morte di Claudio - spiega Granaiola - sia dovuta a un malore, così come è stato detto all’inizio a proposito di quella di Daniele, ma l’unica certezza è che, a distanza di tre anni, nonostante l’impegno mio e di altri parlamentari, nonostante le attenzioni dei media e nonostante le promesse della Farnesina, siamo ancora una volta a registrare la fine di una vita in un istituto penitenziario francese nel quale la vigilanza appare quantomeno carente e le negligenze paiono essere all’ordine del giorno. Sul caso Franceschi, dalle autorità francesi non è giunta la collaborazione che ci si aspetterebbe da un Paese con il quale l’Italia vanta una secolare amicizia e vicinanza. Per questo, mi auguro che in questo nuovo caso il governo italiano faccia tutto il possibile per accertare la verità. E mi auguro anche che la famiglia Faraldi - conclude la senatrice del Pd - non debba subire le umiliazioni inflitte alla madre di Daniele Franceschi, la quale, ancora oggi, attende la restituzione degli organi di suo figlio”. Sulla vicenda, la senatrice Granaiola sta preparando un’interrogazione urgente al governo. Grecia: carcere ai professori che scioperano, questa l’ultima mossa del Governo Samaras di Armando Michel Patacchiola www.dazebaonews.it, 14 maggio 2013 Carcere ai professori che scioperano. È l’ultima minaccia emanata dal Governo conservatore guidato da Antonis Samaras per rimettere in moto l’apparato statale, dilaniato da tagli lineari alla spesa pubblica e dagli scioperi di protesta per le condizioni lavorative e di accesso ai servizi non lontani da quelli del terzo mondo. Si tratta di una norma emessa ieri sera in un bollettino ufficiale dal governo, emanato in previsione dello sciopero del prossimo 17 maggio, giornata in cui è previsto l’inizio degli esami di selezione per il comparto universitario. Una giornata in cui è previsto un nuovo sciopero da parte dell’Olme, il sindacato di categoria. Nel decreto, secondo quanto si apprende dalla stampa internazionale, sono inserite delle norme liberticide. Nella fattispecie sono previste forti pene a chi si accinge a frequentare manifestazioni di protesta forzose. Non una pena simbolica con un giorno in gattabuia, ma mesi di carcere. “Il governo deve salvaguardare gli esami di ammissione universitaria, minacciati dalle decisioni dell’Olme” ha dichiarato alla stampa il ministro della pubblica istruzione Konstantinos Arvanitópulos. Una posizione non dissimile a quella di Simos Kedikoglou, il portavoce del governo, che ha parlato di “uno scherzo per il pubblico interesse” e di un “tentativo di tenere in ostaggio 100 mila famiglie”. Mentre per quanto concerne la minaccia di carcere si può parlare di un trend manifestato in più decreti dal governo Samaras. In un provvedimento in attesa di convalida, è stata recentemente convalidata la possibilità di istituzione di carceri ad hoc verso coloro che non pagano i debiti che si hanno con lo stato. Ora quella contro gli scioperi. Tornando alla stretta attualità del comparto dell’istruzione pubblica, ovviamente non sono mancate le proteste. “Il decreto è vergognoso e terrificante” ha dichiarato alla radio privata Skai il segretario generale del sindacato Olme Zemis Kosyfakis. “Non solo - prosegue - proibisce il diritto di sciopero, ma anche la possibilità che possa essere dichiarato”. Tasos Petropoulos, portavoce legale del sindacato, ha annunciato ricorso al Consiglio di Stato, la più alta corte del Paese ellenico. Una posizione a cui si è appaiato il principale partito di opposizione. Per bocca di uno dei suoi deputati, Dimitris Papadimulis, Syriza ha ricordato che si tratta dell’ottava misura recessiva in otto mesi per quanto riguarda gli scioperi. A sostegno dell’Olme sono giunti anche i sindacati del Gse e del Adedy. In particolare lo sciopero è previsto per le misure di austerity al settore. Aumento delle ore e tagli al personale sono previsti in successive manovre. Per questo motivo sono previste delle assemblee permanenti a cui possono partecipare tutti gli insegnanti della scuola secondaria del Paese. Le ultime attività di sciopero di quello che è l’unico sindacato che racchiude i sindacati della scuola secondaria, ha prodotto 25 giorni di sciopero nel 2006 e 9 settimane nel 2007. Scozia: anche i detenuti voteranno per referendum indipendenza 9Colonne, 14 maggio 2013 La corsa ai voti per il prossimo referendum sull’indipendenza della Scozia sta sconvolgendo le dinamiche elettorali del più settentrionale degli stati dell’Union Jack. Dopo aver esteso il diritto di voto ai 16enni, prende corpo la possibilità di portare al voto anche i detenuti delle prigioni scozzesi. Infatti - come spiega il quotidiano britannico Guardian - se il governo britannico permetterà ai detenuti di votare in elezioni convenzionali, la Scozia potrebbe cogliere al volo questa occasione. Per il referendum previsto per il settembre 2014 potrebbero quindi aver diritto di voto anche i cittadini scozzesi che stanno scontando alcuni tipi di