Serve una svolta nelle politiche sulla droga. Puntare sulle misure alternative al carcere Il Mattino di Padova, 8 luglio 2013 Un detenuto su tre entra in carcere ogni anno per la violazione dell’art. 73 della Legge Fini-Giovanardi sulle droghe (detenzione di sostanze illecite). Alla fine del 2012 gli ingressi totali in carcere sono stati infatti 63.020, quelli per violazione del solo art. 73 della legge antidroga 20.465, pari al 32,47 %. Sono i dati dell’edizione 2013 del “Libro bianco sulla legge Fini-Giovanardi”, presentato in questi giorni dalle organizzazioni da anni impegnate su questi temi, che chiedono oggi una riforma profonda delle politiche sulle droghe e avanzano una proposta di interventi legislativi urgenti per limitare il flusso di entrata in carcere e costruire alternative alla galera per i tossicodipendenti. I testi sono stati depositati come proposte di legge di iniziativa popolare, per le quali si stanno raccogliendo le firme in molte piazze italiane. Firme importanti, perché qualcosa bisogna pur cambiare in una situazione carceraria, in cui i tossicodipendenti sono per lo più parcheggiati in una specie di limbo inutile, se non pericoloso, e spesso escono in condizioni peggiori di quando sono entrati. Il racconto di una donna detenuta e di un ragazzo immigrato giovanissimo e finito ben presto nel disastro della droga ci fanno capire che le droghe portano in carcere persone giovani, e rovinano loro la vita: bisogna allora cercare strade nuove, puntare di più sulle misure alternative, smetterla di credere che la soluzione sia rinchiudere le persone. Ho fatto una vita schifosa, droga e galera Spiegare la situazione in cui mi trovo è semplice: sono in carcere, ho buttato via più di dieci anni della mia vita, ho un figlio che non vedo da due anni, ho i genitori anziani che non so ancora quanto mi durano, sinceramente questa vita mi fa schifo, non me ne frega più di niente, voglio che mi lascino perdere, voglio diventare un punto invisibile qui dentro. Voglio essere lasciata in pace, quella è la mia branda, quello è il mio armadietto, fatemi fare il mio fine pena e non rompetemi le scatole. Il problema è che non ho neanche le idee chiare sul mio fine pena, che dovrebbe essere nel 2017, o forse no?! Poi magari arrivano altre denunce e tutto il resto e forse vado anche al 2020, quando finisci per diventare dipendente dalla droga, non tieni più neppure il conto dei processi e delle condanne e degli anni in più di pena che ti possono arrivare. Io non sono abituata ad avere paura, non ho paura quasi di niente, non ho paura neanche di morire, però devo stare tutti questi anni qui dentro, e allora l’ansia comincia a mangiarmi dentro. Mia mamma ha 75 anni, se un giorno mi chiamano giù in matricola e mi dicono che mia mamma è morta io non so cosa faccio! E lì ho paura! Ho paura! Perché io non so se vivo un giorno di più?! Se poi dico che mio figlio sono più di due anni che non lo vedo, mi domando anche continuamente: è giusto che vado avanti, che cerco di combattere per vederlo o è meglio che gli lascio fare la sua vita? Senza rompergli le scatole, senza fargli fare avanti e indietro per le galere fino a quando non ha non so quanti anni, perché io in cambio cosa gli darei? Cosa gli posso dare? Io che non ho niente, che cosa gli do? Che viene sei volte al mese in galera a vedere una madre che non conosce neanche più, a vederla chiusa così qui dentro, cosa gli spiego, cosa gli dico, che ha un padre sotto terra e una madre di m., cosa gli dico? Cosa gli spiego a quel bambino, allora cosa faccio? Mi faccio un esame di coscienza, dico che ho vissuto finora una vita schifosa, droga e galera, e allora continuo a farmela la mia vita schifosa, non tiro anche mio figlio nel mio schifo, lo lascio dov’è, lo lascio in pace?! Però non so cosa fare perché sento di aver bisogno di quel bambino, ma quello di cui ho bisogno io, non è detto che faccia un bene a lui, perché ormai la mia vita rischia di essere del tutto rovinata. T. S. Emigrare a sedici anni e poi farsi tentare dalle “scorciatoie” della droga Era una bella giornata d’estate, un sole incandescente batteva sulla costa dell’Adriatico. Il 10 agosto del 2003 fu l’inizio della mia avventura in un Paese straniero. All’epoca ero minorenne, avevo 16 anni per l’esattezza, ma ciò non mi fermava dall’idea di realizzare i miei sogni. Dico sogni perché sin da piccolo nel mio quartiere in una città dell’Albania sentivo spesso parole tipo: ciao, amico mio, morto di fame, buongiorno, e quelle parole mi sembravano magiche, e penso che abbiano inciso profondamente sul mio cammino da grande. Una volta sbarcato a Brindisi con il traghetto, clandestinamente, mi pareva di volare, il cuore mi batteva a mille, ero ubriaco di felicità. Con tanta fatica sono riuscito a prendere il treno per Padova, dove abitava mia zia con i suoi due figli, loro mi hanno accolto calorosamente e dato ospitalità. Dopo una settimana ho cominciato a lavorare con mio cugino più grande, lui era un artigiano idraulico, così gli davo una mano e lui mi pagava come apprendista. Filava tutto liscio, lavoravo da tre mesi senza interruzione, avevo messo qualche soldo da parte e i miei sogni mano a mano diventavano realtà. Però c’era qualcosa che mi dava fastidio e a volte mi faceva tanta rabbia. Avete presente quando ti spacchi la schiena lavorando onestamente e alla fine non vieni rispettato, neanche degnato di un semplice saluto tipo “ciao”? Mi riferisco a quelle persone che davano lavoro a mio cugino, architetti, ingegneri. Io nella mia cultura non considero nessun essere umano superiore, a prescindere dalla posizione sociale che occupa. Ma neanche mi considero superiore a nessuno. Quando ho chiesto a mio cugino perché questa forma di ostilità, lui mi ha rimproverato dicendomi che ero un ragazzino e queste cose non le dovevo mai più pensare. Può essere che io ero un ragazzino, però avevo bisogno che qualcuno mi spiegasse con più sincerità che a volte sul lavoro bisogna anche subire atteggiamenti sgradevoli, e magari sarei diventato più flessibile. Ecco questa ipocrisia invece non mi stava bene, io detesto l’ipocrisia, e cosi decisi di andare per la mia strada. Ben presto finii in una comunità per minori, e iniziai a frequentare la scuola, ma non riuscivo a integrarmi, volevo un lavoro che però non era permesso in comunità. Compiuti i 18 anni venni chiamato dal direttore, che mi spiegò che loro non avevano più la possibilità di ospitarmi in quanto avevo raggiunto la maggiore età. E per la legge dovevano sbattermi fuori subito, però lui fu gentile e mi concesse una settimana di tempo. Una volta fuori dalla comunità cominciarono le peripezie, ormai ero grande, o meglio dovevo crescere in fretta, questo pensiero mi spingeva a cercare sempre di più per la mia vita. Nel giro di un breve tempo caddi nella tentazione della droga, diventai uno spacciatore e nello stesso tempo un consumatore di cocaina. Ora so che quel di più che ho cercato per la mia vita mi ha portato in una brutta strada, e la vita me l’ha rovinata e sicuramente non migliorata. La droga ha un fascino particolare, ti prende e ti trascina in un mondo dove ti sembra di essere solo tu e nessun altro, ti fa sentire importante. Mi viene in mente uno scrittore famoso che dice molto ironicamente “Guarda la coca e vedrai solo della polvere, guarda attraverso la coca e vedrai il mondo”,in un certo momento della mia vita all’età di 18-19 anni ho pensato di vedere il mondo da quel punto di vista superficiale e distorto. La droga poi ti fa conoscere delle compagnie che in quei momenti ti sembrano i tuoi migliori amici, ma in realtà non è così. Menzogna, la tua vita diventa tutta una menzogna e una continua autodistruzione della tua stessa personalità. Come è successo a me, frequentando delle compagnie poco raccomandabili mi sono trovato in mezzo a un omicidio per un regolamento di conti. Il reato per cui sono stato condannato è concorso in omicidio e sto pagando con la pena di anni dieci mesi sei di reclusione. Quando entri in carcere una rivoluzione interiore travolge radicalmente la tua vita precedente. Riflettendo capisci che non puoi essere nato solo per provocare guai e nuocere agli altri, e cosi il tuo inconscio prova forti sensi di colpa e ti spinge a costruire, anche se con tanti punti di domanda, un itinerario diverso per la tua nuova vita. In sei anni di carcere ho capito che l’essere umano ha una intelligenza che, se non si sviluppa in maniera equilibrata, diventa distruttiva per la sua umanità stessa. Ma credo sia anche importante capire che se il cattivo uso della propria intelligenza ha generato cattive azioni, quella stessa intelligenza può essere fatta fruttare per trovare i mezzi per cambiare, dando una svolta importante alla propria vita. Lejdi S. Giustizia: inumane e sovraffollate, il dramma delle carceri di Dario Stefano Dell’Aquila (Antigone Campania) La Repubblica, 8 luglio 2013 Nel mentre si discute del decreto per ridurre il sovraffollamento nelle carceri non si arresta una triste sequenza di dolore. Contiamo quattro suicidi solo nelle carceri campane nell’ultimo mese. Quattro storie diverse con un destino comune, destinate a finire, nel migliore dei casi, tra le brevi di cronaca. Il 31 maggio si è tolto la vita un detenuto straniero nel carcere di Poggioreale, 2.700 presenze su una capienza di 1.400 posti. Il 19 giugno, nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Secondigliano, si è tolto la vita un sofferente psichico di 29 anni. Il 20 il suicidio di Luigi D., di 38 anni, di nuovo a Poggioreale. Poche notti fa un altro detenuto si è tolto la vita nel carcere di Secondigliano. Senza retorica, con il rispetto che richiede il dolore, dovremmo davvero chiederci se ci troviamo di fronte ad un destino cinico e baro o se forse non vi è una responsabilità pubblica e politica per tutto questo? Perché si tratta di persone per le quali era presumibile che l’impatto con il carcere e le condizioni detentive determinassero condizioni di stress e di vulnerabilità. Perché la costrizione in una cella 22 ore su 24, la condivisione di spazi angusti e in precarie condizioni igieniche con altre persone, l’assenza di spazi di socialità e di relazioni umane, la mancanza assoluta di momenti di privacy, determina una privazione di identità che ferisce anche la persona più strutturata. Se poi chi entra in carcere ha già un problema psichico, la sorte che l’attende non è quella della cura. La deputata Luisa Bossa ha segnalato in un’interrogazione parlamentare, presentata dopo una visita di Mario Barone di Antigone, che a Poggioreale ci sarebbe una sorta di “reparto psichiatrico” con detenuti con problemi specifici di carattere psichico ristretti in isolamento, senza assistenza medica continuata e in contrasto con i principi dell’ordinamento