Giustizia: il carcere a casa, nuova cultura della pena di Eleonora Martini Il Manifesto, 5 luglio 2013 La Camera approva il ddl sulla detenzione domiciliare e la messa alla prova. Intervista al sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri. L’ostruzionismo di Fratelli d’Italia, Lega e Movimento 5 Stelle - una “ridicola sceneggiata”, come l’ha definito la Radicale Rita Bernardini - non ha impedito alla Camera di approvare ieri, con 357 voti favorevoli, un astenuto e 123 contrari, il disegno di legge delega sulle pene detentive non carcerarie e sulla messa alla prova. Un provvedimento che attende ora di passare all’esame del Senato e che non ha nulla a che vedere con il cosiddetto decreto “svuota carceri”, il n. 78 del 1 luglio 2013, già in vigore e depositato al Senato per iniziare l’iter di trasformazione in legge. Quest’ultimo, come spiega il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Maria Ferri, “agisce soprattutto sulla rimozione dei limiti imposti dalla ex Cirielli, permettendo ai recidivi che si sono macchiati di reati di lieve entità di accedere alle misure alternative al carcere”. Ferri, ex segretario di Magistratura Indipendente e membro del Csm, era presente ieri mattina nell’Aula di Montecitorio durante le dichiarazioni di voto trasmesse in diretta tv come “contropartita” per placare l’ostruzionismo a oltranza. Ma tra gli oppositori al governissimo c’è stato anche chi, come Daniele Farina a nome del gruppo di Sinistra Ecologia e Libertà, ha dichiarato il voto favorevole al ddl che introduce la detenzione domiciliare come pena alternativa al carcere comminabile direttamente in giudizio per i delitti puniti con una pena edittale massima fino a 6 anni. Una legge che è “un cambio di paradigma culturale”, come la definisce Cosimo Ferri. Sottosegretario, Lega e Fdi in Aula vi hanno accusato di aver confezionato in realtà un provvedimento di amnistia e indulto, e nemmeno troppo mascherato... È stato un bel dibattito parlamentare anche se non ho condiviso i toni e l’impostazione delle opposizioni. Non si tratta né di amnistia né di indulto: con questa norma si consente al giudice di passare dalle classiche pene della reclusione in carcere o della pena pecuniaria a un terzo tipo di pena presso il domicilio. Il giudice la impone alla fine di un processo penale quindi si rispetta anche la certezza della pena. Perciò è importante, perché introduce la gradualità della pena lasciando al giudice la discrezionalità di valutare la gravità del reato, l’intensità del dolo, la personalità dell’imputato, ecc. sulla base dei criteri previsti nell’articolo 133 del codice penale. A discrezione del giudice, dunque. Senza escludere a priori alcuna tipologia di reato? In Commissione Giustizia avevo presentato un emendamento che delegava il governo a escludere dai domiciliari una serie di reati di grave allarme sociale, tra i quali lo stalking. Ma la commissione Affari costituzionali ha dato parere contrario suggerendoci di individuare tali reati direttamente nella legge di delega, oppure, “come forse appare preferibile e maggiormente coerente con l’impostazione della delega”, dice la commissione, di lasciare “al giudice la facoltà di decidere per singoli reati”. Le opposizioni hanno obiettato che con la detenzione domiciliare non si può perseguire il fine rieducativo della pena… Il domicilio non è inteso solo come l’abitazione ma anche come il luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza. Dunque dobbiamo pensare a tutti quei centri che aiutano il condannato a reinserirsi, facendo attenzione anche alla sicurezza. Diamo così fiducia alla magistratura e anche all’associazionismo. È un messaggio importante di civiltà ma soprattutto è importante quando si parla di carcerazione preventiva, perché può aiutare a introdurre una nuova cultura anche nel sistema giudiziario. Può aiutare anche il giudice della cognizione, il giudice dibattimentale, e non solo il giudice di sorveglianza, a capire l’importanza delle pene alternative al carcere. La cella come extrema ratio… Sì, dobbiamo ricordare che oggi il carcere è cambiato e che la recidiva aumenta tra coloro che entrano nel circuito carcerario rispetto a chi sconta pene alternative. Ma le statistiche parlano pure di una diminuzione della recidiva per coloro che hanno usufruito di amnistia e indulto. Lei è favorevole a questi provvedimenti? Come ha detto il ministro Cancellieri, sono questioni di cui si deve occupare il parlamento, non il Governo. Da magistrato posso dire che è una rinuncia dello Stato a punire, ma è chiaro che il problema esiste: c’è la sentenza Torreggiani e la Corte europea di Strasburgo ci ha dato poco tempo per risolvere l’emergenza. Vanno trovate delle soluzioni, non c’è dubbio. (A questo punto il sottosegretario Ferri si interrompe per salutare Pier Ferdinando Casini e rimpalla la domanda all’attuale presidente della commissione Esteri del Senato. Il responso? “Sì, sì, Casini è favorevole”, riferisce il sottosegretario. Ma il leader dell’Udc preferisce rispondere di persona: “Non ti ho ancora scelto come portavoce”, scherza con Ferri. E allora, presidente, l’amnistia? “È una cosa su cui bisogna riflettere, certamente non da scartare in modo prioristico”). Giustizia: Bernardini (Ri); sul ddl per messa in prova ridicola sceneggiata opposizioni Ristretti Orizzonti, 5 luglio 2013 Dichiarazione di Rita Bernardini, già deputata radicale: “È una ridicola sceneggiata quella che è stata messa in atto da Fratelli d’Italia, Lega e Movimento 5 Stelle contro il disegno di legge sulle pene alternative licenziato oggi dalla Camera. Soprattutto perché il provvedimento non è in alcun modo adeguato a risolvere il problema per il quale lo Stato italiano si presenta al cospetto dell’Europa come uno Stato canaglia perché sottopone in modo strutturale le persone private della libertà a trattamenti inumani e degradanti. A dirlo ormai non sono più solo Marco Pannella e i radicali, ma la stessa ministra Cancellieri, secondo la quale l’amnistia (quella vera, quella prevista dall’art. 75 della Costituzione) è “imperativo categorico morale” di fronte alla situazione fuorilegge che le hanno lasciato governi e parlamenti passati. Ascoltare Ignazio La Russa che grida all’incostituzionalità definendo il provvedimento un’amnistia e minacciando di promuovere un referendum abrogativo e di ricorrere alla Corte Costituzionale, dà la misura della messinscena apparecchiata dalle sopracitate “opposizioni” parlamentari. Del resto, non potevo minimamente sospettare che il “camerata” Ignazio Benito La Russa avesse così o cuore la Costituzione italiana della quale però sembra ancora ignorare alcuni articoli e commi fondamentali, come il comma 4 dell’articolo 13 per il quale è punita ogni violenza fisica e morale nei confronti delle persone sottoposte a restrizioni della libertà e il comma 2 dell’art. 27 secondo il quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Quanto alla sbandierata “sicurezza”, oltre al fatto che tutte le statistiche indicano con certezza il crollo della recidiva per i detenuti che accedono alle misure e alle pene alternative rispetto a coloro che scontano tutta le pena in carcere, mi piacerebbe porre una domanda a La Russa. Si sente più sicuro se i 10.263 (*) detenuti che devono scontare come pena residua meno di 12 mesi continuino ad essere torturati nelle patrie galere o se invece escano ai domiciliari o magari per svolgere un lavoro di pubblica utilità, risarcendo così almeno in parte la collettività?”. (*) dati Ministero Giustizia al 30 giugno 2013. Giustizia: Casini (Udc); amnistia, perché no?… e anche il Pd sta con Pannella Il Manifesto, 5 luglio 2013 L’amnistia? “È una cosa su cui bisogna riflettere, non certo da scartare a priori”. Al contrario di Ignazio La Russa che minaccia un referendum per abrogare il ddl licenziato ieri dalla Camera e di ricorrere alla Consulta, il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini si dice invece favorevole a quei provvedimenti di clemenza che anche per la ministra Cancellieri sono un “imperativo categorico morale” di fronte alla situazione fuorilegge delle carceri italiane. E ieri anche il deputato del Pd Sandro Gozi ha aderito alla lotta non violenta dei Radicali e di Marco Pannella per promuovere l’amnistia. Giustizia: Cassazione; dire “Italia paese di m...” reato di vilipendio a nazione (art. 291 cp) Il Manifesto, 5 luglio 2013 Ecco una sentenza del Palazzaccio (non è un’imprecazione, è la sede della Cassazione) che se facesse giurisprudenza le procure di tutta Italia sarebbero sommerse da milioni e milioni di denunce. E, a occhio, sarebbe a rischio il funzionamento della macchina della giustizia di diversi paesi del globo terracqueo. Alzi la mano, e si tappi la bocca, chi non ha pronunciato almeno una volta nella vita (o negli ultimissimi giorni) la frase che un 71enne fermato dai carabinieri si è lasciato scappare dopo essere stato beccato a bordo della sua auto con un faro mal funzionante. “Italia, paese di m…” (per ragioni di pruderie, o forse per non avere il fiato sul collo di qualche procura, le cronache si limitano a sfumare il concetto espresso utilizzando la lettera M). Ma è chiaro qual è la sostanza della faccenda, e che qui in ballo ci sarebbe anche la libertà di pensiero. O forse no, perché i giudici parlano di vilipendio, reato un gradino sotto al sacrilegio che tante vittime ha già causato nella storia. Ma questa è solo una storiella. Eppure l’escandescenza di tipo scatologico, pur facendo leva su un linguaggio di rara sintesi ed efficacia, che la lingua italiana ha utilizzato e nobilitato nei secoli, è arrivata ad impegnare le raffinate menti giuridiche degli ermellini. Che si sono espresse in tutta la loro inflessibilità. Morale: certe frasi non si possono pronunciare, tanto più davanti ai carabinieri di Campobasso che prima ti fermano a un posto di blocco e poi ti denunciano per l’indicibile parolaccia (la Corte d’appello di Campobasso aveva già condannato l’imprecatore