Lottare per dimostrare la propria innocenza Ristretti Orizzonti, 6 luglio 2013 Il 4 luglio, in una infernale giornata di quel caldo padano che in galera moltiplica la sua potenza, è iniziato lo sciopero della fame di Roverto Cobertera, uno della nostra redazione, un uomo condannato all’ergastolo che, da quando è entrato a far parte del nostro gruppo, non ha mai smesso di proclamare la sua innocenza. Roverto ha avuto in primo grado una condanna a 24 anni per omicidio, che in appello è diventata un ergastolo, fine pena mai. Si ironizza spesso che in galera si sentono tutti innocenti, nella redazione di Ristretti Orizzonti non è così, le persone si assumono le loro responsabilità, e lo fanno anche davanti a centinaia di studenti che ogni anno entrano in carcere e ascoltano le loro testimonianze. Dunque se una persona lì dentro dice di essere innocente, non è una fra tanti che non hanno voglia di sentirsi responsabili, e se quella persona è disponibile a mettere a rischio la sua vita per dimostrarlo, noi pensiamo che quella persona sia particolarmente degna di attenzione. A Roverto possiamo solo dire che gli siamo vicini, con tutto il nostro affetto, che è grande ed è cresciuto proprio di fronte alla sua sofferenza e alla forza con cui vuole dimostrare che è innocente, possiamo dirgli che vorremmo in tutte le maniere fare qualcosa per lui, ma quello che non vogliamo è che debba rinunciare alla vita per essere ascoltato. Qualcosa si può fare davvero? Qualcuno lo può aiutare? Qualcuno può prendere in mano le carte del suo processo e, se si convince che ci sono elementi seri per provare che quella condanna è ingiusta, prendersi a cuore il suo caso e dargli una mano? La redazione di Ristretti Orizzonti Urla d’innocenza fra le sbarre Ristretti Orizzonti, 6 luglio 2013 Roverto Cobertera è nato all’estero ed ha doppia cittadinanza Statunitense e Domenicana. È detenuto nel carcere di Padova. È stato condannato alla “Pena di Morte Viva” (così viene chiamata da noi ergastolani la pena perpetua). É un uomo di colore e forse anche questo ha pesato sulla sua condanna perché lo straniero e per giunta nero è il colpevole ideale. Roverto Cobertera, ha i capelli neri come il carbone e un sorriso di luce sempre stampato sulle labbra. L’ho incontrato nella Redazione di “Ristretti Orizzonti” e sapendo dei miei studi universitari di giurisprudenza lui mi ha passato le sue carte processuali. Dopo qualche tempo ho letto la motivazione del primo grado e dell’appello e mi sono fortemente convinto della sua innocenza, perché conosco molto bene la differenza fra la verità vera e quella processuale. Roverto Cobertera ha deciso da qualche tempo di dimostrare la sua innocenza con la propria vita, l’unica cosa che gli è rimasta. Dal quattro luglio ha iniziato uno sciopero della fame per urlare la sua innocenza fra le sbarre. Ed è disposto a morire per ritornare dalla sua famiglia e dai suoi meravigliosi figli. Io non posso fare altro che trasmettere tutta la mia solidarietà, da uomo ombra, a Roverto Cobertera. E sostenere la sua battaglia perché venga provata la sua innocenza fra le sbarre con la speranza che qualcuno al di là dal muro di cinta ascolti e senta le grida di una persona che con la sua protesta afferma con forza che preferisce morire da innocente che vivere da colpevole. Carmelo Musumeci Carcere di Padova 2013 Giustizia: delle condizioni dei detenuti si preoccupa solo l’Europa di Maurizio Torrealta Left, 6 luglio 2013 Quando si lavora in un giornale si attribuisce un diverso grado di urgenza a ogni notizia che si pubblica. La percezione di questa è ovviamente molto soggettiva, ciononostante tra le notizie di questa settimana abbiamo valutato, con una sostanziale convergenza di tutta la redazione, che quella più urgente riguardasse le condizioni dei detenuti che si trovano nelle nostre carceri. Si tratta di condizioni a tal punto disumane da obbligare la Corte europea per i diritti dell’uomo a condannare il nostro Paese a risarcire economicamente i detenuti per i maltrattamenti subiti. Nelle nostre prigioni è stata rinchiusa una popolazione carceraria che eccede di circa 20mila unità i posti disponibili. La prima condanna dell’Italia a causa dei maltrattamenti inflitti per la mancanza di spazio nel carcere è avvenuta nel 2009 nei confronti di un detenuto del carcere di Rebibbia. Poi nel 2013 è stata la volta di sette detenuti nell’istituto penitenziario di Busto Arsizio e Piacenza, che hanno ricevuto circa 100mila euro a testa come risarcimento per la mancanza di spazio nelle celie dove erano rinchiusi. Ora i ricorsi dei detenuti alla Corte europea per i diritti dell’uomo sono più di 400 e saranno tutti accolti se l’Italia nei prossimi 300 giorni non riuscirà ad aumentare lo spazio disponibile per ognuno di loro. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione”, recita l’articolo 27 della nostra Costituzione. Nonostante sia evidente quanto la popolazione carceraria sia trattata in modo disumano, quello che stupisce è la totale incapacità dei governi che si sono alternati alla guida del nostro Paese di immaginare forme alternative al carcere che siano in grado di tradurre in pratica il tentativo di rieducazione che la nostra Costituzione richiede. Il problema è doppiamente difficile perché i diritti dei carcerati sono offesi e nello stesso tempo queste offese sono dimenticate e sepolte nel luogo in cui avvengono perché i carcerati non sono visibili, non hanno strumenti di espressione, di comunicazione, di manifestazione del proprio dissenso. Le carceri sono diventate sempre di più territorio di Ubera circolazione del personale dei servizi di intelligence che si permettono intimidazioni continue e vere e proprie manipolazioni delle dichiarazioni dei detenuti. I nove processi per la strage di via d’Amelio, che hanno portato in carcere per decine di anni detenuti innocenti, ne sono una tragica dimostrazione. I pochi processi che affrontano le irregolarità commesse dentro le carceri da uomini delle istituzioni sono ignorati dalla maggior parte degli organi d’informazione. Non si può fingere di non sapere con quante difficoltà e determinazione piccoli gruppi di artisti e direttori illuminati lavorano insieme dentro le carceri creando dei percorsi di realizzazione dell’identità dei detenuti attraverso iniziative teatrali che hanno prodotto un fortissimo coinvolgimento e straordinari risultati “umani”. Che delle carceri si torni a parlare principalmente per l’iniziativa della Corte europea per i diritti dell’uomo è la palese dimostrazione di come la coscienza degli amministratori del nostro Paese sia stata per tutti questi anni, nel migliore dei casi, distratta, nel peggiore, incapace. Giustizia: dei delitti e delle pene… l’accusa dell’Europa all’Italia sulle carceri: è tortura di Paola Mirenda Left, 6 luglio 2013 Maisto: “La nostra è una giustizia di classe che riempie le galere di povera gente”. Un provvedimento di clemenza è l’unica soluzione rapida. Ma vanno ripensati i reati. L’Europa condanna il nostro Paese per le condizioni delle carceri. E dà un anno di tempo per mettersi in regola. La ministra Cancellieri sceglie una soluzione all’italiana, che rimanda il problema senza risolverlo. E confida in un’amnistia che accontenti Strasburgo. Magari all’ultimo minuto. Lo vuole l’Europa” non è solo la formula dietro cui si nascondono i ministri economici quando devono imporre sacrifici e balzelli. “Lo vuole l’Europa” è anche la frase magica dietro cui celarsi per varare un decreto sul sovraffollamento carcerario in un Paese che chiede sempre più galera. E allora per fortuna che esiste l’Europa, che obbliga l’Italia a rimediare entro un anno allo stato disumano delle sue prigioni. Senza l’Europa i carcerati italiani non sarebbero tornati in primo piano nel dibattito parlamentare: però l’attenzione di politici e stampa sul tema è durata pochissimo, giusto il tempo di farsi rassicurare che no, quello approvato il 26 giugno scorso “non è un decreto svuota carceri”. E come dare torto alle parole della ministra Cancellieri, costretta a navigare tra due sponde difficili? Da un lato la Corte di Strasburgo, con la sentenza Torreggiani, obbliga il governo a dare un immediato segnale per ridurre il sovraffollamento delle prigioni. Dall’altro c’è un’ampissima compagine di governo che ci tiene a non passare per lassista e non vuole provvedimenti di clemenza, né la rimessa in discussione delle politiche securitarie. Così la ministra ha optato per una soluzione all’italiana. Il decreto non svuoterà le carceri. Usciranno meno di 5mila detenuti secondo i calcoli più ottimisti, qualche centinaio secondo i pessimisti. Però ha un pregio: se non apre le porte in uscita, le chiude in entrata. È, a suo modo, un decreto “non riempi carceri” differito nel tempo, che rimanda a domani quello che potrebbe fare oggi, evitando lo strappo su un tema delicato a un governo già tanto impegnato a ricucire su altre questioni. “Vogliamo vederla in positivo? I provvedimenti degli ultimi anni volevano svuotare il mare con un cucchiaino, al massimo un cucchiaio. Qui almeno abbiamo un secchio”. La metafora è di Alessio Scandurra, che ogni anno cura per l’associazione Antigone il Rapporto sulle carceri. Il secchio è quello che fa fuori di botto la legge ex Cirielli sulla recidiva, consentendo anche a chi ha reiterato un reato di accedere alle misure alternative, vero fulcro del provvedimento. Vale soprattutto per chi ancora non è entrato in carcere, e che quindi potrebbe essere assegnato alle misure domiciliari o ai servizi sociali senza passare dalle sbarre. Riduce ancora di più il fenomeno delle “porte girevoli”, imponendo al magistrato di sorveglianza di verificare l’esistenza di alternative prima di ricorrere alla custodia detentiva. Ma non risolve il problema del sovraffollamento. Non risponde alle richieste del Consiglio d’Europa, che a maggio ha respinto il ricorso dell’Italia rendendo definitiva la condanna per violazione dell’articolo 3. Quello che