Giustizia: storia di Giovanni, da delinquente a maestro di violini di Carlo Michele Izzo www.ilsussidiario.net, 2 luglio 2013 A 18 anni si ha la testa calda. Rovente. E avevo il vizio di cacciarmi nei guai. Ora ne ho 31. Gli ultimi 7 li ho passati qui. Al fresco. D’inverno tanto freddo, d’estate caldissimo. La media? Fresco. Sono albanese emigrato per cercare fortuna. Come tanti di noi, partiti su barconi o alla bell’e meglio in cerca di una sperata facile fortuna. Avevamo la tv. Tutto ci sembrava a portata di mano. A 18 anni e con un fisico possente, la vita è facile. È automatico. E così sono finito in Germania dove avevo i parenti. Ho provato a cercare lavoro. Nulla. Eppure in giro vedevo belle donne, belle macchine che non potevano essere mie. Era tutto come in televisione. Ma era tutto reale. E non era mio. E non era facile. Ed è così che sono finito in Italia a cercare una vita migliore. Ma io volevo tutto e subito. Ho iniziato qualche lavoretto ed ero capace. Son fortunato ad avere grandi doti manuali. Ma la vita era dura. Quel poco che portavo a casa mi bastava per sostenere me e qualche parente che avevo qui a Milano. Tanti albanesi sono emigrati negli ultimi 30 anni e dappertutto si trova un parente. I miei parenti mi vogliono bene. Nonostante tutto. Nonostante il fatto. Quel dannato fatto. Io avevo il minimo. Ma almeno c’era. Ma io volevo di più. Volevo le belle macchine, le belle donne, i bei soldi. Apparentemente facili. Per uno che ha 23 anni è forte come un leone e domani? Il domani non esiste. Si è invincibili. O si crede di esserlo. Fino a quando una mattina, alle 5 precise, ti bussano alla porta con il mitra spianato. E un mandato di cattura con allegate le manette. Ed è in quel momento che ti svegli e scopri che la vita non è essere in tv. Sei sballottato a destra, sinistra, prima a San Vittore in attesa di giudizio e poi, dopo qualche mese ti ritrovi dove ti han dato la pena definitiva. A me è toccato Opera e la pena di 15 lunghi anni. In cella con una brava persona. La cella è piccola e ci si abitua. Il corridoio della sezione è lungo 50 metri e lo si fa avanti e indietro per 1000 volte. Tutti brutti musi. Che parlano dei propri reati. Tutto il giorno. Per me è una malattia: si chiama Carcerite. Ma anche a quello ci si abitua, o meglio, ci si fa il callo e si cerca di non aver da dire con nessuno e di portare rispetto. Tenersi lontani dai problemi non è facile ma è essenziale. È un gioco di equilibri. 100 persone in un corridoio tutto il giorno in celle da 2 delle dimensioni 3 metri per 2 e mezzo. È durissima ma la pazienza si impara. Giorno per giorno. Il giorno, appunto. Duro ma pur sempre giorno. Ma alla sera arriva la notte. Alla notte non ci si abitua. La notte non finisce mai. La notte. Carica di pensieri. Carica di ossessioni. Di ricordi. Di pentimenti. allora sei lì nel buio. Ti viene da piangere. Vorresti spaccare tutto. Vorresti spaccarti la testa per fare uscire i mostri. Quante volte la notte ho preso lo sgabello e la cintura. Quante volte guardando le sbarre ho voluto farla finita. Ho desiderato morire più di ogni altra cosa. Appendermi e lasciarmi cadere giù. E alla fine ci ho provato con la cintura dell’accappatoio. L’ho legata stretta stretta alle sbarre più alte della finestra. Son salito sullo sgabello e mi sono lasciato andare. Ma il destino è beffardo. E la cintura ha ceduto. Pesavo troppo forse. 120 kg. Una palla. Beh, il peso mi ha salvato la vita. O forse non è ancora il tempo per la mia morte. Lì per lì, dopo la botta mi son messo a ridere. Era un pianto e un riso isterico. Ero felice di esserci ancora. Ed è in quel momento che mi è cambiata, per la prima volta, la vita. Ho iniziato a guardarmi intorno stranito. Sì, stranito. Questo dove sono è il mio mondo. Lo devo accettare. Non ci si può rifiutare ad oltranza. Non è il mondo degli altri. È il mio mondo. E se questo è il mio mondo io voglio che sia migliore. Voglio essere io migliore. E allora per prima cosa mi son dato delle regole serie e severe per evitare di lasciarmi andare. Dopo la sveglia si pulisce la cella. La si pulisce bene. In ogni angolo. E la pulizia deve essere minuziosa. Fase 2 lettura. Ho iniziato a leggere, in italiano. Dapprima libri semplici, poi sempre più complessi, così da arricchire il mio bagaglio di vocaboli. Il tutto deve essere scandito temporalmente da un rigore che io non ho. Ma deve essere così. Così come la palestra. Addominali, fino a 2000 al giorno. Bilancieri e pesi per le braccia. Corsa. Certo, la corsa ha un che di ironico perché correre in cerchio per un’ora nei 10 metri per 10 di cemento assomiglia di più al movimento della trottola. Ma questa è l’aria. Per noi è il mondo, il posto dove giocare a palle di neve come la spiaggia dove sdraiarsi a prendere il sole d’estate sulle nostre stuoiette e i nostri auricolari. C’è chi l’”aria” non la fa da anni. Ma qui ognuno è una piccola meteora. Bisogna pensare al proprio bene. È troppo il male per non lasciarsi tirar dentro. Ho imparato a tenermi lontano dalle tentazioni. Pochi e selezionati conoscenti. Nessun amico. Conoscenti è il termine giusto. Quelli con cui ti scambi i favori. Tu tagli i capelli a me e io ti regalo qualche sigaretta. Io ti aggiusto gli occhiali e tu mi presti del sugo. Poche piccole cose. E un solo desiderio: che il corpo sia in carcere, ma la mente sia fuori. Perché qui ammalarsi di ossessioni è un virus che va tenuto lontano con tutte le proprie forze. E allora? Lavoro! Bisogna cercare un lavoro all’interno del carcere. Così la sera si crolla dal sonno e il cervello si spegne. Clic. L’interruttore si spegne ed è un giorno in meno di carcere. Ed è così che ho iniziato a rompere le scatole alle guardie per poter lavorare all’interno del carcere. Il compenso è di 200 euro al mese ma è un compenso. E un lavoro è un lavoro. Si comincia con il fare lo scopino. Non è il massimo delle mansioni ma pulire scale, salette, corridoi e sezioni ha una sua dignità. Son passato poi a fare lo spesino. Tutte le mattine ai piani per portare la spesa ai detenuti perché, come molti non sanno, non esiste la mensa come nei film americani: esiste la spesa fatta settimanalmente con una scheda da compilare con cura. C’è stato il periodo in cui l’ascensore era rotto. Un trimestre abbondante. Beh. Diciamo che la palestra la facevo da me. E i giorni passavano. A volte da fuori non ci si rende conto che il nostro mondo, è come un acquario. Tutto è sospeso. I tempi sono eterni e i giorni non passano mai. Manca la gravità dei cellulari, delle famiglie, delle impellenze, delle mille cose da fare. Qui è un attimo morire. E io, dopo la disavventura con l’accappatoio, mi son svegliato. Ora peso 80 kg e 3 anni fa mi è successo il vero miracolo. Un’altra caduta. Che bella caduta! Mi è capitato, tra una cosa e l’altra, un foglio con la possibilità o meno di iscrivermi a un corso per diventare maestro costruttore di violini. Era un corso promosso da una cooperativa scalcagnata ma il corso era vero! Cinque anni di corso con la realizzazione di violini Veri, per il Conservatorio, quello Vero. I cinque anni non mi preoccupavano. Il mio fine pena è molto lontano. Mi agitavano solo le selezioni. Che ho superato. I primi giorni, con i maestri Cremonesi, era più l’agitazione che altro. Certo, di maestri ne abbiamo cambiati 5. Perché? Perché loro sono artisti e qui siamo in carcere. Qui vige il rigore e il rispetto delle regole. E un artista non si trova benissimo, soprattutto se è un genio svampito. Il corso non è stato facile. Mi ha permesso di costruire 10 violini che ho presentato al conservatorio in un concerto benefico. Vedere i musicisti che suonano i tuoi violini è commovente. Ora sono diventato un intenditore raffinato e lo dico senza timore di essere smentito. Sì, perché il volantino è di 3 anni fa. Ma io ho finito la scuola di 5 anni in 2 anni e mezzo. Perché qui in carcere mi sono appassionato così tanto che mi sono voluto ammalare di questo virus, di questa ossessione. E me la sono portata in cella. Non c’era momento che non pensassi al violino, alle tecniche di scultura di pittura, ai maestri e alle correnti costruttive. E ora sono un Maestro, il corso è diventato un lavoro sostenuto da una fondazione. Tutto è così bello che ogni giorno vorrei fosse meglio di quello prima. Ogni violino vorrei fosse sempre più bello. E quando parlo con i miei compagni colleghi, ci scambiamo impressioni sul suono, sulla qualità tecnica. Ognuno si schernisce dicendo all’altro che il suo è un violino come tanti. Ma nel suo cuore sa che il suo violino è il più bello del mondo. E il prossimo sarà più bello. Ovviamente. La mattina mi sveglio sorrido, mi guardo allo specchio, apprezzo l’aria che respiro e cerco io, in primis, di essere migliore. Quando uscirò con i miei violini, i miei rudimenti di musica che sto studiando e le poesie che ho iniziato a scrivere la gente mi guarderà come un ex detenuto. Questo lo so. Ma sarò un uomo migliore. E anche questo lo so. Ora. Giustizia: da Istat e Dgm un’analisi congiunta dei dati sui minori presi in carico Ristretti Orizzonti, 2 luglio 2013 L’Istat e il Dipartimento per la Giustizia Minorile del Ministero della Giustizia hanno condotto insieme per la prima volta un’analisi congiunta dei dati sui minori presi in carico dal sistema della giustizia. Sono 20.157 i minorenni autori di reato presi in carico nell’anno 2011 dagli Uffici di Servizio Sociale per i Minorenni. Nei Centri di prima accoglienza si contano 2.343 ingressi, nelle Comunità 1.926, in Istituti penali per i minorenni 1.246. Il numero degli ingressi nei Centri di prima accoglienza nel 2011 è diminuito del 36,4% rispetto al 2001, anno in cui erano 3.685. Tale calo è sostanzialmente dovuto a una consistente contrazione degli ingressi di minori stranieri. Sono aumentati, invece, gli ingressi in Comunità (quasi il 60% in più in 10 anni) e a fine 2011 risultano 915 i minori presenti nelle Comunità, dato triplicato negli ultimi dieci anni. L’aumento riguarda sia i minori italiani che stranieri, sebbene tra gli italiani sia più consistente. Sostanzialmente stabile risulta invece il numero dei minorenni presenti negli Istituti penali negli ultimi dieci anni (494 nel 2.011), con l’eccezione della diminuzione in corrispondenza del 2006 anno dell’indulto, immediatamente recuperata. Le principali aree geografiche da cui provengono i minori stranieri segnalati dall’Autorità Giudiziaria sono la Romania, il Marocco e la Tunisia, anche se con forti differenze