a una multa di mille euro, pena interamente coperta da indulto). Ma la giustizia fa il suo corso e ora è arrivata la sentenza della prima sezione penale del Palazzaccio. Che riportiamo senza commento, perché le sentenze non si commentano (e non ci sono più le mezze stagioni). Per i giudici il comportamento del 71enne non è accettabile perché “in un luogo pubblico ha inveito contro la nazione”, anche se “nel contesto di un’accesa contestazione elevatagli dai carabinieri”. E la libertà di espressione? “Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - argomentano gli ermellini - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva”. Quindi, per scomodare l’articolo 291 del codice penale (reato di vilipendio), “è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente”. Per la Corte Suprema il reato in esame “non consiste in atti di ostilità o violenza o in manifestazioni di odio: basta l’offesa alla nazione, cioè un’espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l’onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall’autore”. Allora, senza offesa, e senza spingere, andiamo tutti a quel paese. Liguria: stanziati 250mila euro per il sostegno ai detenuti delle sette carceri della Regione Secolo XIX, 5 luglio 2013 Duecentocinquantamila euro per il sostegno a detenuti, persone in esecuzione penale esterna e minori sottoposti a provvedimenti penali, per migliorare la qualità della vita nelle sette carceri liguri di Genova Marassi, Genova Pontedecimo, Savona, Imperia, Chiavari, La Spezia, Sanremo. Sono stati stanziati oggi dalla Giunta regionale su proposta dell’assessore al welfare, Lorena Rambaudi. L’iniziativa prevede il miglioramento della qualità della vita in carcere attraverso corsi di pittura, attività sportive, lezioni di musica, di supporto psicologico per coloro che hanno figli, di sostegno alla genitorialità per le donne detenute con bimbi piccoli, di mediazione penale minorile tra la vittima e il minore autore del reato con il supporto di personale qualificato, per accompagnare i detenuti e i minori, in esecuzione penale, al reinserimento nella società. Il progetto si prefigge anche l’accoglienza abitativa per consentire ai detenuti, in permesso premio senza domicilio, di avere a disposizione un alloggio nella Casa Mandela a Genova. Tutto il progetto è gestito dalla “Rete che unisce”, un’associazione temporanea di scopo che ha come capofila il consorzio Agirà di Genova ed è formata da 28 enti del terzo settore. “Dopo la positiva sperimentazione dello scorso anno - ha spiegato l’assessore Rambaudi - proseguiamo l’offerta dei progetti sociali sulle carceri, attraverso i patti di sussidiarietà, un metodo per utilizzare al meglio le risorse economiche e professionali a disposizione, evitare sovrapposizioni e sostenere la collaborazione tra enti. Un’esperienza tutta ligure, seguita con attenzione anche a livello nazionale, che dimostra la ricchezza del rapporto tra pubblico e settore non profit nel nostro territorio”. Padova: emergenza carceri; decenni di leggi sbagliate hanno causato l’esubero di detenuti di Tatiana Mario La Difesa del Popolo, 5 luglio 2013 Salvatore Pirruccio, direttore del Due Palazzi di Padova, commenta positivamente il provvedimento emanato dal governo Letta a fine giugno, perché contingenta gli ingressi. In questo modo, nel giro di pochi anni, le presenze dietro le sbarre dovrebbero diminuire. Ma ancora molto resta da fare. Meno ingressi, più misure alternative per le condanne di reati poco gravi (con condanne non superiori ai due anni), lavoro socialmente utile per i dipendenti da droga e alcool e domiciliari per i recidivi di piccoli reati. Sono questi i punti salienti del decreto Cancellieri approvato dal Governo Letta a fine giugno per fare fronte al drammatico sovraffollamento dei penitenziari, dando più ampi margini di manovra ai magistrati di sorveglianza con la concessione di libertà anticipata e detenzione domiciliare. L’obiettivo è il ridimensionamento del numero eccessivo dei reclusi, per il rispetto della soglia di dignità, che la corte europea dei diritti umani ha imposto al nostro paese di raggiungere entro maggio 2014. Attualmente in Italia la popolazione carceraria, distribuita nei 206 istituti di pena, supera le 66 mila persone a fronte di una capienza regolamentare di 45.568 posti: l’allarmante esubero ha già provocato al nostro paese nel 2012 il pagamento di un indennizzo di 120 milioni di euro, la somma più alta mai pagata da uno dei 47 stati membri del consiglio d’Europa. Inoltre, il nostro è lo stato che ha collezionato il più alto numero (633) di ricorsi presentati dal 1952 al 2012 da parte della commissione europea. Il provvedimento varato dal governo dovrebbe, nell’arco di un paio d’anni, diminuire di circa diecimila le presenze nelle carceri; un primo passo, dunque, è stato fatto anche se, come sostiene Patrizio Gonnella presidente dell’associazione Antigone che si occupa delle condizioni delle detenzioni, i penitenziari dovrebbero “liberarsi” come minimo di trentamila persone. “Il decreto è buono, perché ha revisionato la normativa prevista dalla ex Cirielli e tutto va nella direzione di contingentare gli ingressi per reati che non siano gravi. Facendo così, e applicando regimi di libertà vigilata per chi è prossimo alla scarcerazione, i numeri dovrebbero sensibilmente diminuire nell’arco di qualche anno: vedremo, dunque, sempre meno persone entrare e altre scontare la propria pena attraverso i regimi alternativi” è il commento di Salvatore Pirruccio, direttore della casa di reclusione di Padova Due Palazzi che, come tutte le altre, sta facendo i conti con un numero doppio di detenuti rispetto ai 450 in grado di ospitare regolarmente. Per far fronte all’emergenza, l’Italia dovrebbe dotarsi di un maggior numero di misure alternative? “A mio parere no, visto che ce ne sono già molte. Il problema è che, ora come ora, fatichiamo ad applicarle per l’eccessivo numero di reclusi. Se già dal prossimo anno gli ingressi inizieranno a diminuire, le cose si metteranno diversamente. Due soluzioni invece, a mio avviso, sono urgenti per consolidare il passo appena compiuto dal decreto del ministro Cancellieri: l’istituzione della messa alla prova che, come già avviene per i minori, prevede la sospensione del processo dopo un percorso di rieducazione all’interno del carcere, la messa alla prova e l’eventuale estinzione del reato, ovviamente qualora non crei allarme sociale. E poi, è fondamentale metter mano alla legge 49/06, la Fini Giovanardi (che ha inasprito le sanzioni relative a produzione, traffico, detenzione illecita e uso di sostanze stupefacenti, abolendo la distinzione tra doghe leggere e pesanti ndr)”. Con questo nuovo provvedimento, il carcere in Italia può sperare di ritornare a essere un luogo di rieducazione sociale? “Me lo auguro, perché così vuole la nostra costituzione. Il sovraffollamento, purtroppo, tarpa le ali alla rieducazione, la rende difficilissima. A Padova, ad esempio, con oltre 900 detenuti mancano le risorse umane, gli spazi, l’organizzazione... Faccio un esempio molto pratico: l’indulto del 2006 aveva ridotto le presenze al Due Palazzi a poco meno di 500 reclusi; riuscivamo a impiegare tutti nell’inserimento lavorativo, nella scuola e nelle attività culturali. Questo dovrebbe rappresentare la detenzione, che in un paese evoluto andrebbe applicata come extrema ratio per chi ha delinquito in maniera grave. Tutto il resto dovrebbe ruotare intorno alla pubblica utilità volta alla rieducazione sociale. In questo modo non servirebbero altre nuove struture, perché quelle esistenti sarebbero più che sufficienti”. Finora il caldo, a cui siamo abituati, non si è fatto sentire. Ma come vi comporterete durante i giorni più torridi per alleviare il disagio di chi è in cella? “Da anni sopperiamo ai problemi legati all’afa con una maggior libertà di movimento nel reparto e, in cella, si va soltanto la notte per dormire”. Il Due Palazzi è considerata una delle migliori case di reclusione, nel panorama italiano, non solo per la forte presenza di volontari, ma a anche a livello di struttura. “Cerchiamo di impiegare al meglio le risorse economiche a nostra disposizione e finora ce l’abbiamo fatta, anche grazie alle squadre di detenuti regolarmente retribuiti e impiegati per la piccola manodopera necessaria a mantenere dignitosa la qualità dell’intera struttura”. Ristretti Orizzonti. L’opinione di Ornella Favero. Amnistia sì, ma per ripartire da zero Da 17 anni varca quasi quotidianamente la soglia del Due Palazzi, ma non si è ancora stancata di credere che le persone rinchiuse I) dentro possono cambiare nel momento in cui si assumono la piena responsabilità del dolore e dell’ingiustizia che hanno provocato e ricominciano il loro percorso di rinascita confrontandosi con la società civile, ammettendo le proprie colpe. Anche di fronte a studenti che, spesso, hanno la loro età o quella dei figli a cui un giorno dovranno spiegare molto. Ornella Favero, direttore responsabile di Ristretti Orizzonti, la rivista del carcere di Padova, e presidente dell’associazione Granello di senape, è convinta che il decreto Cancellieri finalmente faccia qualcosa nei confronti di una situazione drammatica e insostenibile. “Mi hanno colpito le parole della direttrice di San Vittore che ha dichiarato come sia fuorviarne definire questo decreto “svuota carceri”. Purtroppo si mette mano a una sola delle tre leggi, la ex Cirielli (le altre due: Fini Giovanardi e Bossi Fini), che hanno intasato le prigioni del nostro paese, mettendo dentro gente che commette piccoli reati, soprattutto tossicodipendenti, che non imparano nulla in cella, perché una volta fuori, non essendo disintossicati dalla loro dipendenza, continuano a fare quello che facevano per procurarsi il denaro necessario per continuare a farsi”. Sull’amnistia, su cui l’attenzione mediatica sì sta concentrando come unica, plausibile soluzione all’emergenza sui numeri esorbitanti dei detenuti, Ornella