penitenziario e con le stesse circolari in materia emesse dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Ma è una condizione diffusa in tutte le carceri del nostro Paese, come testimoniano, più di recente, le sentenze di condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo. Quando, nel gennaio del 2010 l’allora ministro della Giustizia Alfano proclamò lo stato di emergenza nelle carceri, annunciando un ambizioso e costoso piano straordinario di edilizia penitenziaria che avrebbe consentito di risolvere il problema del sovraffollamento, vi erano circa 20 mila detenuti in più della capienza ufficiale. Sono trascorsi oltre tre anni e ben 219 suicidi. Ma l’emergenza è oggi ancora tutta lì, con gli stessi identici numeri di ieri. Perché non sono le parole a fermare la morte. Oggi le misure contenute nel decreto legge che affronta l’emergenza carceri consentiranno, a chi è condannato ad una pena inferiore a due anni, di ottenere una pena alternativa, amplieranno la possibilità (per pochi casi) di essere condannati ai lavori socialmente utili in luogo della pena detentiva, estenderanno lo spazio di applicazione delle misure alternative. In base alle stime dello stesso ministro, questo provvedimento consentirà di ridurre, nei prossimi due anni, di circa 6000 detenuti in meno. Il ministro, inoltre, ha promesso 5000 nuovi posti per l’anno prossimo e altri 5000 entro il 2016, in base al piano carceri approvato nel 2010. Fra tre anni, dunque, se tutto va bene, avremo ancora 5 mila detenuti in più, ma, garantiti i profitti delle imprese edilizie, potremmo parlare allora di ordinario affollamento e non più di emergenza. E nel frattempo? Nel frattempo si muore e si sta male. Tutto questo non dipende solo dal sovraffollamento. Sono due i fattori determinanti. Da un lato le politiche penali hanno assunto un ruolo dominante nella scena politica, arrivando nei fatti a condurre in carcere non tanto esponenti della criminalità organizzata, ma migliaia di immigrati e tossicodipendenti, sanzionando con pene molto alte reati di minore gravità. Dall’altro, nelle carceri si è progressivamente affermata, tranne rare eccezioni, una cultura materiale quotidiana fatta di inumanità, abbandono e degrado. Fare qualcosa per le carceri non significa limitarsi ad approvare qualche provvedimento di riforma, ma mettere al centro dell’azione politica i temi della libertà e della tutela dei diritti fondamentali, della depenalizzazione, dell’abrogazione delle norme punitive per i migranti e della fine di politiche proibizioniste in tema di sostanze stupefacenti. Non sono questioni che riguardano i detenuti, ma tutti i cittadini. La nostra sicurezza non dipende dal numero di persone che sono detenute, ma dai diritti e le libertà che ci sono garantiti. Ci sono vite che attendono invano e ci sono diritti che non aspettano oltre. Giustizia: il vero bivio tra indulto e amnistia di Gustavo Zagrebelsky La Stampa, 8 luglio 2013 Il riferimento generico all’amnistia, fatto senza particolari precisazioni in interventi destinati alla pubblica opinione, va spacchettato e sciolto per vedere cosa può contenere. Il favore dichiarato dal ministro della Giustizia per un’amnistia non può certo esprimere solo un’opinione personale. È invece da credere che sia l’annuncio della posizione di questo governo, diversa da quella del precedente. Evidentemente si considera insufficiente il recente provvedimento in materia di pene detentive. In effetti, non si capisce come possano essere state diffuse stime di migliaia di detenuti che ritroverebbero la libertà o otterrebbero pene alternative al carcere. Per ciascuno dovrà intervenire la decisione del giudice, che, secondo i criteri ordinari, dovrà valutare in particolare se vi sia rischio di recidiva. Il risultato è naturalmente imprevedibile e comunque non sarà rapido come sarebbe necessario. Il riferimento generico all’amnistia, fatto senza particolari precisazioni in interventi destinati alla pubblica opinione, va spacchettato e sciolto per vedere cosa può contenere. In particolare bisogna distinguere l’amnistia dall’indulto o condono. Quest’ultimo è sostanzialmente uno sconto di pena, che produce un’anticipazione della liberazione per i condannati che siano detenuti. L’amnistia invece estingue il reato: prima della sentenza non si ha condanna e dopo la sentenza cessa l’esecuzione della pena. In passato solitamente il provvedimento di clemenza conteneva sia l’amnistia, che l’indulto. L’amnistia estingueva i reati minori - normalmente quelli pretorili, punibili con la pena massima di tre anni di reclusione - con molte specifiche esclusioni. L’indulto invece condonava le pene pecuniarie e uno o due anni di quelle detentive. Anche il provvedimento di indulto prevedeva limiti, escludendo categorie di reati e di condannati, come i recidivi. Salvo immaginare che si pensi a un’amnistia di enorme ampiezza, tale da coprire ed estinguere reati anche molto gravi, il suo effetto sul numero dei detenuti presenti nelle carceri italiane sarebbe minimo. Sostanzialmente porterebbe a marginali riduzioni di pena per detenuti che, unitamente alla sanzione per gravi reati, scontano anche quella per i reati minori ricompresi nell’amnistia. Rimarrebbe irrisolto il problema del sovraffollamento delle carceri, che vedono ora presenti quasi ventimila detenuti in più dei circa quarantamila posti dichiarati dal ministero. L’amnistia servirebbe invece a orientare gli uffici giudiziari verso la definizione dei procedimenti per i reati più gravi, eliminando una massa di procedimenti minori, destinati spesso alla prescrizione. E, se la amnistia è unita all’indulto, si eviterebbe di condurre processi sostanzialmente inutili, essendo la pena comunque condonata. Guardando al problema gravissimo del sovraffollamento delle carceri, che infligge a molti detenuti un trattamento inumano, vietato dalla Costituzione e della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, lo strumento è l’indulto. Si calcola che il condono di un anno di reclusione possa portare alla liberazione anticipata di circa diecimila detenuti, condannati a pene brevi o che ne hanno già scontata una parte e sono quindi prossimi alla liberazione. L’indulto ha anche il vantaggio di operare immediatamente. E la rapidità del risultato corrisponde alla necessità assoluta di non protrarre una situazione di grave violazione in cui l’Italia si trova. Naturalmente si tratterebbe di un provvedimento di emergenza, poiché il problema del sovraffollamento nelle carceri richiede provvedimenti strutturali. È indispensabile la selezione dei reati puniti con pene detentive in carcere, insieme all’ampliamento del numero e della natura delle sanzioni non detentive e all’adeguamento degli edifici carcerari e del personale che vi è addetto. Ma i tempi non sono brevi. Indulto quindi e piccola e ben calibrata amnistia al seguito. Non viceversa. Questo è il provvedimento necessario e urgente se, come si dice, si vuole affrontare il problema dell’eccessivo numero di detenuti in rapporto alla possibilità delle carceri di riceverli. In questo senso si potrebbe dire questa volta che “ce lo chiede l’Europa”, aggiungendo anche che “ce lo chiede la Costituzione”, che vieta pene contrarie al senso di umanità. Ma l’improvvisa conversione di tanti tra le forze politiche finora indisponibili, sollecita qualche interrogativo, che occorrerebbe chiarire subito. L’amnistia estingue il reato e fa cessare sia le pene principali, che quelle accessorie. L’indulto estingue o riduce solo la pena principale. Le pene accessorie sono varie, legate al tipo di reato e alla gravità della pena: dall’interdizione dai pubblici uffici, che comporta l’ineleggibilità del condannato, alla interdizione da una professione o dagli uffici direttivi delle imprese, alla incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, alla decadenza o sospensione dalla potestà di genitore. Esse, anche se dette appunto “accessorie”, hanno un rilevante significato tanto che nei progetti di riforma del diritto penale se ne raccomanda la trasformazione in pene principali, talora in luogo della pena detentiva. La loro estinzione è automatica con l’amnistia ed è solo eventuale con l’indulto, se c’è una previsione espressa. Non vi è evidentemente alcun legame con il problema urgente del sovraffollamento delle carceri. Ma potrebbe rispondere a una finalità diversa. Si richiede un intervento di “pacificazione” e si è arrivati addirittura ad assimilare questa prossima amnistia alla “amnistia Togliatti” che nell’immediato dopoguerra volle contribuire alla fine della guerra civile che aveva insanguinato l’Italia. Se ne è parlato già al tempo delle trattative per la formazione del governo, con la sua “strana maggioranza”. Se ci sarà un disegno di legge governativo o un’iniziativa parlamentare capiremo di più. Non è immaginabile un’amnistia amplissima, tale da coprire per esempio le frodi fiscali o delitti per i quali i trattati internazionali chiedono all’Italia maggiore severità, come la corruzione. Ma accanto ad un’amnistia della portata normale, già conosciuta nel passato, e all’ombra di essa potrebbe passare un indulto applicabile a una vasta schiera di reati e comprensivo delle pene accessorie. La maggioranza richiesta dei due terzi dei componenti di Camera e Senato dovrebbe però approvare un articolo che specificamente preveda il condono delle pene accessorie e tra queste quella che prevede la ineleggibilità. Poiché v’è un’unica ineleggibilità che in concreto pesi politicamente, quella che rischia Berlusconi, la portata generale della legge di amnistia e indulto nasconderebbe in realtà un provvedimento diretto alla persona. Le proposte di legge, gli emendamenti, il dibattito e la legge finalmente approvata permetteranno di valutare la genuinità della nuova disponibilità a un atto di clemenza nei confronti dei detenuti. Giustizia: intervista a Vittorio Ferraresi deputato M5S “Noi giustizialisti? No, pragmatici” di Eleonora Martini Il Manifesto, 8 luglio 2013 Vittorio Ferraresi, 26 anni da compiere a settembre, studente di Giurisprudenza, è uno dei due pentastellati che siede in commissione Giustizia alla Camera. E giovedì scorso è intervenuto in Aula e in diretta tv per motivare il no del Movimento 5 Stelle al ddl - passato ora al vaglio del Senato - che introduce la pena della detenzione domiciliare e rimodula l’istituto della messa alla prova. Ha parlato di Giuseppe Uva e di quanti attendono ancora giustizia per un congiunto morto mentre si trovava sotto la custodia dello Stato. Eppure il suo discorso è stato criticato, per esempio da Sel, perché a tratti intriso di un giustizialismo piuttosto retrivo. Cosa risponde? Il nostro è un “no” non ideologico, non politico, ma di merito, tecnico. Non siamo giustizialisti, siamo per la certezza