di genere. La maggior parte delle ragazze proviene infatti dalla Romania, dalla Croazia, dalla Bosnia Erzegovina e dalla Serbia. Più del 90% dei minori che risiedono nelle strutture della giustizia sono maschi: sono il 93,7% negli Istituti penali e il 92,2% nelle Comunità. La maggior parte dei minori presenti nelle Comunità e negli Istituti penali è detenuta in misura cautelare (64,8% del totale dei presenti in Comunità nel 2011, 60% di quelli presenti in Istituti penali per i minorenni). L’87,8% dei minori è recluso negli Istituti penali minorili da meno di un anno: il 56% da almeno tre mesi, il 18% da tre a sei mesi, il 14% da sei mesi a un anno. Solo il 4,7% vi è da più di due anni. Nel 2011 i reati contro il patrimonio hanno rappresentato il 62,4% dei reati commessi dai minori condotti nei Centri di prima accoglienza e il 54% di quelli commessi dai minori presenti nelle Comunità e negli Istituti penali minorili. Il reato più frequente per i minori detenuti negli Istituti penali minorili è la rapina (24,8%), seguito dal furto (21,2%). Gli italiani commettono più spesso degli stranieri i reati connessi agli stupefacenti: per i ragazzi presenti nelle Comunità la percentuale è pari a 14,1% per i primi contro il 7,3% dei secondi. Alla fine del 2011 l’indice di affollamento è pari a 96 su 100, ma in alcune sedi la presenza di detenuti supera la capienza effettiva: Treviso (183), Catanzaro (153), Torino (124) e Catania (115). Stabili presenze in carcere ultimi 10 anni (Ansa) Risulta essere sostanzialmente stabile il numero dei minorenni presenti negli Istituti penali negli ultimi 10 anni (494 nel 2.011), con l’eccezione della diminuzione in corrispondenza del 2006 anno dell’indulto, immediatamente recuperata. Lo rende noto l’Istat con il suo report “I minorenni nelle strutture della giustizia”, relativo al 2011. Le principali aree geografiche da cui provengono i minori stranieri segnalati dall’Autorità Giudiziaria sono la Romania, il Marocco e la Tunisia, anche se con forti differenze di genere. La maggior parte delle ragazze proviene infatti dalla Romania, dalla Croazia, dalla Bosnia Erzegovina e dalla Serbia. I reati più frequenti tra i minori che delinquono sono quelli contro il patrimonio (62,4%). Il 24,8% dei detenuti negli istituti penali minorili ha compiuto rapine, il 24,8% furti. Lo rileva l’Istat che in collaborazione con il Dipartimento per la Giustizia minorile, ha condotto un’analisi congiunta sui minori presi in carico dal sistema giudiziario. La ricerca rileva inoltre come sono più spesso i minori italiani a commettere reati connessi con la droga: 14,1% contro il 7,3% degli stranieri. Giustizia: l’Associazione Antigone presenta il Secondo Rapporto sulle carceri minorili di Vladimiro Polchi La Repubblica, 2 luglio 2013 Nei sedici istituti penali per minori ci sono 530 detenuti. L’Associazione Antigone li ha passati al setaccio, assieme alle Comunità e ai Centri di prima accoglienza: “Una buona tenuta, ma c’è chi vuole affossarli”. Non è una giustizia minore, quella che si occupa di ragazzi. Al contrario, dovrebbe essere una giustizia ancor più giusta di quella prevista per gli adulti. Oggi la presenza media nei sedici istituti penali per minori della penisola è di 530 detenuti. Ma chi sono questi ragazzi? Perché vanno in prigione? Come vengono trattati? Prova a rispondere il secondo Rapporto sulle carceri minorili dell’associazione Antigone (curato da Susanna Marietti), che può essere scaricato in formato e-book dal sito di MicroMega. I Centri di prima accoglienza. In Italia ci sono 27 Centri di Prima Accoglienza (Cpa): strutture che ospitano i minorenni in stato di arresto o fermo fino all’udienza di convalida che deve aver luogo entro 96 ore. Tra il 1998 e il 2012 l’andamento degli ingressi nei Cpa è decisamente decrescente, passandosi dai 4.222 del 1998 ai 2.193 del 2012 (calo di quasi il 50%). Diminuzione dovuta soprattutto al crollo degli ingressi dei minori stranieri, che passano dai 2.305 del 1998 ai 937 del 2012. La maggior parte dei minori entrati nei Cpa (l’85,6%) uscirà a seguito della applicazione di una misura cautelare. “A fronte della crescente pressione del sistema penale sulla nostra società - si legge nel Rapporto - il sistema della giustizia minorile sembra non cedere a questa deriva e nei Cpa ci si entra addirittura meno che in passato”. Non mancano le ombre: se tra i minori denunciati all’autorità giudiziaria nel 2010 gli stranieri erano il 35,3%, tra quanti entrano nei Cpa nello stesso anno gli stranieri sono il 39,4% (nel 2012 addirittura il 42,7%). Si segnala insomma una sovra-rappresentazione degli stranieri nei luoghi di privazione della libertà, rispetto al numero di quanti entrano in contatto con la giustizia penale. Le Comunità. Positivo anche l’andamento dei minori presso le comunità, sia ministeriali che private, passati dai 1.339 casi del 2001 ai 2.037 del 2012. Tendenza che verosimilmente ha contribuito a contenere gli ingressi in carcere. Si tratta di una tendenza che ha però coinvolto in misura assai maggiore gli italiani rispetto agli stranieri: tra i minori in comunità gli stranieri erano il 40% nel 2001 e solo il 37,1% nel 2012. La “messa alla prova”. L’istituto non rappresenta solo una alternativa al carcere, ma allo stesso processo, che viene sospeso durante la messa alla prova. Se la misura avrà buon esito, alla sua conclusione il reato verrà dichiarato estinto. Si tratta di un istituto in forte espansione, tanto che si è passati dai 788 provvedimenti del 1992 ai 3.216 del 2011. L’accesso a queste misure per gli stranieri continua però a essere più difficile che per gli italiani. Tra i soggetti messi alla prova nel 2011 gli stranieri erano solo il 17%. Gli Istituti penali. Anche negli Istituti Penali per i Minorenni (Ipm), dove avviene l’esecuzione dei provvedimenti dell’autorità giudiziaria quali la custodia cautelare o l’espiazione di pena, si registra un andamento decrescente: si passa dai 1.888 ingressi del 1988 ai 1.252 del 2012. E anche questo è dovuto soprattutto al calo degli ingressi di minori stranieri (-41,6%). Ciò detto, tra gli ingressi in Ipm, i minori stranieri sono fino al 2007 addirittura in maggioranza e in seguito rappresentano comunque una percentuale ampiamente superiore al 40%. Negli istituti del Nord e del Centro ci sono pochissimi ragazzi italiani, spesso trasferiti dagli istituti del Sud. Al contrario negli Ipm del Sud e delle isole si trovano pochissimi stranieri, anche questi spesso trasferiti dagli istituti sovraffollati del Nord. Il direttore del carcere. Cosa si fa dietro le sbarre? “Qui non abbiamo l’ora d’aria - spiega il direttore di Nisida, Gianluca Guida - il ragazzo trascorre la maggior parte del tempo fuori dalla cella. Si svegliano alle 7,30, scendono alle 8,15, fanno colazione tutti insieme dopo di che, fino alle 7 della sera, ci sono una serie di esperienze e di attività, tra cui le attività di tempo libero dalle 5 alle 7 del pomeriggio. Il regime è fondamentalmente dedicato a portare avanti tre linee di azione: formazione, istruzione e lavoro sulla persona”. Il giovane recluso. Di soli sedici anni, Giorgio ha già scontato più di un anno di reclusione a Bologna, dopo aver trascorso quattro anni in una Casa Famiglia. “Giorgio si sente sicuro in questo luogo, il Pratello di Bologna, dove fino a non molto tempo fa si sono susseguiti soprusi, violenze carnali e torture, finalmente emersi e denunciati - si legge nel Rapporto. Dopo alcuni mesi di caos all’interno della struttura la situazione si è stabilizzata con l’insediamento di un personale nuovo e capace, ma soprattutto con la voglia di cambiare e migliorare le cose”. Fortunatamente Giorgio ha vissuto poco quel periodo di sevizie, ma ne ha visto le conseguenze: “Qui si ingoiano le pile, le lamette, uno ha cercato di impiccarsi e un mio compagno di cella se l’è fatta addosso per sette mesi”. Ha anche assistito al cosiddetto “gioco della bicicletta”, con cui si manifesta il bullismo: “Mettevano la carta tra le dita dei piedi di chi dormiva e gli davano fuoco, così svegliandosi di soprassalto sembrava che facessero la bici”. A febbraio di quest’anno, Giorgio ha finito di scontare la sua condanna. Ma purtroppo, dopo neanche due mesi di libertà, è ricaduto negli stessi errori del passato e ora si trova nell’Ipm di Treviso. Forse aveva ragione lui quando diceva che “fuori è troppo difficile”. I falsi allarmi. “Dal momento dell’entrata in vigore del codice di procedura penale per minorenni nel 1988 - sostiene l’associazione Antigone - il sistema della giustizia minorile ha dimostrato una buona tenuta, resistendo alle onde dei vari allarmismi che hanno causato innumerevoli relitti nel sistema penale degli adulti. Le cronache dell’ultimo anno hanno chiarito chi sono coloro che invece vogliono smantellarlo. Molte sono state le voci inquietanti che, penalmente e amministrativamente, vorrebbero omologare la gestione dei minori a quella degli adulti. Si sono negli ultimi tempi avvicendate notizie di rivolte, di violenze nei confronti di poliziotti. Notizie divulgate spesso dal Sappe, sindacato autonomo di polizia penitenziaria, con toni di allarme. Il poliziotto, nei comunicati, è sempre vittima. Lo è nonostante non sia riuscito nel proprio ruolo, ovvero nel prevenire le risse, le violenze. Gli esiti finali di ogni comunicato stampa sono sempre gli stessi: servono più rigore e più disciplina. La polizia deve invece fare uno sforzo e accettare un cambio di paradigma nella sicurezza, non più da intendersi come marcatura stretta a uomo, magari condita da qualche forma di coazione fisica. Solo in questo modo si ridurrà il tasso di violenza”. Giustizia: i ragazzi degli Istituti Penali Minorili portano in tavola i prodotti del loro orto Ristretti Orizzonti, 2 luglio 2013 90 ragazzi e ragazze sottoposti a misure penali stanno raccogliendo, in questi giorni, il frutto della coltivazione dei loro orti nel corso del progetto di Aiab, “Ricomicio dal Bio. Orti sociali, un’opportunità per minori sottoposti a misure penali”, cofinanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Fragole, zucchine, pomodori, fagioli, melanzane e peperoni di varietà antiche e autoctone, ma anche cultivar comuni, sono il raccolto degli orti biologici, impiantati e curati dai ragazzi durante lo svolgimento dei corsi in orticoltura biologica in quattro Istituti Penali per Minorenni (due femminili e due maschili) e in due aree esterne. Sono stati coinvolti nel progetto i minori degli