Perché chi prova l’esperienza dei carcere non fa di tutto per non tornarci dentro? Il Mattino di Padova, 13 maggio 2013 Chi sconta la pena in modo inutile, torna quasi inevitabilmente a commettere reati, perché una persona che ha provato l’esperienza del carcere non ne ha paura, e non fa di tutto per restarne lontana, una volta uscita? È questa la domanda che gli studenti pongono più spesso ai detenuti, quando li incontrano nell’ambito del progetto di confronto fra le scuole e il carcere. Non esiste una risposta facile, ma dalle testimonianze di un detenuto e di una detenuta che riportiamo, forse alcune riflessioni più profonde sulla recidiva si possono fare: quello che è importante capire è che c’è un modo di scontare la pena che incattivisce e fa sentire vittima, e invece la detenzione deve avere un senso, ed essere percorso di rieducazione. La recidiva e il recupero Non ho ricette per la recidiva, ma qualcosa ho capito Non è facile capire le ragioni che riportano in carcere ex detenuti e riflettere su quello che potrebbe impedire la recidiva. In condizioni normali, il recupero di chi ha commesso un reato dovrebbe avvenire attraverso tre linee principali: lavoro, scuola e religione. O almeno così dice l’Ordinamento Penitenziario, io come detenuto mi sono fatto la domanda: cosa mi servirebbe davvero per non rischiare di ritornare di nuovo in carcere? La Religione? La religione è importante in carcere, ma la fede, che è una strada per trovare la tranquillità interiore, non credo che potrà aiutarmi a inserirmi nella società dopo tanti anni d’interruzione della mia vita sociale, e ad affrontare i problemi quotidiani fuori dal carcere. La Scuola? La scuola mi serve per accrescere la mia cultura, è importante perché è un posto dove mi posso confrontare con persone esterne all’istituto e capire quello che si fa fuori, ma con la crisi che c’è, e iniziando gli studi a un’età in cui uno dovrebbe averli finiti da tempo e dovendo aggiungere al curriculum la qualifica di “ex detenuto”, ho qualche dubbio che questo mi aiuterebbe a trovare lavoro fuori. Il Lavoro? Il lavoro (se ci fosse) serve a non umiliarmi per un po’ di tabacco o una sigaretta, è molto importante per aiutare la mia famiglia, ed è conveniente perché ti permette di avere qualche euro a fine pena. Ma oggi su 67.000 detenuti, fanno un lavoro “vero” meno di 900. E dopo vari anni di galera non ho ancora capito il valore rieducativo che ci può essere solo nel lavare il pavimento o avvitare bulloni tutto il giorno all’interno del carcere. Oltretutto gli ultimi tempi qui dentro incontri sempre più spesso persone che fino al momento del reato avevano lavorato onestamente, e quindi ti rendi conto che non basta il lavoro per essere rieducati. Negli incontri che si fanno con gli studenti ho visto delle persone detenute riflettere sulle loro azioni, ammettere che avevano sbagliato, senza ottenere nessun beneficio ma solo per onestà di fronte alle domande innocenti dei ragazzi. Oggi si fanno tante ipotesi su come si può ridurre la recidiva, io non so quale sia quella giusta, ma so cosa mi sarebbe stato utile e avrebbe impedito a me di essere oggi quotarmi capire, durante la mia prima carcerazione, che non ero in carcere solo perché avevo infranto la legge, ma che con le mie azioni avevo fatto male a delle persone. E poi mi sarebbe stato utile non essere buttato in cella a non far niente, con l’ordine “rieducati”, perché dentro di me, a fine pena, so che sarebbe rimasta solo la convinzione che non dovevo più niente a nessuno, anzi avevo pagato più del dovuto. Ma farmi confrontare con chi aveva subito un reato, commesso da me o da qualche altro mio compagno, perché le sofferenze di cinque anni di galera sono state niente in confronto a quello che ho provato in due ore di colloquio con le vittime dei reati. E nell’ultimo periodo della pena avrei dovuto essere inserito in una misura alternativa svolgendo anche dei lavori sociali, che mi aiutassero a darmi un’alternativa alla vita di prima. E invece non avrei dovuto essere messo fuori all’ultimo giorno con l’invito a non tornare, perché sono tornato dai vecchi amici. In carcere siamo dei delinquenti, ma siamo anche delle persone, delle persone tante volte poco responsabili, e molto egoiste, perché quando rubiamo una macchina vediamo il modello ma mai il proprietario, vedere il proprietario e i sacrifici che ha dovuto sostenere per comprare quella macchina forse ci insegnerebbe a non rubare. Oggi sono qui ma se al mio primo arresto qualcuno mi avesse fatto vedere l’altra parte, quella che subisce il male che facciamo noi, se mi avesse imposto un confronto vero con la società, e con le vittime, avrebbe risparmiato tante sofferenze a chi ha subito le mie azioni, e a me avrebbe risparmiato tanti anni di carcere. Clirim Bitri La solitudine in cella fa riflettere Tanta gente trascorre la sua esistenza come se la vita si svolgesse in un teatro. Da bravi attori si passa da una parte all’altra, si indossano le varie maschere, si studiano gli schemi e ci si adegua al copione. Il copione per chi sta in carcere si “intitola” ordinamento penitenziario e prevede che il ruolo da interpretare sia quello del bravo detenuto. È veramente stupefacente vedere come persone che fuori vivevano senza regole e senza punti di riferimento, intrappolate da quattro sporche mura riescano a travestirsi da bravi soldatini scrupolosi nell’attenersi alle regole, sempre pronti a mettersi sull’attenti e a prostrarsi alla sola vista di chi ha del potere. In tanti anni di carcere ne ho vista troppa di gente così e ho visto anche come il fine pena coincide per loro con il crollo del palco. Ci si lascia quella porta alle spalle e si ritorna ad essere quello che si era con qualche nozione e contatto in più da sfruttare per affinare le proprie inclinazioni delinquenziali. A cosa serve allora la galera in Italia? Se si guarda quanto è alta la recidiva, viene da dire che davvero serva a poco, il senso di inutilità è forte. lo non sono un’attrice e non mi piacciono i copioni, spesso non so adeguarmi alle regole che non siano quelle non scritte che hanno un senso e fin da piccola ho sempre rispettato. Posso anche essere una brava persona, ma non diventerò mai una brava detenuta. La galera mi ha nutrita di odio e frustrazione, in bocca sento il sapore del fiele e nello stomaco, per tutta la rabbia che provo, mi sembra che viva un’ aquila sempre pronta ad aggrapparsi alle mie budella con i suoi artigli. A differenza di quando avevo vent’anni le bombe cerco di farle implodere, ma inevitabilmente prima o poi una finisce per scoppiarmi in mano, e però chi si fa male sono sempre e solo io. Per commiserarmi posso anche considerarmi una vittima del sistema, ma se parlo onestamente devo ammettere che sono la peggior nemica di me stessa in questo contesto, perché non so abbassare la testa, mi piace dire e fare sempre quello che la mia testa mi dice perché così mi sento vera, cammino a testa alta e se non piaccio non m’importa. Sono io la persona sbagliata o c’è qualcosa di profondamente sbagliato anche nel sistema giudiziario italiano? Io ho 35 anni, sono cittadina italiana tossicodipendente, ho un bambino piccolo che a causa dei miei errori e iter burocratici lentissimi non vedo da anni... l’ho lasciato che era un pulcino e le foto di adesso lo ritraggono come un ometto. Mia mamma vive da sola, è anziana e ogni volta che ho la fortuna di vederla e sentirla non smette mai di ricordarmi di quanto avrebbe bisogno di me. Invece di sentir parlare di misure alternative alla detenzione e di depenalizzazioni, per affrontare il problema del sovraffollamento che riduce la maggior parte delle carceri in condizioni disumane, sento parlare di inasprimento delle pene. Non ho parole, ma solo rabbia. Rabbia verso me stessa che ho scelto una via sbagliata, rabbia verso le istituzioni che spesso sono sorde e cieche. Un delinquente rimarrà sempre un delinquente se a nessuno interessa vedere la persona che nasconde, se i doveri vengono sempre prima dei diritti. Invece di nuove carceri dovrebbero costruire monumenti alla dignità umana che niente e nessuno ha il diritto di calpestare. Da un seme di rispetto della dignità può nascere un fiore, la rabbia invece genera solo violenza. Tania Giustizia: bambini con genitori detenuti, petizione a Presidente Repubblica e a Ministro Redattore Sociale, 13 maggio 2013 Al Presidente della Repubblica e al ministro della Giustizia, l’associazione Bambinisenzasbarre chiede permessi per i momenti importanti dei propri