della pena ma anche per la rieducazione del condannato. Il nostro ragionamento non è quello della Lega nord, almeno non totalmente. Ci siamo astenuti sull’articolo che riguarda la messa alla prova perché condividiamo il principio generale ma chiedevamo di migliorarlo, per esempio escludendo reati come lo stalking. Abbiamo presentato tanti emendamenti frutto di un lavoro congiunto con esperti di diritto ma li hanno respinti tutti. Non è un buon sintomo di collaborazione. Al provvedimento che riguarda la detenzione domiciliare abbiamo votato no perché siamo contrari allo strumento della delega. Una questione di metodo? Riteniamo che il Parlamento sia ormai svuotato di potere, lo abbiamo visto col decreto sull’emergenza ambientale la cui legge di conversione è passata alla Camera tre settimane fa, con il decreto “del Fare”, con il decreto “svuota carceri” e pure con la legge di sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili. Pongono questioni importanti affrontate con l’escamotage dell’urgenza e inseriti in pacchetti quasi sempre disomogenei. Andrebbero invece affrontati separatamente, considerando attentamente le conseguenze. E invece abbiamo votato 200/300 emendamenti a catena fino alle 2 di notte: non è serio. L’alternativa? Basterebbe analizzare la popolazione carceraria: il 33% è straniera e altrettanti sono in cella per violazione della legge sulle droghe. Quindi cominciamo col rivedere la legge Fini-Giovanardi e la Bossi-Fini. E l’ex Cirielli? Andrebbe valutata, ma non posso farlo da solo. Devo prima consultarmi con il gruppo. Però credo che vada valutata attentamente - questa è la mia posizione personale - la possibilità di far scontare la pena agli immigrati nei paesi di provenienza, ovviamente solo se rispettano i diritti umani. È una sua posizione personale, Grillo sarebbe d’accordo? Grillo ha detto che lo ius soli non era una priorità ma sui clandestini non si è mai pronunciato. Non è vero, basta fare un giro su You Tube, ma andiamo avanti. Io parlo sempre a titolo personale perché noi non siamo come loro, siamo portavoce dei cittadini: su tutte le questioni siamo soliti prima confrontarci con il gruppo dei 5 Stelle e poi per quelle particolarmente delicate vogliamo il responso degli attivisti. Faremo così anche per la cannabis, anche se noi siamo favorevoli alla depenalizzazione della coltivazione a uso personale e terapeutico. La prossima settimana in commissione analizzeremo il testo di Sel sul tema, che condividiamo. Lo condividete ma non lo avete firmato. Ancora no perché la decisione va presa in modo collegiale, come le ho detto. Faremo un sondaggio on line. E cosa si aspetta che risponderanno i suoi elettori? Una delle proposte più votate sul blog di Beppe Grillo, quindi sul portale del M5S, è la legalizzazione della cannabis: è un problema molto sentito, non solo dai consumatori ma anche da chi capisce che solo in questo modo si sottrae il business alle mafie. Avete bocciato il decreto “svuota carceri” perché, dite, mette in libertà i mafiosi. E sul ddl votato alla Camera volevate ridurre il plafond di reati a quelli con pena edittale fino a 3 anni. Per voi il carcere non è l’extrema ratio... Quelle dichiarazioni riguardanti il decreto svuota carceri sono state fatte quando il testo non era ancora finito. Poi forse anche per merito nostro è stato modificato. Riguardo il ddl invece, quelli erano emendamenti ostruzionistici che poi abbiamo ritirato. Pensiamo che la detenzione domiciliare da sola non serva a una effettiva risocializzazione del condannato, comunque ci saremmo accontentati di escludere alcuni reati, come lo stalking o i reati contro la pubblica amministrazione. Avremmo voluto che il parlamento si prendesse la responsabilità di stabilire per quali reati prevedere la detenzione domiciliare, e non lasciare la discrezionalità al giudice. È un onere troppo gravoso per i giudici che non hanno la tranquillità processuale necessaria: i tribunali sono intasati di processi non smaltiti, i giudici sono diventati macchine e gli imputati numeri. Così non se ne esce. Ma è pur sempre un primo passo per combattere l’abuso di carcerazione preventiva, non crede? Questo è un problema che non è stato affatto affrontato nel dibattito. Però prima vanno affrontati i problemi che affliggono i servizi sociali, le forse dell’ordine, i tribunali... Vanno ristrutturate le carceri e depenalizzati i reati minori. Il problema è che in Italia si comincia sempre dalla parte sbagliata, meno coraggiosa. Comunque la prossima settimana faremo un contropiano a quello governativo, lì ci saranno le nostre proposte. La Corte di Strasburgo ci ha dato poco tempo per risolvere il problema del sovraffollamento carcerario. E se si cominciasse con l’amnistia e l’indulto? Assolutamente contrari. L’indulto del 2006 non ha risolto niente. Abbiamo a cuore la certezza della pena. E non possiamo sempre ricorrere a misure emergenziali. L’amnistia è prevista nella Costituzione, ci sarà un motivo. Sì, ma magari era prevista per alcuni reati che si voleva depenalizzare. La carcerazione in Italia in questo momento è considerata anche dall’Europa come uno strumento di tortura. Abbiamo bisogno di provvedimenti organici strutturali che mirino al futuro, cosa che in Italia non si fa mai. Lazio: emergenza carceri nella regione, situazione insostenibile Massimo Costantino (Segretario regionale Fns Cisl) www.ontuscia.it, 8 luglio 2013 “Dall’inizio del 2011 i detenuti nel Lazio sono cresciuti di 828 unità, passando dai 6.377 di gennaio 2011 ai 7.205 attuali e l’adozione di misure come il Decreto svuota carceri, ha fatto si che i detenuti usciti dagli Istituti penitenziari del Lazio per effetto della ex L.199/2010 risultano essere ad oggi 1.031 unità, ma di certo non ha risolto il problema del sovraffollamento. I casi più problematici si registrano a Latina (dove i detenuti dovrebbero essere 86 e sono invece quasi il doppio, 160), a Viterbo (246 detenuti in più rispetto alla capienza regolamentare), Frosinone (218 reclusi in più), Cassino (capienza regolamentare 172 detenuti ma i presenti risultano essere 306), Roma-Rebibbia N.C. (oltre 522 in più), Roma-CR Rebibbia (425 detenuti rispetto a quelli previsti di 365), NC Civitavecchia (624 detenuti presenti rispetto a quelli previsti di 332), Regina Coeli-Roma (329 reclusi in più), CCF Rebibbia -Roma dove le donne recluse dovrebbero essere 257 e invece ne risultano essere 169 in più per un totale di 426. Se ai numeri sopra esposti aggiungiamo poi che nell’ ultima settimana, purtroppo, nelle carceri della regione si sono verificate due aggressioni da parte dei detenuti ai danni del personale, una presso l’area verde del NC Rebibbia e l’altra alla CCF Rebibbia, il quadro diventa ancor più drammatico. La situazione che si vive negli istituti penitenziari è sotto gli occhi di tutti. Una situazione insostenibile che necessariamente deve essere affrontata a livello politico e per questo trova un plauso il ddl inerente misure alternative alla pena in carcere e la messa in prova che introduce nel nostro ordinamento pene detentive non carcerarie. Naturalmente tale provvedimento, qualora approvato dai due rami del Parlamento, non risolve la grave piaga del sovraffollamento carcerario ma aiuta ad attenuarlo. Occorrono comunque ulteriori provvedimenti di questo tipo oltre a esigere la copertura dell’organico di polizia penitenziaria. Copertura di organico che nel Lazio potrebbe essere risolto scorporando quel personale amministrato dagli IIPP della Regione ma in servizio effettivo, per esigenza di servizio dell’Amministrazione Penitenziaria, in sedi diverse degli IIPP, vedi piante organiche previste con dm del 22 marzo, assegnando altro personale mediante mobilità prevista dall’interpello nazionale in corso e al termine, entro il corrente mese, del 166° corso allievi agenti di polizia penitenziaria”. Roma: agente di Polizia Penitenziaria in servizio a Rebibbia si impicca nel garage di casa Ristretti Orizzonti, 8 luglio 2013 Sgomento Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri: “Un collega della Ccnc di Rebibbia, A.D.M, è stato trovato impiccato nel garage di casa a Marcellina dopo circa 4 o 5 giorni dall’accaduto: il corpo era infatti già in decomposizione. Era in servizio al Reparto G12 ma attualmente era assente dal servizio per un incidente. Siamo vicini ai familiari, agli amici, ai colleghi. Ma il numero dei suicidi tra gli appartenenti alla Polizia Penitenziaria lascia sgomenti: questo è il sesto caso, nel 2013. Benché verosimilmente indotti dalle ragioni più varie e comunque strettamente personali, sono tanti, troppi: oltre 100 dal 2000 ad oggi.” Sala Consilina (Sa): 22enne morto dopo il fermo… “fu un incidente”, assolto carabiniere di Giuseppe Galzerano Il Manifesto, 8 luglio 2013 Al termine di una lunga udienza preliminare, il giudice monocratico Dr.ssa Enrichetta Cioffi del tribunale di Sala Consilina (Sa) - nel cui cortile fa bella mostra un busto ad Alfredo De Marsico, famoso avvocato e ministro fascista nato nella cittadina - ha assolto il maresciallo dei carabinieri Giovanni Cunsolo, accusato di aver causato la morte di un ragazzo di 22 anni, Massimo Casalnuovo di Buonabitacolo. La sera del 20 agosto 2011, dopo aver lavorato nell’officina meccanica del padre Osvaldo, Massimo dice alla madre: “Esco per un giro, ma torno subito”. Farà ritorno solo in una bara. In moto senza casco, trova un posto di blocco dei carabinieri del suo stesso paese. Lo fermano, ma Massimo prosegue. Secondo l’accusa il maresciallo Cunsolo lo rincorre e, per fermarlo, sferra un calcio al motociclo causando la caduta e la morte del giovane e pacifico operaio, che certamente conosce e chissà quante volte ha visto, dal momento che Buonabitacolo è un piccolo centro. Pare che per i suoi modi bruschi il maresciallo sia ben noto in paese. Sul motociclo c’è l’impronta di una pedata. Due ragazzi testimoniano la natura violenta del fermo. Si costituisce un comitato popolare e un’assemblea chiede l’allontanamento del maresciallo, trasferito a Polla. Dopo una lunga indagine la procura di Sala - in base agli art. 61 e 584 cp - lo rinvia a giudizio per omicidio preterintenzionale con l’aggravante dell’abuso di potere in violazione dei doveri inerenti una pubblica funzione. La discussione viene fissata alle 9,30. I ragazzi del Comitato sono davanti al tribunale, indossano la maglietta rossa “Mi chiamo Massimo e chiedo Giustizia” e al muro del tribunale appendono uno striscione dove, a caratteri cubitali, invocano: “Giustizia per Massimo”. Arriva un reparto della celere in tenuta antisommossa, ma dopo qualche ora, constatato che si tratta di pacifici ragazzini, vanno via. Nel corridoio del tribunale, oltre ai familiari, agli amici e ai curiosi, si notano carabinieri in divisa e numerosi militari in