Ipm e quelli in misura di “messa alla prova” o affidati alle Comunità e ai Servizi Sociali della Giustizia Minorile. Il percorso si concluderà con una festa finale che prevede la preparazione di piatti con i prodotti degli orti e il coinvolgimento di altre realtà del territorio. A partecipare ai corsi negli Istituti di Palermo sono stati 11 ragazzi, 19 ad Airola (Bn), mentre a Pontremoli (Ms) e a Casal del Marmo sono stati coinvolti rispettivamente 17 e 20 ragazze. A Roma nella Comunità Itca Borgo Amigò e a L’Aquila i ragazzi in area penale esterna sono stati complessivamente 33. L’incidenza dei partecipanti, oltre al 10% sul totale dei ristretti, è particolarmente significativa, se si considera il numero complessivo dei minori reclusi in Istituti Penali che, in Italia, ammonta a circa 500 persone. L’attività ha riscontrato interesse e partecipazione attiva tra i ragazzi. Il confronto e il pieno coinvolgimento nelle attività agricole ha favorito, infatti, sia l’assunzione di responsabilità individuali che l’attitudine al lavoro di gruppo. Un’esperienza che hanno potuto raccontare, con diverse forme espressive che variano dal disegno alla scrittura. Il progetto ha coinvolto attivamente il personale dell’amministrazione penitenziaria, ma anche le aziende agricole e i volontari per favorire lo scambio dei ragazzi con l’ambiente esterno. Il progetto si propone, infatti, di costruire ponti tra dentro e fuori gli istituti per evitare che questi rimangano un mondo chiuso e a parte. Il passo successivo per Aiab sarà, dunque, quello di facilitare l’inserimento lavorativo di alcuni ragazzi formati in aziende agricole e florovivaiste, anche attraverso tirocini formativi e borse lavoro. Festa dell’Agricoltura Sociale nel bene confiscato alla criminalità organizzata Sabato 22 e domenica 23 giugno si è svolta la prima Festa Nazionale dell’Agricoltura Sociale organizzata dal Forum Nazionale Agricoltura Sociale in collaborazione con Aiab, Alpa e Cnca e con il patrocinio di Inea. L’evento ha avuto luogo a Chiaiano (Napoli) presso il fondo rustico confiscato alla camorra “Selva Lacandona - Amato Lamberti” 13 anni fa e finalmente restituito alla cittadinanza, affidato oggi in comodato d’uso alla cooperativa Resistenza. Quattordici ettari di vigneto e pescheto hanno ospitato la manifestazione che è coincisa con la tappa napoletana del Festival dell’impegno civile organizzato dal Comitato Don Peppe Diana. Hanno parteciperanno aziende agricole, cooperative sociali e realtà interessate al tema che hanno esposto e venduto i propri prodotti all’interno di stand allestiti in un corridoio tra i pescheti. Workshop, laboratori, musica, artigianato ed un mercato dei prodotti dell’Agricoltura Sociale hanno animato con successo la festa Per rispondere alla disoccupazione giovanile dell’ottava municipalità, la cooperativa Resistenza ha siglato un protocollo di intesa con il Dipartimento di Giustizia Minorile per formare e far lavorare 4 ragazzi con misure cautelari alternative alla detenzione. Domenica 22 si è svolto il convegno “Le nuove agricolture per una diversa economia” al quale hanno preso parte, tra gli altri, anche il Sindaco di Napoli Luigi De Magistris, l’onorevole Massimo Fiorio della Commissione Agricoltura della Camera, i coordinatori del Forum Nazionale Agricoltura Sociale e le realtà agricole e sociali presenti alla manifestazione. De Magistris ha sottolineato come Napoli sia una città in cui le battaglie dei cittadini hanno consentito che il territorio si trasformasse da terra della discarica a terra della ciliegia. Il bene è stato restituito ai cittadini e alle associazioni che ne hanno fatto uno spazio di dibattito, festa, produzione agricola, inserimento di giovani a rischio. Questo modo di fare economia reale con agricoltura sociale permette di contrastare il modello del capitalismo che impone uno sviluppo distorto e il consumo del territorio. Al termine dell’incontro il primo cittadino di Napoli ha piantato nel vigneto il cedro del Libano donato dalla Cooperativa Agricoltura Capodarco che rappresenta le tre R, “Ribellione, Resistenza, Riscatto” in un territorio riconsegnato ai cittadini per un uso sociale. Giustizia: al Senato di nuovo in primo piano disegno di legge sui diritti dei detenuti Ansa, 2 luglio 2013 Da oggi torna in primo piano nel ruolino di marcia della Commissione Giustizia il ddl 210 che prevede la istituzione del garante dei diritti dei detenuti. L’ordine del giorno prevede poi il seguito dell’esame del ddl 19 contenente misure per contrastare il voto di scambio e il falso in bilancio e dei disegni di legge n. 15 e congiunti in materia di unioni civili, matrimoni egalitari e uguaglianza nell’accesso al matrimonio di coppie costituite da persone dello stesso sesso. In materia le posizioni dei partiti, anche all’interno della maggioranza, continuano ad essere molto divergenti. La stessa Commissione ha avviato l’iter del ddl 110 di delega al Governo per la riforma del sistema sanzionatorio ed è stato concordato di sospendere l’esame per connetterlo all’iter del ddl di riforma della parte generale del codice penale. Devono essere ulteriormente discussi anche l’esame del ddl 362 diretto ad introdurre nel Codice Penale il reato di tortura e l’indagine sul sistema carcerario. La Giustizia, in seduta congiunta con la Affari Costituzionali, domani porterà avanti la messa a punto del ddl 116 contenente norme relative alla ineleggibilità e incompatibilità dei magistrati. Giustizia: Unione delle Camere Penali; con il decreto-carceri soltanto una riforma a metà Ristretti Orizzonti, 2 luglio 2013 Un grande viaggio inizia sempre con un primo passo, quello fatto oggi va nella giusta direzione ma è troppo timido. Il Decreto Legge emanato dal Governo è importante soprattutto perché dimostra la bontà dei rilievi e delle denunce provenienti dai penalisti italiani riguardo alla sostanziale liquidazione della legge Gozzini posta in essere dalla metà degli anni novanta in poi, abbandonando quella strada - culturalmente regressiva, giuridicamente arretrata, fallimentare dal punto di vista degli effetti sociali - che finalmente viene riconosciuta come sbagliata. Diminuendo le preclusioni ai benefici penitenziari e rafforzando alcune misure alternative, anticipandone l’applicazione quando possono evitare l’ingresso in carcere (quest’ultima è una specifica elaborazione scientifica delle Camere Penali), le norme licenziate oggi si iscrivono in un complessivo ripensamento degli indirizzi fin qui mantenuti ed assolvono ad una duplice funzione: da un lato rafforzano il fine di reinserimento sociale dei condannati attraverso un utilizzo meditato della sanzione detentiva, finalmente iniziando una revisione critica sulla impostazione carcerocentrica del sistema penale, d’altro lato prendono atto che è il rafforzamento delle misure alternative alla detenzione in carcere, e comunque dei benefici penitenziari, a produrre, con il crollo delle percentuali di recidiva, il maggior vantaggio complessivo per la società. Non si tratta, dunque, di svuotare le carceri dai colpevoli, ma di operare perché esse non continuino a riempirsi. Ma il decreto odierno non è assolutamente sufficiente. Oggi il Governo aveva finalmente l’occasione per voltare pagina, secondo una visione finalmente moderna dell’esecuzione penale, che non indebolisce bensì rafforza la sicurezza collettiva, ma questa scelta doveva essere perseguita con maggior determinazione, senza cedere a suggestioni e ricatti demagogici dei forcaioli vecchi e nuovi, i quali giocano sulla ignoranza dei dati criminologici per meri interessi elettorali. E questo, purtroppo, è accaduto, atteso che le versioni del Decreto Legge che si sono susseguite in questi giorni hanno perso per strada sia il rafforzamento della liberazione anticipata, sia una decisa modifica dell’art 4 bis dell’ordinamento penitenziario (da abrogare o quantomeno ridimensionare, mentre invece è stato addirittura arricchito di una ulteriore preclusione oggettiva, in maniera contraddittoria rispetto alla filosofia del provvedimento), sia l’applicazione anticipata e provvisoria dell’affidamento in prova al servizio sociale. Questa rischia di essere una riforma a metà, per cui sarà fondamentale recuperare l’originaria impostazione nel dibattito parlamentare in sede di conversione. Occorrerà che le forze parlamentari dimostrino lungimiranza e coraggio, con una vera e propria operazione culturale che determini un deciso mutamento di rotta in tema di esecuzione penale. Giustizia: Radicali; oltre le scelte “tecniche”, torni in campo politica con dibattito pubblico di Rodolfo Viviani (Direzione Nazionale di Radicali Italiani) Ristretti Orizzonti, 2 luglio 2013 Siamo convinti che un provvedimento di Amnistia e di Indulto debba partire da un grande dibattito politico - finora negato agli italiani, grazie innanzitutto alle violazioni di legge da parte della Rai Tv - che consenta di trovare le migliori soluzioni per chiudere un ventennale capitolo di sfascio della Giustizia italiana, permettendo ai cittadini di recuperare garanzie, diritti e fiducia nelle Istituzioni. Trincerarsi dietro un paravento “tecnico”, per evitare di affrontare i nodi fondamentali del malfunzionamento della Giustizia, con le tragiche ricadute sul mondo penitenziario, fatto di sovraffollamento, mancanza di cure mediche, tortura e suicidi, non favorisce tutto questo. Col Decreto Legge sulle carceri il Governo ha perso l’occasione di affrontare i temi cruciali che determinano lo status quo, come la legge sulle droghe, quella sulla immigrazione e la custodia cautelare, oggetto di Referendum Radicali sui quali è in corso la raccolta delle firme. Chiediamo al ministro Cancellieri di farsi guidare dall’ “imperativo categorico” di rispetto della Costituzione italiana e di adottare tutte le misure necessarie per riportare il nostro Paese ad un prestigio internazionale ormai perduto, essendo l’Italia “maglia nera” del Consiglio d’Europa, con il più alto numero di sentenze di condanna emesse dalla Corte di Strasburgo, innanzitutto per le violazioni dei diritti umani fondamentali. Se non sarà il Governo a prendere l’iniziativa ci penseranno i cittadini italiani attraverso i Referendum popolari. Giustizia: Sappe; l’amnistia da sola non risolve le criticità del settore penitenziario Adnkronos, 2 luglio 2013 “Bene ha fatto il Guardasigilli, Annamaria Cancellieri, oggi a Milano, a sottolineare come provvedimenti di clemenza come l’amnistia e l’indulto sono