La storia di Stefano: trasferito senza avviso dopo un reclamo contro il sovraffollamento Il Mattino di Padova, 22 luglio 2013 Sabato 13 luglio, improvvisamente, il detenuto bibliotecario della Casa di reclusione di Padova è stato trasferito nella Casa circondariale di Cremona. Oggi raccontiamo la sua storia, in questi giorni divenuta drammatica, e dichiariamo la nostra speranza di raccontarvi un giorno un più lieto fine. Stefano è un ottimo bibliotecario da tre anni, ha anche avuto l’encomio dal Direttore del carcere, su proposta della Polizia Penitenziaria. Ma ha fatto un ‘errore’, ha presentato un reclamo contro il sovraffollamento ai sensi delle direttive della Corte Europea per i diritti Umani. E il suo reclamo è stato accettato. Non chiedeva una cella singola, ma semplicemente il minimo di metri quadrati previsti (tre). Nella cella da uno stavano in tre, a lui andava bene essere in due. L’Amministrazione Penitenziaria senza interpellarlo e comunicargli alcunché lo ha trasferito d’ufficio in un altro carcere in una cella da due: così il suo diritto a non essere torturato è rispettato. Peccato che così si violi gravemente il suo diritto alla continuità della rieducazione, si azzeri un percorso. Peccato che chi non fa reclamo (e magari andrà al posto suo nella cella forzatamente da tre) conservi il diritto alla tortura. Il 26 luglio era previsto per Stefano il secondo permesso premio, per visitare il Sistema Bibliotecario di Abano Terme (con cui la biblioteca del carcere è in rete), la biblioteca del Comune di Limena (per la cui gestione la cooperativa lavora da circa 9 anni), la biblioteca dell'istituto Scalcerle, in cui lavora una volontaria della cooperativa . E’ un permesso che sta tutto nel percorso ‘dal carcere al territorio’ che la cooperativa AltraCittà cerca di costruire per le persone detenute, che punta a far conoscere al mondo esterno le competenze di Stefano per un futuro inserimento lavorativo. Noi tutti cocciutamente speriamo di avere Stefano venerdì con noi. Stefano scrive alla cooperativa Cara Rossella, io mi ricordo con assoluta perfezione quel 27 luglio del 2010 quando tu e Valentina mi avete chiesto se me la sentivo di prendere in mano la biblioteca. Non ho esitato un istante a dirvi di sì per un motivo preciso, mi avete dato fiducia in un momento in cui la fiducia non me la dava nessuno e questo è stato il primo e più importante passo lungo quel percorso che si è bruscamente spezzato sabato scorso. Te lo devo dire. Ho provato una rabbia infinita, ho sentito di aver perso tutto quello che mi era costato fatica, impegno, passione. Quando sono arrivato a Cremona, per un attimo e per la prima volta nella mia vita, avevo davvero sentito il vuoto intorno a me. Come ho detto ieri alla psicologa, questo carcere è un’istigazione al suicidio…ma la cosa non riguarda me. E sai perché? Perché mollare ora vorrebbe dire deludervi tutti e io non voglio che accada. Non preoccuparti per me, non diventerò un numero da aggiungere a un tragico totale. Ti confesso che sto faticando a trattenere le lacrime, amavo quel posto, amavo i miei libri e li amo ancora, ma sapere che non sono più i miei mi fa male, li ho toccati mille volte, curati, coccolati, come fossero figli; conosco ogni ragazzo che scende in biblioteca. Tutto questo ora non c’è più, ma ciò che più mi fa rabbia è che tutto il vostro impegno sia stato vanificato insieme al mio, perché io sono detenuto ma voi no, non meritate tutto questo. Vi voglio bene, con sincero ed estremo affetto. Io non mollo, vada come vada, ve lo prometto. In carcere Stefano ha imparato a fare il bibliotecario Stefano Carnoli ha iniziato a frequentare un corso di formazione sulla catalogazione libraria organizzato dalla cooperativa AltraCittà nel 2010, dimostrando buone capacità e attitudine per la biblioteconomia. A seguito del corso, è stato coinvolto nell'attività della biblioteca della Casa di reclusione gestita dalla cooperativa con un progetto del Comune di Padova. Dopo alcuni mesi, , a Stefano è stato affidato il ruolo di bibliotecario/scrivano dall'Istituto penitenziario. Nell'arco di tre anni, grazie al lavoro in sinergia della persona e della cooperativa, la qualità del servizio offerto dalla biblioteca ai detenuti è molto migliorata (lo dicono i dati statistici di aumento della lettura, dei prestiti interni, dei prestiti interbibliotecari, degli accessi dei detenuti alla biblioteca...). Inoltre Stefano dal 2010 a oggi: - ha partecipato in modo attivo alla formazione proposta dalla cooperativa nell'ambito della documentazione (trattamento del documento, archivistica, digitalizzazione...) -ha coadiuvato la professoressa Marina Bolletti nei corsi di catalogazione, coordinando le ore di esercitazione con competenza e passione -ha catalogato per la cooperativa (sta anche ora catalogando) i libri del Liceo Ferrari di Este Lo sgomento della cooperativa AltraCittà Noi