Favero è d’accordo, ma a una condizione: “Dal mio punto di vista, è l’unica strada percorribile per sbloccare questo corto circuito in cui siamo finiti. Ma poi bisogna ripartire con una riforma seria del sistema penale in Italia. Non ha giustificazione il fatto che non possiamo mettere mano a un codice risalente al 1930 e non più adeguato alla realtà del paese”. L’Italia deve avere il coraggio di prendere in mano questa drammatica situazione, non soltanto perché l’Europa le alita sul collo: “Questa è vera e propria detenzione sociale, perché il paese preferisce mettere in carcere ì problemi che non riesce a risolvere. I tossicodipendenti, che rappresentano la maggior parte, non dovrebbero stare dentro. Tutti hanno diritto a essere rieducati, anche loro, aiutandoli a liberarsi dalia dipendenza”. In tutto questo, il lavoro è una componente fondamentale ma non basta: “In Olanda, il sistema penitenziario riesce a ottenere risultati considerevoli perché, accanto a un’attività lavorativa part time dei reclusi, promuove tutta una serie di iniziative volte alla loro crescita culturale. Per me, il lavoro non basta: dobbiamo insegnare a queste persone ad aprirsi alla società e la società deve entrare dentro al carcere per capire cosa succede quando sì violano le regole del vivere civile. I carcerati oggi sono portati ad assumere la condizione patetica della vittima: questo è soltanto un alibi per non assumersi le proprie responsabilità”. Consorzio Giotto. Nicola Boscoletto: il lavoro dietro alle sbarre abbatte la recidiva “Un singolo provvedimento non riuscirà a riparare al danno perpetuato da oltre vent’anni con leggi sbagliate volte a riempire oltre misura le carceri italiane”. È questo il commento di Nicola Boscoletto, presidente del consorzio Giotto, realtà operante nel territorio padovano dal 1986 per il reinserimento lavorativo di ex detenuti e poi dal 1990, con l’apertura del Due Palazzi, con le lavorazioni interne al carcere. Il tentativo del ministro Annamaria Cancellieri di prendere in mano l’emergenza, affrontandola di petto, cercando di raddrizzare un corso che ha portato negli anni dietro le sbarre migliaia di persone, anche solo per piccoli reati, senza prevederne la rieducazione sociale, viene visto più che positivamente da chi, come Boscoletto, ogni giorno si confronta con il problema della detenzione nel nostro paese che ormai “ha perso il suo scopo, la rieducazione, versando in uno stato di abbandono totale. Dobbiamo, dunque, partecipare alla costruzione di qualcosa di buono per il sistema della giustizia, appoggiando il ministro Cancellieri che, senza soluzione di continuità, ha proseguito lungo la strada già intrapresa dalla collega Severino”. L’Italia ha tempo un anno per rientrare dall’infrazione che le contesta l’Europa per ammassare nei penitenziari persone ai di sotto dei limiti della dignità umana. “Non sarà facile recuperare - spiega Boscoletto. C’è bisogno di intervenire in maniera strutturale nel sistema, per non elaborare soluzioni tampone, che vanno bene sul momento, ma per rendere, prima di tutto, dignitosi e vivibili gli spazi dentro alle celle e rieducare alla convivenza civile, non sopprimendo i diritti delle persone. È mai possibile che perfino i maiali, che hanno a disposizione sette metri quadrati negli allevamenti, stiamo meglio degli esseri umani presenti nelle case di reclusione italiane?”. Ciò che è del tutto assente ormai nei confronti di chi sconta il proprio debito con la giustizia è la possibilità di imparare, mentre è dietro alle sbarre, dai propri errori, per uscire un domani con una libertà interiore che la violenza, la corruzione, il non rispetto nei confronti della vita umana non gli daranno mai. Il lavoro è una di queste strade per riappropriarsi di se stessi, della propria dignità sepolta. Ma, su oltre 900 detenuti al Due Palazzi, soltanto 120 lavorano, grazie al consorzio Giotto, nella pasticceria del carcere (che negli anni ha raggiunto riconoscimenti nazionali per la bontà delle sue creazioni), ai cali center, al montaggio delle biciclette... e, per chi gode della libertà vigilata, nella manutenzione del verde e nel decoro urbano della città di Padova. “Diamo dell’eccezionale a cose che dovrebbero essere del tutto normali, perché a prevederlo è il nostro dettato costituzionale: il lavoro deve nobilitare l’uomo, anche quando, soprattutto, è in carcere. Non ci rendiamo conto che il lavoro di queste persone può rappresentare un bene per tutti: per i detenuti, le loro famiglie, ma anche per l’intera società civile”, I dati, presentati dal ministero della giustizia guidato fino a qualche mese fa da Paola Severino, affermano che per chi sconta una pena senza lavorare, la recidiva raggiunge il 70 - 90 per cento; per chi svolge un’attività lavorativa regolarmente retribuita, il tasso si abbatte fino al due per cento. “Stiamo generando dei mostri - conclude Boscoletto - perché chi esce e non ha intrapreso nessun percorso di rieducazione tende a delinquere in maniera più pesante di prima, in Italia, su oltre 66 mila carcerati soltanto 900 possono godere del lavoro. Lo stato, dunque noi cittadini, spende miliardi di euro per “master in delinquenza”, creando un abominevole danno contro se stesso: un carcerato costa 250 euro al giorno e, se solo un milione fosse investito nel reinserimento lavorativo, se ne risparmierebbero, con l’abbattimento della recidiva, come minimo nove milioni che potrebbero essere reimpiegati per lo sviluppo del paese, per il sostegno ai cassa integrati, ai disoccupati... È urgente mettere la parola fine a questo meccanismo perverso”. Casa Circondariale: i carcerati sono soprattutto clandestini A Padova il decreto non sarà decisivo per sfoltire le presenze. Rispetto allo stesso periodo del 2012, i detenuti del circondariale sono inferiori: su un centinaio di posti disponibili le presenze sono 206 (nel 2012 erano quasi 260). È leggermente migliore, anche se di sovraffollamento sempre si tratta, la situazione al carcere circondariale di Padova rispetto ai numeri dello scorso anno: a fronte di un centinaio di posti disponibili, attualmente i detenuti in attesa di processo sono 206 (a luglio 2012 erano quasi 260). E con la calura che inizia, come ogni anno l’istituto ha deciso di applicare provvedimenti straordinari per “intiepidire” il nervosismo dei detenuti e cercare di risolvere le criticità legate alla convivenza in spazi al di sotto della dignità umana e di qualsiasi norma di sicurezza: un’ora e mezza in più d’aria verso la fine della giornata e freezer nei reparti per permettere di tenere al fresco alimenti e bevande necessari a sopportare le alte temperature. Antonella Reale, prima donna a Padova a rivestire l’incarico di direttore del carcere circondariale, non nutre molte speranze nel fatto che il decreto Cancellieri possa alleggerire, in maniera considerevole, le presenze al circondariale di Padova. “Di sicuro l’efficacia del provvedimento sarà distribuita su tutto il territorio nazionale, ma qui difficilmente le cose cambieranno, perché al Nord in cella, in attesa di processo, ci sono soprattutto stranieri”. Una riforma efficace, dunque, dovrebbe essere fatta su altre norme che hanno intasato negli ultimi vent’anni gli istituti di pena: prima di tutto la Bossi Fini che spedisce dentro ogni clandestino prima dell’espulsione. “Credo che per sanare in parte la situazione che si è venuta a creare - continua Reale - e dare segnali concreti di cambiamento anche all’Europa, che altrimenti continuerà a sanzionare il nostro paese imponendoci di pagare cifre strabilianti che invece potrebbero essere usate in ben altro modo, sarà indispensabile nell’immediato futuro applicare misure impopolari come l’amnistia. Del resto il ministro Cancellieri l’ha già in parte annunciata, definendola una “misura tecnicamente facile” e che deve essere seguita da altri provvedimenti”. Ritornando al decreto e alla condizione del circondariale di via Due Palazzi, per il direttore neppure i domiciliari, purtroppo, non saranno una soluzione che consentirà di sfoltire le presenze: “Perché presuppongono ovviamente un domicilio stabile e la maggior parte dei detenuti clandestini non potranno accedere alla misura proprio per la mancanza di un posto dove stare. Quello che poteva aiutare il sistema in generale, invece, non ha superato purtroppo la fase preliminare della bozza; intendo la libertà anticipata per buona condotta che poteva avere un impatto favorevole sull’intero panorama. Intanto i mesi sono molto pochi prima dello scadere del termine imposto dall’Europa...”