atti che appartengono al Parlamento. Questo continuo sollecitare il Guardasigilli su provvedimenti di clemenza è sbagliato, oltre che improprio”. È quanto afferma Donato Capece, segretario generale del Sappe, sottolineando che “l’emergenza carceri è sotto gli occhi di tutti e servono necessariamente adeguate strategie di intervento. L’amnistia, da sola, non è il provvedimento in grado di porre soluzione alle criticità del settore”. “Servono vere riforme strutturali sull’esecuzione della pena -rimarca il leader dei baschi azzurri del Sappe - riforme che non vennero fatte con l’indulto del 2006, che si rivelò un provvedimento tampone inefficace del quale però beneficiarono quasi 36mila soggetti, 29mila dei quali uscirono dalle carceri. Il sovraffollamento degli istituti di pena è una realtà che umilia l’Italia rispetto al resto dell’Europa e costringe i poliziotti penitenziari a gravose condizioni di lavorò’. Capece sottolinea come sia “giunto il tempo che la classe politica rifletta seriamente sulle parole spesso dette dal Capo dello Stato sulle criticità penitenziarie e si intervenga quindi con urgenza per deflazionare il sistema carcere del Paese, che altrimenti rischia ogni giorno di più di implodere. Il personale di Polizia Penitenziaria è stato ed è spesso lasciato da solo a gestire all’interno delle nostre carceri moltissime situazioni di disagio sociale e di tensioni, 24 ore su 24, 365 giorni all’anno”. Giustizia: Osapp; no alla chiusura della scuola di Polizia penitenziaria di Aversa Agi, 2 luglio 2013 “Già sapevamo della scarsa importanza dell’Amministrazione penitenziaria negli interessi e nei giochi di potere presso il Ministero della Giustizia, ma mai ci saremmo aspettati che ciò comportasse la chiusura di una importantissima struttura formativa della Polizia Penitenziaria quale la Scuola di Aversa” a dichiararlo in una nota è il Leo Beneduci segretario generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria). “Purtroppo - prosegue il sindacalista - la Scuola di Polizia Penitenziaria di Aversa, unica struttura formativa tuttora funzionante della Polizia Penitenziaria nel Sud, se si esclude analoga struttura in San Pietro Clarenza (Ct), è situata in quel Castello Aragonese scelto quale nuova sede del Tribunale di Napoli Nord nei cui confronti il Csm e la Guardasigilli Cancellieri hanno espresso il proprio consenso”. “Eppure - conclude Beneduci - a parte la consolidata assenza dell’Amministrazione penitenziaria centrale rispetto ai reali interessi della Polizia Penitenziaria e senza voler tenere conto delle crescenti e concomitanti proteste persino dell’avvocatura, la Guardasigilli Cancellieri, per propria storia professionale dovrebbe una diversa consapevolezza del significato della presenza di una Scuola di Polizia in un territorio ad alta densità camorristica e delinquenziale”. Giustizia: strage di Bologna, i familiari delle vittime “Arrivare ai mandanti è possibile…” di Antonella Beccaria Il Fatto Quotidiano, 2 luglio 2013 L’associazione ha diffuso il manifesto per il 33esimo anniversario della tragedia del 2 agosto 1980: “La verità è a portata di mano”. La commemorazione si svolgerà come da tradizione in piazza delle Medaglie d’Oro. “Oggi arrivare ai mandanti è possibile”. Lo si leggerà nei prossimi giorni sui muri di Bologna, all’interno degli spazi autorizzati per l’affissione dei manifesti che ricordano il 33esimo anniversario della strage alla stazione del 2 agosto 1980 che fece 85 morti e 200 feriti. A sostenerlo è l’associazione tra i familiari delle vittime che, in vista dell’ormai tradizionale commemorazione in piazza delle Medaglie d’Oro, aggiunge che “la verità è a portata di mano”. E che altrettanto a portata di mano sarebbe dunque quel pezzo di verità giudiziaria sempre mancato ai processi celebratisi nel corso del tempo. A farlo ritenere sono vari elementi, molti qui quali già al vaglio della magistratura bolognese. La seconda assoluzione di Christa Fröhlich Non ha fatto parte del gruppo del terrorista Carlos. La prima novità è questa e giunge dalla Francia, dove nei giorni scorsi si è concluso il processo d’appello al venezuelano Ilich Ramirez Sanchez, conosciuto con il soprannome che richiama il protagonista di un romanzo di Frederick Forsyth, condannato per la seconda volta all’ergastolo per quattro attentati commessi tra il 1982 e il 1983 a Parigi (in rue Marbeuf), sul treno che dalla capitale viaggiava verso Tolosa, alla stazione marsigliese di Saint-Charles à Marseille e sul convoglio ad alta velocità Marsiglia-Parigi. Con lui era imputata anche la oggi settantenne tedesca Margot Christa Fröhlich, accusata di avere collaborato con Carlos e con il suo gruppo. Ma per lei, come già in primo grado aveva stabilito il tribunale francese, è giunta una nuova assoluzione. Questo nuovo verdetto potrebbe costituire un elemento utile al fascicolo su cui sta lavorando la procura di Bologna, che a inizio dell’estate 2011 aveva iscritto la donna, ex estremista di sinistra, nel registro degli indagati con l’accusa di aver partecipato alla strage del 2 agosto 1980. Oltre a lei, nel mirino degli inquirenti emiliani era finito anche un altro militante tedesco, Thomas Kram, entrambi ritenuti vicini al terrorista venezuelano Più nello specifico l’ambito è quello della cosiddetta pista mediorientale, quella che avrebbe trovato ragione dell’attentato di Bologna in una ritorsione per la violazione del lodo Moro, l’accordo tacito in base al quale i palestinesi avrebbero potuto condurre nella penisola le loro attività di liberazione senza arrecare danni a cittadini italiani. Ma il tutto, se calato in un possibile ruolo avuto da Carlos, con cui secondo alcune ricostruzioni i due tedeschi si sarebbero incontrati nei giorni successivi alla strage trovandosi a Berlino, troverebbe una base più fragile dopo la seconda assoluzione francese di Fröhlich. I memoriali dell’associazione vittime Sono due e sono stati depositati in procura tra il 2011 e il 2012. In totale si tratta di centinaia di pagine (quasi 900 se si considerano entrambi i testi) e la loro stesura è stata curata dal team legale che assiste l’associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione. Il frutto di quel lavoro, a cui non è escluso ne seguano altri, si basa sull’analisi di molteplici processi: non solo quello per la bomba del 2 agosto 1980, giunto a sentenza definitiva nel 1995 con la condanna degli ex neofascisti dei Nar (Nuclei Armati Rivoluzionari) Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini per l’attentato, e di ufficiali del Sismi (il generale Pietro Musumeci e colonnello Giovanni Belmonte), oltre a Licio Gelli e a Francesco Pazienza, per i depistaggi. I procedimenti presi in considerazione dell’associazione vittime hanno compreso percorsi che partono dalla strage di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 fino alle bombe del 1993 passando per gli atti depositati per processi come l’omicidio del presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980) e per i tentati colpi di Stato degli anni Settanta (dal golpe Borghese del 1970 a eventi successivi, come quelli di Edgardo Sogno e della Rosa di Venti). Il tutto compreso poi da documenti che riguardano Gladio, i Nuclei di difesa dello Stato e le basi siciliane che a propria volta di legano a delitti eccellenti, come l’omicidio di Mauro Rostagno (26 settembre 1988) e del sottufficiale del Sismi Vincenzo Licausi (12 novembre 1993). Uno sforzo monumentale, su cui il pubblico ministero della procura di Bologna Enrico Cieri, sta ancora lavorando e che indica una linea di collegamento tra tutti questi fatti, solo in parte già messi in relazione nell’inchiesta e poi nel processo ter per la strage bresciana di Piazza della Loggia (28 maggio 1974). Relazioni che chiamano in causa, secondo uno schema “classico” della strategia della tensione, le basi atlantiche del nord est, frequentate dai vertici del disciolto (nel 1973) movimento neofascista Ordine Nuovo. Sul cui ruolo, dopo le assoluzioni di alcuni dei suoi leader nei precedenti procedimenti, si invita la magistratura a indagare di nuovo perché qui potrebbe esserci il filo che conduce più su, a chi gestì l’ordine politico per l’attuazione delle stragi e poi, in crescendo, fino a chi diede l’ordine di uccidere 85 persone. I depistaggi preparati con 5 mesi d’anticipo Altro elemento su cui punta l’associazione è quello dei depistaggi. Che sono diversi, in parte inediti secondo i parenti delle vittime, rispetto a quelli che hanno già portato a precedenti condanne. In base all’analisi effettuata, infatti, alcuni di questi depistaggi furono preparati mesi prima della strage. Secondo loro, si deve tornare indietro di almeno 5 mesi, al marzo 1980, quando all’interno del Sismi, ai tempi diretto dal generale piduista Giuseppe Santovito, venne preparato un piano per gettare fumo negli occhi agli inquirenti. Era quello che chiamava in causa l’ordinovista Marco Affatigato, a cui una telefonata di rivendicazione dei Nar avvenuta 35 giorni prima della strage alla stazione già attribuiva la responsabilità (risultata falsa) di un’altra strage, quella di Ustica, verificatasi il 27 giugno 1980 sul Dc9 Itigi dell’Italia in volo da Bologna a Palermo. In base all’ipotesi presentata da Paolo Bolognesi, presidente dell’associazione vittime e deputato, la prima rivendicazione fu un errore e fu ripetuta il 2 agosto 1980 “perché c’era chi negli apparati dello Stato sapeva che qualcosa si andava preparando a Bologna e forse commise un errore”. Ipotesi, questa, che troverebbe conferma nelle parole di un ex ordinovista che, sentito per la strage di piazza di Loggia, disse di aver saputo da un suo camerata che della preparazione dell’attentato alla stazione, nell’inverno 1980, era stato messo a conoscenza in confessione un sacerdote, don Mario Bisaglia, parroco di Rovigo. Fratello del più noto ministro Antonio, che ne sarebbe stato informato pur senza violare i termini del sacramento, venne ucciso nell’agosto 1992 e gettato in un lago del Cadore, vicino a Dolmegge, nel Bellunese. Se quel delitto a tutt’oggi irrisolto è stato archiviato perché opera di ignoti, secondo l’associazione vittime di Bologna potrebbe essere riletto: il religioso sarebbe stato zittito nel momento in cui, annullate nel 1992 le assoluzioni in appello per gli imputati della strage del 1980 (il processo di secondo grado si doveva rifare, sentenziò la Cassazione), avrebbe avuto intenzione di chiedere la dispensa papale dal vincolo