sentenze all’interno degli istituti penitenziari. Attualmente la Scozia è uno dei paesi occidentali con la più alta percentuale di detenzioni in relazione alla popolazione totale. Per questo motivo molte pene vengono fatte scontare fuori dalle carceri, e tali detenuti non perdono il diritto di voto. Svizzera: evasione di gruppo dal carcere di Bois-Mermet a Losanna Adnkronos, 14 maggio 2013 Diversi detenuti sono evasi questa mattina, verso le 10.40, dal carcere di Bois-Mermet, a Losanna. Come ha spiegato all’agenzia Ats il portavoce della polizia vodese, Jean-Christophe Sauterel, i carcerati sono riusciti a scappare grazie all’aiuto di un complice esterno, utilizzando delle scale. Per catturarli la polizia ha messo in campo un importante dispositivo di forze. I detenuti, che hanno approfittato di una passeggiata sul campo da calcio della prigione per evadere, erano tutti in detenzione preventiva. Russia-Usa: sfida a scacchi tra carceri, detenuti di Chicago sfideranno “colleghi” russi Tm News, 14 maggio 2013 Un match tra penitenziari russi e americani, basato sulle nuove tecnologie, ma capace di riportare in auge un’epoca leggendaria, quando la cortina di ferro poteva essere temporaneamente superata grazie a sessantaquattro caselle. E lui, Anatoly Karpov, simbolo di quell’epoca, racconta a Tm News come è nata l’idea e come è stata organizzata. “Il capo della polizia dell’Illinois si è rivolto a me per l’organizzazione: e domani si terrà il torneo su Internet”. O meglio una sfida planetaria. Tra Mosca e - caso vuole - quella Chicago che diede i natali a Bobby Fischer, il campione americano che negli anni 70 rispose con un forfait a Karpov proprio all’ultimo minuto. “Noi dovevamo incontrarci poi il match saltò. Non voglio dire che mi temesse, ma di sicuro temeva se stesso” afferma il russo. Invece tra poche ore non si sottrarranno dieci detenuti dal carcere della contea di Cook (Chicago, Illinois), il più grande penitenziario negli Stati Uniti con circa 9.000 detenuti. Giocheranno due partite di 15 minuti ciascuna contro i loro omologhi russi, grazie a un collegamento online. L’incontro è il frutto di un’idea sviluppata dal celebre maestro russo ed ex campione del mondo Karpov, da Mikhail Korneman, appassionato di scacchi, educatore e da Tom Dart, uno sceriffo dell’Illinois che ha raccolto l’idea con grande entusiasmo. E arriva in un momento, altra casualità, in cui Russia e Usa cercano punti di intesa sulla crisi siriana, dopo una fase di forti e crescenti tensioni bilaterali. Lo scopo? Incoraggiare i detenuti a pensare ed usare cautela quando si prendono decisioni. “Ha avuto successo anche a Chicago, ma è già da 15 anni che va avanti il mio programma Scacchi nelle colonie penali in Russia” racconta Karpov. “All’inizio è stato accolto con scetticismo, anche dal ministro della Giustizia. Ma dopo due anni ha capito che era interessante e diede disposizione ministeriale affinché si tenga nelle prigioni un campionato di scacchi tra detenuti e secondini. È dal 2001 che va avanti. L’idea è stata copiata e riprodotta sotto il mio nome in Ucraina, Brasile (San Paolo) e un po più di un anno fa, ho iniziato a organizzarlo a Chicago. Quest’ultimo è un penitenziario enorme, forse il più grande in America. Da noi in Russia, si arriva a un massimo di 2000 persone. Là invece sono 15.000”. I detenuti di Chicago sfideranno quindi i “colleghi” russi di cinque istituti penitenziari: Astrakhan, Samara, Saratov, Sverdlovsk (Ekaterinburg) e la regione di Krasnodar. “In Russia all’inizio volevamo trasportare tutti in un posto solo: non sarebbe stata la prima volta, lo avevamo già fatto per tornei interni. Ma la controparte voleva Mosca. Invece da qua hanno proposto un’altra città, dove non c’erano garanzie di una trasmissione stabile dei dati. E quindi abbiamo deciso di collegare le varie colonie via web” aggiunge Karpov, campione del mondo dal 1975 al 1985 per l’Urss e campione del mondo Fide dal 1993 al 1999 per la Russia. “Io sarò a Mosca, in una sala speciale del ministero della Giustizia. Ci saranno anche i giornalisti”. Karpov diede vita a questo programma quando la situazione delle prigioni russe era davvero problematica per densità dei detenuti e servizi. “Prima, ai tempi dell’Urss - spiega - quando le persone venivano liberate, il potere si assumeva la responsabilità di trovargli un lavoro. Ma con la fine dell’Unione Sovietica, anche questa opportunità si chiuse, come un libro di storia. Quello che si è riscontrato, è che quando un individuo esce dalla galera, dopo tre, quattro anni, o dieci, anche peggio, non ha dove vivere o dove lavorare, e commette altri reati per tornare in un ambiente conosciuto. Per questo abbiamo battezzato questo programma “mondo libero”, perchè almeno rispetto all’esperienza russa, se si gioca a scacchi, si appartiene a una comunità. E in questa comunità si può trovare un lavoro temporaneo. Gli scacchi sono insomma un fattore sociale di adattamento dopo la liberazione dei detenuti”.