abiti civili. L’udienza militarizzata comincia alle ore 12.40. L’aula n. 1 è fatta sfollare perché la difesa ha chiesto l’udienza a porte chiuse, che - in base a regolamento - il presidente del tribunale concede. Poco prima che l’udienza cominci il maresciallo Cunsolo abbandona il tribunale per ritornarvi nel tardi pomeriggio. Il PM Michele Sessa, in una lunga e serrata arringa, ricostruisce attentamente e minuziosamente i fatti e chiede una condanna di 9 anni e 4 mesi di reclusione per omicidio. Anche l’avv. Cristiano Sandri, del foro di Roma, fratello del tifoso ammazzato sull’autostrada in un tiro al bersaglio da parte di un poliziotto, in difesa della famiglia Casalnuovo, pronuncia una lunga arringa. Dopo una breve sospensione il processo riprende con l’arringa dell’avv. Reginaldo La Greca, che cerca di smontare l’accusa nei confronti del maresciallo Cunsolo e chiede il rito abbreviato, concesso dal tribunale. Parla per quasi tre ore. Alle 18.30 il giudice monocratico si ritira in Camera di consiglio. Uscirà poco dopo le 22 e, ancora a porte chiuse, in nome del popolo italiano, che però non ha potuto assistere all’udienza, in base all’art. 530 assolve il maresciallo Cunsolo perché “il fatto non sussiste”. I familiari in attesa delle motivazioni, pensano già al ricorso. Sassari: maxi trasferimento di detenuti dal vecchio “San Sebastiano” al nuovo “Bancali” La Nuova Sardegna, 8 luglio 2013 Al momento di salutare i suoi muri scrostati e i suoi spazi angusti, i suoi bagni alla turca e le sue docce nei sotterranei, qualcuno si è perfino commosso. Non c’è da stupirsi, hanno spiegato gli agenti. Tra i detenuti “comuni”, quelli che ieri alle 9.10 hanno avuto il piccolo privilegio di aprire la carovana del trasloco dal carcere di San Sebastiano a quello di Bancali, c’era chi nel palazzo ottocentesco con struttura a stella ha trascorso a periodi alterni gran parte della vita. Nessuno rimpiangerà l’inferno di San Sebastiano, questo è certo, però è comprensibile che qualcuno abbia avvertito l’inquietudine del distacco da un luogo conosciuto. Anche il disagio e l’inciviltà possono diventare situazioni familiare. Il cuore stanco del vecchio carcere si è fermato in una calda giornata di luglio. Alle 16.30 era tutto finito. Nello stesso momento, 148 uomini, 13 donne e un bambino piccolo che la mamma ha voluto con sé dietro le sbarre cominciavano ad ambientarsi nelle celle della nuova struttura di Bancali. Gli agenti riferiscono che la prima impressione di tutti è stata di spazio, di luce, di comodità impensabili fino a pochi minuti prima: aria condizionata, bagno con doccia. Troppo di tutto, dopo tanto buio, l’umidità che ti entrava nelle ossa, la paura di essere svegliati nel cuore della notte da una pantegana arrivata dalle fogne ottocentesche delle “turche” dentro le celle. Un salto dal Medioevo alla civiltà moderna, per quanto un carcere sia sempre un carcere. Le operazioni di trasferimento dei detenuti sono cominciate molto presto e hanno coinvolto tutto il personale della Polizia Penitenziaria sassarese. Nessuno è voluto mancare, perché quello di ieri è stato un giorno epocale. Dopo 140 anni di disonorata carriera, il vecchio carcere di via Roma ha chiuso i battenti. Era ancora presto quando la direttrice Patrizia Incollu e il sostituto commissario Tiziano Pais, comandante del nucleo traduzioni, hanno raggiunto la grande costruzione nelle campagne di Sassari dove hanno smistato i nuovi arrivati. Per sette ore - supportati dalla polizia, dai carabinieri e dai vigili urbani - gli agenti hanno trasportato gli ospiti nella nuova sede. Alle 18 il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria, Gianfranco Degesu, ha espresso la sua soddisfazione “per una operazione che non ha precedenti nella storia penitenziaria della Sardegna, ma credo che ne abbia pochi anche in Italia”. I sassaresi che si sono trovati a passare in via Roma dalle 7 alle 16.30 hanno assistito alle fasi del trasferimento come si segue il trasloco di un vicino di casa. Non con indifferenza, ma di educata curiosità. Sarà il tempo a dire se quel palazzo ormai vuoto nel cuore della città è anche un’assenza. La chiusura di San Sebastiano è stata un tema che ciclicamente ha occupato il dibattito cittadino. Non c’è politico o amministratore sassarese che negli ultimi trent’anni non abbia chiesto a gran voce la fine di quella che è stata definita in tanti modi che possono essere riassunti con due parole: vergogna italiana. San Sebastiano è stato un malato terminale tenuto in vita artificialmente oltre ogni accanimento terapeutico. Chi oltrepassava la sua porta carraia, oltre al suo debito personale, pagava il conto supplementare e non dovuto di uno stato incapace di trasformare un luogo di espiazione in uno spazio dove fosse possibile anche la rieducazione. Anche per questo, ieri mattina, tra gli agenti indaffarati nel più grande sfollamento della storia, si respirava l’atmosfera di eccitata soddisfazione. E forse per questo, coordinati dal loro comandante Pier Maria Basile, gli agenti hanno orgogliosamente voluto fare tutto da soli senza rinforzi dagli altri istituti. Sessanta uomini e donne hanno fatto la spola tra la città e la nuova sede dove, annuncia il provveditore regionale, “per questa estate non sono previsti nuovi arrivi. Questo periodo ci servirà per testare il nuovo istituto”. Bancali, con i suoi 450 posti, adesso è fin troppo spazioso per chi fino a ieri era costretto a dividere la cella con dieci persone. Sollecitato, il provveditore coglie l’occasione per togliersi qualche sassolino dalle scarpe. Lo fa rispondendo a una domanda sulla polemica sollevata dal deputato Mauro Pili che nei giorni scorsi aveva definito una “inaugurazione con il trucco” perché nella nuova struttura mancherebbero all’appello 182 agenti, “più della metà di quelli previsti in organico”. “Normalmente non faccio polemiche - replica a distanza il provveditore - ma ad oggi a Sassari ci sono più agenti che detenuti”. Degesu spiega che il calcolo fatto da Pili parte da un numero concreto, che tiene conto della quota sassarese dei 500 agenti in più previsti ad aprile per gli istituti sardi, ma che è legato alla capienza delle nuove strutture. “Attiveremo l’istituto di Bancali - taglia corto il provveditore - di pari passo con l’incremento degli organici”. Intanto Bancali si prepara ad accogliere il ministro della Giustizia, Cancellieri, che domani mattina inaugurerà la nuova struttura. In città, invece, già si parla di cosa fare di quel vecchio carcere a un passo dai palazzi del centro. Anche questo tema caro alla politica, per quanto al momento si tratti di esercitazioni teoriche. Il carcere, vincolato dalla Soprintendenza, appartiene al ministero che potrebbe decidere di utilizzarlo per realizzare uffici giudiziari. Scelta caldeggiata dalla classe forense e dalla magistratura, ma anche progetto di complicata realizzazione. Nell’Ottocento San Sebastiano venne progettato come un carcere ed è difficile, ora, ripensare la struttura in chiave moderna. Per prima cosa Sassari, che ha sempre tollerato la “stella” di via Roma come una presenza talvolta ribollente di dolore e di disagio, dovrà abituarsi al silenzio. Come i detenuti, del resto, per i quali i rumori della città erano un modo per scandire il tempo. Ugl: buoni standard detentivi a Bancali “Nella nuova casa circondariale di Bancali abbiamo rilevato adeguati sistemi di automazione e standard detentivi corrispondenti alla norma sull’allocazione dei detenuti, ma il personale di custodia non può rimanere identico a quello già in forze nella vecchia struttura di San Sebastiano, perché insufficiente”. È quanto ha dichiarato lunedì mattina il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, al termine del sopralluogo effettuato con una delegazione della Federazione nel nuovo carcere di Sassari, a Bancali. “La nuova struttura è stata progettata con una capienza complessiva di 465 posti ed in essa saranno reclusi non solo i 150 detenuti dell’istituto di San Sebastiano, trasferiti domenica, ma anche altri provenienti da tutta la Penisola, molti dei quali ad elevato indice di pericolosità e sottoposti a regime di 41 bis. La necessità organica per il funzionamento in sicurezza del nuovo istituto - prosegue Moretti - è di 338 unità, mentre al momento sono in servizio solo i 156 agenti del vecchio carcere, 20 dei quali distaccati, e temiamo che l’accelerazione per l’apertura della nuova sede, che sarà inaugurata domani dal ministro Cancellieri, determini un sovraccarico di lavoro per il personale e porti al trasferimento dei detenuti previsti prima del promesso incremento di organico”. “La segreteria regionale della Federazione - aggiunge il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria - consegnerà al ministro una relazione puntuale sulle necessità organiche della Sardegna, anche in vista della nuova apertura di Cagliari, perché oltre ai piani previsti dal Guardasigilli sulle pene alternative e sul nuovo piano carceri per aumentare la capienza ricettiva, è necessario un adeguamento del personale che garantisca la sicurezza negli istituti”. E a ottobre arrivano i mafiosi Per i 41 bis c’è ancora tempo. La sezione che deve accogliere i detenuti speciali, quelli che hanno un nome conosciuto in quanto - quasi sempre - legato a vicende di mafia e criminalità organizzata, non ha ancora gli arredi. A Bancali, se tutto va bene, gli ospiti soggetti al regime carcerario del 41 bis arriveranno a ottobre, anche se non è escluso che la data possa slittare a dicembre. In totale, la nuova struttura ne può accogliere poco più di 90 (tra 92 e 94) e tra i nomi di spicco sono circolati anche quelli di Totò Riina e Bernardo Provenzano (che però ha seri problemi di salute e deve essere supportato da un centro clinico attrezzato). Finora non ci sono state conferme ufficiali, solo una ventata di polemiche e le giuste preoccupazioni di un territorio che può trovarsi di fronte a problemi non di poco conto. Tanto che - tra le contro proposte - è emersa anche quella di fare in modo che Sassari abbia la Direzione distrettuale antimafia. Il carcere di Bancali è attrezzato anche per ridurre al minimo gli spostamenti dei boss che hanno un “pendolarismo giudiziario” piuttosto intenso: esiste, infatti, una moderna sala per i collegamenti in videoconferenza. In questi mesi, la polizia penitenziaria avrà la possibilità di testare la gestione del carcere con una nuova organizzazione - decisamente diversa da quella di San Sebastiano - e quando sarà attiva anche la sezione speciale, è prevista una significativa integrazione degli organici. La Garante: spero che ora la città non dimentichi i reclusi “Spero che, dopo il trasferimento nella nuova struttura di Bancali, la città non dimentichi il carcere. Per quanto mi riguarda, farò di