figli. “Assenza dei genitori in tali occasioni stigmatizza la condizione di figlio di detenuto”. Concedere ai 100mila bambini figli di genitori detenuti nelle 213 carceri italiane di poter condividere i momenti importanti della propria vita con i propri genitori, nonostante la detenzione. È quanto chiede l’associazione Bamibinisenzasbarre, impegnata da oltre 10 anni a favore del diritto al legame affettivo dei bambini con un genitore in regime di detenzione, al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e al Ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri con una petizione lanciata oggi su Change.org. “Oggi è molto difficile che il magistrato consideri momenti sensibili tali da concedere un permesso - spiega l’associazione -: eventi come il primo giorno di scuola, la recita di fine d’anno, la comunione o altre cerimonie religiose, riservandolo invece per la scomparsa di persone a lui molto vicine. Per il bambino e l’adolescente, l’assenza del proprio genitore alle proprie occasioni speciali è un’ulteriore sottolineatura della sua fragilità sociale ed una stigmatizzazione della sua condizione di figlio di detenuto. La condanna del proprio familiare ricade, quindi, in modo pesante sulla sua vita e si incide nella memoria in modo doloroso ed indelebile”. “Il carcere, quello di San Vittore, e la mia infanzia si sono intersecate per tanti anni, tanti quanti gli anni di condanna dati a mia madre - racconta una testimone dell’associazione. Varcare la soglia di questo antico carcere era sempre difficile e i miei sentimenti erano contrastanti. Tuttavia, per me i giorni più tristi erano tutte le occasioni di festa o importanti: il Natale, i compleanni, il primo giorno di scuola, le recite di fine d’anno, il ritiro delle pagelle, mia mamma non era mai presente era sempre lì a San Vittore. Questa diversità, questa solitudine era un buco nero che inghiottiva i sorrisi, le risa e gli abbracci in carcere con mia mamma. Ancora oggi ne soffro, sento che questa parte della mia vita non mi sarà mai risarcita”. Oltre alla petizione, tra le attività dell’associazione anche una campagna di raccolta fondi “Non è un mio crimine, ma una mia condanna” voluta per far conoscere meglio il fenomeno dando visibilità a questi bambini senza stigmatizzarli, nel pieno rispetto dei loro diritti. “La petizione è un segnale importante per la società civile - ha ribadito Lia Sacerdote, presidente di Bambinisenzasbarre: si tratta di cambiare prospettiva, di mettersi dalla parte dei bambini e non dei genitori detenuti e dei loro vincoli giuridici. La carta dell’Onu sui diritti del fanciullo definisce con chiarezza il diritto ad intrattenere regolarmente rapporti personali e contatti diretti con entrambi i genitori, se non contrario all’interesse superiore del bambino, al quale va garantito la non discriminazione sociale a causa della condizione del genitore. Questa petizione è un richiamo alla necessità di avviare un processo di integrazione sociale e, più in generale, di profondo cambiamento culturale nei confronti del più vulnerabile: il bambino”. Giustizia: Rapporto Fondazione Moressa; 23mila i detenuti stranieri nelle carceri italiane Adnkronos, 13 maggio 2013 Nelle carceri italiane sono presenti circa 23 mila detenuti stranieri, che vanno a rappresentare quasi la metà dei tenuti complessivamente raccolti dalle strutture penitenziarie. La cittadinanza più diffusa tra i detenuti stranieri è quella marocchina (19,0%), seguita da quella rumena (15,9%) e da quella tunisina (12,4%). Le prime dieci nazionalità rappresentate tra i detenuti stranieri arrivano a coprire il 71,9% del totale dei detenuti non italiani. Lo sottolineano i ricercatori della Fondazione Moressa che hanno compiuto un’indagine sulla situazione. La regione con il maggior numero di detenuti stranieri è la Lombardia, con 4 mila detenuti, vale a dire il 18,7% del totale dei detenuti stranieri. Seguono Piemonte e Toscana, rispettivamente con l’11,1% e il 10,0%. La presenza nelle carceri sembra quindi seguire indicativamente il trend demografico della popolazione straniera sul territorio italiano. I reati più diffusi tra i detenuti non italiani sono la produzione e lo spazio di stupefacenti (29%), i reati contro il patrimonio (22,5%) e i reati contro la persone (18%). Rispetto al totale de detenuti, ovviamente gli stranieri incidono per il 95% tra coloro che hanno commesso reati contro la legge sull’immigrazione, per il 79% tra coloro che sono stati arrestati per prostituzione, per il 44% tra coloro che spacciano e producono stupefacenti e per il 39% tra coloro che hanno commesso reati contro la pubblica amministrazione. Tra il 2008 e il 2011 i detenuti stranieri sono aumentati del 12,1% a fronte di un aumento del 16,8% della popolazione carceraria italiana. Tra il 2010 e il 2011 sono, invece diminuiti del -3,1%, mentre i detenuti italiani sono diminuiti del -0,7%. La sovra rappresentazione delle carceri italiane degli stranieri è dovuta sicuramente alla legge che prevede il reato di clandestinità, da una parte, e alla caduta in attività illegali, quali lo spaccio, spesso correlata alla difficoltà di trovare un’occupazione regolare in condizioni di clandestinità - affermano i ricercatori della Fondazione Leone Moressa. L’aumento della popolazione carceraria straniera si dimostra, infatti, in linea con quella italiana, senza presentare tendenze particolarmente rilevanti o preoccupanti per la popolazione straniera dovute alla contingente crisi economica e occupazionale. Molteni (Lnp): stranieri scontino pena nei paesi d’origine “Lo diciamo da sempre: i detenuti stranieri devono scontare la pena nei rispettivi paesi d’origine. I dati diffusi dalla Fondazione Moressa fotografano una realtà allarmante e segnalano che è la Lombardia ad ospitare la percentuale più alta di detenuti stranieri. La situazione è grave per due motivi: da un lato i detenuti extracomunitari affollano le nostre carceri rendendole invivibili, dall’altro rappresentano un costo per la collettività sia in termini economici che securitari”. Lo dichiara Nicola Molteni, vicepresidente del gruppo Lega Nord a Montecitorio e componente della Commissione Giustizia. Giustizia: in Commissione Senato al via un’indagine sulle carceri, decisione all’unanimità Ansa, 13 maggio 2013 Partirà in Commissione Giustizia del Senato un’indagine conoscitiva sull’emergenza carceraria. Lo ha deciso all’unanimità l’ufficio di presidenza della commissione presieduta da Francesco Nitto Palma. L’indagine servirà per fare un punto sul sovraffollamento nelle carceri, sulla polizia penitenziaria e sulle possibili soluzioni da adottare. L’ufficio di presidenza tornerà a riunirsi domani alle 15.30 per mettere a punto un calendario dei lavori per i provvedimenti assegnati. Sul fronte anticorruzione dovrebbero arrivare altri testi oltre a quello del Pd, così è probabile che il tema verrà calendarizzato nei prossimi giorni. Giustizia: Boldrini (Presidente Camera); farò il possibile per migliorare condizione carceri Agi, 13 maggio 2013 “La politica non ignora il problema del sovraffollamento delle carceri, ma non ha ancora trovato le soluzioni”. Risponde così il presidente della Camera, Laura Boldrini, ai ragazzi dell’istituto di pena minorile di Nisida, che durante la sua visita le hanno chiesto di impegnarsi su questo fronte. Un tema che ha “sempre avuto a cuore”, anche durante il suo mandato come portavoce dell’Alto commissariato della Nazioni unite per i diritti dei rifugiati. Anche da presidente della Camera assicura che farà “tutto il possibile”, perché “il livello di civiltà di un Paese si vede dalle misure di detenzione”. Incontrando i ragazzi a Nisida, che definisce “un’isola felice”, sottolinea che la loro situazione “è il frutto degli errori commessi dagli adulti, che non si sono presi cura di loro. È la nostra sconfitta”. A questi ragazzi “va data la possibilità di rimettersi in piedi, altrimenti si perde il senso delle misure di recupero e reinserimento”. È poi fondamentale, dopo che lo Stato “avrà dato loro la possibilità di recuperare”, qualcuno “permetta loro di inserirsi nel mondo del lavoro, altrimenti non avranno avuto senso i laboratori e le attività svolte in carcere”. Giovani detenuti specchio errori adulti I minori rinchiusi nelle strutture penitenziarie come quelle di Nisida rappresentano “una nostra sconfitta, il risultato degli errori commessi dagli adulti che non si son presi cura di loro”. È il j’accuse della presidente della Camera Laura Boldrini, parlando con don Fabio, il