sanziona la tortura e i trattamenti disumani e degradanti. I dati sono quelli noti: 47.022 posti, per 66.028 detenuti al 30 giugno 2013, sottorganico di magistrati di sorveglianza e di operatori sociali, assenza di risposte politiche. L’Italia già era stata condannata, ma stavolta la Corte di Strasburgo ha optato per una “sentenza pilota”: il nostro Paese ha un anno di tempo per risolvere il problema, altrimenti ogni detenuto che si trovi in condizioni di sovraffollamento - più di due terzi della popolazione carceraria vivono in meno di 3 metri quadri - potrà presentare istanza di risarcimento. Avverte nella sua relazione Salvatore Nottola, procuratore generale presso la Corte dei Conti: “Nel 2012 l’Italia è stata condannata a pagare indennizzi per 120 milioni di euro, la somma più alta mai pagata da uno dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa” per violazioni in ambito penale e carcerario. Il conto potrebbe diventare ben più salato, se qualcosa non cambia. Potrebbe essere l’economia, che sta tanto a cuore a questo governo, la leva per tornare a ragionare dei delitti e delle pene. A partire dal codice penale. Il carcere comincia nelle norme: tre sole leggi contribuiscono a più della metà della popolazione detenuta: la Bossi-Fini sull’immigrazione, la Fini-Giovanardi sulle droghe e la ex Cirielli sulla recidiva. “Ma non credo che sarà questo governo a mettere mano alla riforma del codice”, commenta Francesco Maisto, presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna. “Se il buongiorno si vede dal mattino, va detto che il decreto Cancellieri è troppo timido: poteva fare di più, poteva per esempio attuare le proposte formulate lo scorso anno dalla commissione mista Csm-ministero di Giustizia, che prevedeva anche di rivedere il testo sugli stupefacenti. Ma il problema è politico: se si mette mano alla Fini-Giovanardi bisogna riconsiderare anche la Bossi-Fini, cioè le leggi che hanno riempito le galere di povera gente”. I dati, ufficiali e ufficiosi, disegnano un detenuti medio tra i 30 e i 40 anni di età, senza titolo di studio superiore, proveniente in prevalenza dal Sud che vive la galera come un passaggio inevitabile nella sua storia familiare o sociale. “Non c’è dubbio che la nostra è una giustizia di classe”, aggiunge Silvia Buzzelli, docente di Diritto processuale penale all’università di Milano-Bicocca. “Basta guardare la composizione sociale del carcere. Chi lo nega non ne ha mai visitato uno. Abbiamo per tutti”. Tossicodipendenti e immigrati sono in alcune carceri italiane più dell’80 per cento dei detenuti. Il decreto della Cancellieri li riguarderà in minima parte, perché il ricorso a misure alternative come la detenzione domiciliare è possibile solo quando si ha alle spalle una casa o una famiglia ritenute “affidabili”. Che non hanno la maggior parte degli stranieri. “Bisogna modificare il nostro approccio al concetto di sicurezza”, spiega Mauro Palma, ex presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, chiamato dalla Cancellieri a presiedere la commissione incaricata di studiare una soluzione per il sovraffollamento delle carceri. “Bisogna pensare a strutture più leggere, di custodia attenuata, abbandonare l’idea della marcatura a uomo. Solo così le misure alternative diventano davvero tali e danno una possibilità di reinserimento”. Gli esempi ci sono, sia da strutture italiane come il carcere di Bollate, (“che dovrebbe essere messo a sistema”, dice Palma), sia dall’estero, dove il ricorso al carcere è davvero l’opzione estrema, e la permanenza in cella non è pensata come un’ulteriore punizione. Il braccialetto elettronico, l’affidamento in prova, i lavori sociali, il sistema dei “crediti” che consentono la riduzione della pena, l’obbligo di frequenza scolastica, le pene pecuniarie prevalenti in Germania (“che rischiano però di essere discriminatorie”, avverte Silvia Buzzelli) al posto di quelle detentive. Molte di queste alternative sono pensate anche nel nostro ordinamento, ma non messe in pratica. Un problema di organico, certo, ma anche di altro. “Più che i numeri, a me spaventano le culture”, spiega Palma. “Si ha paura di decidere, si preferisce non concedere permessi o affido esterno perché timorosi di essere attaccati dalla stampa. Che cerca il sensazionalismo a scapito della correttezza dei dati”. È successo con l’indulto del 2006, si è ripetuto con ogni provvedimento che ha anticipato l’uscita dal carcere. “C’è una politica che nei convegni dice che il carcere è l’ultima ratio, ma poi misura la tutela di un bene giuridico dall’ampiezza delle pena detentiva che viene data a chi non lo rispetta”. Ogni epoca ha il suo allarme sociale: una volta sono i guidatori ubriachi, un’altra gli scippatori di vecchiette, un’altra ancora gli immigrati irregolari. C’era la lotta armata, ora ci sono gli scontri di piazza. “Ci vogliono pene severe”, dice la gente. “Ci vogliono pene severe”, ripete la stampa. A ciò si adeguano i giudici, che hanno un ventaglio di opzioni ma scelgono, sotto i riflettori, sempre la più ostativa. A destare allarme sociale non sono i grandi o piccoli reati finanziari, non sono le maxi truffe. È la microcriminalità, i piccoli raggiri quotidiani. La selezione per entrare in galera avviene anche così. “Dentro ci finisce il clochard, il clandestino, il piccolo spacciatore o il drogato”, dice ancora Maisto. “Al tribunale di Milano c’è una giustizia dei piani alti e una dei piani bassi. E al piano basso ci sono i processi per direttissima, con l’avvocato che patteggia perché c’è una difesa remissiva, che non ha nemmeno voglia di combattere. È ai piani alti che la difesa fa le grandi arringhe, non nel seminterrato. È lì che nascono le carceri”. La durata dei processi avvantaggia sempre chi detiene il potere. Un bravo avvocato che trova cavilli per rimandare le udienze, per non arrivare a processo, usufruisce della migliore amnistia che si possa trovare sul mercato delle indulgenze: quella della prescrizione che, come non si stanca di ripetere Rita Bernardini, “cancella 170mila processi ogni anno”. Anche questa è una selezione. Non naturale ma economica. Una riforma vera è impossibile. Non è un segreto che politicamente l’ostacolo sia rappresentato - direttamente e indirettamente - da Silvio Berlusconi. Ogni misura che possa riguardarlo, e gli esempi sono infiniti, sarà guardata con sospetto o con soddisfazione, osteggiata o premiata. Ma una riforma vera è necessaria e non perché “ce lo chiede l’Europa”. Ce lo chiede la nostra Costituzione, i 66mila detenuti che ogni anno passano le forche caudine di celle con uno spazio vitale di meno di tre metri quadri. La ministra Cancellieri, pragmatica e competente, sa che non si farà. Per adesso c’è il decreto, poi ci sarà la sua conversione in legge, magari con degli aggiustamenti. Ma per accontentare Strasburgo c’è una sola possibilità: l’amnistia. L’ultima è stata nel 1990, quando finiva la Prima Repubblica. L’altra potrebbe essere ora. A ogni morte di Stato. Giustizia: l’effetto allucinogeno della Fini-Giovanardi di Tiziana Barillà Left, 6 luglio 2013 Un detenuto su tre è finito dentro per la legge antidroga, voluta dal governo Berlusconi. Che equipara le droghe leggere alle pesanti e punisce il consumo con sanzioni amministrative. E che ha portato a 120mila arresti in 7 anni. Le carceri italiane esplodono, è risaputo. Meno, forse, lo è che dei 66mila detenuti più di un terzo sono “finiti dentro” per reati connessi alla legge antidroga. E che nell’ultimo anno tra chi ha varcato la soglia delle patrie galere uno su tre è un tossicodipendente, o comunque un consumatore di sostanze stupefacenti. Eppure la questione non è annoverata tra le priorità dell’agenda politica. Anzi, in barba agli allarmi sul sovraffollamento carcerario, la delega alle politiche antidroga non è ancora stata assegnata ad alcun ministro “di larghe intese”. Spetterebbe - in continuità con la scelta del governo Monti, al ministero dell’Integrazione, Cécile Kyenge, la quale non ha però ricevuto il passaggio di consegne dal predecessore Andrea Riccardi. La nuova ministra, interpellata da left, preferisce non esprimersi in merito, “per non alimentare polemiche”. Intanto il posto continua a rimanere vacante e il dipartimento Antidroga continua a non avere un riferimento politico. Mentre circolano indiscrezioni circa un possibile trasferimento della delega al Viminale, retto da Angelino Alfano. Sarebbe un segnale chiarissimo: la “guerra alla droga” è solo una questione di ordine pubblico. Non la pensa così Leopoldo Grosso, vicepresidente del Gruppo Abele: “Da anni ormai la tossicodipendenza è stata definita dall’Organizzazione mondiale della sanità alla stregua di una malattia. Ma nell’indifferenza a trovare soluzioni ci sta pensando il carcere”. La legge della discordia In materia di antidroga a dettare le regole è la legge n. 49 Fini-Giovanardi, approvata nel 2006, che equipara droghe leggere e pesanti, reintroduce il limite quantitativo tra uso personale e spaccio e inasprisce le pene: da 6 a 20 anni di reclusione senza distinzione tra le sostanze. Poco importa che sia un etto di eroina o dieci grammi di hashish. “Se l’obiettivo era quello di riabilitare le persone dipendenti con lo spauracchio del carcere non è stato raggiunto”, continua Grosso. “L’autoritarismo paternalistico di questa legge si è rivelato un’illusione”. Critiche e proposte alternative alla Fini-Giovanardi fioccano da più parti. Mentre manca meno di un anno “all’ora X”, e cioè maggio 2014 quando l’Italia dovrà ottemperare agli obblighi imposti dalla Corte europea per i diritti umani sulle condizioni carcerarie. Rischiamo una multa milionaria. E il carattere repressivo della legge antidroga contribuisce di certo al sovraffollamento carcerario: 120mila arresti in 7 anni, in soldoni, è come se l’intera popolazione della Valle d’Aosta fosse finita dietro le sbarre. A popolare le patrie galere sono soprattutto consumatori e piccoli spacciatori: per detenzione sono stati