tutto perché questo non accada”. Cecilia Sechi, Garante dei detenuti, ieri mattina non è andata a San Sebastiano. Una scelta precisa che la Garante ha fatto per non interferire con il lavoro imponente fatto dalla polizia penitenziaria. “Sono rimasta volutamente in disparte per rispetto, ma è da stamane che non penso ad altro - spiega Cecilia Sechi. È un giorno importante e un obiettivo raggiunto. È stato infatti assicurato il risultato di portare via i detenuti prima che l’estate aggravasse le loro già difficili condizioni di vita”. La garante sassarese dei diritti delle persone private della libertà interpreta il suo ruolo come presenza fisica, impegno civile, profonda conoscenza dei problemi e delle situazioni personali dei suoi assistiti. Anche per questo nei giorni scorsi, quando è stato chiaro che dopo anni di annunci il trasferimento ci sarebbe stato davvero, la Garante ha incontrato i detenuti e li ha rassicurati. Perché, spiega, all’ultimo momento la chiusura del vecchio carcere e l’imminente trasferimento nel nuovo ha provocato un sentimento ambivalente: “da una parte c’era sollievo - spiega Cecilia Sechi, dall’altra quasi il timore del nuovo”. Domani anche Cecilia Sechi sarà a Bancali per l’inaugurazione del carcere dove tornerà nei giorni successivi, quasi quotidianamente, senza stancarsi di ricordare ai sassaresi che il carcere non è soltanto un luogo fisico ma una condizione che non si può ignorare. Nuchis (Tempio): ospita 155 persone, solo 110 gli agenti La casa circondariale di Nuchis è stata ufficiosamente messa in funzione a luglio dello scorso anno, quando 30 detenuti che vivevano in condizioni disumane nel carcere di San Sebastiano, furono trasferiti nel nuovissimo e super tecnologico carcere della piccola frazione tempiese. Ufficialmente fu inaugurato invece, alla presenza delle più alte autorità, fra cui lo stesso provveditore regionale Gianfranco De Gesù, il 27 novembre 2012. Più volte il deputato del Pdl Mauro Pili ha avanzato osservazioni e critiche per la mancanza di alcune tecnologie all’interno del carcere, per la scarsità di agenti penitenziari, ci sono appena 110 uomini, e soprattutto per l’arrivo nella struttura dei boss della mafia e della ‘ndrangheta che avrebbero potuto inquinare il territorio e creare pericolosi rapporti tra detenuti comuni e mafiosi all’interno del carcere. La direzione del carcere, che conta oggi una popolazione totale di circa 155 detenuti, è stata affidata alla fine del 2012aCarlaCiaravella. (a.m.) Massama (Oristano): l’autunno scorso l’addio a piazza Manno Centoventuno. Era il numero dei detenuti che lasciarono piazza Manno per il nuovo carcere situato nella frazione di Massama. Era lo scorso mese di ottobre e nel giro di poche ore il trasferimento fu ultimato. I detenuti compirono, scortatissimi sui cellulari, il breve tragitto che li avrebbe separati per sempre da un edificio più che obsoleto come quello di piazza Manno, che in passato fu reggia giudicale. La questione carcere non si è però esaurita con l’addio a piazza Manno. Una lunga serie di polemiche ha riempito le cronache cittadine di questi mesi. Su tutte, due di natura completamente opposta. La prima è quella che riguarda il possibile arrivo di detenuti in regime di detenzione speciale, la seconda è quella del recupero dell’ex reggia degli Arborea. A queste dispute vanno aggiunte quelle sullo scarso numero di agenti, alcune proteste dei detenuti, le condizioni non perfette dei muri della struttura e le iniziali difficoltà nel raggiungere il carcere, ora superate. Uta (Cagliari): slitta l’apertura e Buoncammino scoppia Dopo Bancali, in teoria, tocca a Uta. L’apertura del nuovo carcere alle porte di Cagliari, che dovrà rimpiazzare quelli di Buoncammino a Cagliari e quello più piccolo di Iglesias, è prevista tra sei mesi, ma i ritardi nei lavori, dovuti ai mancati pagamenti all’impresa, potrebbero far slittare ulteriormente l’apertura della nuova struttura, che dovrebbe ospitare poco più di 500 detenuti, molti dei quali, ma le cifre esatte non sono state divulgate, in regime di “alta sicurezza”, il gradino immediatamente inferiore al41bis. In ogni caso le modifiche alla mappa degli istituti penitenziari del sud Sardegna, comporteranno nei prossimi mesi, quelli di passaggio dalle vecchie alle nuove strutture, un aumento degli ospiti nei vecchi penitenziari. Già oggi Buoncammino accoglie oltre cento detenuti in più. Con comprensibili disagi anche per il personale, non in grado di operare al meglio a fronte di una popolazione carceraria sovradimensionata. Il carcere di Tramariglio diventa un museo Sarà il ministro della Giustizia Anna Cancellieri a inaugurare, martedì prossimo alle 16.30, il Museo della memoria della colonia penale di Tramariglio. Uno spazio espositivo allestito all’interno dell’ex carcere che oggi ospita la sede del Parco naturale regionale di Porto Conte me che sarà intitolato all’agente di custodia Giuseppe Tomasiello, ucciso da un detenuto il 24 gennaio del 1960 durante un tentativo di evasione. L’idea di allestire un museo si basa su uno straordinario progetto di recupero degli archivi di un ex carcere predisposto da alcuni detenuti. A Tramariglio la colonia penale nasce nel 1941 come centro di rieducazione e segregazione dei detenuti inserito nell’ampio programma di colonizzazione del territorio, già sperimentato in Sardegna. Per vent’anni l’area è stata utilizzata per ospitare complessivamente circa 5mila detenuti, che sotto sorveglianza lavoravano nei campi e la sera facevano ritorno al villaggio e in particolare alla diramazione centrale. Nel 1963 l’amministrazione penitenziaria abbandona tutti gli stabili trasferendo detenuti, agenti e personale amministrativo in altre sedi. Da allora, l’insieme delle strutture ha subito un generale degrado dovuto all’abbandono, ancora oggi piuttosto evidente in molti edifici mai più utilizzati. L’edificio dove è ospitata la sede del Parco è stata recuperata grazie a un finanziamento della Regione, con vincolo di destinazione d’uso a sede del Parco e dal 2007 vi sono ospitati gli uffici dell’area protetta. Per dare anche un’anima al luogo, la direzione del Parco ha da subito pianificato la nascita di un museo del carcere e da oltre un anno è attivo un progetto di recupero degli archivi (che erano stati abbandonati negli scantinati umidi del carcere di San Sebastiano, in condizioni di forte degrado). Tutto questo grazie al lavoro quotidiano di 6 detenuti che, dopo uno specifico corso di formazione hanno lavorato quotidianamente nella sede di Tramariglio per poi fare rientro la sera a San Sebastiano. È stato fatto veramente un imponente lavoro di ricerca di documenti, fascicoli e articoli delle cronache del tempo, pulizia, scansionamento e archiviazione del materiale, dal quale è emersa tutta la storia umana inedita di Tramariglio. Macomer (Nu): vertice con il provveditore regionale De Gesu per salvare il carcere La Nuova Sardegna, 8 luglio 2013 Del futuro del carcere di Macomer si parlerà nel corso di un incontro istituzionale col provveditore degli istituti penitenziari della Sardegna, Gianfranco De Gesu. L’incontro, che era stato sollecitato dal sindaco, Antonio Succu, si terrà mercoledì a Cagliari. Il sindaco, che parteciperà con altri rappresentanti della giunta, porterà all’attenzione del provveditore i motivi per i quali il carcere di Macomer non può e non deve essere dismesso. Poiché è difficile che l’amministrazione penitenziaria rinunci ad accorpare i servizi carcerari nelle nuove strutture più grandi realizzate in Sardegna (personale e detenuti della struttura di Macomer dovrebbero finire a Massama o a Nuoro), saranno portate anche delle proposte alternative che consentirebbero di mantenere comunque una presenza alla quale si guarda anche come fatto economico legato all’indotto. È stato infatti stimato che attorno al carcere di Macomer ruotino un centinaio di posti di lavoro tra quelli diretti e quelli dell’indotto. Di fronte al precipitare delle cose, il sindaco non è rimasto con le mani in mano. Assieme alla giunta, nei giorni scorsi ha incontrato la direttrice reggente del carcere, Elisa Milanesi, e il comandante della polizia penitenziaria, Antonio Cuccu. Dall’incontro è emerso che il rischio di chiusura è reale. Difficilmente la struttura continuerà a funzionare come carcere di massima sicurezza per terroristi islamici e detenuti di difficile governo. Tra le alternative c’è il potenziamento del centro di addestramento delle unità cinofile della polizia penitenziaria, molto attivo e utilizzato anche dagli altri corpi di polizia. Brescia: dopo chiusura Opg detenuti psichiatrici a Leno, ma il fronte del “no” si allarga www.bresciaoggi.it, 8 luglio 2013 “No Opg” è perplesso. Comitati di cittadini all’attacco. Si allarga il fronte di contrarietà al progetto della Regione Lombardia di insediare due micro comunità per detenuti psichiatrici nell’ospedale di Leno. Dopo l’affondo lanciato dal sindaco del paese della Bassa Pietro Bisinella, che critica forma e sostanza di un’operazione “calata dall’alto, senza consultare i Comuni”, ecco coagularsi un movimento di protesta attorno al comitato civico che da anni invoca il ritorno all’autonomia gestionale dei presidi sanitari della Bassa Bresciana. “L’appoggio senza riserve alla proposta di far diventare il presidio di Leno una filiale dell’ex manicomio psichiatrico di Castiglione assunta dai vertici dell’azienda ospedaliera di Desenzano - si legge in una nota dell’organismo di pubblica tutela -, la dice lunga su quanto le scelte operative prese sul Garda in questi anni siano lontane e sorde alle istanze e alle necessità dei cittadini del comprensorio che gravitano attorno all’ospedale di Manerbio”. Ad esprimere contrarietà sull’approccio della Regione alla questione legata allo smantellamento della struttura per detenuti psichiatrici “Ghisiola” è anche il Comitato Stop Opg. “Il Pirellone ha deliberato senza un dibattito in consiglio e senza coinvolgere terzo settore e associazioni dei familiari - affermano i referenti bresciani del comitato - prevedendo la creazione di strutture residenziali speciali dove eseguire la misura di sicurezza. In pratica rischiamo di ritrovarci con tanti piccoli manicomi regionali, quando invece la logica prevista dalla legge nazionale è di favorire le dimissioni e l’esecuzione di misure di sicurezza alternative al ricovero in Opg”. Il sindaco di Leno intanto ha lanciato un ultimatum al governatore della Lombardia Roberto Maroni. “O si apre un tavolo di confronto che metta in chiaro anche il destino dell’unità operativa di riabilitazione per la terza età situata proprio negli spazi destinati alle microcomunità per detenuti psichiatrici - ha rimarcato Pietro Bisinella, oppure scatterà una mobilitazione popolare e istituzionale senza precedenti per