della confessione. E Giovanni Paolo II, nel periodo della morte di don Bisaglia, proprio in quella zona si trovava. Giustizia: il boss Riina; fu lo Stato a venire da me per trattare di Salvo Palazzolo La Repubblica, 2 luglio 2013 Lo show del boss: “Io andreottiano da sempre, ma nessun bacio. Il mio arresto colpa di Provenzano”. “Io non ho cercato a nessuno, erano loro che cercavano me”. Il boss Totò Riina torna a lanciare messaggi sibillini. Questa volta, sulla trattativa Stato-mafia. E sono messaggi clamorosi, perché finiscono per confermare le dichiarazioni del supertestimone della procura, Massimo Ciancimino. Dice Riina: “A me mi hanno fatto arrestare Bernardo Provenzano e Vito Ciancimino, e non come dicono i carabinieri”. Il boss ha parlato per ben due volte con gli agenti della polizia penitenziaria: il 21 maggio, nella sua cella del carcere milanese di Opera, mentre stava prendendo alcune medicine; poi, il 31 maggio, durante il trasferimento nella sala delle videoconferenze, per assistere a un’udienza del caso trattativa. Adesso, queste parole sono finite agli atti del processo di Palermo, perché secondo i pm Di Matteo, Del Bene e Tartaglia costituiscono la conferma che un dialogo fra Stato e mafia ci fu per davvero durante le stragi del 1992-1993. Riina tiene però a precisare: “Del papello non so niente, mai visto”. E poi torna a cavalcare un suo vecchio cavallo di battaglia: “I servizi segreti”. Li chiama in causa per la strage di Capaci: “Io sono stato condannato, ma a me voi mi vedete confezionare la bomba di Falcone? Brusca non ha fatto tutto da solo - dice il capomafia agli agenti - c’è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale per l’agenda rossa”, aggiunge. “Avete visto cosa hanno fatto? Perché non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l’agenda? In via d’Amelio c’erano i servizi - ribadisce Riina - si trovavano a Castello Utveggio e dopo cinque minuti dall’attentato sono scomparsi, ma subito si sono andati a prendere la borsa”. Dei servizi segreti in via d’Amelio e del castello che sovrasta Palermo Riina aveva già detto tre anni fa ai magistrati di Caltanissetta. Adesso, il boss cita per la prima volta l’agenda di Borsellino e il carabiniere fotografato mentre cammina con la borsa del magistrato, sul luogo della strage: si tratta del capitano Giovanni Arcangioli, indagato e poi prosciolto per il furto dell’agenda. È un Riina show quello raccontato nelle cinque pagine della relazione stilata da due agenti della penitenziaria. “Sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse”, dice il capomafia: “Com’è possibile che sono responsabile di tutte queste cose?”. E si lancia in un’appassionata autodifesa: “Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell’area andreottiana da sempre”. Non finisce qui. “Appuntato, ha visto? Sono ancora un orologio svizzero, anche se mi sono fatto vecchio”. È il Riina di sempre che parla, come nella sua prima uscita pubblica, nel 1994 (un anno dopo l’arresto), al palazzo di giustizia di Reggio Calabria: quella volta, attaccò “i giudici comunisti”. Ora dice: “La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. E scaricano ogni responsabilità sui mafiosi”. Il boss tiene a precisare: “La mafia, quando inizia una cosa, la porta a termine, assumendosi tutte le responsabilità”. Aggiunge: “Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura”. Un ultimo riferimento è per Provenzano, il compagno di cinquant’anni di delitti: Riina l’ha sempre difeso, replicando a chi avanzava il sospetto di un suo coinvolgimento nell’accordo Ciancimino-Ros. Eppure, nel 2003, lo stesso Riina aveva detto a Firenze, al processo per il fallito attentato allo stadio Olimpico: “Qualcuno ha trattato con lo Stato la mia cattura?”. Oggi, accusa senza mezzi termini Provenzano. E dice: “Io glielo dicevo sempre a Binnu di non mettersi con Ciancimino”. Al momento, i pm non sembrano avere alcuna intenzione di interrogare Riina. Anche perché lui ha ribadito agli agenti: “Con i magistrati non ci parlo, e non voglio avere niente a che fare con loro”. Sono stati invece ascoltati i due poliziotti che hanno stilato la relazione di servizio. A Palermo, è arrivata anche una nota del direttore di Opera, Giacinto Siciliano. Dice: “Le ripetute e ravvicinate affermazioni di Riina appaiono anomale rispetto a un atteggiamento che da sempre l’ha contraddistinto, di riservatezza nell’approccio con gli operatori tutti”. Il direttore non esclude alcuna ipotesi: “Detta loquacità potrebbe avere un preciso significato quanto essere riconducibile a un deterioramento cognitivo legato all’età”. Ma gli agenti scrivono: “Quel giorno Riina era assolutamente lucido, cosciente, padrone di sé e ha scandito quelle frasi perché noi le sentissimo chiaramente”. La mattina del 31 maggio, Riina si sentì male e vomitò nella sala delle videoconferenze. Per il processo trattativa è un momento importante. Giovedì, la corte d’assise presieduta da Alfredo Montalto deciderà se il caso debba restare a Palermo, o andare a Roma, come chiedono i legali dell’ex ministro dell’Interno Mancino, in questo processo imputato assieme a Totò Riina. Giustizia: se il capo dei capi all’improvviso diventa loquace di Attilio Bolzoni La Repubblica, 2 luglio 2013 Sarà pure vecchio ma non prendiamolo per scemo l’uomo che ha fatto tremare l’Italia. Se parla, significa che ha il suo tornaconto. Se Totò Riina ha detto quello che ha detto, vuol far sapere che lui ancora c’è. E che vuole “entrare” - e non da comparsa - dentro il processo sulla trattativa fra Stato e mafia. È un avviso ai naviganti in puro stile corleonese: state attenti, so tutto, mi ricordo tutto, posso dire tutto. Di ricatti il capo dei capi di Cosa Nostra se ne intende e ha colto quest’inizio del dibattimento di Palermo - in video conferenza non si è perso neanche un secondo delle tre udienze fin qui celebrate - per presentarsi sulla scena dopo un lungo silenzio. Dentro quelle sue frasi ci sono almeno tre messaggi. Il primo non ha nulla di misterioso. Senza giri di parole Riina informa, a proposito degli incontri con i carabinieri al tempo delle stragi, che “io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me”. Se da un punto di vista strettamente processuale questa è un’evidente conferma alle tesi dell’accusa, da un punto di vista storico il boss non ci rivela niente di nuovo o sconvolgente: in ogni trattativa fra Stato e mafia non è mai stata la mafia a intavolare negoziati ma al contrario sempre lo Stato italiano. Il secondo messaggio che ci consegna è molto più duro e anche inquietante per gli equilibri di Cosa Nostra. Per la prima volta dopo più di 60 anni Totò Riina rompe il sodalizio con il suo complice di una vita, Bernardo Provenzano. Lo accusa di averlo “venduto” ai carabinieri (in combutta con l’ex sindaco Ciancimino) e smentisce la ricostruzione ufficiale dei reparti speciali dell’Arma (quelli del 1993) che in verità sapeva di raggiro già qualche giorno dopo la sua cattura. L’affermazione di Riina non potrà non avere “conseguenze” nel mondo mafioso, quello che ha preso in eredità i destini di Cosa Nostra. Terzo messaggio: il vecchio boss che confessa la sua fede “andreottiana”. Annuncia a qualcuno che lui è sempre stato vicino al potere, che a quel potere è stato fedele e che lo è ancora nonostante “magistrati e politici che si sono coperti fra di loro... e scaricano ogni responsabilità sui mafiosi”. Poi parla della scomparsa dell’agenda rossa di Borsellino, della sua indisturbata latitanza (altro messaggio agli apparati polizieschi), di Giovanni Brusca che “non ha fatto tutto da solo” a Capaci. È un sasso lanciato nella palude. Vedremo se continuerà con i suoi giochetti. Intanto il direttore del carcere di Opera si è affrettato a relazionare su questa loquacità di Riina, sostenendo che “potrebbe avere un preciso significato quanto essere riconducibile a un deterioramento cognitivo legato all’età”. I medici legali assicurano che è lucidissimo. E così pure gli agenti penitenziari che hanno raccolto il suo sfogo. Una volta si diceva: i mafiosi non parlano e se parlano non sono mafiosi ma pazzi. Qualcuno ci vorrebbe far credere che si è improvvisamente rincoglionito anche Totò Riina? Lettera: Margherita Hack, la stella rossa degli uomini ombra di Carmelo Musumeci (Carcere di Padova) Ristretti Orizzonti, 2 luglio 2013 L’amore è il solo fiore che sboccia e cresce senza l’aiuto delle stagioni. (K. Gibran). Questa mattina quando mi sono svegliato ed ho aperto gli occhi, come faccio sempre, mi sono domandato: per chi? A che? Come? Perché continuare a scontare la mia pena che non finirà mai? E non è da vigliacchi vivere ancora? Per un attimo mi è venuta subito voglia di richiudere gli occhi per addormentarmi di nuovo. A volte penso che in tanti anni di carcere ho messo tanto entusiasmo nel cercare di studiare, cambiare, crescere interiormente per diventare una persona migliore. E a volte mi capita di pensare che abbia fatto tutto questo solo per poi morire murato vivo in una cella di un carcere. Ad un tratto ho pensato che non posso fare altro che vivere il presente, sopravvivere al passato e maledire il futuro. E poi mi sono alzato, ho acceso la radio e ho ascolto la brutta notizia della morte di Margherita Hack. Grandissima donna e scienziata, impegnata nel sociale. E in prima linea nella difesa dei diritti civili. Prima firmataria per l’abolizione della pena dell’ergastolo sul sito www.carmelomusumeci.com insieme a Umberto Veronesi, Don luigi Ciotti, Stefano Rodotà, Agnese Moro, Gino Strada, Giuliano Amato, Andrea Camilleri e molti altri. Il nome di Margherita mi ricordava spesso che da bambino i fiori che mi piacevano più di tutti erano proprie le margherite. Le raccoglievo spesso nei campi. E quando andavo a trovare la mia bambina-fidanzata strappavo un petalo per volta sussurrando al mio cuore: “Mi ama o non mi ama?”