. A Padova, dunque, si va avanti facendo i conti con un sovraffollamento che non cesserà dall’oggi al domani, neppure con la conclusione dei lavori di ristrutturazione delle sezioni chiuse da anni perché “l’obiettivo è quello di non aumentare le presenze, ma di allargare gli spazi per le persone che già sono dentro. Senza dimenticare che l’organico di vigilanza a disposizione è sempre lo stesso”. La spending review, inoltre, non agevola neanche l’impegno per migliorare le condizioni di chi sta dentro: “Nel 2013 la regione Veneto ha deciso di non finanziare nessun progetto di reinserimento lavorativo: mi auguro che per il prossimo anno, ci ripensi”. Il mondo del volontariato, poi, sta subendo una battuta d’arresto fisiologica legata all’età avanzata di molti e a un non facile ricambio generazionale. Sassari: Pili (Pdl); apre il carcere di Bancali ma mancano 180 agenti, sicurezza a rischio www.sardegnaoggi.it, 5 luglio 2013 A Sassari apre il carcere di Bancali, ma i poliziotti non bastano. “Martedì 9 luglio ci sarà un’inaugurazione farsa con 180 agenti in meno per il carcere sassarese che dovrà, secondo i maldestri piani del Ministero, ospitare 100 detenuti in regime di 41 bis”. L’allarme arriva dal deputato del Pdl, Mauro Pili che ha presentato un’interrogazione al ministro Cancellieri. “Martedì prossimo inaugurazione farsa del carcere di Bancali a Sassari con meno della metà degli agenti previsti. Mancano all’appello 182 agenti, più della metà di quelli previsti in organico. I dati aggiornati registrano in servizio a San Sebastiano solo 156 poliziotti a fronte di 175 e soprattutto con 20 unità ancora in missione in altre sedi. Un dato eloquente se rapportato alla forza necessaria per il nuovo carcere di 338 agenti”. Lo afferma il deputato sardo Mauro Pili annunciando un’interrogazione al Ministro della Giustizia Cancellieri con la quale denuncia la decisione di inaugurare martedì prossimo 9 luglio il carcere sassarese di Bancali senza aver affrontato la questione del personale. “Si tratta di un’inaugurazione con il trucco - prosegue -, con 180 agenti in meno rispetto al necessario per il carcere sassarese che dovrà, tra gli altri, secondo i maldestri piani del Ministero, ospitare 100 detenuti in regime di 41 bis. A individuare la soglia dei 338 agenti necessari è il provveditore dell’amministrazione penitenziaria che con comunicazione formale 8112 del 5 aprile 2013 aveva individuato un riparto del personale in Sardegna”. “È grave - ha concluso Pili - che il Ministro avvalli questa situazione e metta a repentaglio la piena fruizione di una struttura senza garantire la completa efficienza che con questo tipo di organici sarà di fatto inesistente. Il Ministro se vuole evitare questo scempio del buon senso deve evitare di inaugurare una nuova struttura senza aver prima destinato gli agenti necessari a coprire i buchi in organico. Tutto questo dimostra la superficialità con la quale si sta affrontando il tema delle carceri in Sardegna”. Macomer (Nu): tutti per salvare il carcere. Il sindaco Succu “non deve chiudere” La Nuova Sardegna, 5 luglio 2013 Nell’autunno del 2001 i progetti del ministero di Grazia e Giustizia per il carcere di Macomer erano ben diversi da quelli attuali. L’intenzione era quella di trasformare l’allora carcere mandamentale, una struttura utilizzata per la detenzione a livello locale, in una sezione di carcere duro per detenuti sottoposti al regime dell’articolo 41 bis, praticamente detenuti condannati per reati gravissimi come quelli di mafia. L’opposizione dell’amministrazione comunale di Macomer contro i progetti del Ministero fu netta e decisa, per cui non se ne fece niente. Il carcere ospitava allora i cosiddetti “detenuti di difficile governo”. Col tempo sono arrivati i terroristi islamici. Per salvare il carcere ed evitarne la chiusura la nuova giunta comunale di Macomer ce la mette tutta. Lunedì il sindaco, Antonio Succu, e la giunta hanno incontrato la direttrice reggente del carcere, Elisa Milanesi, subentrata a Giovanni Monteverdi, e il comandante della polizia penitenziaria, Antonio Cuccu. Nel frattempo hanno chiesto un incontro istituzionale al provveditore regionale degli istituti penitenziari, Gian Franco De Gesu, per esaminare la situazione e per porre in essere tutti i tentativi utili a scongiurare la chiusura e la dismissione dell’istituto penitenziario di Macomer. Del problema del carcere, inserito in un discorso più ampio riguardanti le strutture carcerarie della Sardegna, si è occupata anche il consigliere regionale del Fdi, Michelina Lusesu, che ha scritto a Cappellaci. Nel corso dell’incontro con i responsabili dell’istituto di Macomer, definito da entrambe le parti è stato “utile e costruttivo”, è emerso che il rischio di chiusura è reale. Per la struttura i programmi del ministero della Giustizia non prevedono nessuna destinazione specifica e tanto meno una caratterizzazione per un utilizzo diverso da quello attuale. Ciò significa che si chiude e basta. Sindaco e assessori hanno prospettato la possibilità di lavorare a un protocollo di intesa col Ministero da attuarsi anche con la collaborazione dei comuni vicini. Tra le soluzioni ipotizzate una prevede la possibilità di potenziare l’unità cinofila esistente nella struttura per utilizzarla a servizio anche di altre carceri sarde. Da approfondire e valutare con ulteriori elementi di analisi anche l’ipotesi di utilizzare il complesso del carcere per una sistemazione alternativa dei detenuti-pazienti già ricoverati negli ospedali psichiatrici giudiziari. Tra le possibilità di utilizzo del carcere c’è anche quella di ospitare i detenuti in semi libertà. Si tratta, naturalmente, di idee e proposte da vagliare sulle quali dovrà pronunciarsi il ministero della Giustizia per la parte di sua competenza. Il consigliere regionale Michelina Lunesu nella lettera-appello a Cappellacci nella quale richiama l’attenzione del presidente della Regione sul sovraffollamento, le carenze di organico della polizia penitenziaria e la precarietà delle condizioni igienico-sanitarie nelle carceri sarde, per quanto riguarda Macomer precisa che “il carcere rischia la chiusura e va salvato, soprattutto perché sono a rischio un centinaio di posti di lavoro, tra occupati diretti e indotto, inoltre, caso unico in Sardegna, ospita una scuola di addestramento per cani antidroga, che vengono utilizzati anche da altre forze dell’ordine e in tutta l’isola”. Varese: la Regione ribadisce la necessità di mantenere in funzione il carcere nel capoluogo www.varesenews.it, 5 luglio 2013 La commissione speciale sulle carceri, in visita la scorsa settimana ai Miogni, ha scritto due lettere per ribadire la necessità di mantenere la struttura nel capoluogo. Il carcere dei Miogni deve restare a Varese: o nello stesso luogo riqualificato e magari ampliato, oppure in un’altra area che il Comune abbia individuato. È questa la posizione ufficiale di Regione Lombardia assunta attraverso la sua “Commissione speciale situazione carceraria”, presieduta da Fabio Angelo Fanetti, dopo l’incontro tenutosi presso la Casa circondariale lo scorso 24 Giugno con i rappresentanti delle istituzioni locali e dopo avere considerato le indicazioni emerse in quel frangente. A renderlo noto è la consigliera regionale varesina della Lega Nord Francesca Brianza che sta seguendo da vicino la vicenda ed è stata tempestivamente informata della prima mossa ufficiale da parte del Pirellone. Due lettere sono state inviate in queste ore dalla “Commissione speciale situazione carceraria” e saranno recapitate a breve al sindaco di Varese Attilio Fontana e al dottor Aldo Fabozzi, Provveditore regionale per il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Nella prima, quella indirizzata a Fontana, si chiede al sindaco di informare il Provveditore Fabozzi se nel “redigendo Pgt siano stati individuati dei possibili siti per l’edificazione di una nuova casa circondariale” o “se siano state indicate le possibilità di procedere all’ampliamento, alla ristrutturazione e alla riqualificazione secondo standards vigenti, della struttura attualmente presente. Struttura destinataria di un Decreto Ministeriale del 2001 che ne ha imposto la chiusura”. Nella seconda missiva si rende noto al Provveditore Aldo Fabozzi che “in uno spirito di fattiva collaborazione tra amministrazioni pubbliche” sarà informato in materia dal sindaco Fontana “sull’individuazione nel Pgt, o sulla mancata individuazione” di siti dove realizzare un nuovo carcere oppure circa uno studio di fattibilità su riqualifica e ampliamento del carcere esistente”. In pratica, un primo passo per informare le parti interessate e procedere verso una soluzione del problema”. “Con questi primi documenti Regione Lombardia dimostra di non volere perdere tempo e si muove ufficialmente in una direzione auspicata e richiesta da tutti: quella della soluzione, ormai non più rimandabile, della condizione del carcere di Varese - commenta la consigliera Francesca Brianza -. Il punto fermo, ribadito dalla Commissione regionale alla luce di quanto emerso dagli amministratori locali nell’incontro del 24 Giugno è che la casa circondariale, riqualificata o costruita ex novo, resti a Varese. Personalmente, anche per una questione di costi, sarei per l’ampliamento e una risistemazione dell’esistente, anche se mi risulta che nel Pgt vi siano aree alternative individuate e che eventualmente potranno essere prese in considerazione. Ogni ipotesi sarà considerata al fine di arrivare alla migliore soluzione possibile e Regione Lombardia vuole intervenire per cercare di ridurre il più possibile la tempistica”. Massa Marittima (Gr): detenuti e neo-scarcerati, per loro una guida speciale per orientarsi www.ilgiunco.net, 5 luglio 2013 Ecco la guida che aiuta i carcerati e coloro che hanno riconquistato la libertà ad orientarsi nei due comuni di Massa Marittima e Follonica. Si tratta di una semplice mappa descrittiva di servizi presenti nel territorio che tende una mano favorendo il superando di invisibili barriere.?Una mappa utile a tutti per accedere ai servizi essenziali con una particolare attenzione ai detenuti che, dopo anni di esclusione dalla vita sociale, trovano un mondo tecnologicamente evoluto che ha generato sbarre e mura virtuali non meno pesanti e limitative di quelle fisiche. Trentanove pagine divise in 22 capitoli. Il libretto illustra in maniera chiara ed esaustiva i servizi sociali e sanitari nel territorio, lo sportello immigrati, i centri per l’impiego, il mondo delle associazioni, i trasporti e l’istruzione. E poi ancora consigli su dove mangiare, bere, dormire, dove trovare cabine telefoniche, uffici postali, postazioni internet e anche bagni pubblici. “Uno strumento semplice ed estremamente utile - dichiara il direttore del carcere Carlo Mazzerbo - da fornire al detenuto che si approssima alla libertà oppure che inizia il suo percorso di reinserimento sociale”. L’idea di una guida nasce nell’ambito del progetto Esprit libre-educatore ponte 2012/2013, sistema integrato di rete per le politiche attive di inclusione sociale dei detenuti e neo scarcerati a cui hanno collaborato la casa circondariale di Massa Marittima, la Sds Colline Metallifere, i Comuni di Massa e Follonica, la Provincia di Grosseto (Centro per l’impiego), la Regione Toscana e la cooperativa sociale Arcobaleno. “Ogni essere vivente appartenente al regno animale che, per un periodo più o meno