circa 19mila gli arresti nell’ultimo anno. Mentre per traffico illecito gli arresti nello stesso anno sono stati solo 250, per un totale di 761 carcerati. “È chiaro che questa legge è stata creata per colpire i pesci piccoli”, denunciano gli autori del Quarto libro bianco sulla Fini-Giovanardi, presentato dal Forum anti droghe. Interpretazione che trova conforto nell’aumento delle sanzioni amministrative, più che raddoppiate dal 2006 al 2011. Ma è ponendo la lente di ingrandimento sulla cannabis che l’impatto punitivo sul consumo si fa evidente, sempre secondo il libro bianco solo lo scorso anno le segnalazioni alle prefetture per uso personale di cannabinoidi sono state il 75,8 per cento del totale. Mano “pesante” sulla cannabis La cannabis è una droga assai familiare per il nostro Paese: il 21 per cento degli italiani tra i 15 e i 64 anni ha fumato uno spinello almeno una volta, come testimonia la relazione parlamentare 2012 sulle tossicodipendenze. Una droga in Italia ancora illecita, ma frequente quasi come quelle legali, come alcool e tabacco. E che sul piano degli effetti nulla ha a che vedere con le droghe pesanti, tipo cocaina o eroina. Eppure la Fini-Giovanardi ha usato la mano pesante contro i peccati veniali: da 6 a 20 anni di reclusione. Mentre in precedenza per la cannabis la pena prevedeva da 2 a 6 anni. “Equiparare la cannabis alle droghe “pesanti” è un errore clamoroso” secondo Carlo Alberto Zaina, avvocato penalista esperto di reati connessi all’uso di stupefacenti. “È scientificamente provato che si tratta di un’equiparazione erronea Non si possono punire allo stesso modo schiaffi e coltellate”. Sul piano penale, poi, il legale non ha dubbi: “L’assunzione di cannabis per uso personale non crea allarme sociale, perciò non dovrebbe esserci alcuna sanzione né penale né amministrativa. La lotta va fatta a chi traffica e spaccia, non agli assuntori”. La Fini Giovanardi crea anche alcuni paradossi, stupefacenti sarebbe il caso di dire. Spiega Zaina: “Se compri 10 grammi di cannabis o hashish in strada da un pusher, probabilmente non verrai punito. Perché se sei incensurato e se dimostri la tua disponibilità economica, verrai riconosciuto come un consumatore e prosciolto. Eppure alimenti i profitti del mercato criminale. Se invece coltivi due piantine a casa tua verrai considerato un criminale e quindi sarai condannato. Eppure non hai contribuito ad alimentare le mafie”. Ecco perché “la Fini-Giovanardi va abolita”, conclude l’avvocato. “Non tanto perché manda più gente in galera ma perché è sbagliata concettualmente. Fa acqua da tutte le parti”. Sulla soglia dello spaccio E chi decide la distinzione tra spacciatore e consumatore? Una semplice tabella La legge prevede tre diversi reati: detenzione illecita (art. 73), traffico illecito (art. 74) e uso personale (art. 75), che si risolve con una sanzione amministrativa. Eppure un referendario del 1993 era stato molto chiaro: detenere stupefacenti per uso personale non è reato. Le soglie dei reato sono definite con precisione: 1,7 grammi di eroina, corrispondente a 10 dosi; 6 grammi per la cocaina, pari a 5 dosi; 5 grammi lordi pari a 15 spinelli. “Parametri ragionevoli”, li aveva definiti l’allora ministro Carlo Giovanardi. Mica tanto, se si calcola il numero di consumatori arrestati. Se la quantità di sostanze posseduta è solo leggermente superiore alla soglia, il giudice può fare uno sconto di pena: da 1 a 6 anni di reclusione (invece che da 6 a 20). Si chiama “lieve entità”, ed è un’attenuante difficilmente concessa dai giudici. Se un tossicodipendente viene condannato a una pena inferiore a 6 anni, può usufruire di misure alternative al carcere, cioè può sottoporsi a un programma terapeutico presso un servizio pubblico o una comunità autorizzata. O può svolgere un “lavoro di pubblica utilità”. Peccato, però, che nel Codice ci sia ancora la cosiddetta legge ex Cirielli del 2005, che ha impedito ai recidivi di avvalersi delle misure alternative al carcere. E, si sa, i tossicodipendenti sono i recidivi per eccellenza. Ma neppure le sanzioni amministrative sono uno scherzo: si va dalla segnalazione al prefetto alla sospensione della patente. Fino, in caso di recidiva, all’obbligo di presentarsi negli uffici di polizia, al controllo di rientro e uscita da casa, il divieto di frequentare determinati locali pubblici, l’obbligo di residenza Oltre la Fini-Giovanardi Modificare la legge antidroga è uno degli obiettivi della campagna referendaria “3 leggi per la giustizia e i diritti”, promossa da numerose associazioni. Come? Depenalizzando il consumo, riducendo l’impatto penale e destinando i tossicodipendenti a programmi alternativi. Le proposte non arrivano solo dal basso. C’è anche un’iniziativa parlamentare, promossa da Daniele Farina, ex leader del Leoncavallo di Milano, oggi deputato di Sel: “Il mondo cambia, è alla ricerca di una strategia nuova, e noi continuiamo a utilizzare la cassetta degli attrezzi ideologica formulata con i paraocchi da Giovanardi”. Eppure qualcosa in questa legislatura si muove, assicura Farina “Lastra-da è in salita ma il clima è cambiato, c’è attenzione sull’argomento. Adesso bisogna riuscire a esercitare una pressione sul governo, per andare in una direzione diversa da quella che vorrebbe Alfano”. Insomma per usare le parole di Leopoldo Grosso “la soluzione è depenalizzare. Ma ciò vorrebbe dire cambiare la leggo, ed è difficile riuscirci in tempi brevi. Intanto, si può intervenire sui processi applicando le misure alternative al carcere. E su questo si è presa la giusta direzione”. D decreto Cancellieri contiene almeno un provvedimento giusto: togliere il vincolo della recidiva, che “sarebbe già un gran passo avanti”, conclude il numero due di Don Ciotti. In attesa di altri passi si attende la sentenza della Consulta sull’incostituzionalità della Fini-Giovanardi, proprio la Corte potrebbe indicare la via d’uscita dall’impasse. La legge Fini-Giovanardi è anticostituzionale E se la Fini-Giovanardi, che da anni riempie le carceri italiane, fosse anticostituzionale? Dall’inizio dell’anno il dubbio sul decreto legge che ha aumentato le pene per il possesso di stupefacenti, cancellando la differenza tra droghe leggere e pesanti, è stato sollevato dalle difese in diversi processi e accolto dai giudici. Dalla Corte di Appello di Roma alla Cassazione. La motivazione è sempre la stessa: vizio procedurale. La Fini-Giovanardi, infatti, è stata varata all’interno del cosiddetto “decreto Olimpiadi”. Ma cosa ha a che vedere l’inasprimento delle pene per chi fuma marijuana con le “misure urgenti per la sicurezza e i finanziamenti” delle Olimpiadi? Manca, è la tesi che sta rimbalzando di aula in aula, il requisito costituzionale della coerenza interna. E non solo. Per ammissione dello stesso Giovanardi, quella riforma era all’attenzione del Senato da quasi tre anni. Difficile quindi sostenere che fosse motivata da un’improvvisa urgenza. “Se la Corte ci desse ragione - commenta l’avvocato Alessandro Gamberini - sarà travolta l’intera legge, perché ne viene messo in discussione il fondamento procedurale. La Corte smaschera il metodo piratesco per cui si infilano cose che non c’entrano niente in decreti che hanno un’altra funzione e urgenza”. Certo, per Gamberini la vera colpa della norma contestata è “l’aver rotto la distinzione tra droghe più o meno criminogene, che andava invece aumentata”. Pure Al Capone, però, fu fermato su un semplice dettaglio. Giustizia: il carcere è una discarica sociale che produce recidiva… di Mario Nasone (Presidente Centro Comunitario Agape) Calabria on web, 6 luglio 2013 “Ridotte così, le carceri sono accademia per le organizzazioni criminali”. Lo ha detto Roberto Saviano intervenendo al convegno “Mafie ed economia” a Castel Capuano a Napoli, alla presenza del ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri. “Sono d’accordo con il ragionamento del ministro Cancellieri, il decreto non è svuota carceri ma salva carceri. C’è un problema drammatico - ha aggiunto - e la democrazia si valuta dallo stato delle carceri. Mi rendo conto che c’è un paese disperato che si chiede come sia possibile, con l’assenza di lavoro e una situazione difficilissima, concedere a chi ha sbagliato questa attenzione. È un pensiero in buona fede, ma a loro dico che il carcere ridotto così è un’accademia per le organizzazioni criminali”. “Qualche anno fa in carcere non era immediato il rapporto con le organizzazioni criminali. Lo era negli anni Ottanta, poi non lo è stato più per un certo tempo. Negli ultimi anni invece - ha concluso - chiunque entra cerca l’interlocuzione mafiosa”. Chi conosce il mondo delle carceri questo concetto espresso da Saviano lo ripete da tempo ,opponendolo ai tanti che invocano una astratta certezza della pena, che di fatto diventa una certezza della recidiva per tutti quei soggetti che lo Stato di fatto rinuncia a rieducare e li consegna alle organizzazioni mafiose che a loro modo invece lo fanno. Una questione che riguarda soprattutto i giovani che sono la componente più significativa anche dal punto di vista numerico della popolazione penitenziaria, anche in Calabria dove la metà dei detenuti ha un’età compresa tra i 18 ed i ai 35 anni, nella maggior parte dei casi i tratta di giovani alle prime esperienze detentive, i cosiddetti giovani in bilico, perché non hanno ancora fatto una scelta irreversibile di criminalità e che possono quindi ancora essere recuperati alla legalità. Giovani che si trovano a stretto contatto con soggetti i appartenenti alla criminalità organizzata che sempre più numerosi, grazie ai successi ottenuti dalle forze dell’ordine e dalla magistratura, fanno ogni giorno ingresso nelle carceri calabresi. È notorio che la criminalità organizzata tende a mantenere il suo potere anche all’interno del carcere, anzi questo territorio è sempre stato considerato un “luogo strategico”, sia di legittimazione dei rapporti di forza all’interno delle organizzazioni mafiose, sia di