sacerdote che si occupa dei minori reclusi nella struttura penitenziaria napoletana. “Si ritrovano così piccoli ad avere avuto esperienze così dolorose - ha proseguito la terza carica dello Stato nel corso della sua lunga visita nella struttura di Nisida - da essere finiti in prigione. A loro deve essere data la possibilità di rimettersi in piedi, altrimenti si perde il senso della misura del recupero e del reinserimento”. Boldrini ha però usato parole di amarezza parlando con i responsabili della struttura di Nisida: “Lo Stato dà a questi giovani la possibilità di recuperare se hanno fatto un errore, ma se una volta usciti non ci sarà qualcuno che darà loro lavoro, che senso avranno avuto le ore trascorse nei laboratori?”, si è chiesta la presidente parlando con i docenti e gli operatori impegnati quotidianamente nel carcere. La presidente Boldrini ha avuto modo, in oltre due ore di visita, di conoscere la realtà penitenziaria dell’isolotto partenopeo. Ha incontrato i giovani impegnati nei laboratori di ceramica, in quelli della fabbricazione di presepi e pastori, ma anche parlato a lungo con i pizzaioli e con i ragazzi del laboratorio della politica. Boldrini si è, inoltre, dedicata anche a una lunga visita nelle strutture ricreative di Nisida: dagli orti alle aree dedicate alla cura degli animali, soffermandosi a parlare con tutti e dando coraggio ai giovani. “Questo che state imparando qui vi sarà di aiuto per il futuro - ha detto rivolgendosi ai minori che stanno imparando un mestiere tra le mura circondariali - fatene tesoro. Anche se avete sbagliato, dovete essere forti per non ricadere negli stessi errori”. Lettere: le carceri sono dei poveri cristi… non dei potenti di Mario Molinari Il Fatto Quotidiano, 13 maggio 2013 Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, articolo 27 della Costituzione. Non basta: “Il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona”, articolo 27 legge 26 luglio 1975 sull’Ordinamento penitenziario. Quale Paese più umano del nostro, dunque? L’umanità permea le nostre leggi. Insieme con lei, il senso del dovere collettivo; il verbo dovere non ci abbandona. Ma le nostre prigioni sono anguste, sovraffollate, spesso malsane, focolaio di violenza e sopraffazione. Vi avvengono suicidi e morti misteriose. Non vi è lavoro né sufficiente occasione di rieducazione. La dignità delle persone è così calpestata. Di tanto in tanto ne parliamo, poi tutto resta come prima. Oppure si ricorre ad amnistia e indulto anche per salvare i pochi potenti condannati. C’è qui qualcosa di indecente. Una menzogna ci percorre: la legge dice, la realtà la tradisce. Toscana: domani seduta speciale del Consiglio regionale sul sovraffollamento delle carceri Agenparl, 13 maggio 2013 Il contributo di Alessandro Margara, Garante regionale per le persone sottoposte a misure restrittive della libertà, introdurrà la seduta speciale del Consiglio regionale convocata martedì 14 maggio alle 10 su “L’emergenza regionale conseguente all’eccessivo sovraffollamento degli istituti penitenziari”. Lo fa sapere in una nota la regione Toscana. Pescara: Assessori tagliano le erbacce insieme ai detenuti del carcere di Marino del Tronto Il Centro, 13 maggio 2013 I detenuti del carcere di Marino del Tronto ieri hanno ripulito alcuni spazi verdi pubblici di Nereto. A loro si sono aggiunti il vice sindaco Laurenzi e i due assessori Baldini e Tonelli, che hanno tagliato le erbacce che assediavano la storica Fonte Vecchia. La pioggia non frena la buona volontà dei detenuti del carcere di Ascoli che ieri, in occasione della giornata ecologica, hanno ripulito gli spazi verdi di Nereto. Con la novità che ad indossare gli abiti da giardinieri, dismettendo quelli di politici, con loro c’erano anche tre assessori comunali, ai quali è spettato il compito di tirare a lustro la storica Fonte Vecchia. Così, il vice sindaco Daniele Laurenzi e gli assessori Patrizio Baldini e Mariagrazia Tonelli hanno voluto manifestare senso civico. “Siamo consapevoli che in questa fase di enormi difficoltà per cittadini, ma anche per gli enti locali, a volte dare l’esempio serve a far riflettere e a impegnarsi tutti nel proprio ambito, lasciando ad altri critiche e parole”, ha dichiarato Laurenzi, “la manutenzione nel nostro comune è critica, va riconosciuto comunque impegno costante ai nostri pochi operai che quotidianamente vivono queste difficoltà. Un grazie va al direttore dell’istituto di pena, al comandante della polizia penitenziaria e ai detenuti, che a fine giornata ci hanno aiutato a completate l’opera di bonifica della vecchia fonte, monumento alla storia della nostra Nereto”. Sono state ripulite anche alcune vie del centro e raccolti diversi sacchi di spazzatura. Nereto non è la prima volta che ospita i detenuti del carcere ascolano che hanno mostrato spirito di collaborazione nel fare un importante servizio alla collettività. La loro riabilitazione passa anche attraverso attività socialmente utili. Modena: Sappe; detenuto tenta suicidio, salvato da agenti… come altri 1.100 all’anno Dire, 13 maggio 2013 Sabato pomeriggio, nel carcere Sant’Anna di Modena, un detenuto di nazionalità straniera, nel reparto transiti, ha tentato di impiccarsi ma è stato salvato da uomini della polizia penitenziaria. Lo segnala il segretario generale aggiunto del sindacato Sappe Giovanni Battista Durante, che fornisce anche il dato di circa 1.100 tentativi di suicidio all’anno che vengono sventati. “Negli ultimi 20 anni - dice ancora Durante - sono stati circa 17.000 i detenuti salvati dalla polizia penitenziaria nelle carceri italiane, nonostante le forti carenze di personale”, che per il Sappe si traducono in 7.500 agenti a livello nazionale e 650 in Emilia Romagna. A Modena sono presenti oltre 600 detenuti, per una capienza di circa 400 posti, conclude il Sappe. “Nonostante questa grave situazione la politica, al di là dei soliti proclami, non ha ancora fatto niente di concreto”. Bari: Sappe; aggressione a poliziotto penitenziario che ha una prognosi di circa 15 giorni Adnkronos, 13 maggio 2013 “Ancora tensione nel carcere di Bari. Ieri un detenuto ha aggredito un agente della polizia penitenziaria, facendolo urtare violentemente contro il cancello di ferro della cella, riportando varie contusioni con una prognosi di circa 15 giorni”. È la denuncia di Federico Pilagatti, segretario nazionale del Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria, che in una nota spiega: “Si tratta dello stesso detenuto che 15 giorni fa si era reso responsabile dell’aggressione a un altro agente, e come premio dopo la prima aggressione, gli era stata autorizzata più libertà d’azione”. Da mesi il Sappe, prosegue la nota, “sta denunciando con una serie di comunicazioni alla direzione del carcere di Bari e al provveditore regionale, il grave stato di degrado in cui è caduto il penitenziario, che non consente più ai poliziotti penitenziari di poter effettuare la propria attività lavorativa in condizioni serene”. Ma “le preoccupazioni del Sappe sono sempre state ignorate e respinte - sottolinea Pilagatti - nonostante i livelli di sicurezza si sia ridotto in maniera paurosa”. “A questo punto - prosegue il segretario nazionale del Sappe - per riportare la legalità nel carcere barese ormai allo sbando, è necessario l’intervento urgente dell’Amministrazione regionale e nazionale con uomini e mezzi che riportino la situazione sotto controllo”, perché “il clima è molto preoccupante e drammatico. Qualora nel più breve tempo possibile non ci saranno i provvedimenti auspicati - conclude Pilagatti - il Sappe annuncia una manifestazione di protesta davanti al carcere di Bari con azioni eclatanti per far conoscere ai media e ai cittadini come si è ridotto il penitenziario barese”. L’Aquila: “Oltre i muri”, al via la rassegna di mostre, confronti e docu-film sulle carceri Il Centro, 13 maggio 2013 I muri che rinchiudono, quelli che dividono e soprattutto i muri che tolgono la speranza. Proverà a superarli l’iniziativa “Oltre i muri” che inaugura oggi a L’Aquila, per proseguire il 17 e il 24 maggio. Tutti e tre gli appuntamenti si articolano in un dibattito (ore 18) seguito dalla proiezione di film o spettacoli teatrali. Stasera in particolare (ore 17) apre la mostra “Muri Crollati Muri Dentro”, collettiva di foto, installazioni e disegni che resterà in allestimento fino al 24 al Muspac di piazza delle Arti. Sette artisti contemporanei interpretano il muro: Claudio Asquini, Courtney Smith, Salvatore Falci e Simona Barzaghi, Marco Brandizzi, Danilo