lungo, è stato costretto a vivere in cattività - si legge nella guida - deve essere aiutato a reinserirsi nel proprio habitat naturale. L’uomo non è immune a questa necessità”. Il progetto è stato realizzato nell’ambito della “Scuola in carcere”, organizzata dal Centro territoriale per l’educazione degli adulti delle Colline Metallifere, coordinata dal professor Diego Accardo. I detenuti che hanno partecipato alla realizzazione della guida sono: Alayo, Carmelo, Giacomo, Giuseppe, Gianfranco, Luigi, Salvatore, Piotr, Raffaele,Vincenzo. La guida è scaricabile anche in rete. Si trova accedendo alla all’home page del sito del Comune www.comune.massamarittima.gr.it all’interno della relativa news. Udine: Comune sigla un protocollo per il reinserimento e l’inclusione sociale dei detenuti Messaggero Veneto, 5 luglio 2013 La detenzione vista come momento per riconoscere i propri errori, azzerare il contatore e ripartire. Per farlo il Comune di Udine si è fatto promotore di un protocollo per il reinserimento e l’inclusione sociale dei detenuti firmato ieri a palazzo D’Aronco insieme a 21 partner presenti sul territorio. Fondamento dell’intesa è la promozione di un trattamento penitenziario umano, non discriminatorio e rispettoso della dignità individuale nel solco dei precetti costituzionali. Un documento che influirà sulle vite di persone detenute, in esecuzione penale esterna, ex-detenute o a disposizione dell’autorità giudiziaria minorile. In concreto si tratta di percorsi di reinserimento condotti con il supporto di enti pubblici e privati, coordinati dal Comune di Udine in qualità di ente gestore del Servizio sociale dei Comuni dell’Ambito distrettuale 4.5 dell’udinese. “Si è più efficaci se si impara gli uni dagli altri - ha detto il sindaco di Udine, Furio Honsell, pochi istanti prima della firma collettiva -, e per questo sono molto lieto per l’intesa trovata sul protocollo. Stiamo vivendo un momento di recessione che comporta una minore distribuzione di risorse alle persone e una società sempre più soggetta a spinte centrifughe e sottoposta a stress. Ecco perché iniziative come questa, che tendono a rendere molto più rapide determinate progettualità, è sempre più utile e urgente”. Oltre al Comune, a firmare il protocollo c’erano i rappresentanti degli altri attori coinvolti, ovvero Ass4 Medio Friuli, Casa circondariale di Udine, Ufficio di esecuzione penale esterna di Udine, Pordenone e Gorizia, Servizio sociale minorile di Trieste, Provincia di Udine e 14 associazioni del territorio (Arci Nuova Associazione Comitato territoriale di Udine, Aracon Cooperativa Sociale, Centro Caritas dell’Arcidiocesi di Udine, Associazione Dilettantistica Sportiva Calicanto, Icaro, Incontriamo, La Viarte, MusicaMia, Società di San Vincenzo de Paoli Consiglio Centrale di Udine, Speranza, Associazione Vicini di Casa, CSS Teatro Stabile di innovazione del Friuli Venezia Giulia, Centro Solidarietà Giovani “G. Micesio”, Arte e Libro Società Cooperativa Sociale). L’intesa, valida fino a tutto il 2015, punta a valorizzare le capacità individuali e le competenze dei servizi territoriali e della comunità locale, a promuovere azioni a sostegno dell’autonomia personale possibile e della fruibilità dei servizi. Destinatari del protocollo sono le persone detenute nella Casa Circondariale di Udine e le persone, adulte o minorenni, in esecuzione penale esterna, ex-detenute o a disposizione dell’autorità giudiziaria minorile, residenti o presenti sul territorio del Servizio sociale dei Comuni dell’ambito distrettuale 4.5 dell’udinese (Campoformido, Martignacco, Pagnacco, Pasian di Prato, Pavia di Udine, Pozzuolo del Friuli, Pradamano, Tavagnacco e Udine). Matera: la Camera di Commercio promuove iniziative di inclusione sociale per i detenuti www.sassiland.com, 5 luglio 2013 Consegnati gli attestati per 15 allievi della Casa circondariale che hanno partecipato al corso sulla lavorazione della cartapesta. Una mostra tematica su manufatti artigianali da effettuare in autunno a Matera, con modalità da definire, e iniziative di sostegno sulle opportunità formative e di inclusione per le persone in stato di detenzione. Sono le iniziative annunciate dal presidente della Camera di commercio di Matera, Angelo Tortorelli, al termine della consegna degli attestati per 15 allievi (cinque dei quali stranieri) della Casa circondariale che hanno partecipato a un corso di formazione della durata di 60 ore sulla lavorazione della cartapesta. Soddisfazione è stata espressa dagli organizzatori, presenti la direttrice del carcere Maria Teresa Percoco e il presidente regionale di Cna Leonardo Montemurro, circa i risultati raggiunti dagli allievi, che hanno prodotto manufatti sui temi della migrazione e dello scambio di culture fra i popoli, fondamentale per i processi di integrazione e di inclusione sociale che sottendono all’attività formativa. L’iniziativa finanziata dall’ Ente camerale, con il supporto organizzativo della Cna, ed è stata portata avanti in collaborazione con la direzione della Casa circondariale dopo la positiva esperienza del 2011 che coinvolse dieci allievi. Il percorso didattico, che si è avvalso dell’esperienza di maestri artigiani come Michelangelo Pentasuglia e Angelo Palumbo, ha consentito l’apprendimento delle tecniche di base, l’uso dell’argilla per realizzare gli stampi in gesso, la predisposizione di impasti per la preparazione delle colle, fino alla lavorazione della carta e alla decorazione pittorica. “Il progetto - ha detto il presidente della Camera di commercio, Angelo Tortorelli - e la collaborazione avviata tra soggetti pubblici e privati avranno senz’altro un seguito, a dimostrazione che i percorsi di inclusione sociale attraverso la formazione e il lavoro possono offrire opportunità di inserimento anche a persone in stato di detenzione. Recupero, auto impiego, aspetti sociali e artistici troveranno spazio e rilievo in una mostra e in attività divulgative e di supporto che intendiamo realizzare alla ripresa”. Venezia: detenuto si uccise in isolamento; a processo 6 agenti, l’udienza slitta ad ottobre Il Gazzettino, 5 luglio 2013 Slitta ad ottobre l’udienza per l’inchiesta sulla “cella delle punizioni” che sarebbe stata utilizzata, fino al 2009, nel carcere di Santa Maria Maggiore per i detenuti più critici. Lo ha stabilito il gip Comez alla luce del fatto che una delle sei guardie carcerarie, D.C., ha deciso di puntare all’abbreviato. A questo punto l’udienza, che riguarda anche altri cinque agenti per i quali il pm Michelozzi chiede il rinvio a giudizio, è stata fissata al 10 ottobre. La posizione più critica riguarda due indagati (oltre a D.C. c’è S.D.L.) accusati di omicidio colposo in relazione al suicidio del giovane marocchino Cherib Debibyaui, avvenuto nel marzo del 2009. Secondo il pm Michelozzi i due non avrebbero usato alcuna misura di sorveglianza per il detenuto che era già stato salvato da un precedente tentativo di togliersi la vita. La “cella delle punizioni”, così era chiamata, non era in grado di ospitare detenuti, era buia e fredda. Gli altri quattro appartenenti della polizia penitenziaria hanno una posizione più lieve essendo accusati del reato di abuso di autorità contro arrestati e detenuti in relazione ai casi in cui avrebbero utilizzato quella cella per finalità “punitive”. Al processo era presente anche Eddy Karim (parte civile con l’avvocato Marco Zanchi) che negli anni di carcerazione, tra Ascoli, Verona, Venezia e Trieste, ha sempre lottato contro le condizioni di degrado nelle quali sono costretti a vivere i detenuti. Ieri dieci giovani (che hanno sottolineato di essere stati allontanati dai carabinieri) hanno effettuato un volantinaggio nelle vicinanze del Tribunale a sostegno della lotta avviata in questi anni da Karim, che è anche testimone dell’accaduto, e contro il sistema carcerario. Detenuto suicida in isolamento, agenti di polizia sotto accusa (Venezia Today) Saranno l’ex comandante della Penitenziaria e altri 5 tra ispettori e sovrintendenti a dover rispondere di omicidio colposo e abuso di autorità dopo la morte di un 28enne marocchino. Per ora si tratta di un’accusa, che, tuttavia, fa pensare e rabbrividire. Detenuti rinchiusi in cella di punizione senza acqua, luce e riscaldamento, ma anche senza un letto, una sedia, nemmeno un materasso a terra. A provare la terribile esperienza, sarebbero stati i prigionieri con comportamenti e atteggiamenti rissosi, “devianti e conflittuali”. In quella cella, la numero 408, sarebbe morto suicida un 28enne marocchino, impiccatosi il 5 marzo del 2009. Questo almeno quello che riporta la Procura di Venezia, che sta indagando l’ex comandante della polizia penitenziaria e altri 5 dirigenti. Due di loro sono accusati di omicidio colposo e abuso di autorità mentre gli altri “solo” di quest’ultimo reato. Secondo le ipotesi del pm, che poi dovranno reggere durante il processo, il 28enne, dopo aver tentato il suicidio nella sua cella, era stato messo in quella “punitiva”. Lì sarebbe resistito 62 ore in isolamento completo, prima di fare a strisce la coperta e impiccarsi, legandosi alla maniglia della finestrella. Per il magistrato dell’accusa l’ex comandante avrebbe disposto, erroneamente, la detenzione della vittima considerata “a rischio” senza sorveglianza. Le esperienze di altri detenuti sono poi finite in aula sul banco dell’accusa. Almeno cinque, come riporta la Nuova. In udienza preliminare il processo è stato rinviato al 10 ottobre prossimo. Roma: Osapp; agente picchiato a Rebibbia, necessaria più attenzione da parte del Dap Adnkronos, 5 luglio 2013 “A Roma Rebibbia un Assistente di Polizia Penitenziaria è stato aggredito da un detenuto, il fatto è stato valutato non degno di considerazione dai responsabili dell’Istituto romano”. Lo comunica Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) che aggiunge: “Non è la prima volta che si fa finta di non vedere che un Poliziotto Penitenziario finisca in ospedale solo per fare il proprio dovere”. “Se