possibilità di riproduzione attraverso l’attivazione di precisi meccanismi di cooptazione. Il carcere, con il regime di “convivenza forzata” che instaura, rappresenta il clima più favorevole per la criminalità organizzata per “avvicinare” nuovi soggetti, soprattutto giovani, attraverso una vera e propria azione di indottrinamento che può iniziare con forme minime di “accoglienza e solidarietà” attivate verso chi viene arrestato e che possono consistere nel mettere a disposizione l’avvocato, nel farsi carico dei problemi economici della famiglia, nel reperire un lavoro al momento della scarcerazione. Emblematica è a tale proposito la testimonianza di un collaboratore di giustizia di Reggio Calabria, di come ha vissuto a suo tempo il rito dell’affiliazione mafiosa all’interno delle carceri: “per entrare nella cosca di regola i tempi dell’osservazione variano dai 6 mesi ad un anno. Il candidato per fare ingresso nella cosca viene coltivato, studiato, messo alla prova con piccole cose, azioni di media importanza che ne evidenziano il valore ed il coraggio. Durante il mio primo arresto, all’età di 18 anni, fui battezzato e mi fu detto che ero un uomo Loro”. Dalla testimonianza del collaboratore di giustizia emerge in modo inquietante come all’interno delle carceri vige un vero e proprio “trattamento penitenziario” da parte della criminalità organizzata nei confronti dei giovani detenuti, quasi “alternativo” a quello previsto dall’ordinamento penitenziario. Tale fenomeno, che in passato ha avuto dimensioni particolarmente vistose, si è in parte attenuato negli ultimi anni a seguito dei provvedimenti adottati dal DAP di divisione dei detenuti in sezioni di alta e media sicurezza e sia soprattutto grazie all’introduzione del regime differenziato ex art. 41 bis che ha almeno garantito la separazione tra i capi carismatici delle organizzazioni criminali e gli altri detenuti. È anche per questo che la criminalità organizzata di stampo mafioso ha una grande capacità di riprodursi e un carattere pervasivo. Ciò gli permette di non soccombere sotto i colpi della azione repressiva e di contare su un ricambio continuo attraverso la sostituzione dei capi arrestati con nuovi elementi che non trovano difficoltà a ricoprire gli stessi ruoli all’interno delle gerarchie mafiose. Per questo è necessario che accanto alla azione giudiziaria di contrasto vi sia parallelamente un’azione mirata di prevenzione per bloccare i processi di riproduzione del fenomeno. In questa azione il sistema penitenziario ha un ruolo strategico che finora è stato sotto valutato. L’introduzione del regime 41 bis, il cosiddetto “carcere duro” il trasferimento in strutture penitenziarie di altre regioni dei capi della ndrangheta è stata una scelta positiva anche in questa ottica, ma non ha risolto il problema della affiliazione mafiosa che continua anche a causa a causa del sovraffollamento delle carceri e della riduzione dei fondi previsti per la realizzazione di attività lavorative, trattamentali e di recupero sociale. Infatti, solo con la realizzazione dei circuiti penitenziari differenziati più volte annunciati e con un trattamento diversificato si potranno avere cambiamenti sostanziali. In sintesi, occorrerebbe che si prevedesse un diverso percorso fra i detenuti anziani ed i nuovi giunti. Che i giovani avessero strutture interne a custodia attenuata diverse dagli adulti, che i soggetti mafiosi avessero sezioni solo per loro, indipendentemente dal regime carcerario. Ma che soprattutto si garantisse, come prevede l’ordinamento penitenziario, un regime carcerario di vera riabilitazione in campo lavorativo, scolastico e pedagogico. In Calabria, grazie all’intuizione del compianto provveditore regionale Paolo Quattrone ,è stato avviato nel 2004 l’Istituto a custodia attenuata di Laureana di Borrello, unico in Italia che ha permesso la sperimentazione di un trattamento avanzato dei giovani detenuti a cui è stata concessa la possibilità di fruire di percorsi di riabilitazione e di responsabilizzazione attraverso il lavoro ed un progetto pedagogico personalizzato. L’idea di Quattrone non era quella di realizzare a Laureana un’isola felice, ma di estendere questo metodo di lavoro a tutte le carceri calabresi, offrendo ai detenuti che ne avessero la volontà una concreta alternativa alla condizione di passività e di deresponsabilizzazione che normalmente il carcere provoca. Questo percorso riformatore si è purtroppo bloccato anche in Calabria. L’Istituto di Laureana è stato chiuso tra lo sconcerto e le proteste del mondo politico, religioso e del volontariato che lo avevano conosciuto ed apprezzato come modello avanzato di trattamento penitenziario. Oggi la situazione di sovraffollamento anche in Calabria ha orma superato i livelli di guardia, così come si assiste ad un vero e proprio abbandono delle politiche di trattamento penitenziario, di recupero e di inclusione sociale anche di quei soggetti che potrebbero averne un reale beneficio Una situazione di emergenza che ha trasformato le carceri in contenitori di abbandono, vere e proprie discariche sociali con un aumento progressivo di soggetti tossicodipendenti, immigrati, disagiati mentali e sociali. Una politica miope, che invece di creare sicurezza la fa venire meno, nel momento in cui il carcere invece di produrre riabilitazione ed opportunità di riscatto sociale, produce recidiva e quindi un aumento dei soggetti che inevitabilmente ricadranno nel reato. La promessa della prossima apertura della casa di reclusione di Arghillà e della riattivazione di Laureana, se mantenute potranno portare un sollievo alla situazione di emergenza e condizioni di vita più dignitose per i detenuti. La strada da imboccare è anche quella delle misure alternative al carcere, che ovviamente non può riguardare i soggetti autori di reati ad alto allarme sociale che rappresentano però solo il 20% della popolazione detenuta. Una strada che si è dimostrata positiva se si guardano le ricerche condotte che fanno emergere come l’80 % dei soggetti che fruiscono di tali benefici non commettono più reati, a fronte invece di una recidiva del 70% dei soggetti che dopo la dimissione e senza avere potuto sperimentare un reale percorso tratta mentale e di accompagnamento sociale, rientrano in carcere. Un ruolo importante è chiamato a svolgerlo la Regione Calabria, che negli anni scorsi aveva stipulato un protocollo d’intesa importante con il Ministero della Giustizia ed aveva anche sperimentato interventi positivi sia all’interno delle carceri che fuori attraverso iniziative di sostegno ai percorsi di formazione ed inserimento lavorativo. Serve un’azione congiunta con il mondo della cooperazione sociale e con il volontariato per attivare una rete di accoglienza e di inclusione sociale per chi ha scontato la pena e desidera ritornare ad essere cittadino che vuole rientrare nella legalità. In gioco non vi è solo la dignità violata ed i diritti umani delle persone private della libertà - come ha autorevolmente denunciato il presidente Giorgio Napolitano - ma anche l’interesse dello Stato a contrastare concretamente l’azione di proselitismo della criminalità organizzata sui giovani e quindi a non vanificare di fatto l’azione di repressione della Magistratura. In Calabria l’azione di contrasto alla ndrangheta si gioca anche su questo versante. Lo Stato nelle sue varie articolazioni centrali e locali deve decidere se intende realmente mettersi in concorrenza con l’antistato, che offre opportunità di lavoro, protezione, identità, oppure restare spettatore muto e rinunciare a questo suo ruolo educativo e preventivo. Giustizia: Speranza (Pd); in Italia abuso di carcerazione, sì all’abolizione dell’ergastolo Asca, 6 luglio 2013 “Dovremmo dire con parole chiare che in Italia esiste un problema di abuso di carcerazione preventiva, e ignorare questo problema significa, ancora una volta, fare la figura delle sfingi”. Lo afferma il presidente dei deputati del Pd Roberto Speranza, intervistato dal Foglio. “Se poi dobbiamo andare avanti nel ragionamento io - aggiunge Speranza - arrivo a dire che nel nostro paese esiste un equivoco sulla funzione del carcere. Il carcere non ha solo una funzione punitiva, ma anche riabilitativa. E mi permetto di dire di più: nel rispetto totale delle vittime dei reati io credo che il nostro partito, per onorare la funzione riabilitativa del carcere, dovrebbe aprire una riflessione su un tema importante: l’abolizione dell’ergastolo. E la famosa lezione di Aldo Moro del 1976 credo sia davvero un punto da cui partire”. Giustizia: avvocato Carlo Taormina; i tossicodipendenti non devono andare in carcere Agenparl, 6 luglio 2013 “Bisogna cacciare i giudici dalle aule di giustizia. Le sentenze le debbono fare i cittadini che non fanno parte dello stato e che quindi non hanno poteri né se la fanno con poteri sporchi e occulti. Durano in carica due anni e poi a casa senza possibilità di farsi comprare per fate carriera. Al massimo di può prevedere un giudice che dirige l’udienza ma non partecipa alla decisione. I cittadini che giudicano lo debbono fare secondo coscienza anche perdonando chi ha sbagliato ma merita fiducia. Le sentenze vengono eseguite fino a quando la persona non si è risocializzata e le carceri debbono essere abitazioni vivibili e nelle quali le famiglie possono continuare a considerarsi tali. Il carcere duro è per le bestie ed è criminogeno perché incattivisce le persone per cui va abolito in quanto trattamento non umanitario. I tossicodipendenti non debbono andare in carcere ma debbono essere curati. Il carcere preventivo solo per persone violente nei confronti di altri e della società”. Lo dichiara Carlo Taormina su Facebook. Giustizia: Di Lello e Gabriele (Psi); positivo incontro con il Ministro Cancellieri www.marigliano.net, 6 luglio 2013 “Nelle proposte lo svuotamento delle carceri e l’utilizzo dei detenuti per reati minori in lavori di pubblica utilità”. Nella serata dell’altra sera, Marco Di Lello, presidente