Balducci e Franco Fiorillo. Alle 18 il dibattito sulle carceri con Barbara Rossi (psicoterapeuta, referente del progetto “Leggere Libera-Mente” del carcere di Milano-Opera), Luciana Scarcia (docente del Laboratorio scrittura del carcere di Roma-Rebibbia) e Anna Rita Silvestri (sociologa, educatrice del carcere di L’Aquila); modera Daniele Poccia. Sarà poi presentato il libro “Leggere, finestra aperta” curato da Barbara Rossi, con l’intervento di “persone libro”. La serata prosegue con un aperitivo cenato alle 20.30 e la proiezione del docu-film girato nel carcere di massima sicurezza di Milano-Opera “Levarsi la cispa dagli occhi”, di Carlo Concina e Cristina Maurelli. Saranno presenti i due registi e con loro Silviana Ceruti Sanson, che da 11 anni incontra i detenuti di Opera ed ha formato un Laboratorio di letteratura e scrittura creativa. Il 17 maggio “Oltre i muri” torna con “Muri che escludono”, incontri dedicati al tema del manicomio, e il 24 con “Muri che dividono”, confronto sulle divisioni territoriali. Ogni serata si conclude con un ricco aperitivo cenato. Immigrazione: Legge Bossi-Fini, un vero fallimento… Famiglia Cristiana, 13 maggio 2013 Durissima posizione dell’Associazione “Medici per i diritti umani”, che presenta a Roma l’indagine sui Centri d’identificazione ed espulsione: “Incompatibili con un Paese civile”. La legge Bossi-Fini? Da bocciare senza riserve. Il Rapporto Ruperto del ministero dell’Interno? Niente a che vedere con la realtà. I Centri d’identificazione ed espulsione, altrimenti detti Cie? Non compatibili con un Paese civile. Questo è quanto emerge da Arcipelago Cie, l’indagine di Medici per i diritti umani che viene presentata il 13 maggio a Roma, nella Sala stampa estera di via dell’Umiltà. Il coordinatore generale di Medici per i diritti umani, Alberto Barbieri, ne anticipa i contenuti: “In un anno, tra il febbraio 2012 e il febbraio di quest’anno, abbiamo visitato gli 11 centri operativi in Italia. In alcuni casi ci siamo andati due volte, come a Ponte Galeria, vicino a Roma, a Bologna e a Milano”. E il risultato qual è? “Sicuramente quasi opposto a quello del rapporto presentato dal ministero dell’Interno. Le nostre osservazioni sui Cie sono ben diverse da quelle del sottosegretario Saverio Ruperto”. Come avete proceduto nella vostra indagine? “Con tre quesiti. Il primo voleva verificare, a distanza di 15 anni dalla loro istituzione, se i Cie garantiscono i diritti di chi è lì dentro. Il secondo riguardava l’efficacia effettiva dei Cie, mentre il terzo è la nostra parte propositiva, che deve rispondere a questa domanda: ci sono altri strumenti meno afflittivi per le persone? Abbiamo parlato con gli enti gestori dei Cie, con le prefetture, le questure e con gli immigrati reclusi. Devo anche sottolineare che questo è il primo studio sistematico da quando la legge prevede che le persone recluse nei Cie possono restare lì fino a 18 mesi”. Cosa avete rilevato? “In sostanza, la palese inadeguatezza dei Cie a garantire e tutelare la dignità di quelli che possiamo chiamare detenuti”. In effetti, l’indagine parla letteralmente di “strutture congenitamente incapaci per come sono strutturate a gestire la dignità delle persone”... “Non solo”, prosegue Barbieri. “Il sistema dei Cie è fallimentare e poco efficace nell’identificazione degli immigrati. Solo uno su due viene rimpatriato, su circa 8.000 trattenuti nei Centri. E se questa media del 50 per cento dovesse sembrare insufficiente, diventa catastrofica quando prendiamo in considerazione non solo chi è nei Cie, ma la totalità degli immigrati irregolari. Su circa 326.000 irregolari, solo l’1,2 per cento viene rimpatriato”. E i costi? “I costi, ovviamente, sono importanti. Ma c’è anche scarsa trasparenza da parte del sistema. Perché è vero che ogni ente gestore ha un suo budget, che ci è stato mostrato. Ma non basta a stabilire la spesa totale. Non sappiamo quanto costi il mantenimento delle strutture, così come le varie riparazioni necessarie, soprattutto nei casi di incidenti, come è già capitato più volte. E le forze di sicurezza? Quanto costano? Nessuno lo sa”. Voi cosa proponete? “Innanzitutto bisogna partire dal presupposto che il sistema dei Cie, così concepito, non è rifondabile, ma va radicalmente cambiato l’approccio che lo Stato ha nei riguardi degli immigrati irregolari. E la colpa non è certo degli enti gestori dei Cie che, anzi, sono una ruota efficiente dell’ingranaggio. Ma è proprio l ‘ingranaggio a essere deficitario. Ci vorrebbe una riforma globale della Legge Bossi-Fini, che ha dimostrato di favorire la clandestinità. Inoltre, per i Cie bisognerebbe almeno diversificare le categorie di persone. Ora l’eterogeneità è totale: ex detenuti, in percentuale notevole, vivono a contatto di persone con grandi vulnerabilità, sia fisiche sia psicologiche. Il paragone che mi viene da fare, come medico, è che i Cie ricordano da vicino i manicomi. Bisogna, invece, incentivare la collaborazione tra immigrati e autorità”. E l’Unione europea cosa dice? “Va anche detto, a questo proposito, che la situazione dei Cie di altri Paesi europei è simile alla nostra. Bisogna spingere affinché le proposte alle forze politiche in ambito europeo abbiano un seguito, dunque, perché la detenzione amministrativa è diventata un caso europeo”. I nostri politici cosa faranno, secondo lei? “Abbiamo invitato la presidente della Camera, Laura Boldrini, e il ministro dell’integrazione, Cécile Kyenge, alla presentazione della nostra indagine. Che, in ogni caso, verrà mandata a tutti i politici, perché la situazione dei nostri Cie non è compatibile con un Paese civile”. Immigrazione: Rapporto “Medici per Diritti Umani”; i Cie sono una polveriera ingestibile Redattore Sociale, 13 maggio 2013 È l’unica indagine indipendente, condotta entrando in tutti i centri di identificazione e di espulsione dopo l’estensione della detenzione a 18 mesi. Sono “centri di internamento”. Le voci di operatori e funzionari della questura I Cie, Centri di identificazione e di espulsione, sono “centri di internamento”, chiusi al mondo esterno, poco trasparenti dal punto di vista dei costi. Luoghi che violano la dignità umana, in particolare non garantiscono il diritto alla salute. Sono le conclusioni a cui giunge il team di Medici per i Diritti umani, che ha realizzato l’unica indagine indipendente su tutti i centri, dopo l’estensione massima della detenzione amministrativa da sei a 18 mesi. La ricerca si chiama “Arcipelago Cie. Indagine sui centri di identificazione ed espulsione”, pubblicata da Infinito Edizioni e realizzata con il supporto di Open Society Foundations. L’indagine si è svolta nell’arco di un anno, da febbraio 2012 a febbraio 2013, e si è articolata in quattordici visite agli undici Cie operativi sul territorio italiano. Altri due centri, quello di Brindisi e il Serraino Vulpitta di Trapani, non sono stati visitati perché chiusi per ristrutturazione. A quindici anni dalla loro istituzione, prima come Cpt e poi trasformati in Cie, queste strutture vengono bocciate su tutta la linea. L’opacità che circonda queste strutture si manifesta nelle molte restrizioni all’accesso e nel fatto grave che, scrivono gli autori, “nel corso dell’intera indagine non è stato inoltre possibile conoscere dalle Prefetture i costi complessivi dei singoli Cie”. Per quanto riguarda l’accesso, le prefetture hanno risposto alle richieste di ingresso dei Medici per i Diritti Umani con tempi molto variabili: dai sette giorni di Bari agli oltre tre mesi di Crotone e Lamezia Terme. Quasi la metà delle visite sono state condizionate dall’impossibilità di accedere alle aree di trattenimento destinate ai migranti. In particolare questo è successo a Torino, Milano, Bari, Crotone e Trapani Milo. “Tale limitazione, sempre motivata da ragioni di sicurezza e di ordine pubblico - si legge nel rapporto - rivela comunque in modo evidente, oltre all’inevitabile tensione interna, le caratteristiche intrinsecamente afflittive e la conseguente chiusura al mondo esterno di queste strutture”. I team hanno potuto incontrare i migranti trattenuti, ma “i colloqui - denunciano i Medu - in molti casi non si sono però potuti svolgere nelle necessarie condizioni di riservatezza, data la presenza di operatori dell’ente gestore o delle forze di polizia”. Dal punto di vista della struttura, tutti i centri sono accomunati da file di edifici disposti ordinatamente, circondati da recinzioni di sbarre, muri e filo spinato, posti sotto sorveglianza armata. I migranti sono ristretti