. Una volta glielo avevo raccontato a Margherita Hack. E poi le avevo chiesto se mi faceva una prefazione a uno dei miei libri. Lei aveva subito accettato. Ed è stata una delle più belle prefazioni che abbia mai avuto: - Catturato dagli uomini. Legato a una slitta. Frustrato a sangue. Zanna Blu fugge. Viene ripreso. Ferito. Ma sempre risorge. Quasi immortale. (...) Sono racconti che insegnano il coraggio, l’amore per la libertà, l’amore disperato per la compagna, scritti in maniera semplice, senza retorica. Grazie a questa sua capacità di esprimere i suoi sentimenti, Carmelo Musumeci si ricostruisce una vita spirituale libera, che vale la pena di essere vissuta e che trasmette al lettore, bambino o adulto che sia una profonda umanità. Sono favole, ma favole che fanno riflettere. Margherita Hack sugli ergastolani aveva scritto: “Gli uomini ombra, invisibili e dimenticati da tutti, morti viventi, perché irreali come l’ombra, ma così forti nell’amicizia”. Questa notte la luna e stelle piangeranno insieme agli uomini ombra. Domani notte invece gli ergastolani ostativi, dalle sbarre delle loro finestre, le sorrideranno perché vedranno nel cielo una nuova stella. E sarà quella della Stella Margherita, che continuerà dall’universo a dare luce e calore alle nostre ombre. Buona morte/vita Stella Margherita. Continuerò a volerti bene, mentre Zanna Blu continuerà a ululare alla luna per te. Abruzzo: le Colonie agricole, per risolvere il problema del sovraffollamento carcerario Il Centro, 2 luglio 2013 La proposta viene dagli avvocati della regione e indirizzata alla Regione, ai parlamentari abruzzesi, ai Comuni e alle Province. L’obiettivo, oltre quello di umanizzare le carceri per le quali “non bastano proposte tampone come provvedimenti di clemenza e simili” spiega l’avvocato Marcello Russo, uno dei promotori dell’iniziativa, è quella di evitare che arrivi la condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo, che ha assegnato all’Italia il termine di un anno (a decorrere dal marzo scorso) per regolarizzare la situazione di illegittimità “flagrante e permanente”. Aggravata dal fatto causa della situazione attuale è anche il fatto di aver “caricato sul sistema penale tutte le devianze sociali ivi comprese la mala sanità, la mala amministra-zione, la mala edilizia, la mala urbanistica, il mal ambientalismo ecc., laddove veri controlli di gestione, sanzioni disciplinari, acquisizioni al patrimonio pubblico, responsabilità amministrative per inadempienze sarebbero più effettive e tempestive”. Di conseguenza “le “non soluzioni” e le elusioni”, dicono i promotori, “produrranno a partire dal prossimo mese di marzo, obblighi risarcitori verso i detenuti che subiscono il disagio censurato dalla Corte Europea (quindi vitto e alloggio con disagio e indennizzo). La soluzione “reale in tempi reali” appare estremamente difficoltosa e certamente non può essere quella dei provvedimenti di clemenza “svuota-carceri” che trasferiscono sulla società parte del carico penitenziario”. Neppure “adeguata e reale”, insistono gli avvocati abruzzesi, “appare la soluzione di assegnare parte dei detenuti agli enti locali per lavori alternativi se si debbono eliminare Province ed agli enti mettendo in mobilità grossi quantitativi di personale”. La realtà dunque è “che il problema non può essere risolto nell’isola del sistema penale e neppure solo dal sistema finanziario o di edilizia dello Stato centrale”. Di conseguenza la soluzione deve arrivare dalla periferie e infatti nel suo intervento al Senato, ricorda Russo, “il ministro ha fatto cenno generico ad una dimensione statale - regionale - locale”. Qual è dunque la proposta? “Le Regioni”, dicono i promotori “hanno migliaia di ettari di terreni agricoli e di terre civiche abbandonati: questi possono essere utilizzati come colonie agricole previste dal codice penale come misure di sicurezza, ma convertibili in pene alternative “patteggiate”. Per i costi si potrebbe provvedere con finanziamenti anche comunitari, con la Cassa Depositi e Prestiti, con strumenti di finanziamento privato (project financing, leasing in costruendo ecc.). La questione dunque non è solo statale ma “concorrente” e “sussidiaria”; non è solo di carattere penale ma anche di carattere costituzionale, amministrativo, demaniale, di finanza pubblica, di riequilibrio del territorio (urbanistico). In questa ottica essa può essere avviata a soluzione definitiva facendo partire da un problema tanto grave e difficoltoso, attività ben più ampie di riequilibrio del territorio, di uso di terre civiche ed incolte”. Si tratta, insomma, di un esperimento di “legalità creativa” che ovviamente, precisano gli avvocati abruzzesi, “nulla vuole togliere a quella limitativa, impeditiva, sanzionatoria. Si tratta di un uso attivo pubblico di terre civiche, di sperimentare nuove forme di aziende agricole collettive. Si tratta di partire sulla spinta di indilazionabili problemi del settore di più profonda patologia sociale per nuove e reali iniziative di uso del territorio”. I proponenti La proposta redatta dall’avvocato Marcello Russo sul problema penitenziario è stata avanzata dall’Associazione degli avvocati amministrativisti abruzzesi in collaborazione con le Camere penali di Chieti e Pescara; l’Aproduc (Associazione di studiosi di questioni ambientali e del demanio civico, presidente professor Vincenzo Cernili Irelli, segretario generale Athena Lorizio), rosservatorio degli Enti locali (presidente Ebron D’Aristotile), avvocato Fabrizio Marinelli (Università dell’Aquila); professor Roberto Mascarucci, (Università di Pescara); Associazione Forum Aterni (presidente avvocatoFranco Sabatini). Abruzzo: Decreto ministeriale cambia destinazione d’uso delle carceri di Sulmona e Vasto www.primadanoi.it, 2 luglio 2013 Muta la geografia penitenziaria italiane. Con il decreto del Ministro della Giustizia del 27 maggio scorso, diversi Istituti penitenziari sono stati riconvertiti a nuovi usi, spiega Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione di Categoria. Capece informa che in Abruzzo l’intero istituto penitenziario di Sulmona assume la configurazione giuridica di Casa di Reclusione mentre a Vasto la Casa circondariale diventerà una Casa di lavoro con annessa Sezione Circondariale. Altamura, in Puglia, diventa sezione di Casa di Reclusione a custodia attenuata mentre le Case circondariali di Carinola (in Campania) e Chiavari (in Liguria) diventano Case di Reclusione, cioè istituti per l’espiazione della pena dei condannati. Il Sappe torna ad evidenziare come “il personale di Polizia Penitenziaria (sotto organico di 7mila Agenti) è stato ed è spesso lasciato da solo a gestire all’interno delle nostre carceri moltissime situazioni di disagio sociale e di tensioni, 24 ore su 24, 365 giorni all’anno. Per contrastare l’emergenza carceri ci vogliono riforme strutturali, che depenalizzino i reati minori e potenzino maggiormente il ricorso all’area penale esterna, limitando la restrizione in carcere solo nei casi indispensabili e necessari. Il progetto dei circuiti penitenziari dell’Amministrazione penitenziaria non è la soluzione idonea perché al superamento del concetto dello spazio di perimetrazione della cella e ad una maggiore apertura per i detenuti deve associarsi la necessità che questi svolgano attività lavorativa e che il Personale di Polizia penitenziaria sia esentato da responsabilità derivanti da un servizio svolto in modo dinamico”. Modena: il Sindaco Pighi; ecco le mie proposte contro il sovraffollamento delle carceri La Gazzetta di Modena, 2 luglio 2013 Sette proposte per un salto di qualità nella lotta al sovraffollamento delle carceri scegliendo “l’innovazione e non l’indulgenza” e orientando il cambiamento delle politiche “al recupero sociale e alla valorizzazione della persona umana per intervenire con più coraggio e senza tentennamenti sui contenuti alternativi alla detenzione, affrontando con determinazione le cause dell’affollamento con nuove alternative, semplificazioni di procedure inutilmente appesantite dal susseguirsi di cambiamenti normativi”. Le proposte sono formulate in un intervento del sindaco Giorgio Pighi, presidente del Forum italiano per la sicurezza urbana, all’assemblea europea per la sicurezza urbana in Portogallo. Nell’intervento, intitolato “Alternative al carcere ed umanizzazione della pena”, Pighi espone la linea della Fisu tesa a semplificare i procedimenti e a renderli più efficaci. Per esempio, andrebbero unificati quelli per la sospensione delle pene fino a tre o quattro anni, oggi previsto a richiesta del condannato per ottenere rispettivamente l’affidamento in prova o la detenzione domiciliare, con quello che disciplina l’applicazione di detenzione domiciliare per le condanne fino a un anno e sei mesi, e dovrebbe essere avviato d’ufficio dal pm. Tutte le decisioni sulle misure alternative, inoltre, andrebbero prese prima dell’esecuzione della pena con competenza monocratica del Magistrato e non del Tribunale di sorveglianza. La detenzione domiciliare bisognerebbe applicarla con la sentenza di condanna e non in fase esecutiva (come pena principale o con sospensione della pena detentiva) in relazione all’entità della pena inflitta e non in base al quadro edittale della pena prevista. Altra proposta riguarda le interdizioni (dai pubblici uffici, dalle professioni, dall’esercizio dell’attività) che potrebbero diventare pena principale e non accessoria, evitando così inutili pene detentive. Ad un ulteriore intervento di depenalizzazione, inoltre, potrebbero essere affiancate norme per rendere più efficaci le sanzioni amministrative, come premessa per ulteriori depenalizzazioni. Rispetto alle misure alternative alla detenzione, la Fisu propone di disciplinare le funzioni dei servizi sociali dei Comuni prevedendo risorse che consentano di fornire supporto ai programmi di trattamento. Per i reati commessi ai danni di persone conviventi o in conflitto con il condannato, oppure per chi non può uscire dal carcere per mancanza di alloggi, infine, si propone di prevede nuove modalità di affidamento in prova e di detenzione domiciliare lontano dalla residenza abituale. “L’impegno per rendere più civile e più umano il nostro sistema carcerario ed evitare i costi sociali di nuovi provvedimenti di clemenza - conclude Giorgio Pighi - passa attraverso riforme che siano capaci di tenere assieme la coerente articolazione del sistema con la salvaguardia delle esigenze di sicurezza dei cittadini”. Porto Azzurro (Li): con la Cooperativa Nesos detenuti al lavoro per sfornare pane e dolci Ansa, 2 luglio 2013 Pane e dolci prodotti dai detenuti nel carcere di Porto Azzurro, sull’isola d’Elba (Livorno) e poi commercializzati per grande distribuzione, ristoranti, alberghi, bar e pasticcerie del territorio elbano. Questa l’iniziativa che, grazie alla collaborazione con la cooperativa Nesos, è stata realizzata all’interno della struttura penitenziaria. L’attività dei fornai detenuti, che lavorano notte e giorno per produrre pane e dolci artigianali di qualità, sarà presentata domani dall’amministrazione