del gruppo dei socialisti alla Camera e Corrado Gabriele, consigliere regionale campano, hanno incontrato a Roma il Ministro Anna Maria Cancellieri per un confronto a tutto campo sui temi della giustizia tra una delegazione dei deputati e dirigenti del Psi e il numero uno di Via Arenula. “Il confronto è stato utile e sono emersi punti di convergenza tra le intenzioni del Governo e le nostre proposte politiche sul tema della riforma della giustizia, sulla chiusura dei Cie e sullo svuotamento delle carceri nel nostro Paese” ha dichiarato l’on. Di Lello che ha consegnato a nome del partito impegnato nelle ultime settimane in visite ispettive nelle carceri italiane, un dossier sul triste primato italiano per il maggior numero di condanne inflitte dall’Ue per violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che, con oltre 1.500 sentenze per le condizioni carcerarie, pone l’Italia al terz’ultimo posto in Europa davanti solo a Bulgaria e Serbia. “Ridurre le misure cautelari in carcere, implementare le pene alternative nel caso di reati minori o di soggetti non socialmente pericolosi e depenalizzare alcuni reati del nostro codice penale in sintonia con le misure raccomandate dal Consiglio d’Europa sono misure essenziali, a costo zero, che hanno riscontrato il favore e la grande attenzione del Ministro” ha dichiarato Di Lello al termine dell’incontro. Il consigliere regionale Corrado Gabriele ha riferito al Ministro Cancellieri della gravissima situazione dei detenuti a Poggioreale, il carcere più affollato d’Europa “ho chiesto un intervento a breve per alleviare le drammatiche e disumane condizioni dei detenuti” ha dichiarato Gabriele “e il Ministro si è dimostrato molto disponibile e ci ha rassicurato sul fatto che entro la primavera del 2014 vi sarà una progressiva e sensibile riduzione del sovraffollamento di Poggioreale in attesa di un intervento a medio e lungo termine di apertura di nuove strutture in Campania” continua Gabriele “interessante anche l’idea del Ministro di ipotizzare una permuta immobiliare per la costruzione di una nuova struttura in cambio degli spazi ed eventuali nuove realizzazioni nell’area di Poggioreale”. Il consigliere Gabriele ha inoltre chiesto al Ministro di attivare un tavolo di confronto con il Sindaco De Magistris ed il Governatore Caldoro per dar vita, come già in altre grandi città italiane, a programmi di utilizzo dei detenuti per interventi di pubblica utilità a costo zero “utilizzare i detenuti in permesso come fanno a Milano per la riparazione delle buche stradali sarebbe senz’altro interessante per coloro che hanno da scontare pene per reati minori gli si farebbe pagare il debito con la società rendendosi utili anziché stare 22 ore su 24 all’interno di celle anguste e affollate in condizioni disumane” ha concluso il consigliere regionale Gabriele. Milano: parlamentari lombardi in visita a San Vittore, situazione è grave Adnkronos, 6 luglio 2013 Numerosi consiglieri e parlamentari lombardi neoeletti hanno partecipato, oggi, alla visita organizzata dal Garante per il Comune di Milano per le persone private della libertà personale. “Abbiamo raggiunto l’obiettivo di far conoscere anche ai nuovi parlamentari eletti in Lombardia, ai nuovi consiglieri regionali, provinciali e comunali la realtà carceraria di San Vittore”, ha detto Alessandra Naldi, Garante per il Comune di Milano delle Persone private della libertà personale, al termine della visita alla Casa Circondariale di San Vittore. “La partecipazione oggi - ha aggiunto - è stata numerosa e ci auguriamo che in futuro possa vedere l’adesione di tutte le forze politiche rappresentate nelle diverse istituzioni della città. Per alcuni di loro è stata la prima visita in un carcere, la prima presa di coscienza della gravità dei problemi che affliggono il sistema penitenziario”. La visita si è concentrata soprattutto nei reparti dell’istituto che soffrono le situazioni più difficili: il VI raggio, dove il sovraffollamento si accompagna ai problemi strutturali di un’area che da troppo tempo non viene ristrutturata; il II piano del VI raggio, il cosiddetto reparto dei “protetti”, dove convivono, anche se in celle distinte, tutti coloro che, per la loro protezione, devono essere tenuti separati dal resto della popolazione detenuta (collaboratori di giustizia, ex agenti delle forze dell’ordine accusati di reato, sex-offenders ma anche transessuali e omosessuali). Poi il Centro clinico e il Conp (reparto di osservazione psichiatrico), strutture inadeguate per garantire le cure di cui necessita un’ampia fetta della popolazione detenuta. La visita si è svolta anche nel reparto cosiddetto dei “giovani adulti” (ragazzi tra i 18 e i 24/25 anni) e nella sezione femminile. Alla visita hanno preso parte una ventina di rappresentanti di Camera, Senato, Regione, Provincia e Comune: esponenti di Pd, Sel, Movimento 5 Stelle, Lega Nord, Lista Civica Pisapia per Milano, che hanno raccolto l’invito lanciato nei giorni scorsi dalla Garante Naldi e dalla dottoressa Laura Fadda, Magistrato di Sorveglianza di Milano. “Durante la visita - ha aggiunto Alessandra Naldi - abbiamo dialogato con gli operatori, rendendoci conto che è interesse di tutti combattere il sovraffollamento e garantire dignità ai reclusi. Abbiamo toccato con mano cosa significa l’espressione trattamenti inumani e degradanti. Parlamentari e consiglieri hanno constatato la reale situazione di vita dei detenuti, a partire dalle condizioni di alloggio in camere sovraffollate dove sono sistemati fino a tre letti a castello in celle singole senza poter aprire le finestre. La Garante: abbiamo toccato con mano problemi di SanVittore “Abbiamo raggiunto l’obiettivo di far conoscere anche ai nuovi parlamentari eletti in Lombardia, ai nuovi consiglieri regionali, provinciali e comunali la realtà carceraria di San Vittore”. A dirlo è il Garante per il Comune di Milano delle Persone private della libertà personale, Alessandra Naldi, al termine della visita al carcere milanese di San Vittore a cui hanno partecipato questa mattina anche una ventina di rappresentanti di Camera, Senato, Regione, Provincia e Comune: esponenti di Pd, Sel, Movimento 5 Stelle, Lega Nord, Lista Civica Pisapia per Milano. Deputati e senatori eletti nelle circoscrizioni lombarde hanno accolto l’invito a visitare il carcere che la Naldi ha rivolto loro pochi giorni fa con una lettera. “Durante la visita - ha aggiunto Alessandra Naldi - abbiamo dialogato con gli operatori, rendendoci conto che è interesse di tutti combattere il sovraffollamento e garantire dignità ai reclusi. Abbiamo toccato con mano cosa significa l’espressione trattamenti inumani e degradanti”. La visita si è concentrata soprattutto nei reparti dell’istituto che soffrono le situazioni più difficili: il VI raggio, dove il sovraffollamento si accompagna ai problemi strutturali di un’area che da troppo tempo non viene ristrutturata; il II piano del VI raggio, il cosiddetto reparto dei “protetti”, dove convivono, ancorché in celle distinte, tutti coloro che, per la loro protezione, devono essere tenuti separati dal resto della popolazione detenuta (collaboratori di giustizia, ex agenti delle forze dell’ordine accusati di reato, sex-offenders ma anche transessuali e omosessuali); il Centro clinico e il Conp (reparto di osservazione psichiatrico), strutture inadeguate per garantire le cure di cui necessita un’ampia fetta della popolazione detenuta. La visita si è svolta anche nel reparto cosiddetto dei “giovani adulti” (ragazzi tra i 18 e i 24/25 anni) e nella sezione femminile. Il garante del Comune di Milano si augura che “le cose viste stamattina vengano adeguatamente riportate nelle aule parlamentari e consiliari e che orientino le difficili scelte politiche che dovranno essere prese nei prossimi giorni”. Genova: Cancellieri; spostare il carcere, a Marassi ci sono troppi rischi per la sicurezza di Emanuele Rossi Secolo XIX, 6 luglio 2013 Cambio di inquilini per le “casette rosse” di Marassi? Dai detenuti alla riqualificazione urbana. Commercio, servizi, parcheggi, appartamenti. Per il momento non sono più che parole. Ma pesanti, visto che l’invito a ragionare di uno spostamento del carcere in una zona più periferica arriva dal ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri, che nel suo passato vanta anche un’esperienza come Prefetto proprio a Genova. A dirlo, ieri, è stato il presidente della Regione Claudio Burlando, a margine di un incontro pubblico: “Il ministro Cancellieri, nel corso di un colloquio sul futuro dei tribunali liguri, mi ha detto che è preoccupata per la situazione delle carceri italiane, in particolare per Marassi a Genova - ha spiegato Burlando - Sarebbe importante restituire alla città l’area del carcere di Marassi, riqualificare la zona, anche con forme innovative di project financing. Anche il carcere di Savona come quello di Genova è in condizioni drammatiche”. Insomma, dal suggerimento del Ministro all’ interessamento diretto del governatore il passo sembra essere breve: “Gli assessori regionali parleranno con il Comune di Genova, titolare dell’urbanistica, io stesso discuterò con il sindaco Marco Doria, se il progetto sarà giudicato interessante ci lavoreremo insieme”, ha aggiunto Burlando. Un’occasione di respiro per un quartiere già alle prese con i disagi dello stadio Luigi Ferraris, e anche un’occasione di sviluppo urbanistico e riqualificazione che sicuramente il Comune vedrebbe di buon occhio. Ma è necessario andare con i piedi di piombo, specie se si parla di nuove costruzioni che dovrebbero essere finanziate dallo Stato, come inevitabilmente è un istituto penitenziario. Non a caso già nove anni fa si parlava di “liberare” Marassi dall’ingombrante presenza della galera. Allora erano il ministro Roberto Castelli e il sindaco Giuseppe Pericu a dirsi d’accordo sulla necessità: “Dobbiamo restituire alle città i vecchi penitenziari, che sono obsoleti e non più adeguati alle moderne esigenze - diceva