in recinti simili a grandi gabbie, con “spazi di dimensioni inadeguate ed eccessivamente oppressivi”. In alcuni centri (come ad esempio a Torino, Crotone, Modena e Trapani) i migranti sono confinati in differenti settori permanentemente isolati tra di loro. Questo, secondo Medu, “ha reso le condizioni di reclusione ancora più umilianti e afflittive”. La conclusione della ricerca sul campo è che tali strutture sono “del tutto inadeguate a garantire condizioni di permanenza dignitose ai migranti trattenuti”. Dormitori, mense, servizi igienici, sale ricreative, niente di quello che c’è in un Cie rispetta gli standard minimi di qualità, o come affermano gli autori del rapporto, “apparivano in uno stato di manutenzione inadeguato e in condizioni di pulizia spesso insufficienti”. Particolarmente grave la situazione dei settori maschili di Roma e Bologna, dove “i blocchi alloggiativi si presentavano in condizioni del tutto fatiscenti e, nel caso di Bologna, erano addirittura assenti i requisiti minimi di vivibilità”. Per ragioni di ordine pubblico, a causa del clima di tensione, tutti i Cie sono sottoutilizzati. Sebbene secondo i dati forniti dagli enti gestori la capienza massima degli 11 centri monitorati raggiunga i 1.775 posti, la ricettività reale al momento delle visite era di solo 1.418 posti con un numero di 924 migranti effettivamente presenti. Nell’indagine viene riportata la motivazione addotta dal funzionario di una questura: i centri non sarebbero riempiti al massimo “per evitare che la polveriera dei Cie esploda”. Tra proteste, rivolte e tentativi di fughe di massa, nel corso delle visite - in particolare a Trapani, Gradisca d’Isonzo e Bologna - è emerso in modo evidente non solo il malessere dei migranti trattenuti, ma anche il profondo disagio di molti operatori, e spesso anche di agenti di polizia, nel fare fronte a dei contesti per molti versi “ingestibili”. Nessuna trasparenza sui costi… e mancano i servizi Secondo il dato riportato da Redattore Sociale (fonte ministero dell’Interno), nel 2011 la spesa complessiva per la sola gestione dei servizi in tutti i centri di identificazione ed espulsione italiani è stata di 18,6 milioni di euro. Ma nessuno conosce il costo reale delle strutture, perché vanno sommate le spese per il costo degli agenti e dei militari che operano nei Cie e quelle per la manutenzione ordinaria e straordinaria dopo le rivolte. Una stima della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa parla di 55 milioni di euro annui, ma non considera le cifre per il personale di pubblica sicurezza impiegato nei centri. Anche il team di Medici per i Diritti Umani denuncia l’opacità su questo aspetto della detenzione amministrativa che non permette di calcolare il rapporto fra i costi e l’efficienza del sistema delle espulsioni dei migranti irregolari. I dati riportati nella ricerca “Arcipelago Cie” sono frammentari. I lavori di ristrutturazione del solo Cie di Gradisca d’Isonzo sono costati nel 2011 quasi un milione di euro. Le Misericordie d’Italia hanno vinto l’appalto per il centro di Crotone con l’offerta in assoluto più bassa: 21,42 euro. A questo proposito la maggior parte degli enti gestori intervistati ritiene impossibile assicurare i servizi minimi con le nuove riduzioni di budget. “In queste condizioni rimane solo la gabbia” è stato il commento di un direttore di Cie. In effetti, nei Cie di Modena, Bologna, Crotone e Trapani - dove le nuove convenzioni sono già operative - è stato riscontrato “un livello di servizi assolutamente non sufficiente” e, nel caso di Bologna e Trapani, addirittura “una grave carenza nella fornitura di beni di prima necessità”. A Modena, Bologna e Trapani, gestiti dal consorzio Oasi con meno di 30 euro, si sono più volte verificati ritardi nei pagamenti delle mensilità agli stessi dipendenti. “Sembra così che i drastici tagli nei bilanci, insieme al prolungamento dei tempi massimi di trattenimento a 18 mesi, siano tra i principali fattori che hanno contribuito ad accrescere la tensione nei centri e a peggiorare ulteriormente le condizioni di vita dei trattenuti nel corso dell’ultimo anno” afferma il Medu. Gli standard di erogazione di tali servizi sono apparsi non omogenei tra i vari centri e nel complesso insoddisfacenti. “In alcuni centri non sembrano essere assicurati neppure alcuni elementari servizi alla persona né la fornitura di beni essenziali - si legge nel rapporto - Manca o è del tutto inadeguato il servizio di barberia nei centri di Trapani, Lamezia Terme e Torino. Sconcertante a questo proposito la soluzione escogitata al Cie di Lamezia Terme, dove in assenza di un servizio barberia, l’ente gestore obbligava i trattenuti a radersi in una cabina a forma di gabbia, costruita all’uopo per prevenire eventuali atti di autolesionismo”. Nel Cie di Bologna è stata rilevata una grave carenza nella fornitura di vestiario, lenzuola, coperte e prodotti per l’igiene personale; a Trapani è apparso del tutto insufficiente il servizio di lavanderia e il ricambio della biancheria. Sebbene la maggior parte dei centri collabori con organizzazioni del territorio ed enti di tutela, i Cie di Gradisca d’Isonzo, Lamezia Terme e Crotone permangono impermeabili all’esterno in una condizione di isolamento dal territorio che le ospita. Positiva nei Cie del centro nord è la presenza dei Garanti dei detenuti che visitano con una certa regolarità i centri di Bologna, Modena e Roma. Il regolamento interno, un documento essenziale per conoscere diritti e doveri dei trattenuti non viene consegnato ai migranti nei centri di Modena, Roma, Crotone, Trapani e Caltanissetta. Nel centro di Ponte Galeria un volantino informativo viene affisso nei locali dei servizi dell’ente gestore: una soluzione che non pare favorire in alcun modo la fruibilità da parte dei trattenuti. A Lamezia Terme il documento informativo mostrato dall’ente gestore risultava non aggiornato e contenente informazioni erronee su aspetti importanti come il tempo massimo di trattenimento. A Caltanisetta, i responsabili dell’ente gestore hanno dichiarato addirittura di non essere al corrente di dover disporre di documenti di questo tipo da consegnare ai trattenuti. Il sistema dei Cie si dimostra fallimentare nel contrasto dell’immigrazione irregolare, ma comporta un “alto costo umano” e un costo economico spropositato rispetto ai modesti risultati conseguiti. “A quindici anni dalla loro istituzione, i Cie si confermano dunque strutture congenitamente incapaci di garantire il rispetto della dignità e dei diritti fondamentali della persona - conclude il Medu. Di fatto la funzione degli entri gestori sembra limitarsi a quella di ruote più o meno efficienti all’interno di un iniquo ingranaggio - quello dei centri di identificazione ed espulsione - del quale non sono in grado di modificare, se non in modo alquanto marginale, le criticità di fondo”. In realtà, secondo “Arcipelago Cie” il trattenimento nei Cie non risponde agli scopi dichiarati - ossia l’identificazione e l’effettiva espulsione dei migranti in condizione d’irregolarità - ma piuttosto “alla necessità della punizione” e “alla segregazione di individui considerati socialmente indesiderabili”. Sarebbero dunque “uno strumento di contenimento sociale” come lo erano i manicomi. Un sistema che serve non tanto ad identificare ed espellere quanto piuttosto a sorvegliare e punire. Medici per i Diritti Umani ritiene che il sistema “non sia riformabile” e chiede dunque: la chiusura di tutti i centri di identificazione ed espulsione attualmente operativi in Italia, in ragione della loro palese inadeguatezza strutturale e funzionale; la riduzione a misura eccezionale, o comunque del tutto residuale, del trattenimento dello straniero ai fini del suo rimpatrio. Violato diritto alla salute e dilaga l’uso di psicofarmaci Nei Cie viene violato il diritto alla salute delle persone recluse. È una delle evidenze più gravi riscontrate da un team di Medici per i Diritti Umani che nel 2012 e nel 2013 hanno ispezionato tutti i centri di identificazione e di espulsione in funzione in Italia. Questo accade a causa della chiusura dei Centri di identificazione ed espulsione al mondo esterno e del prolungamento della detenzione a un anno e mezzo in strutture inizialmente costruite per un trattenimento di soli 30 giorni. In tutti i centri il personale sanitario è contrattato e gestito direttamente dagli enti gestori. “Accade così che i Cie si trovino in un’anomala condizione di extraterritorialità sanitaria del tutto svincolata dalle aziende