questi devono essere i risultati - prosegue Beneduci - è inutile che esistano le carceri e forse il direttore provvisorio dell’Istituto di Pena farebbe meglio a starsene a casa, visto che i detenuti possono fare quello che vogliono”. L’aggressione sarebbe avvenuta durante i colloqui presso “la cosiddetta Area Verde e - afferma il sindacalista - il detenuto, nell’aggressione al Poliziotto Penitenziario, sarebbe stato coadiuvato dai parenti presenti che anche dopo avrebbero continuato ad inveire contro tutto e tutti ma nessuna denuncia è stata presentata all’Autorità Giudiziaria e l’evento, in se gravissimo, sarebbe stato minimizzato nella successiva segnalazione agli organi dell’Amministrazione centrale”. “L’Assistente di Polizia Penitenziaria coinvolto ha riportato 7 giorni di prognosi e nessuno dell’Amministrazione si è nel frattempo preoccupato di appurare quanto e come l’episodio abbia minato realmente il suo equilibrio psicofisico - conclude Beneduci - mentre noi è da tempo che affermiamo, come sindacato, che il Nuovo Complesso di Roma Rebibbia è diventato una bolgia e che quel Direttore che già non faceva bene a Regina Coeli e che adesso ha addirittura la responsabilità di due Istituti Penitenziari della Capitale almeno da uno di questi deve andare via; ma il Capo del Dap Tamburino, al pari dei ben pagati vertici dell’Amministrazione, fa orecchie da mercante e a rimetterci sono sempre e solo i Poliziotti Penitenziari per cui è opportuno che la Guardasigilli Cancellieri si ricordi quanto prima di non essere solo il Ministro dei detenuti ma anche degli Agenti di Polizia Penitenziaria”. Bollate: detenuti-imbianchini, per rimettere a nuovo classi della scuola primaria Rosmini www.informazione.it, 5 luglio 2013 Genitori dei giovani studenti della scuola primaria Rosmini e un gruppo di detenuti del carcere di Bollate, diventano imbianchini volontari, per tinteggiare e rimettere a nuovo le classi dell’istituto di via Diaz. Il tutto a costo zero per le casse pubbliche e la comunità (uniche spese, l’assicurazione obbligatoria e alcuni materiali, a carico del Comune). L’iniziativa, che si svolgerà in più date (al momento il 6 e il 13 luglio dalle ore 8,30 alle 15,30 in via Diaz 44) è stata resa possibile grazie a una rete sinergica messa in piedi dal settore Servizi sociali e Lavori Pubblici del Comune e dall’Istituto Comprensivo Rosmini, che ha visto coinvolto il carcere di Bollate, i genitori della Scuola Primaria Rosmini e la società di servizi Gaia (partecipata del Comune) che, grazie ad una sponsorizzazione di privati, ha ottenuto a un prezzo favorevole il materiale necessario all’imbiancatura. “L’estate è tempo di lavori per la sistemazione degli edifici scolastici - dichiara il sindaco di Bollate Stefania Lorusso. Ma i tempi che corrono, la spending review, il patto di stabilità, ci impediscono di avviare tanti lavori necessari sul nostro territorio. La soluzione, sempre più spesso, deve essere trovata mettendo insieme creatività, sinergia, disponibilità. Per questo abbiamo pensato a una rete socialmente utile, pensata per dare un’aria nuova alla nostra scuola e un ambiente più pulito e accogliente ai ragazzini che a settembre si ripresenteranno per il nuovo anno scolastico”. “Far lavorare i genitori degli studenti e i detenuti del carcere è un’iniziativa utile sia dal punto di vista pragmatico che educativo - afferma l’assessore alle Politiche sociali del Comune di Bollate, Marinella Mastrosanti. Ci consente di risistemare il patrimonio pubblico ma anche di contribuire a far cadere barriere che troppo spesso eleviamo di fronte a chi, nella vita, ha fatto degli errori. Un’iniziativa bella e utile che speriamo lasci un forte impronta educativa anche per cittadini. Per i detenuti, invece, come loro stessi hanno dichiarato, è un’occasione per dare un contributo al risanamento della società che hanno ferito con le loro azioni passate”. Si partirà, sabato 6 luglio, dalle classi prime; con l’idea di rinfrescare l’edificio prima dell’inizio del prossimo anno scolastico. Monza: rugby, la prima meta dei detenuti, mercoledì prossimo debutto ufficiale del team www.ilcittadinomb.it, 5 luglio 2013 Mercoledì finalmente è arrivato il giorno. Dopo mesi di allenamenti e lezioni, la squadra di rugby della Casa circondariale di Monza ha giocato la sua prima, vera, partita. Le porte si sono aperte al mattino per far entrare gli avversari e poi sul campo di via Sanquirico si sono trovate di fronte la squadra dei detenuti e una selezione del Grande Brianza Rugby. Il team dei detenuti è allenato da Francesco Motta e Alessandro Geddo, del Rugby Monza che si allena proprio dall’altra parte della strada, in via Rosmini. Il progetto di rugby in carcere aveva preso il via a novembre 2012 con le prime lezioni di palla ovale. Lo scorso febbraio il primo (positivo) bilancio aveva convinto della bontà dell’iniziativa e della possibilità di organizzare la prima partita ufficiale col Grande Brianza, nato dalla collaborazione della società monzese con il Velate che è un’altra realtà storica della Brianza. Mercoledì il primo kick off. Alla fine nessuno ha badato al risultato (sembra l’abbiano spuntata di misura gli ospiti), ma alla concretizzazione di un progetto che parla di sostegno (come in mischia) e di rispetto, degli avversari e delle regole. Immigrazione: gli obbrobri dei Cie, l'elenco è infinito di Luigi Manconi, Valentina Brinis, Valentina Calderone L'Unità, 5 luglio 2013 Negli ultimi mesi sono stati pubblicati due rapporti che affrontano il tema dei centri di identificazione ed espulsione in Italia: Arcipelago Cie (realizzato da Medici per i diritti umani) e Costi disumani (dell’associazione Lunaria). Il primo è il frutto di una ricerca condotta su 11 dei 13 Cie italiani ed evidenzia alcune delle criticità come, per esempio, l’alta presenza di persone provenienti dal carcere mai identificate durante la detenzione; l’assenza degli spazi ricreativi; la difficoltà per le Asl ad accedere ai centri e, per rimanere in ambito sanitario, l’ampio uso di psicofarmaci non sempre prescritti da personale specializzato. Non solo. È stata segnalata l’assenza di strutture specifiche in grado di cogliere situazioni di vulnerabilità, come per esempio casi di donne vittime di tratta. È indicativa la vicenda di una giovane, rapita nel proprio Paese d’origine da un connazionale e costretta a prostituirsi in Italia. Dopo anni di soprusi trova la forza di denunciare il suo «protettore» rivolgendosi al posto di polizia di un piccolo paese del Sud. Da qui il trasferimento al Cie è stato immediato come se, alla sua condizione di donna vittima, prevalesse quella di persona priva di documenti. Fortunatamente in questo posto è venuta in contatto con gli operatori di una cooperativa sociale che, lì, svolgono un’attività di assistenza legale e psicologica a donne coinvolte nella tratta. Con il loro sostegno, tra qualche giorno, intraprenderà il percorso del rimpatrio volontario assistito, ossia un programma che permette di ritornare in modo consapevole, e in condizioni di sicurezza, nel proprio Paese. Ma perché per questa giovane donna non è stato previsto da subito l’ingresso in un centro specializzato? Il funzionario di polizia che ha raccolto la denuncia ha detto di non sapere che per tali casi è prevista una procedura di supporto e protezione delle donne che hanno subito violenza. Ci auguriamo che una simile lacuna sia subito colmata. La vicenda qui riportata è in linea con quanto emerge anche dal Rapporto di Lunaria. Ossia che, nella maggior parte dei casi, la persona priva di documenti viene immediatamente trattenuta ai fini dell’identificazione e, poi, dell’espulsione, senza che però siano mai prese in considerazione delle forme alternative alla reclusione. È stata inoltre dimostrata, in entrambi i testi, l’inefficacia del trattenimento rispetto al suo scopo poiché appena il 46% delle persone trattenute viene, poi, rimpatriata. E i costi di questo periodo sono molto alti, come ben documentato da Lunaria. La chiusura dei Cie sarebbe cosa buona e giusta ma, comunque, rimane il fatto che per «contrastare l’immigrazione irregolare» è necessario approvare delle riforme che facilitino l’ingresso e il soggiorno regolare dei migranti in Italia. Ecco perché i Radicali in questi mesi hanno promosso una raccolta firme per proporre due referendum abrogativi, uno della legge Bossi-Fini e l’altro del pacchetto sicurezza Maroni, le principali cause dell’irregolarità. Immigrazione: Camere penali; al Cie di Modena situazione insostenibile La Gazzetta di Modena, 5 luglio 2013 Una vista in tutti i Centri di identificazione ed espulsione in Italia. È quanto sta facendo una delegazione di avvocati della Giunta nazionale unione camere penali Ucpi che ieri ha fatto tappa in città, al Cie di Modena, per verificare le condizioni all’interno della struttura. “Siamo stati a Milano, Roma, Crotone e Gradisca, poi andremo a Torino, Bari, Trapani e Caltanissetta”, commenta davanti al Cie l’avvocato Manuela Deorsola, che prosegue: “A Modena abbiamo avuto l’ottima collaborazione della Questura che ci ha permesso di vedere tutti i settori della struttura, cosa che in altri Cie non è successa. La situazione che abbiamo constatato è purtroppo comune a altri Cie, e chi è trattenuto qui dentro vive in condizioni brutte: vengono serviti pranzi freddi o scongelati da poco. Al termine di tutte le visite faremo una relazione per sensibilizzare la politica, e auspichiamo un incontro con il Ministero per presentare il lavoro”. La delegazione sostiene infatti che l’intero iter normativo in materia di Cie deve essere rivisto, e che il “problema dell’immigrazione deve essere migliorato con maggiore integrazione”. I Cie sono strutture nate per consentire accertamenti sull’identità delle persone trattenute, e la struttura modenese è in grado di ospitare fino a 60 persone: ad oggi i trattenuti sono 41 di cui cinesi, latino americani, nigeriani, algerini, tunisini e marocchini. Gli avvocati osservano