allora Castelli. La nostra idea è quella di reperire risorse finanziarie sul mercato vendendo le vecchie strutture, che invece spesso sono posizionate in luoghi di pregio e hanno un alto valore finanziario. Quindi, con questi denari, costruiremo nuove carceri con strutture migliori e in posti più consoni”. Come sia andata, però, è sotto gli occhi di tutti. Ma rispetto ad allora proprio la frase del governatore può dare lo spunto per una soluzione: con un project financing di privati per il recupero dell’area lo Stato potrebbe reperire parte delle risorse necessarie a una nuova costruzione. Tra chi guarderebbe con favore a un eventuale progetto c’è il Genoa, che su un Ferraris rimesso a nuovo ha puntato parecchio: “Il Ferraris? Uno stadio bellissimo ma inserito in un contesto assolutamente inadatto. Impossibile che una struttura così diventi redditizia sette giorni su sette. L’unica soluzione sarebbe trasferire il carcere di Marassi per migliorare l’accessibilità del Ferraris”, diceva il patron rosso blu Enrico Preziosi nel 2009 trovando, allora, la disponibilità “a ragionare” dell’assessore allo sport Bruno Pastorino: “si potrebbero realizzare dei parcheggi”. Discorsi e idee che tornano alla mente anche al segretario nazionale del Sappe, il sindacato della polizia penitenziaria, Roberto Martinelli. Lui, che più volte è intervenuto per segnalare le criticità del sovraffollamento dei detenuti a Marassi, è il più scettico: “Se ne parla da trent’anni - commenta le frasi di Burlando - e noi vedremmo con favore l’idea. Ma solo se la nuova struttura fosse adeguata alle esigenze di personale e di popolazione penitenziaria della Liguria e di Genova: oggi a Marassi ci sono 800 detenuti a fronte di 450 posti, e siamo sotto-organico come sorveglianza. Ma il vero problema dei penitenziari liguri oggi è un altro: non si fa attività lavorativa. I detenuti sono troppi e stanno per 20 ore in cella, in un contesto così è inevitabile che scoppino risse e atti di autolesionismo”. Tra le ipotesi vagliate nel tempo, per dare una nuova collocazione a un penitenziario genovese, c’era quella del Forte Ratti. “Noi ci eravamo espressi a favore - ricorda Martinelli - anche per realizzare una “cittadella” penitenziaria con un carcere minorile, che a Genova manca. Ma non se ne fece nulla e anche adesso temo che le parole della Cancellieri resteranno solo un intento, visto che nel Piano Carceri del Governo non è previsto alcun intervento in Liguria, nemmeno a livello di ristrutturazioni o ampliamenti”. Ora, però, l’interessamento arriva direttamente dal Ministro della Giustizia. Basterà a far andare via il carcere da Marassi? Sappe, spostare Marassi? Piano governo ignora emergenza Liguria (Adnkronos) “Le parole del ministro della Giustizia ci sorprendono perché, nonostante i nostri auspici, il Piano Carceri approvato il 24 giugno 2010 dal governo non ha tenuto in alcun conto le criticità penitenziarie della Liguria, regione in cui abbiamo circa 1.900 detenuti presenti in carceri costruite per ospitarne poco più di mille”. Lo dichiara Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sindacato autonomo polizia penitenziaria, intervenendo sull’ipotesi di spostamento del carcere genovese di Marassi e sui colloqui intercorsi tra il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, e il presidente della Regione Liguria, Claudio Burlando. “Ciclicamente si parla di spostare il carcere di Marassi e di costruirne uno nuovo: ma ci si limita sempre e solo alle parole -denuncia Martinelli- Si parla della sua posizione logistica disagiata, ma Marassi si trova in una posizione analoga a quella delle carceri di grandi città costruite tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento: si pensi a S. Vittore a Milano, Regina Coeli a Roma, Poggioreale a Napoli. Ed è stato interessato da corposi interventi di ristrutturazione nel corso degli anni che sono costati ai cittadini molti soldi pubblici”. “Come si può costruire a Genova un nuovo carcere se non si prevede dove farlo, come farlo, con quali soldi, con quale personale di Polizia ed amministrativo, con quali strade e con quali servizi? -si chiede Martinelli- Per ora quel che non manca per l’ipotetico nuovo carcere, visto il sistematico sovraffollamento, sono i detenuti”. Il segretario aggiunto del Sappe invita ad aprire “un tavolo di confronto sul tema” al quale, assicura, “daremo certamente il nostro contributo”. A Genova “si potrebbe pensare di realizzare un nuovo carcere a Forte dei Ratti o Pianderlino o meglio ancora una vera e propria cittadella penitenziaria, in cui prevedere un carcere minorile che oggi non c’è. Ma un intervento fondamentale -conclude- deve riguardare anche la realizzazione del nuovo carcere di Savona, del quale si parla da più di vent’anni senza però nessun risultato concreto”. Pescara: D’Incecco e Blasioli (Pd); in arrivo personale e più fondi per il carcere cittadino Ansa, 6 luglio 2013 È destinata a sbloccarsi la situazione del carcere di Pescara. Nei prossimi mesi infatti potrebbero arrivare più fondi e più agenti di polizia penitenziaria per mettere finalmente la parola fine ai gravi disagi provocati dalla carenza di personale. A darne notizia la deputata del Pd, Vittoria D’Incecco, e il consigliere comunale del Pd, Antonio Blasioli. “Lo scorso maggio - sottolineano - abbiamo partecipato alla manifestazione davanti al carcere di Pescara indetta dalle rappresentanze sindacali della polizia penitenziaria per denunciare la carenza di personale. La struttura pescarese può infatti contare su 159 unità lavorative a fronte delle 194 previste. Questo costringe gli agenti ad affrontare turni di lavoro straordinario, spesso di 12 ore giornaliere a fronte delle 6 ordinarie. La situazione potrebbe aggravarsi con l’incremento della popolazione carceraria”. “Per questo - riferiscono - ci siamo rivolti al ministro e nei giorni scorsi il sottosegretario Cosimo Ferri ha risposto all’interrogazione con argomentazioni che lasciano ben sperare in una risoluzione positiva della questione”. In particolare, dicono D’Incecco e Blasioli, “il sottosegretario ha assicurato che al termine del 166esimo corso di formazione per agenti di polizia penitenziaria sarà cura della competente Direzione Generale del personale valutare la possibilità di incrementare le unità lavorative della casa circondariale di Pescara e ha fatto notare che il recente Decreto ministeriale del 22 marzo 2013 riguardante la ridefinizione delle piante organiche prevede per gli istituti penitenziari che fanno parte del Provveditorato regionale di Pescara una forza organica di 1.596 unita”. “Infine il sottosegretario ha comunicato che saranno aumentati di 40 mila euro i fondi da destinare alla remunerazione del lavoro dei detenuti”, continuano i due esponenti del Pd ritenendosi “soddisfatti per queste rassicurazioni ma allo stesso tempo senza nessuna intenzione di abbassare il livello di attenzione”. Brescia: Centri per detenuti psichiatrici nella “bassa”, ma Leno è già pronto alle barricate di Elia Zupelli Brescia Oggi, 6 luglio 2013 La Bassa dovrebbe ospitare quaranta persone provenienti dalla struttura di Castiglione in fase di smantellamento. Le due micro comunità rischiano di sfrattare il centro riabilitazione Ultimatum del sindaco alla Regione “Subito un tavolo o sarà battaglia”. Un’operazione calata, anzi imposta dall’alto, che rischia di riaccendere la spinta “autonomista” in campo sanitario della Bassa, un territorio cioè che dispone di un network di strutture di eccellenza ma che è costretto dall’irrituale geografia ospedaliera attuata negli anni Novanta dalla Regione Lombardia ad un ruolo di subalternità rispetto all’azienda ospedaliera di Desenzano. Ad accendere il “cerino” è stato proprio il Pirellone, che in sordina, senza consultare i Comuni potenzialmente coinvolti, ha varato un progetto destinato ad avere ripercussioni su Leno. Il paese della Bassa dovrà ospitare due micro comunità “satellite” per complessivi 40 posti della struttura psichiatrica di Castiglione delle Stiviere in fase di smantellamento. “Meno male che navigando su internet abbiamo incrociato la delibera della Regione, altrimenti ci saremmo accorti del progetto a cantieri aperti”, osserva con amara ironia il sindaco di Leno Pietro Bisinella, pronto a dare battaglia prima sul fronte istituzionale e, se non bastasse, coinvolgendo la popolazione del comprensorio che non ha mai accettato di aver perso l’autonomia gestionale di presidi di riferimento come Leno e Manerbio. L’indignazione di Bisinella è figlia di valutazioni critiche sul metodo con cui è stata portata avanti l’operazione, ma anche sulla sostanza del progetto. Già, perché l’ipotesi di diventare il satellite dell’ex manicomio criminale, stride con il programma di riorganizzazione dell’ospedale di Leno. L’ultimatum lanciato al governatore della Lombardia Roberto Maroni è contenuto in una lettera firmata da Bisinella. “Mi faccio portavoce della preoccupazione della comunità - si legge nella missiva - rispetto ad un intervento che stravolge completamente la progettualità scaturita dal territorio”. Dove la Regione vorrebbe creare le filiali dell’istituto psichiatrico giudiziario “Ghisiola”, avrebbe dovuto trovare ospitalità un polo socio-sanitario destinato alla riabilitazione e alla terza età. “In quella struttura - ricorda Bisinella - sono attivi 50 posti di riabilitazione che forniscono ottimo e prezioso servizio a tutta la Bassa bresciana”. Di fronte a una situazione complessa e contraddittoria, è urgente per il primo cittadino di Leno convocare un tavolo istituzionale composto da un rappresentate di Regione Lombardia e altri tre rispettivamente per l’Azienda ospedaliera di Desenzano, per il Distretto 9 Bassa Bresciana centrale e per il Comune di Leno. “Dagli strumenti finanziari a disposizione alle competenze, passando per il modello organizzativo - afferma Bisinella - vogliamo conoscere ogni dettaglio delle micro comunità, ma soprattutto trovare soluzioni che