sanitarie locali e quindi dal servizio sanitario pubblico, al cui personale è perfino interdetto l’accesso”, denuncia l’Ong nel primo rapporto indipendente sul tema, dal titolo “Arcipelago Cie”. Innanzitutto non c’è un controllo sul livello dei servizi sanitari che possono essere erogati solo dalle cooperative che gestiscono i centri e che quindi dipende “eccessivamente dalla discrezionalità e dall’efficienza dei singoli enti gestori”. I problemi riscontrati in tutti i Cie sono: difficoltà di accesso alle cure e alle prestazioni diagnostiche presso le strutture ospedaliere; impossibilità di accesso ai centri del personale delle Asl; carente comunicazione tra i singoli Ciee tra i Cie e le carceri nei casi di trasferimento di trattenuti malati; carenza di personale medico specialistico (ad esempio psichiatrico e ginecologico) che sarebbe particolarmente necessario dato il contesto dei centri, reciproca sfiducia tra i trattenuti ed il personale sanitario con conseguente compromissione del rapporto medico-paziente; notevole discrezionalità tra i veri centri nella valutazione dell’idoneità sanitaria al trattenimento. Quando un migrante soffre di una patologia grave, le cure arrivano in ritardo a causa di “un ostacolo logistico rilevante e oggettivo”, cioè della necessità di organizzare una scorta di forze di polizia ogni volta che un trattenuto deve essere trasferito presso una struttura sanitaria esterna al Cie. Spesso queste scorte non sono disponibili per carenza di personale fra gli agenti.Un altro aspetto molto grave che secondo Medu compromette il diritto alla salute “è il venir meno del rapporto di fiducia tra medico e paziente”. Se da un lato i pazienti lamentano scarsa attenzione nei confronti dei loro problemi di salute da parte del personale sanitario, dall’altro i medici nutrono il sospetto di trovarsi di fronte a sintomi simulati da “finti pazienti” il cui unico scopo sarebbe il trasferimento presso strutture esterne al Cie da dove poi tentare la fuga. Questa dinamica provoca ritardi nella diagnosi tempestiva di malattie potenzialmente gravi. L’indagine riporta “casi sconcertanti” di migranti che continuavano a rimanere trattenuti nonostante le loro condizioni cliniche fossero chiaramente incompatibili con la permanenza nel Cie. Nei Cie si riscontra un profondo disagio psichico, che può diventare devastante soprattutto nel caso di trattenimenti prolungati, e l’autolesionismo come gesto estremo di protesta contro un trattenimento ritenuto ingiusto oppure attuato nella speranza di uscire in qualche modo dal Cie. In tutti i centri è stato verificato un diffuso utilizzo di psicofarmaci, in particolare ansiolitici, che si attesterebbe nella maggior parte dei casi intorno al 40-50 per cento del totale dei trattenuti, con la punta massima presso il Cie di Milano (90 per cento) e il livello più basso a Caltanissetta (10 per cento). Secondo quanto riferito dai sanitari gli ex-detenuti che già facevano abuso di psicofarmaci prima dell’ingresso nei Cie, sono la categoria che fa maggior richiesta, oltre che delle più comuni benzodiazepine, di farmaci come il clonazepam e il biperidene. Sostanze, conosciute comunemente come “droghe di strada”. “In caso di abuso - scrivono i Medu - entrambi i farmaci possono tra l’altro indurre un effetto che provoca ansietà, euforia, stati di eccitazione e disturbi del comportamento”. Oltre a coloro che già facevano abuso di psicofarmaci in precedenza vi è poi un gruppo di trattenuti che fa richiesta di ansiolitici per placare il profondo malessere provocato dall’internamento nel Cie. “Nel complesso destano preoccupazione le modalità di gestione degli psicofarmaci all’interno dei centri - afferma il rapporto - in considerazione sia dell’alto numero e della complessità dei casi sia del fatto che nessun ente gestore dispone di personale medico specialistico”. A fronte di un quadro di questo tipo, destano grandi perplessità le affermazioni degli operatori di alcuni enti gestori. A Milano, ad esempio, il personale sanitario intervistato ha asserito che in tredici anni non è mai stata verificata all’interno del centro, la presenza di vittime di violenza, tortura o tratta. Le cause del disagio psichico sono l’inattività forzosa per prolungati periodo di tempo, in spazi angusti ed inadeguati, insieme all’incertezza sulla durata e l’esito del trattenimento. Per ragioni di sicurezza e ordine pubblico, le disposizioni di molte Prefetture tendono ad inasprire le norme che regolano la vita all’interno dei Cie “contribuendo a rendere ancor più afflittive e degradanti le condizioni di trattenimento dei migranti”. A Ponte Galeria, ad esempio, ai trattenuti non è consentito disporre di pettini, penne, libri o giornali. Nello stesso centro a novembre 2011 scoppiò una protesta poiché i trattenuti erano stati obbligati da una direttiva, poi ritirata, ad indossare esclusivamente ciabatte per evitare il pericolo di fughe. Nei centri di Gradisca d’Isonzo e Milano non è consentito invece il possesso di telefoni cellulari. Anche la possibilità di colloquio con persone provenienti dall’esterno non risulta essere garantita in modo adeguato ed è eccessivamente affidata, nei modi e nei tempi, a criteri discrezionali delle singole Prefetture. In un quadro così desolante, c’è il caso delle donne cinesi trattenute al Cie di Ponte Galeria che rispondono al vuoto di attività del centro producendo borse con i pochi materiali che hanno a disposizione: lenzuola monouso, forchette di plastica e indumenti intimi. Un altro problema è la promiscuità. Gli ex detenuti rappresentano circa il 50 per cento del totale dei migranti trattenuti nell’intero sistema dei Cie italiani, con picchi del 90 per cento a Milano e Lamezia Terme. L’orientamento di molte Questure sembra essere proprio quello di dare priorità alle richieste di trattenimento per i soggetti provenienti dal carcere o comunque con precedenti penali. Oltre ad un cospicuo numero di migranti provenienti dal carcere, l’indagine ha rilevato la presenza delle seguenti tipologie di persone: migranti appena giunti in Italia; richiedenti asilo; cittadini comunitari; stranieri presenti da molti anni in Italia, spesso con famiglia, ma senza un contratto di lavoro regolare; immigrati con il permesso di soggiorno scaduto. Per quanto riguarda le principali nazionalità - dagli ultimi dati nazionali disponibili, relativi all’anno 2011 - risultava preponderante la presenza di migranti tunisini, per la quasi totalità uomini, che rappresentavano il 49 per cento del totale dei trattenuti. Tra gli uomini le altre nazionalità più frequentemente dichiarate erano nell’ordine la marocchina, la rumena e l’albanese. Per quanto concerne i paesi di provenienza delle donne, figurava al primo posto la Nigeria seguita dalla Cina, dall’Ucraina e dalla Romania. Un dato che sconcerta è la presenza di un elevato numero di cittadini dell’Unione europea all’interno dei Cie. Nel 2011, infatti, sono transitati ben 494 migranti di origine rumena, terza nazionalità in assoluto per numero di presenze. Nel solo Cie di Ponte Galeria a Roma sono stati trattenuti nel triennio 2010-2012 oltre mille rumeni. Immigrazione: Marisa Nicchi (Sel); i Cie costano troppo e andrebbero eliminati Redattore Sociale, 13 maggio 2013 Secondo la deputata, “55 milioni di euro l’anno per la gestione è una cifra mastodontica che, se impiegata per politiche d’inclusione sociale, sarebbe molto più fruttuosa”. “I Cie costano troppo e andrebbero eliminati”. È quanto ha dichiarato la deputata di Sinistra Ecologia e Libertà Marisa Nicchi, secondo la quale “55 milioni di euro l’anno per la gestione dei Centri di Identificazione ed Espulsione è una cifra mastodontica che, se impiegata per politiche d’inclusione sociale degli immigrati, sarebbe molto più fruttuosa”. Anche perché, sostiene Nicchi, “l’Italia è uno dei paesi europei che spende meno per l’integrazione degli immigrati e dal 2008 è sparito il fondo per l’inclusione sociale e gli unici fondi utilizzati per l’integrazione dei cittadini stranieri sono iFondi Europei”. “I Cie - ha detto Nicchi - sono strutture disumane simili a quelle carcerarie in cui vengono rinchiusi essere umani colpevoli soltanto di non avere documenti e che spesso sono arrivati in Italia in fuga dalla povertà per cercare una condizione di vita più dignitosa. Non può costituire reato l’essere migranti. È necessario avviare i migranti irregolari verso una condizione di inclusione attraverso il finanziamento di adeguati corsi scolastici e corsi di formazione professionali