fermare l’operazione”. E visto il clima che si respira sul territorio, non sembra una minaccia campata in aria. Milano: dietro le sbarre di San Vittore, dove le detenute confezionano le toghe ai giudici di Emiliano Liuzzi Il Fatto Quotidiano, 8 luglio 2013 Il problema è vederlo o no, il cielo. È respirare quel briciolo di normalità che la vita da detenuta non può restituirti. Forse puoi solo respirarla una vita, perché quella dentro a San Vittore è un’altra cosa: è un respirare cadenzato dagli orari, apertura dei cancelli, chiusura, colazione, doccia, pranzo, ora d’aria, cena, televisione. Buio. Questa è quella catena sospesa che si chiama carcere, con dinamiche molto diverse da quello che è il mondo reale. La privazione della libertà, quella di uscire, certo. Ma anche quella di guardarsi allo specchio, perché nelle celle lo specchio è vietato. Puoi scoprirti addosso le rughe e i capelli imbiancati chissà dopo quanto tempo. Niente specchi, così come non esistono i bidet, perché non ci sono mai stati e costerebbero troppo, soprattutto in periodi di taglio. Non ci sono creme per le mani, rasoi, non c’è nessuno smalto. Tutto quello che è pericoloso viene eliminato per decreto. L’essenziale è il cibo, o rancio, e il sopravvivere. “È sempre difficile pensare al dopo”, spiega Diana, braccio femminile di San Vittore in attesa di essere trasferita altrove. “È troppo impegnativo il presente che la notte non ti trovi a sognare. Nessuno può immaginare da quanti anni non sogno più”. Eppure ha i nostri occhi, le stesse paure. “Ho sbagliato, pago. Ma resto un essere umano”. Ti guarda, poi torna al punto croce, alla macchina per cucire. Perché lei il suo riscatto lo ha trovato nella cooperativa sociale Alice, la sartoria di San Vittore e Bollate. Un esperimento nato nel 1991 e che ha resistito agli anni, ha restituito alla libertà duecento persone e ha riportato tra le sbarre quella parola troppo spesso lasciata cadere nel vuoto che si chiama dignità. Lavoro e dignità. Così, in vent’anni, passo dopo passo, Alice è diventato un marchio, Sartoria San Vittore, appunto, e un negozio di abbigliamento. È diventato un punto di riferimento anche per i magistrati: le toghe vengono confezionate, o riparate, dalle detenute, in virtù di un’idea dell’allora giudice Giovanna De Rosa, oggi membro del Csm. Sì, è così: i magistrati si vestono dalle detenute. Dietro compenso, ovvio. Fu una scelta che si trasformò in convenzione con l’Anm prima e poi con molti ordini degli avvocati sparsi per l’Italia. Se parli di toghe, è probabile che ci sia il marchio Alice. Come può capitare anche per l’abito da sposa, il completo di una danzatrice di flamenco, la giacca della sera . Ci sono stilisti, coordinati da Rosita Onofri, e un’anima che si chiama Luisa Dalla Morte, che alla cooperativa ha dato tutto quello che aveva, e che dalla cooperativa ha ricevuto sostegni, abbracci, riconoscimenti. Il suo lavoro è convincere detenute e detenuti che esiste una seconda possibilità. Anche dopo 23 anni di carcere senza vedere il cielo e capire dove siano le rughe perché non c’è lo specchio. Il fatturato è venuto dopo: si chiama cooperativa sociale, appunto. Non è un’azienda a scopo di profitto. C’è la dignità prima del bilancio. La dignità e una bufera da attraversare ogni anno che passa, perché poi bisogna mantenerla viva, e in questi vent’anni tutto è cambiato. Sono cambiati i detenuti. “I primissimi anni”, racconta Luisa, “avevamo a che fare con donne e uomini che uscivano dalla stagione del terrorismo. Italiani, quasi sempre. Determinati e consapevoli di quelli che erano i loro diritti. Oggi in carcere ci sono gli stranieri e gli spacciatori di droga. Per portarli a lavorare avevamo la necessità di ripensare tutto”. Magistrati, dicevamo. Ma non solo. Entrare in contatto con la coop Alice e Luisa è stata una folgorazione anche per Filippo Bartolini, architetto per la trasmissione televisiva Servizio Pubblico e non solo. Creativo, sarebbe la definizione più corretta. Non si può definire altrimenti uno che ha portato pezzi di legno e bottiglie di plastica e ha fatto costruire ai detenuti di tutto, dalle borse ai mobili. Tutto materiale che si sarebbe disperso. “Io a lavorare lì dentro ho ritrovato me stesso”, dice Bartolini. “La mia dimensione”. Eppure è difficile. Perché è come entrare in una serie di tempeste. Umane, ma non solo. Quella che si presenta dietro l’angolo si chiama Cancellieri, nel senso di Anna Maria e Decreto svuota carceri. E questo potrebbe anche significare, se non scritto con la testa ai disgraziati invece che alla casta, difficoltà di reinserimento. Chi delinque probabilmente continuerà a farlo, accumulerà pene che gli riapriranno le porte del carcere. Poi c’è da tenersi in vita in un mondo con regole e dinamiche diverse: dentro sono tutti innocenti, innanzitutto. Domande non se ne fanno, risposte nemmeno. L’evasione ti ronza per la testa, sempre, dalla mattina alla sera. Anche se manca un giorno. Soprattutto non si pestano i piedi a chi comanda e gode di carisma. E quello che si vuole ottenere non è un diritto, ma un biglietto da porre al capo delle guardie che decide o meno. Oggi le carceri italiane hanno - secondo il governo - la necessità di essere svuotate. Sicuramente dietro a quei muri servirebbe l’apertura verso l’esterno. E soprattutto una vita vivibile. A Bollate qualcosa di simile è accaduto. È una casa di reclusione quasi sperimentale, la vita è meno agra rispetto agli altri istituti. Ma è l’eccezione. Non la regola. San Vittore è un inferno. Lo stesso è Torino, e via giù fino a Poggioreale e l’Ucciardone. Non sarà un decreto a cambiare le cose. Forse è più probabile che il reinserimento passi da persone come Luisa o lo stesso Filippo, che ne hanno fatto una loro ragione. Umana e spontanea. La ragione di Stato non oltrepassa questi muri. Torino: la Lega Nord organizza presidio davanti alle Vallette contro lo “svuota carceri” www.lospiffero.com, 8 luglio 2013 Il Carroccio alle Vallette. Davanti al carcere di Torino, la Lega Nord e il movimento giovanile padano promuovono nella mattinata di lunedì un presidio contro il provvedimento cosiddetto “svuota carceri”, decreto varato dal governo con l’intento di dare una risposta al sovraffollamento degli istituti di pena. “In queste settimane - commentano in una nota Alessandro Benvenuto ed Elena Maccanti, rispettivamente segretario provinciale e cittadino - abbiamo ricevuto moltissimi segnali, da parte di cittadini preoccupati per questo provvedimento e nelle prossime settimane ci saranno numerosi gazebo che spiegheranno i motivi del nostro no. Riteniamo, infatti, che le uniche strade possibili siano la certezza della pena e gli accordi bilaterali con gli altri stati che consentano di far scontare le condanne nei paesi d’origine”. E poiché una parte consistente della popolazione nelle strutture detentive è costituita da immigrati per la Lega occorre “mandarli a casa loro. “La soluzione al problema del sovraffollamento non può passare dalla liberazione dei carcerati”, aggiunge il deputato Stefano Allasia che aggiunge: “È impensabile pensare che per risolvere un problema spinoso come quello delle carceri bisogna attuare indulti o amnistie”. Per il governo “non si tratta di uno svuota carceri, né di mettere in libertà i mafiosi come ho letto su alcuni giornali” sostiene il ministro della giustizia Annamaria Cancellieri. Il decreto agisce allargando la platea delle pene alternative e indica una nuova filosofia dell’espiazione della pena. Il Guardasigilli ha spiegato che l’ampliamento del meccanismo per l’accesso dei detenuti ai lavori socialmente utili consentirà loro di “pagare” la pena lavorando e rientrando in carcere o al domicilio la sera, ma non è ammesso per chi ha compiuto “reati gravi come l’associazione mafiosa” e sarà sempre “sotto il controllo dei magistrati”. Dalle misure sono esclusi i condannati per stalking e maltrattamento di minori. Entro il 2016, nelle carceri italiane, dovrebbero esserci 10 mila posti letto in più, 5 mila dei quali saranno realizzati entro il maggio del 2014. Al momento sono 20 mila i detenuti in più rispetto ai posti letto disponibili, sottolineando che i 47 mila posti letto regolamentari non sono tali perché “ci sono alcuni padiglioni chiusi per lavori di ristrutturazione”. Il piano è finanziato con 400 milioni. Da mercoledì 3 luglio 2013 è ufficialmente entrato in vigore il decreto legge n° 78. Ciò che tale normativa va ad affrontare è il problema del sovraffollamento penitenziario. L’obiettivo è quello di definire degli efficaci meccanismi di decarcerizzazione per soggetti con pericolosità non elevata, arrivando al rilascio di 3.500 soggetti. Il decreto legge ha un obiettivo fondamentale: risolvere, almeno parzialmente, la situazione cronica e drammatica di sovraffollamento delle carceri italiane. I dati parlano chiaro: secondo il rapporto 2012 dell’associazione Antigone, al 31 ottobre 2012 nell’insieme del sistema carcerario italiano erano presenti 66.685 detenuti, ben 1.894 in più rispetto alla situazione già allarmante nel 2010. Il tasso di affollamento, continua il rapporto, è pari al 142,5% (oltre 142 detenuti per ogni 100 posti), a fronte di una media europea che è pari al 99,6%. Quando la sentenza di carcerazione passerà in giudicato, se il condannato dovrà scontare una pena non superiore ai 2 anni (pena che diventa di 4 anni se donna incinta o con prole avente meno di dieci anni o se malato gravemente), il pubblico ministero avrà la possibilità di sospenderne l’esecuzione consentendo una misura alternativa al carcere (come la detenzione domiciliare), che sarà eventualmente concessa dal tribunale di sorveglianza. Se invece, di fronte, ci sarà l’autore di un reato grave, di soggetti pericolosi o di persone sottoposte a custodia cautelare in carcere, questa possibilità non verrà offerta, e il condannato non potrà far altro che rimanere in carcere fino ad un’eventuale decisione del tribunale di sorveglianza. Il decreto legge, inoltre, va ad ampliare la possibilità per il giudice di ricorrere, al momento della condanna, ad una soluzione alternativa al carcere rappresentata, di fatto, dal lavoro di pubblica utilità. Questa misura, generalmente prevista per i soggetti dipendenti da alcol o stupefacenti, potrà essere disposta per tutti i reati commessi da tale categoria di persone, a meno che non si tratti di una grave violazione della legge penale. Infine, con l’obiettivo di alleggerire le tensioni che si vengono ad innescare tra i detenuti ed il personale penitenziario, il provvedimento estende la possibilità di accesso ai permessi premio per i soggetti recidivi. Trapani: Uil-Pa Penitenziari; abbiamo un solo furgone per il trasporto di 700 detenuti... www.marsala.it, 8 luglio 2013 “La Polizia penitenziaria di Trapani ha un parco