compongano e integrino i diversi progetti in campo”. In attesa di una risposta dai vertici della Regione, Bisinella lancia un ultimo monito: “Siamo disponibili a ragionare per trovare soluzioni condivise che rispettino il tessuto sociale delle nostre comunità, ma non siamo intenzionati a subire passivamente un intervento calato dall’alto sul nostro territorio - dice -. Se non dovessero ascoltare il nostro parere? Pronti a fare le barricate”. E a fianco del sindaco, c’è da scommettere ci sarà la popolazione dell’intera Bassa Bresciana. Udine: in via Spalato più di 200 detenuti, il doppio rispetto alla capienza massima prevista di Davide Lessi Messaggero Veneto, 6 luglio 2013 Celle per due persone che ospitano fino a sei detenuti, tossicodipendenti in aumento (lo è ormai più di un carcerato su tre) mentre cala l’uso delle misure alternative. Che sia il Regina Coeli di Roma o la casa circondariale udinese di via Spalato poco cambia. “La situazione continua ad essere d’emergenza”, denuncia Maurizio Battistutta, il garante per i diritti dei detenuti del Comune di Udine. Che spiega: “Abbiamo una capienza di 106 persone ma a fine anno ce ne erano 203. Praticamente il doppio. E i numeri non sono migliori nelle altre strutture regionali”. Al 31 dicembre 2012 si contavano 274 carcerati a Tolmezzo (capienza 220), 235 a Trieste (su 155 posti), 81 a Pordenone (sui 68 tollerabili), 49 a Gorizia (anziché 30). “I numeri sono agghiaccianti”, commenta il presidente dell’associazione “La società della ragione” Franco Corleone, intervenuto ieri mattina all’osteria Da Pozzo per la presentazione del quarto libro bianco sulla legge Fini-Giovanardi. Dati che denunciano un’emergenza sociale a cui nemmeno il recentissimo decreto Cancellieri riuscirà a porre freno. “Secondo le cifre fornite dal ministero in Italia ci sono 66 mila detenuti su 47 mila posti disponibili. E il problema è che abbiamo leggi carcerogene che alimentano il ricorso alla detenzione”, ha spiegato il professore dell’Università di Ferrara Andrea Pugiotto. Oggetto delle critiche la normativa voluta nel 2006 dall’ex ministro del governo Berlusconi, Carlo Giovanardi, e dall’allora titolare della Farnesina, Giafranco Fini. “Una legge incostituzionale”, denuncia ancora Corleone, spiegando come il testo in questione abbia aumentato il clima di repressione: “Ormai un detenuto su tre entra in carcere per la violazione dell’articolo 73 di questa legge assurda, ossia per il possesso di pochi grammi di droga”. L’avvocato penalista Andrea Sandra, capogruppo di Sel in Comune, ha aggiunto: “Anche la recidiva prevista dalla legge ex Cirielli non ha aiutato: si arresta il piccolo spacciatore perché beccato più volte”. Un sistema che tende a colpire i più deboli, creando un carcere “abitato da poveri cristi”, senza risolvere i problemi del sovraffollamento o del reinserimento nella società delle persone che hanno commesso dei reati. Unico spiraglio di luce, la richiesta fatta al governo della presidente Debora Serracchiani per il trasferimento delle competenze sanitarie dalla giustizia penitenziaria alle aziende sanitarie locali. “Ringrazio la governatrice perché in questo modo anche i detenuti della nostra regione potranno usufruire delle cure già previste in tutto il resto d’Italia”, ha concluso il moderatore dell’incontro Massimo Brianese. Roma: Leodori (Regione) e Garante Marroni a Rebibbia; problema resta sovraffollamento Adnkronos, 6 luglio 2013 “Ho scelto Rebibbia, per la mia prima visita ufficiale in un istituto penitenziario della nostra regione, per capire le condizioni della struttura, dei detenuti e degli operatori. È visibile la volontà di aiutare la popolazione carceraria, ho constatato opportunità di integrazione, formazione e vivacità dei detenuti nelle iniziative sociali e culturali, anche grazie all’attività del Garante”. Lo ha detto il presidente del Consiglio Regionale del Lazio Daniele Leodori, che questa mattina si è recato nel carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso per la sua prima visita istituzionale dopo la nomina a presidente dell’Assise regionale. Ad accompagnarlo, il Garante dei diritti dei detenuti, Angiolo Marroni. “Resta critico il sovraffollamento, un problema che pesa anche sul personale - ha continuato Leodori - “Parliamo di una presenza di 1.758 detenuti rispetto ad una capienza regolamentare di 1.218, con un tasso di sovraffollamento del 44%. Migliorare le condizioni presenti è importante quanto guardare al futuro dei detenuti. La pena non deve essere fine a se stessa, non deve essere un’esperienza di alienazione ma di rieducazione e reinserimento nella società”. Il Presidente del Consiglio del Lazio ha poi sottolineato: “L’obiettivo è quello di aiutare tutti gli operatori e, assieme al garante, migliorare la condizione dei detenuti, anche potenziando le attività sociali e dell’Istruzione personale. Ho trovato detenuti impegnati a studiare per sostenere esami all’università”. Leodori ha poi rivelato che “da parte dei detenuti non è emersa alcuna richiesta particolare, solo di incentivare le attività ricreative e di istruzione. Vedremo, assieme al Garante, come poter accogliere queste richieste”. “Questo carcere dimostra le condizioni generali di tutte le carceri del Lazio e d’Italia”, ha aggiunto Angiolo Marroni, che ha definito il sovraffollamento “molto impegnativo per i poliziotti, le direzioni amministrative, gli educatori e gli psicologi, tutti sotto organico”, la criticità maggiore evidenziata dal garante è, infatti, la carenza di polizia, soprattutto nelle ore notturne, quando, in servizio, “ci sono 30, massimo 40 poliziotti per 1.800 detenuti”. Marroni infine auspica “una riforma del codice penale”, che porti ad avere “meno detenuti e più iniziative esterne degli enti locali e lavori socialmente utili”. Rebibbia Nuovo Complesso è il carcere più grande del Lazio, ma nonostante ciò, da tempo, non ha più un direttore a tempo pieno. Da quando il vecchio responsabile è stato nominato Provveditore Regionale dell’Amministrazione penitenziaria per la Toscana, la gestione dei due più importanti istituti carcerari della Capitale (Rebibbia e Regina Coeli) è stata affidata ad un direttore, che ha il compito di gestire da solo queste due complesse realtà. Attualmente Rebibbia N.C. ospita 1.758 detenuti (597 gli stranieri) a fronte di una capienza regolamentare di 1.218 posti. I reparti sono G6 (isolamento), G7 (detenuti in regime di 41/Bis), G8 (reparto reclusione), G8trans (reparto transessuali), G9 (detenuti comuni reparto precauzionale che ospita Sex Offender ed ex appartenenti forze dell’ordine), G11 (detenuti comuni), G12 (transito, comuni e alta sicurezza) e G14 (Centro Clinico). Il Garante è presente settimanalmente nella struttura con 16 operatori che annualmente svolgono oltre 3.100 colloqui. A Rebibbia sono stati attivati diversi progetti lavorativi e culturali che coinvolgono decine di reclusi. Fra le iniziative più importanti patrocinate o cofinanziate dal Garante, il telelavoro con la società Autostrade per l’Italia, il call center 1254 di Telecom Italia, la digitalizzazione dei fascicoli dell’archivio storico del Tribunale di Sorveglianza di Roma e il progetto realizzato con il Polo Universitario di Roma Tor Vergata per consentire ai detenuti di frequentare l’Università, con detenuti/studenti provenienti dai circuiti di Alta Sicurezza di tutta Italia. Questo progetto è stato indicato dal Ministero della Giustizia quale modello di riferimento per l’intero territorio nazionale. Per quanto riguarda, invece, le attività culturali, oltre alle iniziative dei circoli Arci/Uisp e Legambiente, alcuni detenuti hanno intrapreso un percorso con la Compagnia Teatrale Liberi Artisti Associati, la cui esperienza ha ispirato la realizzazione del film Cesare deve Morire, che ha vinto l’Orso d’Oro al Festival di Berlino 2012. Ragusa: Commissione Senato in visita a carcere e Tribunale… strutture da non chiudere www.radiortm.it, 6 luglio 2013 “Carceri e Tribunali devono restare aperti perché sono una risorsa. Si deve cambiare linea: è vero che è un obbligo risparmiare, ma bisogna farlo sugli sprechi, sulla corruzione e sulle collusioni mafiose. Non su questi importantissimi servizi”. L’ha detto ieri il Senatore Beppe Lumia, capo delegazione della Commissione del Senato in visita al carcere di Modica Alta, prima, e al Palazzo di Giustizia, dopo, insieme a Venera Padua, Monica Cirinnà, Rosa Maria De Giorgi, del Pd, e Lucio Romano di Scelta Civica, componenti dell’organismo incaricato di valutare le condizioni del palazzo di giustizia e del carcere di Piazza Gesù. Ribadite, in modo unanime, le idee contenute nel ddl che condivide, ma solo fino ad un certo punto, la riforma giudiziaria voluta dal ministro Cancellieri. Una riforma ritenuta valida sotto il profilo del risparmio sui costi, ma da correggere per non distruggere, come nel caso di Modica, quanto si è fatto sinora. I 5 senatori hanno promesso battaglia. Venera Padua, punta sul rapporto fra Parlamento e territorio mentre Monica Cirinnà è stata diretta e pungente parlando di una presenza occulta in Parlamento, addirittura della presenza della Casta. “Oggi c’è un problema di apparato. La casta - ha spiegato - si trova laddove si vuole separare il territorio dal Parlamento. Devono ruotare i Direttori Generali e i funzionari dei Ministeri. Sono loro, i burocrati, il vero cancro dell’Italia”. C’erano anche il parlamentare regionale Orazio Ragusa, il consiglio dell’Ordine degli Avvocati, con in testa il presidente, Ignazio Galfo, l’ex parlamentare Antonio Borrometi, promotore anni fa di un disegno di legge sulla rimodulazione della geografia giudiziaria. “La battaglia del Tribunale di Modica, e non solo, può rappresentare un avvicinamento fra territori, popolazioni e Parlamento. Stiamo facendo il possibile per salvare le realtà esistenti, proprio per il valore intrinseco che le stesse sono in grado di esprimere”. Lumia, infine, ha detto anche che al Senato si sta lavorando con