anziché sperperare soldi per l’espulsione di persone che potrebbero essere fondamentali per il rilancio dell’economia italiana”. Mondo: non solo i due marò… 3.103 detenuti italiani all’estero di cui ci vergogniamo… di Dimitri Buffa Il Punto, 13 maggio 2013 Non solamente i due marò, ma tanti sono gli italiani che si trovano in galera per reati futili o addirittura mai commessi. E il nostro Paese che fa? Non solo non li aiuta, ma addirittura in alcuni casi interviene per contribuire alla condanna. Il Punto ne parla con i responsabili dell’associazione “Prigionieri del silenzio” che da anni lottano per far conoscere i singoli casi. Banalizzando le cose potremmo dire: “Non solo i due marò”. Gli italiani che sono detenuti all’estero, a torto o a ragione, sono 3103 secondo le ultime stime della Farnesina. Fino a oggi ce ne siamo vergognati come ladri invece di aiutarli. Abbiamo presunto la loro colpevolezza invece che l’innocenza. Adesso sono talmente tanti - e ci sono stati casi così eclatanti - che non si possono più mettere come la monnezza sotto il tappeto. Alcuni di essi sono stati monitorati dall’associazione che fa capo a Katya Anedda e a Carlo Parlanti (che fino all’anno scorso era uno degli sfortunati) e che si chiama “Prigionieri del silenzio”. Per il neo ministro degli esteri Emma Bonino, campionessa dei diritti umani, quello dei detenuti italiani all’estero è uno dei dossier più scottanti. E tutti aspettano di vedere se invertirà la prassi sinora seguita dal Mae. Prigionieri del silenzio Ricorda la Anedda: “La prima volta che mi sono occupata di italiani arrestati all’estero è stato nel 2004 quando Carlo Parlanti, mio ex convivente fu fermato in Germania per un mandato di arresto emesso dagli Stati Uniti, prima di allora non mi ero mai sognata di fare una ricerca su Google con la chiave “italiano detenuto all’estero”, siamo il Paese del diritto e la prigione ci sembra una cosa che non ci appartiene e quindi inconsciamente pensiamo: se è in prigione qualcosa ha fatto, sino a che la prigione non arriva nelle nostre vite”. “Uno dei primi casi di cui ho sentito - dice ancora la Anedda - fu quello di Lorenzo Bassano nel 2007. Noi, eravamo “fortunati” perché non avevamo paura di pubblicare gli atti del processo, perché tutto evidenziava una storia assurdamente kafkiana e nonostante l’abbandono di amici che invece pensavano come l’italiano medio senza informarsi, molta nuova gente si era avvicinata al caso di Carlo e tentava di aiutarci. Lorenzo Bassano, anch’esso si poteva ritenere fortunato perché, nonostante la sua “colpevolezza”, molte furono le manifestazioni in suo favore. Lorenzo era un regista di spot pubblicitari quindi molto conosciuto nel mondo mediatico e molti si erano immedesimanti in lui, non era difficile farlo, visto il reato che gli veniva contestato”. Cioè? “Lorenzo è stato colpevole di un’incoscienza che almeno il 50% degli italiani compie in viaggio all’estero: si era recato a Cuba, dimenticando in una scarpa, o nella tasca dei jeans meno di un grammo di hashish... dopo due giorni fu arrestato anche Andrea De Angeli, un ragazzo di 21 anni che si era concesso un viaggio come premio di laurea (in architettura) trovato con meno di dieci centigrammi grammi di fumo, ambedue rischiavano dai 4 anni all’ergastolo... “. È bene precisare che esistono migliaia di Lorenzo Bassano e Andrea De Angeli in Italia, ma non li consideriamo criminali. Se invece finiscono in carcere all’estero per i medesimi “reati” (farsi le canne) lo Stato, la Farnesina, li abbandona a se stessi. Caso Parlanti Il caso Parlanti, che è quello che ha coinvolto personalmente la Anedda fino a farla diventare un’attivista dei diritti umani, ultimamente ha preso una piega che potrebbe creare non pochi problemi diplomatici all’Italia. Carlo ha scontato da innocente l’intera pena di nove anni di carcere negli Usa dopo la falsa denuncia della sua ex compagna che per ripicca di essere stata lasciata lo denunciò per maltrattamenti, stupro e altre cose del genere. In Italia però, ad aiutare le pessime indagini fatte in America, in California a Westlake nella contea di Ventura, ci pensò un esponente della polizia italiana a Milano che agì solo per “fare un favore” all’americana Fbi tramite un attaché di ambasciata a Roma. Arrivarono a fabbricare dei falsi e ci sarebbe la prova anche in scambi di email e di documenti trafugati che aiutarono gli Usa a ottenere l’estradizione di Parlanti dalla Germania. Dove nel frattempo era stato fermato nell’aeroporto di Dusseldorf. In America Parlanti sarebbe dovuto essere rimesso libero su cauzione, anche perché la denunciante era stata fotografata, nei giorni in cui sarebbe stata percossa e stuprata, ma appariva in insolita buona forma. Non compatibile con le denunce fatte allo sceriffo locale. Provvidenzialmente dall’Italia arrivò un documento preso abusivamente da un vecchio fascicolo del 1989, archiviato senza mai arrivare a indagine e relativo a una vecchia denuncia per maltrattamenti di un’ex dello stesso Parlanti. Tanto bastò per farlo trattenere in carcere e poi per farlo condannare in America, come se si fosse trattato di un recidivo del settore. Adesso sia l’ispettore di polizia italiana sia l’attaché di ambasciata sono stati denunciati dallo stesso Parlanti e presto potrebbero essere indagati anche per calunnia. L’affaire greco Un altro caso pazzesco è quello di un giovane condannato in Grecia a oltre quindici anni di carcere per traffico di droga: per anni aveva chiesto alle autorità greche di potere scontare la pena in Italia, sulla base della convenzione di Strasburgo, ma siccome c’era pure una pena pecuniaria che lui non era in grado di pagare, si fece l’intera condanna. Quando fu scarcerato ed espulso verso l’Italia per fine pena ecco la sorpresa: qui da noi è catturato all’aeroporto e messo in carcere. Dove si trova da un anno. E questo perché, siccome nessun interprete capiva il greco e ha potuto leggersi la sentenza e poi la dichiarazione di pena espiata, semplicemente una manina della burocrazia ha riesumato la sua richiesta di scontare la pena in Italia. E tutti credevano e ancora credono che la Grecia lo avesse rimandato qui per scontare il residuo pena e non perché ormai l’avesse espiata. “A Prigionieri del Silenzio - racconta la Anedda - arrivano giornalmente tante storie, persone colpevoli o innocenti... che hanno comunque dei diritti e quello principale è un giusto processo e vivere nel rispetto dei diritti umani fondamentali. I pochi fortunati che hanno avuto il coraggio di parlare e far sentire la loro voce sopravvivono sperando, la gran parte vivono nel tormento e in un terrore profondo”. Sì perché non sono rari i casi in cui ci scappa il morto. Due di essi ce li siamo fatti raccontare da persone che hanno voluto tenere l’anonimato. Uno è quello di Claudio Castagnetta, ricercatore partito per il Canada per un master che viene arrestato - dicono - per disturbo alla quiete pubblica. Dopo due giorni viene trovato morto nella sua cella, dicono che si sarebbe suicidato sbattendosi la testa contro il muro, sta di fatto che le scuse del ministero canadese sarebbero arrivate in seguito... ufficialmente... ma Claudio non può più festeggiare il suo compleanno con i suoi cari. Ancora più incredibile, e sconvolgente, il caso di Simone Renda, bancario arrestato in Messico. Il ragazzo si era sentito male proprio il giorno della ripartenza per l’Italia e non aveva avuto la forza di uscire dalla stanza dell’albergo. Così il proprietario mandò una cameriera a sfrattarlo. Quest’ultima entrando nella camera con il passe-partout per fare le pulizie lo trovò nudo e riverso sul letto. Quindi chiamò la polizia che lo portò nelle prigioni messicane. La cosa fu venduta come una specie di caso Strauss Khan in sedicesimo. Il ragazzo soffriva di una malattia per cui non poteva stare a lungo senza bere, venne però lasciato senza cibo e acqua per due giorni... così morì in cella. La madre, Cecilia Renda, cominciò allora a lottare per chiedere giustizia per il suo ragazzo. Si venne a sapere subito che Simone poteva e doveva essere scarcerato, ma la stessa guardia della prigione in tribunale ammise di non averlo rilasciato solo perché “non aveva una penna per firmare il rilascio”. Oggi Cecilia lotta ancora per fare riaprire il processo contro gli aguzzini del figlio che l’hanno passata liscia. Francia: la fidanzata del detenuto italiano morto in cella “due giorni fa stava benissimo…” di Stefano Origone la Repubblica, 13 maggio 2013 La rabbia della fidanzata