macchine completamente da rottamare, autovetture, furgoni e pullman che per pochi euro di danni vengono lasciati all’addiaccio, facendo così crescere le spese per le riparazioni. Per questa ragione abbiamo avviato l’iniziativa: lo scatto della vergogna e degli sprechi”. È quanto dichiara Gioachino Veneziano, coordinatore regionale della Uil-pa Penitenziari che è stato in visita al carcere San Giuliano di Erice-Casa Santa. Per un bacino di oltre 700 detenuti c’è a disposizione soltanto un furgone per il loro trasporto. “Molte volte - è stato evidenziato - si violano le norme di sicurezza e di legge per consentire la presenza dei reclusi nelle aule di giustizia, esponendo gli autisti e i capi scorta a responsabilità estreme. Abbiamo voluto fotografare tutti i mezzi, sia quelli funzionanti sia quelli guasti per dimostrare lo spreco e la vergogna di certe situazioni. Relazioneramo il tutto all’amministrazione della Giustizia e se è il caso pure ad organismi di controllo”. Roma: Sappe; a Rebibbia tre agenti rimasti feriti per rivolta violenta di alcuni detenuti Il Tempo, 8 luglio 2013 Ancora aggressioni in carcere. L’altra sera nel complesso di Rebibbia tre agenti penitenziari sono rimasti feriti per la rivolta violenta di alcuni detenuti. A denunciarlo è il segretario generale del sindacato sappe, Donato Capece. “Alle 22,45 circa - racconta il sindacalista - una detenuta ungherese, tale A.N., ha aggredito un ispettore e due agenti di polizia penitenziaria. Visitata dal sanitario di turno, la detenuta ha espresso la volontà di togliersi la vita e, per questo motivo, è stata disposta la sorveglianza a vista. L’ungherese si è rifiutata di tornare in cella e ha aggredito un ispettore e due agenti che cercavano di ricondurla alla ragione”. L’episodio fa seguito a un episodio analogo, avvenuto solo 24 ore prima. “Questa ennesima aggressione a poliziotti penitenziari ci preoccupa - continua Capece - La carenza di personale di polizia penitenziaria e il costante sovraffollamento delle celle, con le conseguenti ripercussioni negative sulla dignità stessa di chi deve scontare una pena in celle affollate oltre ogni limite e soprattutto di chi in quelle sezioni deve lavorare rappresentando lo Stato come i nostri agenti sono temi che si dibattono da tempo, senza soluzione, e sono concause di questi tragici episodi”. Il carcere è il più grande della regione. Ospita 1.758 detenuti, dei quali 597 stranieri, “il che fa balzare subito all’occhio - aveva detto l’altro ieri il garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, in visita proprio a rebbia - il problema principale della struttura: il sovraffollamento”. Spoleto (Pg): una cella e i racconti degli attori-autori sul palco del teatro di Sara Cipriani www.festivaldispoleto.com, 8 luglio 2013 Allestito nella casa di detenzione raccontano la vita vissuta da “dentro”, la difficoltà del sovraffollamento e la morte della speranza del “fine pena mai”. Un cancello si chiude e ti ritrovi nudo, la libertà rimasta fuori. Questa è la sensazione netta che ti assale entrando in un carcere, anche solo per il tempo breve di una visita. Anche solo per il tempo breve di andare a rendere omaggio al lavoro di un gruppo di detenuti che mettono in scena se stessi e raccontano il tempo diverso che si respira dentro ad una casa di reclusione. Questo è quello che è accaduto oggi pomeriggio, nella casa circondariale di Spoleto: uno spettacolo toccante, che muove le corde delle emozioni profonde, che fa riflettere. Un gruppo di uomini, di reclusi, racconta al selezionato pubblico presente lo scorrere della vita “dentro”, la frustrazione dei rapporti con i propri cari, parole e incontri appesi a minuti contati da permessi, gli spazi angusti misurati da passi sempre uguali, i gesti quotidiani che si ripetono e acquistano senso e sapore diverso, la fatica della convivenza forzata. Ma il messaggio dello spettacolo, a partire dall’insolita e vibrante “ouverture” sostenuta da uno degli attori, ancor prima di raggiungere la palestra-teatro, mentre nel passare si calpestano nomi di carta lasciati lungo il corridoio, fino alla chiusura della rappresentazione, scandita dalla lettura di dati e leggi ad ogni cambio scena, è stato la denuncia delle condizioni della vita in carcere, del sovraffollamento e del non-senso dell’ergastolo ostativo: il “fine pena mai”. Una condanna che via, via è stata abolita in quasi tutti i paesi europei. In Italia ancora vigente. Una condanna che toglie ogni speranza alla redenzione. Minimale l’allestimento scenico, ma di forte impatto e sicuro effetto: la riproduzione della struttura di una cella, scala 1:1, attorno alla quale si srotolano le storie, i racconti e i pensieri dei bravi attori e autori della pièce. A rendere ancora più coinvolgente l’interpretazione, una serie di mattonelle con le impronte di piedi e matricole degli interpreti, mischiati in mezzo al pubblico, fuori dal palcoscenico; cosi arriva più forte la sensazione che quanto raccontato in “Affettività patetiche” non è finzione ma vita reale, a favore di chi, per scelte opportune o solo per maggior fortuna, non è costretto a vivere. Lo spettacolo è il risultato del corso che il Liceo Artistico Sansi-Leonardi svolge durante l’anno scolastico anche all’interno del carcere di Spoleto. La realizzazione, voluta fortemente dalla dirigente Roberta Galassi, ha impiegatogli ultimi due mesi delle classi 1°, 2° e 3° corso nella Sede Associata ed è stata coordinata e diretta, con passione, dal professor Giorgio Flamini, la partecipazione straordinaria di Virginia Virilli e l’elaborazione scenica Simone Bacci e Maria Paola Buono Il valore del lavoro è tale da essere stato riconosciuto anche dalla Fondazione Festival dei 2 Mondi, che lo ha inserito nel programma di Spoleto56. La prossima e ultima rappresentazione si terrà il prossimo 12 luglio alle 15:30. Per partecipare è necessario inviare i propri dati alle mail indicate nel sito www.festivaldispoleto.com. Cinema: intervista a Aniello Arena “La mia fuga è recitare, fa uscire ciò che hai dentro” di Anna Bandettini La Repubblica, 8 luglio 2013 Camorrista, omicida ed ergastolano sta in carcere da vent’anni e da dieci fa teatro. Protagonista di “Reality” di Garrone, dopo il premio al Festival di Cannes ieri ha vinto anche il Nastro d’Argento. “Nastro d’Argento come miglior attore dell’anno è Aniello Arena”, annuncia la presentatrice e la platea del Teatro Antico di Taormina, quasi tutta cinematografica, esplode in un applauso affettuoso e commosso. Per Aniello Arena, ieri sera, è stato il momento più bello, dopo la stretta di mano del presidente Napolitano al Quirinale nella finale dei David un mese fa e dopo il Gran Prix di Cannes a maggio 2012. Sempre per “Reality”, il film di Matteo Garrone di cui è il superbo protagonista. Attore impeccabile, lodato, moderno, nuova star del cinema d’autore made in Italy, ha trovato nel cinema e nel teatro un mezzo di riscatto, un modo per coltivare la sua intelligenza, per diventare forte, tenace. Per salvarsi, come dice lui. Aniello Arena è un detenuto del carcere di Volterra, condannato all’ergastolo per omicidio: era l’8 gennaio del 1991, giovane camorrista napoletano, aveva 23 anni e fu coinvolto nella strage di piazza Crocelle a Barra, la periferia di Napoli dove è nato e cresciuto. Morirono tre persone. Da quel macigno, dalle notti brave, dai personaggi vacui e aggressivi di allora, Aniello si è allontanato come da un incubo irreale. Ha scontato più di vent’anni con buona condotta e, grazie all’articolo 21 del codice di procedura penale, oggi è in regime di semilibertà: ogni mattina esce alle 9.15, rientra alle 18.30. Lavora dirimpetto al carcere, a Carte Blanche, l’organizzazione della Compagnia della Fortezza diretta da Armando Punzo, la più celebre e la più speciale delle realtà artistiche nate in carcere, dove dieci anni fa Aniello ha iniziato a recitare. E la sua vita mutilata è diventata un’altra cosa: la semplicità e la perfezione di Luciano, il pescivendolo di “Reality”, i personaggi toccanti di Hamlice, Pinocchio, Pescecani, Mercuzio non vuole morire. Tutti successi della Fortezza, che da quest’anno hanno anche girato, come una “normale” compagnia, in una vera tournée per i teatri: Firenze, Bologna, Roma. “Solo che la notte noi non andiamo in hotel, ma dormiamo nel carcere della città”, dice con un tocco di autoironia Aniello, seduto davanti allo specchio nel camerino di un teatro romano. Ha 45 anni e sembra più giovane in jeans e maglietta, fisico palestrato, non alto, sguardo molto sveglio. Risponde pacato, saldo, anche alle curiosità più futili sulla vita del carcere, mentre si percepisce l’emozione quando parla di teatro. “Sì, ora mi sento di dire che sono un attore. Una volta dicevo di no. Gli attori per me erano quelli che sono famosi, che leggiamo sui giornali. Io ero pieno di entusiasmo, ma tutto lì. Poi, però a un certo punto ci ho messo anche la testa. Forse è successo quando Matteo Garrone mi ha chiamato per il film. Non è che fino ad allora non mi sentissi attore, ma il cinema è stata una assunzione di responsabilità forte. Se prima giocavo, lì ho dovuto davvero fare l’attore”. A “scoprirlo” è stato Armando Punzo, l’iperattivo regista della Fortezza che ha cambiato profondamente il modo di fare teatro in carcere e da venticinque anni a Volterra lavora pionieristicamente con i detenuti “non per rieducare loro, ma per reinventare il teatro”, come dice lui. “Quando sono arrivato io nel ‘99, da Viterbo, dopo aver girato molte carceri, avevo già sentito parlare della compagnia. Ma ero in isolamento: nella condanna, un’altra tortura - ricorda Aniello. E quando sei in isolamento devi reagire per non impazzire di rabbia. Io facevo ginnastica, leggevo libri, vedevo documentari. Parlavo con le guardie e aspettavo i colloqui “. Per fare teatro nella “fortezza” di Volterra era ed è ancora sufficiente presentare domanda di partecipazione. I detenuti e Punzo lavorano in una piccola stanza al piano terra. “Chi prova, difficilmente se ne va. Quando io sono sceso la prima volta, da napoletano pensavo che il teatro fosse la sceneggiata napoletana. Era quello che conoscevo, che avevo visto con mia madre da ragazzino. “Ma che cosa è?”, mi chiesi quando vidi cosa facevano. Mi pareva un altro pianeta. Ci ho messo un po’ per capire. Ho dovuto immagazzinare. Al primo spettacolo, nel 2002, dall’Opera da tre soldi di Brecht, ricordo, mi vergognavo come un matto a stare in scena. Mi chiedevo cosa avrebbero pensato quelli che avevano conosciuto da ragazzo. C’è voluto tempo. C’è voluto il lavoro con Armando, il nostro regista. Lui ti fa uscire quello che hai dentro, lavora su di te, su quello che sei. Io fino a quel momento non avevo avuto strumenti per capire. Il teatro invece mi ha dato la possibilità di vedere. Attraverso