carceraria elbana. “Con questa iniziativa - spiega una nota della segreteria del carcere di Porto Azzurro - che vede il coinvolgimento attivo dell’Amministrazione penitenziaria e della cooperativa Nesos, si valorizza il lavoro come elemento fondamentale del trattamento rieducativo e come strumento volto a creare un utile cittadino e valorizzare il carcere quale risorsa del territorio. Infatti la cooperativa offre un servizio di qualità a tutto il territorio elbano favorendo integrazione e collaborazione tra tessuto sociale e istituzione penitenziaria”. Pistoia: Garante dei detenuti; il degrado sociale proviene soprattutto da alcuni quartieri di Antonio Sammartino, Garante dei diritti dei detenuti di Pistoia www.gonews.it, 2 luglio 2013 “Sarebbe importante, guardando all’universo giovanile, che le istituzioni pubbliche, di concerto con il privato sociale, svolgessero un serio lavoro di prevenzione”. B. l’ho conosciuto quando aveva 16 anni. Già a quell’età aveva dato i primi segnali di devianza. B., quando era ancora ragazzo ho provato molte volte a cercarlo recandomi direttamente a casa sua, con l’intento di accompagnarlo verso un percorso educativo. Il rapporto è iniziato così, offrendogli semplicemente delle colazioni al bar e parlando insieme, perché sapevo che in quel momento non potevo chiedergli di più. Successivamente, senza successo, ho provato ad inserirlo nei percorsi d’accompagnamento lavorativo all’interno della cooperativa sociale dove lavoro, che per un pò il ragazzo ha frequentato, per poi dopo alcuni mesi abbandonare definitivamente. Rendendomi conto delle problematiche personali che aveva, riuscii a convincerlo ad accompagnarlo da uno psicologo, ma quest’ultimo da “bravo” dottore, mi riferì semplicemente quello che già sapevo e cioè che B. era affetto da disturbo della condotta, aggiungendo che come medico non poteva fare altro e che il ragazzo doveva autonomamente presentarsi alle sedute, non immaginando che per questi soggetti occorre fare qualcosa di più da quello che prevede rigidamente il rapporto professionale medico - paziente. Ora B., a distanza di anni, è detenuto in carcere a Pistoia. Appena l’ho visto mi ha salutato e abbracciato come se ci trovassimo al bar. Ho capito solamente in quel momento che con lui avevo perso la partita e che non l’avevo persa solamente io, ma che in qualche modo l’avevamo persa un pò tutti. Da questa esperienza parte la mia constatazione della direzione in cui stiamo andando e cioè verso una comunità e più estesamente un tipo di società sempre più escludente, che come nel caso di B. e di tanti altri ragazzi come lui non riesce e forse non vuole più rispondere alle loro domande di aiuto, domande che non sono immediatamente decifrabili, ma che potremmo percepire e raccogliere se solo ci mettessimo veramente in un atteggiamento di ascolto. B. abitava e abitata tutt’ora (quando un giorno tornerà in libertà), nella zona più degradata di Pistoia, dove un architetto idiota ha progettato, ed un’amministrazione compiacente di quel tempo, realizzato, un quartiere popolare fatto di palazzi a forma di triangolo, torri e altre forme strane. Palazzi degradanti, grigi, brutti, realizzati con materiali scadenti, con scarsi se non nulli lavori di manutenzione, dove i poveri cristi che li abitano ci soffocano dal caldo d’estate, costretti a combattere con piattole, scarafaggi ed altre insetti strani. Se è vero, come ha detto qualcuno, che la bellezza salverà il mondo, vorrà dire che questo quartiere, come altri della nostra periferia, sono destinati forzatamente al declino. Negli ultimi anni si è cercato di riqualificare il quartiere con un progetto ambizioso con tre “grandi” risultati: i palazzoni descritti sopra sono rimasti nelle solite condizioni e si sono invece abbattute le uniche case decorose a tre piani, costruite a regole d’arte e che con modesti interventi di manutenzione sarebbero tornate come nuove; si è abbattuta quella che era chiamata la “scuolina”, e che tanti residenti ancora rimpiangono, per costruirci nuove palazzine; si è affidato l’appalto dei lavori a delle aziende, senza tenere conto della possibilità che alcune lavorazioni potevano essere realizzate dalle cooperative sociali presenti sul territorio e che da anni occupano persone svantaggiate, guarda caso nella maggioranza dei casi provenienti dallo stesso quartiere. I ragazzi ed altre persone come B. nascono e crescono tra questi palazzi nell’indifferenza dei servizi pubblici che in qualche modo dovrebbero occuparsene, perché una cosa è certa: anche quando quello che viene chiamato “utente”, chiede aiuto e si rivolge ai servizi sociali, non sempre trova delle risposte in grado di rispondere concretamente ai propri bisogni, ma sempre più spesso trova solamente dei muri. I ragazzi come B. sono sempre più in aumento. Sempre più precocemente abbandonano la scuola dell’obbligo e quest’ultima è contenta quando può liberarsi di chi “disturba” e di chi, come affermano i genitori degli alunni bravi, non consentono il regolare svolgimento del programma ministeriale. Sempre più precocemente i soggetti devianti passano dall’uso di droghe leggere all’uso di cocaina ed eroina, sniffata e fumata. Io credo, parlando come operatore sociale e come garante dei diritti dei detenuti, che sarebbe importante, guardando a questo particolare universo giovanile, che le istituzioni pubbliche, di concerto con il privato sociale, svolgessero un serio lavoro di prevenzione sul territorio, perché molto spesso quando i ragazzi “difficili” ce li ritroviamo in carcere è ormai troppo tardi, in quanto le condizioni psicofisiche che presentono ristringe notevolmente le possibilità di un loro pieno recupero. La situazione carceraria, infine, come ormai è risaputo, aggrava e consolida la situazione di difficoltà di partenza nella quale si trovano i soggetti che vi entrano. Alle amministrazioni comunali e provinciali che si apprestano ad elaborare bandi di gara e mega progetti, dico che secondo me sarebbe importante riflettere e discutere prima su quello che vogliamo veramente fare con queste persone, quali strategie adottare per intercettare i loro bisogni, che tipo di interventi efficaci si prevede di attivare come azioni d’inclusione sociale e lavorativa; quali sono e se ci sono, infine, delle realtà che già operano sul territorio con buoni risultati e che necessitano pertanto di essere rafforzate e incentivate. Ritornando a B., che mi parla ora da persona adulta, con un figlio affidato all’ex compagna, senza più il sostegno della propria famiglia con la quale non ha più rapporti da tempo e che sembra inconsapevole della gravità della situazione in cui si trova, non mi rimane che andarlo a trovare in carcere e provare, di nuovo, ad ascoltarlo. Cagliari: mille libri in regalo ai detenuti, omaggio del sindaco di Quartu Mauro Contini L'Unione Sarda, 2 luglio 2013 Omaggio commosso del sindaco di Quartu Mauro Contini che questa mattina nel corso della campagna "LiberiLibri" ha regalato oltre cento libri ai detenuti di Buoncammino. Oltre mille libri sono stati donati questa mattina ai detenuti del carcere di Buoncammino. Presente il sindaco Mauro Contini, che è tornato a Buoncammino dopo quattro mesi "Penso ogni giorno alla mia esperienza - ha detto il primo cittadino. Il fatto di aver trascorso alcuni giorni all'interno del carcere mi ha fatto capire come vivono i detenuti. 'LibriLibero' sarà un'iniziativa che l'amministrazione quartese ripeterà di certo" ha detto Contini. Il sindaco insieme al presidente del Consiglio comunale, Francesca Mazzuzzi, e i rappresentanti dell'istituzione carceraria hanno consegnato ai detenuti oltre 100 libri i libri raccolti, dal 3 al 14 giugno, nel corso della campagna "LiberiLibri" organizzata proprio dall'Amministrazione comunale di Quartu Sant'Elena per arricchire e integrare la biblioteca dell'istituto di pena cagliaritano. Una grande dimostrazione di sensibilità dei quartesi per questioni di particolare rilevanza sociale, quali sono le condizioni delle carceri, la funzione rieducativa della pena e il reinserimento sociale dei detenuti. L'iniziativa "LiberiLibri", promossa d'intesa con l'amministrazione carceraria, è volta ad offrire ai detenuti maggiori occasioni di conoscenza ed elevazione culturale, in omaggio al principio costituzionale della pena intesa come rieducazione. Alla consegna dei libri sarà presente il sindaco Mauro Contini, il presidente del Consiglio comunale, Francesca Mazzuzzi, e i rappresentanti dell'istituzione carceraria. Firenze: i Radicali in sostegno allo "sciopero del vitto" dei detenuti di Sollicciano met.provincia.fi.it, 2 luglio 2013 Lensi e Buzzegoli: "Si prendano seri provvedimenti per umanizzare i penitenziari e misure alternative. Si cominci a pensare ad amnistia". Anche il consigliere provinciale Massimo Lensi (radicale nel Gruppo Misto) e Maurizio Buzzegoli, dell'associazione radicale Andrea Tamburi, sostengono lo “sciopero del vitto” iniziato quest’oggi dai detenuti del carcere di Sollicciano. "Appoggiamo questa iniziativa nonviolenta dei detenuti affinché con urgenza si prendano dei seri provvedimenti - dichiarano Lensi e Buzzegoli. Le proposte della ministra Cancellieri sono solo un palliativo che non risolverà i problemi della giustizia e del carcere: è necessario e urgente che il Paese inizi un dibattito politico e sociale su questi temi e al tempo stesso che il Parlamento cominci a pensare ad un provvedimento di amnistia, l’unico per rientrare nei ranghi costituzionali e nelle direttive delle giurisdizioni internazionali". I due esponenti radicali accennano quindi ai referendum radicali: "Come forza extraparlamentare stiamo tentando di raccogliere 500.000 firme per eliminare quelle leggi criminali e criminogene e attraverso i referendum sulla 'Giustizia Giusta' far diventare questo Paese veramente democratico". Firenze: Uil-Pa; foto e video a Sollicciano, per documentare luoghi di lavoro degli agenti Ansa, 2 luglio 2013 Nella mattinata di domani una delegazione della Uilpa Penitenziari sarà in visita al carcere di Sollicciano-Firenze per documentare, attraverso riprese video e fotografiche, lo stato dei luoghi di lavoro degli operatori di Polizia Penitenziaria. “La possibilità di documentare le condizioni di lavoro dei baschi blu è un obiettivo che abbiamo lungamente perseguito - dichiara Eugenio Sarno, segretario generale della Uilpa Penitenziari - Noi siamo fermamente convinti che occorra alimentare la coscienza sociale su ciò che è realmente