il Governo Letta e con la Ministra Cancellieri sulla riorganizzazione dei penitenziari. “Stiamo contestando il modello carceri, non possiamo fare solo penitenziari grandi, che hanno costi elevatissimi ed il lato rieducativo salta. Dobbiamo mantenere in piedi, invece, penitenziari come quello di Modica, dove si svolgono attività di recupero”. “Oggi a Modica vediamo come il buonsenso debba andare a braccetto con la spending review - ha detto Romano- . Non possiamo archiviare con la chiusura, realtà come quella di Modica e come tante altre in Italia”. Un fatto certo è emerso ieri: tutte le forze condividono che la riforma va fatta perché non si può rimanere ancora ad approcci legati all’Ottocento. C’è una visione unanime sul fatto che occorre correggere gli errori, per questo sono stati fatti studi serissimi per verificare dove si sbagliava e avanzato proposte motivate. “Modica, tornando al Tribunale - hanno spiegato quelli della Commissione - rientra tra questi casi. Riteniamo che alcuni piccoli tribunali possano rimanere aperti perché ci sono motivazioni serie, legate alla struttura, come a Modica, al carico, alla criminalità organizzata. È stato delineato un elenco di 10-11 tribunali da salvare. È necessario valorizzare un’idea moderna quando due tribunali sono vicini come Modica e Ragusa”. C’è anche un’ipotesi di trasformare 31 tribunali in sezioni staccati. “Il parlamento non vuole mollare”. La senatrice Cirinnà ha voluto aggiunge: “Siamo senatori di varie parti d’Italia, da Napoli, a Roma a Firenze. A difesa del Tribunale di Modica, dunque, c’è mezza Italia e poi Ragusa non è in grado di ospitare il carico di lavoro in arrivo”. Il valore dei costi del Tribunale di Modica, tra immobile e arredi è stato dettato in 12 milioni di euro. Sassari: martedì il ministro Cancellieri inaugura il nuovo carcere di Bancali Ansa, 6 luglio 2013 Il Ministro di Grazia e Giustizia Rosanna Cancellieri, inaugurerà martedì prossimo il nuovo carcere di Bancali. La Cancellieri sarà nel primo pomeriggio ad Alghero, nella sede del Parco regionale di Porto Conte a Tramariglio, dove presenzierà alla inaugurazione del Museo della Memoria del carcere. E a proposito di Bancali da oggi cominceranno i primi trasferimenti di detenuti. L’apertura della nuova struttura carceraria è oggetto di un polemico intervento del sindacato Ugl della Polizia Penitenziaria che lunedì mattina, un giorno prima del ministro Cancellieri, effettuerà una visita al nuovo carcere. Il sindacato sostiene in una nota : “Oltre al trasferimento degli attuali 140 reclusi dalla struttura di via Roma , arriveranno anche detenuti da altre regioni d’Italia, dei quali 92 in regime del 41 bis, per una capienza complessiva di 465 posti, destinati naturalmente ad incrementare nel tempo. Il tutto a fronte di sole 175 unità di Polizia penitenziaria attualmente in servizio - denuncia l’Ugl - rispetto alle oltre 350 necessarie”. Ugl: visita sindacato a nuova struttura bancali Una delegazione del sindacato Ugl della Polizia penitenziaria effettuerà una visita al nuovo carcere di Bancali, nei pressi di Sassari, lunedì 8 luglio a partire dalle 9.30. Saranno presenti, tra gli altri, il segretario nazionale e regionale, Giuseppe Moretti e Salvatore Argiolas. Il nuovo complesso penitenziario sarà operativo da domani, con il relativo trasferimento dei detenuti dal carcere sassarese di via Roma: martedì 9 è annunciata la presenza del ministro della Giustizia Cancellieri per l’inaugurazione. “Oltre al trasferimento degli attuali 140 reclusi dalla struttura di via Roma - spiega l’Ugl - arriveranno anche detenuti da altre regioni d’Italia, dei quali 92 in regime del 41 bis, per una capienza complessiva di 465 posti, destinati naturalmente ad incrementare nel tempo. Il tutto a fronte di sole 175 unità di Polizia penitenziaria attualmente in servizio - denuncia il sindacato di categoria - rispetto alle oltre 350 necessarie”. Foggia: detenuto affetto da cirrosi epatica; la madre “fate qualcosa per mio figlio” Il Mattino di Foggia, 6 luglio 2013 La famiglia di Galatina chiede al Tribunale il trasferimento dal penitenziario di Foggia. Interviene anche “Nessuno tocchi Caino”. Detenuto affetto da cirrosi epatica. La madre: “Fate qualcosa per mio figlio!”. Parlare di salute e della sua effettiva tutela in un contesto di privazione della libertà e di coercizione quale è il carcere, è alquanto impegnativo se non scomodo, dal momento che l’assistenza deve scontrarsi con una realtà normativa alquanto frammentaria e disorganica. Sembra paradossale argomentare del diritto alla salute, in quanto pare ovvio considerarlo un diritto naturale dell’uomo, in altre parole un diritto dell’essere umano in quanto tale, ma la condizione particolare dello stato di detenzione è tale che il detenuto si trasforma, a volte, in un uomo ‘diversò con ‘diversi dirittì. È quanto sta accadendo nel penitenziario di Foggia, dove Piero Mele (27 anni) di Galatina, non riceve da tempo le cure necessarie per la sua patologia (l’epatite C che sta degenerando in cirrosi epatica, danneggiando irrimediabilmente il fegato). La madre di Mele, Maria Luce Murciano, che protesta da tempo per le condizioni del figlio, detenuto nel carcere di Foggia e gravemente malato, ha deciso di rivolgersi ad un legale, nonché all’associazione “Nessuno tocchi Caino”, per riuscire quantomeno a chiedere il trasferimento in un penitenziario vicino Lecce, dal momento che la sua situazione economica non le permette di assistere il figlio a Foggia. Al momento è difficile conoscere le reali condizioni di salute di Piero, sappiamo solo che la Casa Circondariale foggiana non è dotata al suo interno di un presidio ospedaliero adeguato a seguire casi del genere; a ciò si aggiunge il grave sovraffollamento che non permette di occuparsi costantemente di tutti i singoli detenuti. In virtù di ciò l’avvocato Paolo Maci, legale della famiglia, chiede al Tribunale di Foggia “in primis il trasferimento di Mele in una struttura più vicino casa e più adeguata alle cure di cui necessita, in secondo luogo (se sarà ritenuto necessario dagli specialisti) la detenzione domiciliare fino al miglioramento delle condizioni di salute”.. Reggio Emilia: Sappe; nuova aggressione a una guardia nell’Opg Ansa, 6 luglio 2013 Nuova aggressione ieri sera da parte di un detenuto ai danni di una guardia dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia. Il detenuto, che ha diversi precedenti a carico, al rientro nelle celle ha opposto resistenza causando una contusione a un assistente di polizia penitenziaria, poi portato al pronto soccorso dove gli è stata applicata una fasciatura gessata con prognosi di 7 giorni. “Tutte le autorità cittadine e dell’amministrazione penitenziaria, dal capo del Dap Roma al ministro della Giustizia, prendano in seria considerazione la possibilità di integrare l’organico del reparto di polizia penitenziaria, inviando almeno una decina di unità di assistenti, 11 unità di sovrintendenti e altrettante unità di ispettori” ha chiesto il segretario provinciale del sindacato Sappe Michele Malorni. Stati Uniti: il California al via lo sciopero della fame dei detenuti in isolamento di Riccardo Noury Corriere della Sera, 6 luglio 2013 Lunedì, nella prigioni della California, dovrebbe prendere il via lo sciopero della fame dei prigionieri delle unità d’isolamento. Si prevede una partecipazione di massa, come due anni fa, quando lo sciopero partito dalle celle d’isolamento del penitenziario di Pelican Bay durò 20 giorni e vi aderirono fino a 6.000 prigionieri. Il motivo della protesta è la mancata attuazione della riforma introdotta lo scorso novembre dal dipartimento delle Carceri della California, contenente nuovi criteri per la destinazione dei detenuti alle diverse unità con l’obiettivo di attenuare le condizioni d’isolamento e ridurre il numero dei prigionieri assegnati ai reparti speciali. La riforma non ha funzionato. Al cosiddetto “programma step down” sono stati ammessi pochissimi detenuti in isolamento e anche per quelli considerati meritevoli, l’isolamento terminerà effettivamente dopo due anni dalla decisione. La maggior parte dei casi non è stata neanche presa in esame per una revisione dello status. La situazione, per molti dei circa 3000 detenuti delle unità d’isolamento della California, è persino peggiorata rispetto a quanto rilevato da Amnesty International alla fine del 2012. Al tempo da trascorrere per anni, anche per decenni, in celle di meno di 8 metri quadri, spesso prive di finestre, senza alcun significativo contatto con esseri umani, per un minimo di 22 ore e mezzo al giorno fino al massimo di 24, si è aggiunta di recente l’istituzione di controlli nelle celle ogni 30 minuti, anche di notte: in altre parole, la privazione del sonno. Secondo il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura, l’isolamento completo dovrebbe essere previsto solo in circostanze eccezionali e per periodi limitati di tempo, onde evitare l’insorgenza di gravi danni psicologici. Nel 2011, secondo i dati ufficiali, oltre 500 detenuti avevano trascorso oltre 10 anni in ‘isolamento a Pelican Bay, 78 oltre 20 anni. Bolivia: allarme per 2 mila bambini che vivono nelle carceri Agenzia Fides, 6 luglio 2013 “Un fatto unico al mondo”, così viene definita dall’Agenzia dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani la situazione di 2.100 bambini che vivono nelle carceri del Paese. Grazie ad un accordo con la Defensoria del Pueblo, dopo gli ultimi abusi denunciati, è stato deciso che i maggiori di 11 anni di età, che attualmente vivono con i rispettivi genitori nei principali istituti di detenzione di La Paz, verranno evacuati. Le piccole vittime andranno a vivere con altri familiari, se non diversamente disposto dalle autorità. Questo accordo presuppone l’uscita dalle prigioni di centinaia di bambini tra i 250 che vivono nel carcere di La Paz. Le regole attuali prevedono che i piccoli rimangano a vivere con i genitori detenuti fino all’età di 6 anni.