del giovane deceduto a Grasse. La famiglia autorizzata a vedere il corpo prima dell’autopsia. Un telegramma di poche righe non basta per far tacere un padre e archiviare la morte di un ragazzo di 29 anni con un generico “arresto cardiaco”. Giancarlo Faraldi e la compagna del figlio, Chantal Jiboin, vogliono la verità. Claudio è morto mercoledì scorso, mentre scontava una pena di 5 anni nel carcere di Grasse per una rapina nel 2011 in Costa Azzurra. Lo stesso carcere dove nel 2010 era morto in circostanze misteriose un altro italiano, Daniele Franceschi. “L’ho incontrato a colloquio due giorni prima che morisse, lunedì, ed era in perfetta forma”, racconta la compagna. Lo vedeva spesso, ogni settimana, e si era trasferita da Nizza a Grasse per stargli vicino. “Non mi aveva mai parlato di malori, insomma di segnali che potessero far pensare a qualcosa di grave in arrivo”. “La droga? Non c’entra niente, aveva chiuso con la roba dopo che era scappato da San Patrignano, e comunque mio figlio aveva un fisico sano”, interviene il padre. Giancarlo Faraldi vive a Ventimiglia. Domani andrà a parlare con le autorità d’Oltralpe. “Prima devo passare dalla polizia, la nostra polizia, per ritirare dei documenti, poi andrò al consolato, a Nizza, per presentare ufficialmente l’esposto”. La successiva tappa sarà il carcere: ieri la Farnesina ha informato la famiglia che potrà vedere il corpo del ragazzo prima dell’autopsia che verrà eseguita giovedì. “Controllerò con molta attenzione che non presenti segni di violenza. Se, al contrario verrà fuori qualcosa di strano, andremo fino in fondo, qualcuno dovrà pagare”. Chantal è arrivata ieri a Ventimiglia. “Non credo che Claudio sia morto per un attacco di cuore - racconta - Aveva smesso da sei mesi di assumere antidepressivi e altri medicinali e aveva già un posto di lavoro per quando sarebbe uscito, come operaio in una fabbrica di profumi di Grasse. Era pulito, educato e gli era stata anche ridotta la pena, proprio per la sua buona condotta”. Grasse: il carcere dei sospetti (Il Tirreno) Ancora un morto in carcere. E ancora nel penitenziario di Grasse, in Costa Azzurra. Un ragazzo di Ventimiglia di 29 anni, Claudio Faraldi, è infatti morto nella sua cella all’interno della prigione francese a quanto pare per un attacco cardiaco. Lo stesso carcere dove tre anni fa morì Daniele Franceschi, l’operaio viareggino di 36 anni le cui cause del decesso non sono state ancora chiarite. Le autorità francesi, anche in quel caso, le attribuirono a un malore. Ma la mamma Cira Antignano ritiene invece che la verità sia ben altra. Adesso anche i genitori di Faraldi vogliono che sia fatta chiarezza sul decesso del loro figlio. “Siamo stati avvertiti solo venerdì”, racconta il padre Giancarlo. “Non credo all’attacco di cuore: mio figlio era giovane e sano e mi domando se sia stato assistito a dovere”. Il figlio stava scontando una pena di cinque anni per una rapina compiuta nel 2011 in Costa Azzurra ed era detenuto da sei mesi. “Voglio vedere mio figlio prima dell’autopsia in programma il 16 maggio”, aggiunge il padre di Claudio, che alcuni anni fa ha perso la figlia Stephanie durante un’apnea. Appresa la notizia di questo decesso nel carcere di Grasse, la madre di Daniele Franceschi, Cira Antignano, vuol far sentire la sua vicinanza ai familiari di Claudio. “Devono battagliare come sto facendo io - dice - ed imporsi per vedere il figlio prima dell’autopsia. Purtroppo non è stato così per Daniele: io l’ho visto avvolto in un telo quando ormai avevano fatto l’autopsia e sono ancora in attesa di capire cosa gli sia realmente accaduto. Capisco il loro dolore, perché quel dolore è anche il mio. Sono meravigliata dal fatto che anche in questo caso parlano di un attacco di cuore. Sono tutte scuse per nascondere la verità. Giovedì sono stata convocata presso il Ministero degli Esteri, perché devono farmi delle comunicazioni: non so di cosa si tratti, ma mi chiedo se è solo una coincidenza che questa convocazione arrivi in contemporanea con il decesso di quest’altro italiano”. Il padre: autorità italiane assistano all’autopsia “Ho avuto conferma dal Consolato d’Italia a Parigi che saranno presenti anche le autorità italiane il giorno che rivedrò mio figlio. Chiedo che le stesse autorità presenzino anche all’autopsia”: questa la richiesta avanzata oggi da Giancarlo Faraldi, il padre di Claudio, il giovane di 29 anni di Ventimiglia morto in carcere a Grasse, in Francia, l’8 maggio scorso in circostanze tutte da chiarire. “Entro oggi - ha detto Faraldi - sapremo quando potrò recarmi a Grasse, credo martedì mattina, al massimo mercoledì. Sicuramente prima dell’autopsia. Chiedo solo che venga fatta chiarezza sulle cause della morte di Claudio. E che le autorità siano presenti all’autopsia”. Insieme a Giancarlo è probabile che si rechino a Grasse anche la madre di Claudio Faraldi, Francesca, e la fidanzata Chantal. Svizzera: spazio nelle carceri scarseggia, incentivata alternativa lavoro di pubblica utilità www.cdt.ch, 13 maggio 2013 Il problema del sovraffollamento nelle carceri svizzere sta tornando alla ribalta toccando, ciclicamente, anche il Ticino. È dei giorni scorsi la notizia della decisione di installare dieci ulteriori letti a castello (che si aggiungono alla ventina posati qualche anno fa) al carcere giudiziario della Farera per far fronte anche al numero crescente di detenuti (nel 2012 ci sono state oltre 2.000 entrate e nei primi tre mesi di quest’anno si è già arrivati a quota 582, salendo a fine aprile a 727). Ed anche le ultime cifre, dichiara il direttore generale delle strutture carcerarie ticinesi, Fabrizio Comandini, confermano la tendenza all’aumento. “Attualmente - precisa - alla Stampa sono detenute 123 persone (quota massima a regime ordinario 130) ed alla Farera 60 (a 78 si registra il tutto esaurito)”. Per quanto concerne il Giudiziario, basterebbe ora una grossa inchiesta con arrestati per far salire l’asticella verso la zona dell’emergenza. Con il rischio, sottolinea il direttore generale, di dover magari mettere nella medesima cella carcerati di etnie diverse (non interessati, ovviamente, alla stessa indagine): la possibilità di incomprensioni e di liti tra i due indagati a stretto contatto nell’angusto spazio diventerebbe, a questo punto, decisamente alto. Il fenomeno, che preoccupa ormai da tempo l’autorità, ha alcune valvole di sfogo, riservate, comunque, solo a persone condannate a pene brevi: parliamo del lavoro di utilità pubblica (Lup) e del braccialetto elettronico, in pratica una cavigliera che consente di scontare una sorta di arresto domiciliare con precise regole da rispettare, pena il rientro in carcere aperto per terminare di saldare il conto con la giustizia. Si tratta di misure previste dal Codice penale che tengono lontane dal penitenziario (sezione aperta) decine e decine di persone: individui che altrimenti affollerebbero lo Stampino. Negli ultimi tempi, non manca chi sostiene che il lavoro di pubblica utilità ed il braccialetto elettronico potrebbero essere presi in considerazione anche per pene superiori ai sei mesi o un anno. Stati Uniti: a New York si avviano programmi di recupero per detenuti malati mentali Tm News, 13 maggio 2013 New York sta facendo un passo avanti per concretizzare l’originale missione rieducativa del sistema carcerario. A partire da luglio i detenuti con problemi mentali che infrangono le regole della prigione non saranno più costretti all’isolamento, ma verranno inseriti in un programma di attività per imparare a mantenere un comportamento corretto. Fino ad oggi, spiega il New York Times, tutti i carcerati sono stati trattati alla stessa maniera, qualunque fosse la loro condizione mentale. Ma il sistema indiscriminato della reclusione in celle isolate, con al massimo un’ora d’aria al giorno, non sembra aver portato a buoni risultati. Di fatto “non migliora il comportamento”, ha chiarito il commissario alla salute di New York Thomas Farley, ma anzi “peggiora i sintomi della malattia”. Nelle carceri di New York, dove negli ultimi anni il ricorso all’isolamento è aumentato del 44 per cento, si tratta di un radicale cambio di rotta. Con un detenuto su tre con disturbi di mente, la prigione è divenuta “uno maggiori centri di assistenza per persone con malattie mentali nella nostra società”, ha spiegato Farley. Per questo da luglio i carcerati fino ad ora destinati all’isolamento, verranno trasferiti in cliniche interne al centro di detenzione per essere sottoposti a terapie psichiatriche e cure mediche.