che “l’Europa ha emanato una direttiva per uniformare le strutture simili in altri paesi”, anche se uno dei principali problemi è costituito dai periodi di permanenza nei Cie, diversi in ogni nazione. “La situazione a Modena è apparentemente tranquilla”, spiega Enrico Fontana, avvocato presidente della Camera penale di Modena, che aggiunge: “Il paradosso di questo sistema è questo: quelli che vengono chiamati ospiti del Cie sono a tutti gli effetti detenuti perché vivono in una condizione assimilabile a quella dei detenuti in carcere. C’è un disagio dei trattenuti che si misura dalle richieste di psicofarmaci, e poi c’è anche il problema della noia. I Cie nascono come centri di identificazione e trattenimento, ma non ci sono spazi ricreativi come nelle carceri e qui a Modena non c’è neanche un campo calcio. Poi le condizioni sono al limite con bagni senza porte, e gli ospiti dormono con dei materassi sul cemento. In queste condizioni, chiusi per 5-6 mesi, si arriva a situazione di esasperazione o alla follia. Anche la situazione dei lavoratori del Cie si è da poco stabilizzata, ma è chiaro che se il personale è in agitazione, la tensione si traduce sugli ospiti trattenuti”. Libia: Amnesty International scrive Letta su necessità di garantire rispetto diritti umani Agenparl, 5 luglio 2013 Amnesty International ha scritto al presidente del Consiglio italiano Enrico Letta esprimendo preoccupazione per i risvolti in tema di diritti umani derivanti dalla cooperazione tra Italia e Libia in materia d’immigrazione. All’incontro dei paesi del G8 svoltosi a giugno in Irlanda del Nord, l’Italia si è impegnata a sostenere la Libia nell’attuale fase di transizione, riguardo allo sviluppo economico, alla stabilità politica e alla riconciliazione nazionale. Pur apprezzando questo impegno, Amnesty International ha espresso al presidente del Consiglio Letta il timore che l’assistenza promessa sia motivata prevalentemente da considerazioni relative alla sicurezza, si concentri sui controlli alla frontiera e possa rafforzare la cooperazione in materia d’immigrazione in assenza di garanzie sul rispetto dei diritti umani da parte della Libia. Nella sua lettera, Amnesty International ha fatto riferimento all’accordo sottoscritto tra i due paesi nell’aprile 2012, privo di qualsiasi riferimento alla tutela dei diritti umani e finalizzato a rafforzare i controlli di frontiera per prevenire la partenza di migranti dalla Libia, attraverso assistenza, addestramento e materiali forniti dall’Italia. Alla luce di numerosi anni di violazioni dei diritti umani commesse dalle autorità libiche nei confronti di migranti, richiedenti asilo e rifugiati, Amnesty International aveva chiesto all’Italia di non sottoscrivere alcun accordo con le nuove autorità di Tripoli in materia di controlli dell’immigrazione fino a quando quel paese non avesse dimostrato di rispettare e proteggere i diritti umani e di aver posto in essere un sistema adeguato per esaminare e riconoscere le richieste di protezione internazionale. Tale richiesta è rimasta purtroppo inascoltata. Amnesty International ha segnalato al presidente Letta un proprio rapporto, diffuso il 20 giugno - Giornata mondiale del rifugiato - nel quale denuncia la detenzione a tempo indeterminato di rifugiati, richiedenti asilo e migranti (compresi bambini) in prigioni definite "centri di trattenimento" a soli fini di controllo dell’immigrazione. Il documento si basa su una visita effettuata in Libia, ad aprile e maggio, dall’organizzazione per i diritti umani. Al momento della visita nel paese erano operativi 17 “centri di trattenimento” diretti dal ministero dell’Interno, nei quali erano detenuti 5000 rifugiati, richiedenti asilo e migranti, senza contare quelli trattenuti nei centri gestiti dalle varie milizie, ancora operative. Dei 17 “centri di trattenimento”, Amnesty International ne ha potuti visitare sette. In tre di essi ha incontrato anche minori non accompagnati, alcuni di 10 anni, detenuti da mesi. Nel ‘centro di trattenimento’ di Sabha, in cui a maggio si trovavano 1300 persone, i detenuti erano ammassati in celle sporche e sovraffollate. La prigione risultava priva di un servizio di fognatura funzionante e i corridoi erano pieni di immondizia. Circa 80 detenuti presumibilmente affetti da scabbia erano sottoposti a trattamento in un cortile, sotto al sole, in condizioni di disidratazione. I delegati di Amnesty International hanno documentato numerosi casi di detenuti, uomini e donne, sottoposti a brutali pestaggi con cavi elettrici e tubi dell’acqua. In almeno due “centri di trattenimento”, è stato riferito dell’uso di munizioni letali per sedare le rivolte. Un uomo che era stato raggiunto da un proiettile a un piede è stato legato a un letto e poi colpito col calcio di un fucile: per quattro mesi non ha potuto camminare. Durante la missione in Libia, Amnesty International ha appreso che il ministero dell’Interno italiano intenderebbe finanziare l’ammodernamento di un certo numero di “centri di trattenimento” per migranti e dotarli di ambulanze. Queste forniture, se da un lato potrebbero rispondere a immediate esigenze di ordine umanitario, dall’altro rischiano di perpetuare la detenzione arbitraria e a tempo indeterminato dei migranti se non verranno introdotte adeguate garanzie sui diritti umani. Alla luce di tutto questo, Amnesty International ha sollecitato il governo italiano a mettere da parte gli accordi con la Libia in tema di controlli dell’immigrazione e di non avviare negoziati su nuovi accordi o fornire qualsiasi forma di assistenza nel settore dei controlli di frontiera e dell’immigrazione fino a quando la Libia non avrà dimostrato di volersi impegnare seriamente a rispettare i diritti umani dei migranti, dei richiedenti asilo e dei rifugiati e non avrà risposto positivamente a una serie di raccomandazioni sottoposte da Amnesty International al governo di Tripoli. La Libia dovrebbe, tra le misure richieste da Amnesty International, adottare una legislazione sull’asilo che sia in linea con gli standard internazionali, sottoscrivere un memorandum d’intesa con l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, ratificare la Convenzione del 1951 relativa allo statuto di rifugiato e il suo Protocollo del 1967, stabilire un limite massimo di detenzione per i migranti e prendere misure per prevenire arresti arbitrari, torture e maltrattamenti nei confronti di cittadini stranieri. Amnesty International ha chiesto al presidente Letta di fornire ulteriori informazioni su quello che i mezzi d’informazione presenti al G8 dell’Irlanda del Nord hanno definito ‘il piano italiano per la Libia’, che prevede un ruolo significativo da parte italiana nell’aiutare la Libia a conseguire sviluppo economico, stabilità politica e riconciliazione nazionale. Soprattutto, Amnesty International ha sollecitato il governo italiano a garantire che la protezione dei diritti umani sia fermamente al centro di ogni discussione riguardo a tali aspetti. Infine, Amnesty International si è rivolta al governo italiano in vista dei prossimi negoziati sulla proposta della Commissione europea di un “Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio per l’istituzione di norme per la sorveglianza delle frontiere esterne marittime nel contesto della cooperazione operativa coordinata dall’agenzia Frontex”. Tali negoziati dovrebbero dar luogo a nuove regole per la sorveglianza delle frontiere, compresa l’intercettazione, la ricerca, il soccorso in mare e lo sbarco. Amnesty International ha sollecitato l’Italia ad assicurare che i diritti umani siano al centro di ogni discussione e che il regolamento adottato richieda che ogni operazione condotta dagli stati membri alle loro frontiere esterne rispetti i diritti umani delle persone intercettate o soccorse, compreso il principio di non-refoulement (non respingimento), a prescindere e al di là di ogni accordo esistente in materia di controlli dell’immigrazione tra uno stato membro e un paese terzo. Stati Uniti: a Guantanámo detenuti in sciopero della fame cibati a forza durante ramadan www.lettera43.it, 5 luglio 2013 Pur rispettando i doveri religiosi, anche durante il mese del digiuno islamico del Ramadan proseguirà l’alimentazione forzata dei detenuti da mesi in sciopero della fame nel supercarcere della base militare Usa di Guantánamo, a Cuba. Il governo degli Stati Uniti ha respinto la loro richiesta, ma ha fatto sapere che la procedura prevista è adeguata: non verrà applicata dopo l’alba o prima del tramonto. “Non alimentiamo forzosamente i detenuti musulmani osservanti nelle ore del giorno durante il Ramadan. Si tratta di una politica applicata da anni, che è adeguata con la nostra missione di detenere in sicurezza e allo stesso tempo sostenere le pratiche religiose di coloro che sono sotto la custodia degli Stati Uniti”, ha affermato il colonnello Greg Julian, direttore dei affari pubblici dello US Southern Command. Nelle settimane scorse quattro detenuti si erano rivolti al tribunale federale di Washington affinché venisse interrotta la loro alimentazione forzata da parte del personale del carcere, affermando che si tratta di una forma di tortura e che impedisce loro di praticare il dovere religioso islamico del digiuno durante il mese di Ramadan ed è pertanto in contrasto anche con le Convenzioni di Ginevra. In documenti giudiziari citati da fonti di stampa, il governo Usa ha affermato però che l’alimentazione forzata è una forma di “nutrizione indispensabile e cura medica” che non interferisce con il digiuno dei detenuti durante il Ramadan, che inizia l’8 luglio. Attualmente ci sono a Guantanamo 166 detenuti, la maggior parte dei quali è incarcerata senza incriminazioni da oltre un decennio. Di loro, 106 sono in sciopero della fame, in gran parte sin dal febbraio scorso, per una protesta inizialmente avviata contro gli agenti di custodia che a loro dire hanno oltraggiato copie del Corano, e poi allargatasi in una più vasta rimostranza contro le