i personaggi, attraverso le parole degli autori ho dissotterrato cose di me che mi hanno aiutato. Non è facile. Noi, poi, lavoriamo in una stanzetta piccola e siamo tanti. Da maggio a luglio, come adesso, quando stiamo per arrivare allo spettacolo, siamo una cinquantina e quasi non ci si può muovere. Per questo Armando si batte per far diventare la nostra compagnia un “teatro stabile”: per una sala da costruire ex novo nella parte esterna del carcere, e avere più spazio. Questo non vuol dire che lasceremo la “nostra” stanza. Per noi è il luogo della condivisione del gruppo. Lavorare sotto lo sguardo degli altri è qualcosa di particolare e i detenuti sono spietati, anche se con affetto. Sai a priori che non devi sbagliare perché dopo ti fanno nuovo nuovo”. La vita del carcere per Aniello è vita domestica. “Da quando sono passato nella sezione dei semiliberi siamo in due in cella, una cella grande, mentre prima di là, nella sezione interni, ero da solo, perché a Volterra tutte le celle sono singole. Che fai? Diventi casalingo. Dicono che noi del reparto maschile siamo maniaci, se potessimo metteremmo le pattine ai piedi. Rifai il letto, pulisci il pavimento. Ti organizzi per la spesa, perché si fa una volta alla settimana, quindi per il giorno del turno devi dare alle guardie la nota di quello che ti serve, se no sono altri sette giorni: detersivi, schiuma da barba, strofinacci per lavare a terra, la bomboletta del gas, l’acqua, il caffè”. Aniello è stato arrestato nel gennaio del 1993, due anni dopo l’omicidio. “Non ne parliamo”, implora, più per non avvilire quello che è oggi che per autoindulgenza. Non si trova attenuanti. “A Barra, periferia di Napoli non è che ho avuto un’infanzia chissà che. Forse un po’ travagliata, forse la mia famiglia era un po’ disagiata, forse l’ambiente in cui sono cresciuto, Napoli... Non voglio giustificarmi, lo dico per raccontare di me. Il carcere è un destino obbligato se da ragazzo non capisci niente, non rifletti. Io pensavo che il mondo ce l’avesse con me e di conseguenza io ce l’avevo con lui. Capivo poco e agivo. Ero un impulsivo. Lo sono anche adesso, ma rifletto di più”. Racconta che quando entrò a Poggioreale a venticinque anni, pensò che la sua vita fosse finita lì. “Il carcere di Napoli era come l’inferno. Se sei un ragazzo che ha accumulato odio e finisci lì, Poggioreale genera mostri. Ho incontrato ragazzi che sono solo peggiorati. Ai tempi miei eravamo anche venti in una cella. Forse qualcosa è cambiato, ma il trasferimento è stata la mia fortuna”. Anche per questo a Napoli non ci tornerà più. I due figli, un maschio e una femmina di ventidue e venticinque anni, orgogliosi del suo successo, vivono anche loro fuori Napoli. E dalla moglie si è separato. “Sono napoletano e sono fiero di esserlo, ma vivere lì no. Non mi appartiene più come città. Sono cambiato e per come sono oggi non riuscirei a vivere in una città che è difficile, ferma nei suoi meccanismi”. Se un giorno uscirà, dice, gli piacerebbe andare a Firenze o nel nord o dove lo porterà il teatro, il cinema, la notorietà. Dopo Cannes lo hanno cercato giornalisti e tv di mezza Europa. Questa estate reciterà nell’atteso “Santo Genet commediante e martire” diretto da Armando Punzo, il nuovo spettacolo della Compagnia che festeggia i venticinque anni di attività e che sarà il cuore, dal 18 al 26 luglio, del Festival di Volterra, evento davvero unico perché tutto si svolgerà nel carcere, spettacoli, artisti, spettatori tutti nella Fortezza (per entrare bisogna chiedere i permessi su www.compagniadellafortezza.org) e intanto sta ultimando un libro sulla sua vita che uscirà in autunno da Rizzoli Controtempo, a cura di Maria Cristina Olati. La domanda forse è ingenua: mai pensato di scappare durante una delle tournée? La risposta è semplice, senza ambiguità: “E a che servirebbe? Dovresti scappare sempre. E come vivresti a quel punto? La prigione sarebbe dentro di te. No, spero di poter uscire con i benefici di legge, se ce la faccio. Ottimista? Quando ero ragazzo vedevo tutto nero. Ed essendo napoletano dico che uno alla fine il nero se lo tira addosso. Quindi ho imparato a liberarmi delle ombre. Ho imparato a trasformare la rabbia in passione”. Teatro: attori detenuti recitano in “Dentro e fuori”, spettacolo nel carcere di Brissogne www.aostasera.it, 8 luglio 2013 Lo spettacolo teatrale è previsto il 25 luglio alle 19. Prevede due distinte performances teatrali: Socrates oracolo, apologia e fedone e AenemoS pluri-ritmia in 9 movimenti. Per assistere è necessario fare la richiesta all’Avvc entro il 10 luglio. Sarà una serata diversa, quella del 25 luglio, per diversi ospiti della casa circondariale di Brissogne. Alle 19, in uno spazio all’aperto del carcere valdostano, va in scena lo spettacolo teatrale, dal titolo “Dentro e fuori”, promosso dall’Associazione valdostana di volontariato carcerario (Avvc) e dalla Direzione della casa circondariale. A recitare gli stessi detenuti che si esibiranno di fronte ad un pubblico di 100 persone in due performances teatrali. Si tratta di Socrates oracolo, apologia e fedone azione teatrale recitata da Antonio, Edy, Leonard, Mauro, Mohamed, Simone, Viorel e diretta da Andrea Da Marco e di AenemoS pluri-ritmia in 9 movimenti con Domenico, Edy, Enzo, Leonard, Mauro, Mohamed, Modou, Reda, Viorel che recitano sotto la regia di Liliana Nelva Stellio. Le due performances sono il risultato di due distinti laboratori teatrali portati avanti, in qualità di volontari, dai due attori valdostani all’interno del carcere valdostano a partire dal mese di aprile. La grande novità di questa iniziativa è la possibilità per le persone esterne di assistere allo spettacolo che si svolge in un’area all’aperto del carcere fino all’esaurimento dei 100 posti disponibili. Per partecipare è obbligatoria la prenotazione per la preventiva autorizzazione all’ingresso nel carcere che deve essere fatta entro e non oltre mercoledì 10 luglio presso il Csv (tel. 0165-230685) o possono inviare una mail all’Avvc (avvc.onlus@gmail.com). Il pubblico prenotato dovrà poi presentarsi a partire dalle ore 18 per espletare le ultime formalità necessarie all’ingresso del carcere munito di documento di riconoscimento. Iran: 48 giustiziati dopo farsa elezione, esecuzione di massa di 21 detenuti a Karaj Ap, 8 luglio 2013 Il regime disumano dei mullah “ha ripreso l’ondata di esecuzioni collettive dopo le elezioni presidenziali farsa, e in soli 3 giorni ha inviato 35 detenuti al patibolo nelle carceri di Ghezzel Hessar, Gohardacht, Urumieh e Bam. Martedì scorso, 2 luglio, 21 detenuti sono stati impiccati in un orribile atto criminale nel carcere di Ghezzel Hessar a Karaj (ad ovest di Teheran). Mercoledì 3 luglio, quattro detenuti sono stati giustiziati nella prigione di Gohardasht, ancora a Karaj. Una delle vittime, di 25 anni Afshar Saeed, è stato arrestato quando aveva solo 15 e ha sopportato 10 anni dietro le sbarre prima di essere giustiziato. Giovedì, 4 luglio, quattro detenuti ad Urumieh e gli altri sei nelle carceri di Bam sono stati impiccati (Agenzia di Stampa Mehr, affiliata al Ministero di Intelligence). Il numero totale delle esecuzioni dopo le elezioni presidenziali farsa del regime raggiunge i 48, tra cui una donna. Tuttavia notizia di un elevato numero di esecuzioni non è mai trapelata al mondo esterno. In questo stesso periodo, le sentenze sono state approvate per l’amputazione delle mani di sei detenuti a Shiraz e 11 condanne a morte a Marvdasht di Fars. Il regime dei mullah ha ancora una volta fatto ricorso alle esecuzioni collettive per prevenire rivolte da parte dell’infuriato popolo iraniano, soprattutto dopo le elezioni presidenziali farsa. Durante il periodo di Rohani, il nuovo presidente dell’Iran, che non ha altra missione diversa che mantenere il potere dei mullah, le ruote del sistema del velayat-e faqih (liberamente interpretato come potere dei chierici) hanno viaggiato su esecuzioni, torture e fruste. La Resistenza Iraniana esorta la comunità internazionale, in particolare il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ad adottare misure vincolanti e immediata contro tali violazioni orribili e sistematiche dei diritti umani in Iran, in particolare la crescente tendenza delle esecuzioni. Segretariato del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana Stati Uniti: scandalo in California 150 detenute sterilizzate illegalmente dal 2006 al 2010 di Gabriella Meroni Vita, 8 luglio 2013 Solo dal 2006 al 2010 i casi di legatura delle tube sarebbero stati 150, molti di più dagli anni 90. Le autorità dello Stato, che avrebbero dovuto autorizzare gli interventi, non sono state neppure informate. A raccontare la loro storia sono state le stesse donne, male informate o addirittura costrette a dire sì. Quasi 150 detenute nelle carceri della California sono state sterilizzate dal 2006 al 2010 senza che gli interventi fossero approvati dalle autorità dello Stato. Lo scandalo emerge grazie al lavoro giornalistico del Center for Investigative Reporting (l’associazione non profit di giornalisti investigativi con sede a Berkley diretta da Phil Bronstein) che da tempo segue da vicino le condizioni dei detenuti nelle carceri californiane. Secondo l’inchiesta a firma Corey G. Johnson molte delle donne che hanno subito la legatura delle tube non erano state adeguatamente informate circa i rischi dell’intervento, e quasi tutte hanno subito pressioni perché si sottoponessero alla sterilizzazione. Una delle testimonianze raccolte a riprova dello scoop è quella di Christina Cordero, una ex detenuta della Valley State Prison scarcerata nel 2008, che aveva partorito in carcere nel 2006. Secondo la donna, il medico penitenziario la “fece sentire in colpa” per avere altri cinque figli e la spinse verso l’intervento, che oggi Christina “non rifarebbe”. Un altro caso clamoroso riguarda Nikki Montano, condotta a Valley State nel 2008, incinta e tossicodipendente. Madre di sette figli, venne sottoposta alla sterilizzazione senza che neppure capisse cosa le stava accadendo: “Pensavo fosse un intervento di routine”, racconta oggi, “mi dicevano che in carcere c’erano i migliori medici, e io mi sono fidata”. La legge federale proibisce che si effettuino interventi di sterilizzazione usando fondi federali, e prescrive che le autorità dello Stato diano il loro assenso caso per caso. Oggi si scopre che le sterilizzazioni avvenivano sì utilizzando fondi statali (quindi non federali) ma che nessuna richiesta di autorizzazioni sia mai pervenuta sul tavolo della Commissione incaricata presso il California Prison Health Care Receivership Corp, come testimonia il presidente Ricki Barnett. E secondo il reportage del Cir, dagli anni ‘90 al 2010 le sterilizzazioni illegali sarebbero state addirittura più di 250.