il carcere; senza nascondere nulla e senza nascondersi da nulla. La possibilità di procedere alla documentazione dello stato dei luoghi di lavoro è stata resa possibile grazie alla grande sensibilità del Capo Dipartimento Tamburino e da una recente pronuncia del Garante della Privacy, che nulla ha eccepito rispetto alla possibilità che le delegazioni sindacali visitanti effettuassero riprese video-fotografiche, sempreché esse non riguardino persone detenute”. Torino: Sappe; detenuto con problemi psichiatrici colpisce agente, che finisce all’ospedale La Repubblica, 2 luglio 2013 Un assistente di Polizia penitenziaria è stato aggredito da un detenuto, questa mattina, nel carcere di Torino. A riferirlo è il sindacato Sappe. Il fatto è avvenuto presso la VII Sezione detentiva psichiatrica denominata “Sestante”: un detenuto francese di 23 anni, in carcere per furto, ha colpito con un violento pugno l’agente che è caduto, procurandosi anche lesioni alla mano. “Questa aggressione - dichiara Donato Capece, segretario generale del Sappe - ci preoccupa. La carenza di personale di polizia penitenziaria e il costante sovraffollamento della struttura di Torino sono temi che si dibattono da tempo, senza soluzione, e sono concause di questi tragici episodi”. “Spesso, come a Torino, - continua Capece - il personale deve gestire all’interno delle nostre carceri moltissime situazioni di disagio sociale e di tensione, 24 ore su 24, 365 giorni all’anno. Il Dap (dipartimento di amministrazione penitenziaria, ndr) pensa alle favole, alla vigilanza dinamica ed all’autogestione dei detenuti: ma le tensioni in carcere crescono in maniera rapida e preoccupante”. Il segretario generale del Sappe mette l’accento sul rapporto tra detenuti e malattie mentali: “ne soffre - spiega - uno su tre. Sul totale della popolazione carceraria (circa 66 mila unità) sono quindi 20 mila quelli che convivono con una patologia psichiatrica”. Immigrazione: la politica impari da Papa Francesco… di Mario Staderini Notizie Radicali, 2 luglio 2013 La scelta di Lampedusa come primo viaggio di Papa Francesco dovrebbe fare aprire gli occhi alla politica italiana, divisa tra gli improbabili difensori delle fallimentari politiche sull’immigrazione di matrice leghista e i timorosi di giocare in attacco una partita che ha rilevanza globale. Tra chi dovrebbe far tesoro dell’insegnamento del Papa c’è il senatore Gasparri che ancora oggi ha sostenuto che il reato di clandestinità serva a fermare “chi altrimenti entrerebbe in Italia senza un lavoro, una dimora e finirebbe con il delinquere”. Semmai è vero il contrario: il reato di clandestinità e le attuali norme discriminatorie non sono servite a impedire l’ingresso incontrollato e la presenza in Italia di 500 mila immigrati che lavorano ugualmente, solo che non possono farlo in maniera legale né versare allo Stato 3 miliardi di euro contributi all’anno. Mi auguro, invece, che la scelta del Papa dia coraggio a chi - nella politica come nei sindacati - in questi anni ha denunciato i danni della legge Bossi-Fini: c’è un solo strumento politico oggi a disposizione per chi voglia cambiare pagina, e sono i due referendum abrogativi la cui raccolta firme è in corso. Immigrazione: io, espulso dall’Italia dopo trent’anni ma ormai non so più nemmeno l’arabo di Giuliano Foschini La Repubblica, 2 luglio 2013 “Senatò, m’hanno detto che mi riportano nel mio paese. Benissimo, allora fateme uscire da qui. Perché io sto già nel mio paese”. Fuori diluvia, eppure è estate. Ma il cortocircuito di Cherif, l’italiano clandestino, è un ossimoro ancora più efficace. Cherif ha poco più di cinquant’anni. Da trenta vive in Italia. Ha tre figli nati a Pomezia, dove da sempre lavora come carrozziere: uno è maggiorenne con passaporto e cittadinanza italiana, gli altri due aspettano i documenti al compimenti dei 18 anni, “come El Sharawy e Balotelli, ha presente?”. Parla con una marcata cadenza romana: “ Me portano li giornali in arabo. E chi lo sa l’arabo, senatò?”. Cherif da qualche settimana è rinchiuso nel Cie di Bari, in attesa di espulsione verso il “suo” paese, l’Algeria. Dopo cinque anni in carcere per una storia di droga, il giudice di sorveglianza lo ha bollato come “pericoloso”, ritirandogli il permesso di soggiorno. “Ero a casa mia, con mia moglie e i ragazzi. Sono venuti i carabinieri e m’hanno detto, devi tornare in Algeria. Ma che ci vado a fare? Io ci manco da una vita. Ho sbagliato, questo sì, ho pagato ma non cacciatemi: io sono italiano”. Questo signore, la sua tuta di acetato blu, le ciabatte di plastica “è la prova del paradosso e della pericolosità che queste strutture possono produrre” spiega Luigi Manconi, senatore del Pd e presidente della commissione Diritti Umani di Palazzo Madama che sabato ha voluto visitare il Centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Bari. Non è un caso che lui (insieme con le sue due assistenti, Valentina Calderone e Valentina Brinis e la funzionaria del Senato Vitaliana Curigliano) abbia scelto proprio questo posto per cominciare un viaggio nei Cie italiani: l’International Herald Tribune e il Die Spiegel nelle scorse settimane avevano denunciato le condizioni “inumane” dei centri, citando Bari tra i casi più eclatanti. “Casi raccapriccianti che non assicurano agli immigrati una necessaria assistenza e il pieno rispetto della loro dignità” aveva scritto il perito del tribunale di Bari un anno fa, costringendo la Prefettura a effettuare nuove opere all’interno della struttura. Alcuni lavori sono conclusi. Altri partiranno a breve. L’ingegnere arriverà presto a controllare lo stato dell’arte in attesa - dopo la class action presentata dall’avvocato Luigi Paccione - che il tribunale civile (ma c’è anche un’inchiesta della Procura) si esprima sull’eventuale chiusura della struttura. “Ora le condizioni sono molto migliorate”, giurano dalla Prefettura. La capienza è stata ridotta, da 196 a 112. In questi giorni i migranti erano 106, in prevalenza algerini, marocchini, tunisini. Qualche nigeriano. Nessuna donna. Da qualche mese c’è una nuova cooperativa che gestisce il centro: psicologi, assistenti sociali, informazione legale. I corridoi sono tirati a lucido, in occasione della visita. Le stanze meno, con le brande sgarrupate e armadi e comodini in cemento armato. “Per evitare che si facciano male” dicono. Ogni mese si verificano almeno due atti di autolesionismo. Gli schizzi di sangue sul muro, e le cronache degli anni scorsi, raccontano di piccole risse e vecchie rivolte. Recentemente un ragazzo georgiano ha provato a scappare. È caduto, hanno ricostruito, e si è fratturato tutto. Lo hanno curato e rimandato a casa. Uno su tre qui dentro fa uso di psicofarmaci. In una delle stanze, a pochi metri dai tappeti e due disegni che dovrebbero fare da moschea del braccio numero cinque, c’è un cappio esposto. Dicono che non sia un simbolo. Ma un’aspirazione. “Dopo il carcere pensavo di tornare libero: poi mi hanno portato qui. Ma io che ci sto a fare qui?” racconta un algerino che ha vissuto anni e anni a Pistoia. Lamenta la schizofrenia di tutti coloro che vivono questi posti. Una schizofrenia anche lessicale: per lo Stato sono “ospiti” e da tutti gli altri invece “trattenuti” o “detenuti”. Non sanno perché entrano e non sanno quando usciranno. Vivono tra le sbarre ma usano i telefonini, non ci sono guardie carcerarie ma le porte quando si chiudono a chiave fanno le stesso rumore delle prigioni. “Si percepisce chiaro - dice Manconi - quel senso di tensione, tra i ragazzi, che soltanto chi ha un’esperienza delle carceri conosce. Ma in un posto come questo ci sono delle condizioni, se possibile, ancora più terribili”. La noia, l’inattività. A Bari c’è un campo di calcio dove possono andare dieci per volta una volta alla settimana. Un televisore per ogni blocco. E basta. “Basterebbe portare giornali italiani, visto che circolano solo quelli in arabo e l’arabo qui dentro lo parlano pochissimo. Creare una biblioteca o fare entrare le associazioni per attività ludiche. Serve dare un senso alle giornate di queste persone”. Manconi chiede due cose subito: “Più informazione legale: molti qui sono trattenuti illegalmente perché non c’è stata una verifica preventiva della legittimità del loro status. E maggiore attenzione ad alcuni casi sanitari”. Un ragazzo ha raccontato di essere a letto da una settimana, per problemi alla schiena. Sopra di lui un murales domandava: “Dove va il mio destino?”. Russia: Duma approva in prima lettura amnistia per 10mila persone accusate reati minori Ansa, 2 luglio 2013 La Duma, il ramo basso del parlamento russo, ha approvato oggi in prima lettura il progetto di legge presentato dal presidente Putin per l’amnistia alle persone condannate per una serie di reati economici minori. Il provvedimento, che dovrebbe superare la seconda ed ultima lettura in giornata, dovrebbe interessare circa 10 mila persone. Escluso dai benefici l’ex patron di Yukos Mikhail Khodorkovki, una delle “bestie nere” di Putin: l’amnistia non si applica a chi ha più di una condanna. Stati Uniti: detenuti Guantánamo in sciopero fame chiedono stop a alimentazione forzata Ansa, 2 luglio 2013 Quattro prigionieri in sciopero della fame da mesi nel supercarcere della base militare Usa di Guantánamo, a Cuba, hanno avviato un’azione legale affinché venga interrotta la loro alimentazione forzata da parte del personale del carcere stesso, che loro definiscono come una forma di tortura e affermano che viola l’etica medica. In una istanza presentata al tribunale federale di Washington dal loro difensore, l’avvocato Jon Eisenberg, i quattro detenuti affermano che l’alimentazione forzata impedisce loro anche di praticare il dovere religioso islamico del digiuno durante il mese di Ramadan ed è pertanto in contrasto anche con le Convenzioni di Ginevra. Il Dipartimento della giustizia non ha ufficialmente reagito, ma secondo fonti di stampa intende opporsi all’istanza dei quattro detenuti, Ahmed Belbacha, Shaker Aamer, Abu Wàel Dhiab e Nabil Hadjarab. Attualmente si trovano a Guantánamo 166 detenuti, la maggior parte dei quali è incarcerata senza incriminazioni da oltre un decennio. Di loro, oltre un centinaio ha avviato uno sciopero della fame sin dal febbraio scorso, in seguito ad accuse di oltraggio da parte degli agenti di custodia a copie del Corano e poi allargatasi in una più vasta protesta per le condizioni di detenzione nel carcere e per il fatto che il loro destino rimane ancora oscuro.