condizioni di detenzione nel carcere e per il fatto che il loro destino rimane ancora oscuro. “Gli ultimi mesi sono stati tra i più duri vissuti qui dai prigionieri”, ha scritto uno dei detenuti, Abdelhadi Faraj, in una lettera pubblicata oggi dall’Huffington Post. “I militari hanno usato la forza bruta contro chi è in sciopero della fame. Ci hanno picchiato e usato proiettili di gomma e gas lacrimogeni contro di noi”, ha scritto ancora Faraj, che è siriano ed è a Guantánamo dal 2002. Nel 2010, una commissione del governo ne ha autorizzato il rilascio, ma ancora viene detenuto. Il mese scorso il presidente Barack Obama ha nuovamente promesso di lavorare per arrivare alla chiusura del carcere e al rilascio o al trasferimento di molti degli 86 prigionieri per i quali la commissione ha dato luce verde. Faraj non sembra però crederci. “Con Obama, nessuno sembra voler risolvere il problema”, ha scritto, aggiungendo che assieme ai suoi compagni continuerà lo sciopero della fame “finché la nostra richiesta di giustizia non sarà accolta”. Bolivia: il carcere autogestito di La Paz finisce fra coca e stupri, governo vuole chiuderlo di Riccardo Bononi Sette, Corriere della Sera, 5 luglio 2013 A San Pedro vivono 2.500 detenuti con famiglia senza guardie a controllarli. Lavorazione e vendita di droga all’interno erano note, ma dopo le voci di violenze il governo pensa di chiudere. Il governo di Evo Morales ha annunciato di voler chiudere definitivamente il carcere di massima sicurezza di San Pedro, situato nel cuore della capitale. Dal 18 luglio non saranno più ammessi nuovi detenuti, che saranno trasferiti verso altre strutture. Il carcere di San Pedro è oggi il più grande del Paese, inizialmente concepito per ospitare 700 detenuti, accoglie attualmente una popolazione stimata di oltre 2500 carcerati. Sono proprio loro, i detenuti, ad essere insorti in seguito alla decisione presa dal governo: “La nostra vita è qui, nella prigione, non possiamo neppure concepire un’altra vita altrove”. Nonostante l’opposizione di chi nel carcere ci vive ormai da anni, la decisione del governo e del capo della polizia penitenziaria sembra determinata: si è diffusa la voce che una ragazza di appena 12 anni, figlia di uno dei detenuti, sia rimasta incinta all’interno del carcere dopo una lunga serie di abusi subiti forse con la complicità del genitore. Un portavoce dei prigionieri, Ever Quilche, ha rapidamente dichiarato alla BBC che le accuse sono infondate e ha assicurato che la ragazzina continua a vivere in carcere e sta bene. Mentre le autorità stanno ancora conducendo le indagini in cerca di prove, il carcere torna ancora una volta a far parlare di sé: già conosciuto come uno dei maggiori “punti caldi” per la raffinazione e la distribuzione della cocaina in Bolivia, la struttura penitenziaria detiene un altro sorprendente primato, essendo l’unico caso al mondo di carcere totalmente autogestito, in cui i detenuti scontano la pena vivendo assieme alle famiglie, dalle mogli ai figli, lontani da ogni forma di supervisione. Le guardie, che si limitano a perquisire gli ospiti in entrata e ad impedire ai detenuti di uscire, dichiarano di non aver mai messo piede all’interno della struttura. La nostra richiesta di essere scortati tra le corti interne del carcere è stata accolta con incredulità: “Noi non possiamo entrare, sarebbe troppo pericoloso per noi”, dichiara una guardia all’ingresso. Fino al 2009 accedere al carcere era piuttosto semplice e molti turisti si concedevano una visita per acquistare della droga a basso prezzo, questo almeno fino a che un “gringo” non è stato ucciso all’interno della prigione, causando notevole imbarazzo al governo boliviano che si dichiarava all’oscuro di tutto. In seguito a questi fatti e al successivo silenzio stampa dell’amministrazione l’entrata nel carcere è stata rigidamente vietata a stranieri e giornalisti, ma dopo mesi di tentativi siamo riusciti ad ottenere un permesso speciale, una possibilità di testimoniare quella realtà unica, da cogliere con o senza la scorta della polizia. I primi passi nel carcere di San Pedro si svolgono in un grande cortile, dove i detenuti accumulano tutta la spazzatura in attesa che venga portata fuori una volta alla settimana. Questo è ciò che di fatto vedono le guardie dalla loro posizione all’ingresso, le tracce meno nobili di una vita clandestina trascorsa nelle sezioni più interne, lontana da ogni supervisione. Superato il primo cortile, ogni passo verso il cuore della prigione è accompagnato da un senso di incredulità e stupore: mentre i detenuti, per lo più narcotrafficanti, assassini o stupratori, ci raccontano le proprie storie, i loro figli giocano vicino a loro, mentre le mogli bevono qualcosa in uno dei numerosi ristoranti sorti spontaneamente nelle aree più interne del carcere. Alcuni detenuti stanno lavando i vestitini delle figlie più piccole, altri stanno acquistando un gelato o giocando a dama seduti nei tavolini all’ombra di un bar. Passando per i tunnel che collegano una corte all’altra ci spostiamo nell’area dove risiedono i detenuti condannati per reati violenti, dall’omicidio allo stupro: tra loro una donna incinta sta cullando la figlia mentre il marito pulisce i pavimenti dei bagni delle “signore”, vicino a loro, totalmente inconsapevoli del paradosso che rappresentano, un gruppo di bambini sta giocando a guardie e ladri. Nel carcere di San Pedro i detenuti possono vivere con le proprie famiglie: le mogli possono entrare e uscire liberamente, spesso lavorano tutto il giorno fuori dal carcere per poi raggiungere i mariti la sera, altre volte lavorano in uno dei numerosi negozi ed esercizi commerciali che i prigionieri costruiscono e gestiscono all’interno della struttura, dagli alimentari alle saune e alle piscine. I bambini escono la mattina per andare a scuola, ma il pomeriggio ritornano in carcere dove trascorrono gran parte del proprio tempo. Quando chiediamo se si verifichino mai abusi o violenze nei confronti di donne e bambini ci viene subito spiegato che, a differenza del mondo esterno dove i crimini possono restare impuniti, all’interno della prigione vige una politica di tolleranza zero nei confronti di ogni reato: “Questi bambini sono figli di qualcuno e quelle donne sono le mogli di qualcuno, e quel qualcuno è uno di noi, per questo non danneggi solo quella particolare persona o la sua famiglia, ma ci danneggi tutti”. Esistono ovviamente delle regole non scritte, per cui la pena è sempre proporzionata al crimine a va dalla mutilazione a, nei casi più estremi, l’omicidio. “C’è anche un italiano tra noi, è dentro da poco per narcotraffico, ve lo andiamo a chiamare”. Vittorio, di Brindisi, è entrato da poche settimane per aver trasportato “appena” 4 chili di cocaina oltre il confine boliviano, ma sembra avere già le idee chiare su come funzioni la vita a La Paz: “Sono stato per un periodo nel carcere di Busto Arsizio, ma questo non è neppure paragonabile, se quello è un carcere, allora questo non lo è. Qui se hai i soldi puoi vivere da Dio, con 7000 dollari compri una cella privata e stai da solo o con la tua famiglia. Le donne? Qui la gente fa più sesso di quanto ne faccia fuori in una vita intera, oltre alle mogli ci sono anche le prostitute… In generale puoi trovare qualsiasi cosa, da mangiare, da bere o anche ogni tipo di droga” ci racconta Vittorio all’ombra di un grosso cartellone pubblicitario della Coca Cola in uno dei cortili del carcere. “Ad un altro italiano che è stato qui per il mio stesso reato hanno dato 4 anni, io ora sono ancora in attesa del processo. Spero vada tutto bene, ma certo qui non posso dire di passarmela male, ci sono anche diversi detenuti che stanno imparando l’italiano. Poi Abbiamo i cellulari, la televisione in camera, internet, ci sono giochi e saune un po’ dappertutto, se hai abbastanza soldi puoi vivere benissimo”. Nel carcere si ripropongono quindi le differenze sociali del mondo esterno, se si hanno abbastanza soldi si può vivere con lussi nemmeno immaginabili in altri istituti di detenzione, ma se non puoi permettertelo l’unica alternativa sono le stanze comuni, da 25 posti ognuna, senza nemmeno i letti. Eppure i detenuti non vogliono lasciare il carcere, si oppongono alla sua chiusura e a volte decidono di rimanere anche dopo aver scontato la propria pena: per molti il carcere è - o è diventato - l’unica alternativa di vita, dove poter lavorare, vivere dignitosamente con la famiglia e, in alcuni casi, anche arricchirsi. Se molti scelgono la via dell’onestà e decidono di aprire una bottega all’interno del carcere, altri approfittano del fatto di vivere, di fatto, nell’unico posto in Bolivia dove la polizia non può arrivare e si dedicano quindi ad una delle attività più proficue della prigione: la sintesi e la distribuzione della cocaina. In Bolivia la produzione e il consumo della coca non è illegale, ma la raffinazione in cocaina è invece severamente punita. All’interno del carcere di San Pedro esistono però le “cucine”, dei laboratori improvvisati, chiusi a chiave con grossi lucchetti e guardati a vista, dove alcuni detenuti si dedicano ad un’incessante attività di produzione di cocaina. La distribuzione è spesso affidata ai bambini, che la nascondono negli zaini quando vanno a scuola la mattina. Alcuni dicono, forse non senza ragione, che un traffico di questa entità non potrebbe avvenire senza il tacito consenso del personale giudiziario. Il carcere di San Pedro ha quindi la capacità di far parlare di sé, nel bene o nel male: estraneo ad ogni definizione nota, è l’unico caso al mondo a sfuggire completamente al dibattito (attualissimo anche in Italia) sull’utilità e la missione di ogni struttura carceraria, tra i sostenitori di un carcere riabilitativo e quelli invece di una prigionia punitiva. San Pedro è un terzo polo, una forma di allontanamento dalla società ma non di isolamento, un modo per dire: “non potete certo vivere nella nostra società civile, vediamo come ve la cavate nella vostra”.