soci, lavoratori, volontari della cooperativa siamo in preda allo sgomento. Con Stefano stiamo lavorando da tre anni e stiamo costruendo: costruendo una biblioteca migliore per i 900 detenuti dell'istituto (aperta, diffusa ai piani, intrecciata a gruppi di lettura e corsi di formazione...), costruendo un percorso personale umano e lavorativo verso il territorio, verso il mondo esterno. Lui è sempre stato persona riservata e schiva, anche se sempre disponibile, sempre appassionato nel lavoro. Non ci ha mai chiesto nulla, come invece spesso accade tra, mille sfaccettature, in questo mondo di urgenti necessità (la libertà innanzitutto!) che è il carcere e a noi la sua “orsitudine” (come la chiama lui) in fondo non dispiaceva: è bello offrire a chi non chiede nulla, per dignità, orgoglio…La lettera che abbiamo ricevuto in questi giorni da lui ci ha profondamente commossi. Noi pensiamo che questo modo di procedere sia semplicemente disumano e indegno di un paese democratico e civile: si sta distruggendo una persona e il nostro lavoro di tre anni. Che senso ha che noi da 10 anni tessiamo giorno dopo giorno una fitta e vitale rete tra il dentro e il fuori? Come dice qualcuno: lo Stato ha preso un successo (anche suo) è l’ha buttato nella spazzatura. Io credo che il sistema dello 'sfollamento' fatto dal centro senza ….parlare (con la periferia, con la persona, con chi segue le persone da anni) sia malato e abbia esiti perversi. Già alcuni mesi fa ho avuto un'esperienza choccante. Una mattina ho trovato nel laboratorio di legatoria della Casa di reclusione un detenuto disperato: gli avevano detto di preparare i bagagli, destinazione Gorgona. Non aveva mai fatto domande in questo senso, da due anni lo stavamo formando, da un anno era nostro dipendente. In quel caso ho parlato, telefonato, supplicato. C'è stato il “miracolo”, il trasferimento è stato annullato. Ma mi è rimasto l'amaro in bocca. E gli altri “sfollati”, quelli che non erano inseriti in attività? Numeri, pacchi spostati in un gioco perverso (se non come volontà, certo come esito). Ora la storia si ripresenta, con esiti devastanti. Su Stefano, ma anche su di noi. Sono ottimista per natura e testardamente fiduciosa nella possibilità di rinnovamento delle nostre istituzioni. Non distruggete questa speranza e questa fiducia. Rossella Favero presidente cooperativa sociale AltraCittà Giustizia: finalmente diventiamo i nuovi paladini dei diritti umani… o no? di Pierluigi Battista Corriere della Sera, 22 luglio 2013 Finalmente: in un sussulto di dignità umanitaria, poderose manifestazioni stanno attraversando con composta indignazione le strade d’Italia a difesa degli inviolabili diritti umani nel mondo. Finalmente, la triste lezione kazaka è stata di monito: siamo così disgustati del trattamento riservato a una bambina, cacciata dall’Italia con operazione gestita dagli uffici del Viminale e deportata in un Paese che calpesta ogni giorno i diritti fondamentali, che già s’ode il grido alto e forte: mai più oppressione. Siamo così colpiti dalla fiera invettiva papale contro “la globalizzazione dell’indifferenza”, che non perdiamo nemmeno un momento per denunciare il disgustoso sterminio di vecchi, donne e bambini che si sta consumando in Siria per mano del macellaio Assad. Finalmente: non percepite quale vibrante protesta si è elevata per salvare la vita di una ragazza cristiana, di nome Asia Bibi, che in Pakistan è costretta in prigione da quasi 1500 giorni dopo una condanna a morte in prima istanza perché “blasfema”? E quei blocchi stradali davanti all’ambasciata nigeriana per dire un determinato “basta” alle stragi di cattolici, agli attentati alle chiese sventrate dall’odio del fanatismo religioso? E come non ascoltare l’urlo solidale per tutte le ragazze come Maiala Yousfzai, picchiate o addirittura assassinate dai talebani solo perché pretendono di studiare, di camminare per le strade, di uscire dalla prigionia imposta da energumeni barbuti che esercitano la loro prepotenza, veri bestemmiatori, pretendendo di eseguire un ordine direttamente proveniente da Dio? Basta, non c’è più ragione di Real-Politik o meschine considerazioni di bassa cucina economica ed affaristica per arginare le proteste contro la Cina, che esegue un numero incalcolabile di condanne a morte senza regolari processi, che massacra tibetani e uiguri, che tiene in galera gli oppositori, che costringe le donne all’aborto coatto. Non ci sono più limiti all’indignazione pubblica che intima ai governanti di disertare il commercio internazionale con la Russia di Putin, dove i diritti umani sono sconosciuti, i gay vengono perseguitati, i blogger arrestati con pretesti grotteschi e condanne emesse da tribunali intimiditi dal potere politico, e un gruppo di donne dissidenti un po’ sconsiderate chiamate Pussy Riot viene ancora trattenuto in carcere nel silenzio generale come se si avesse a che fare con una banda di efferati criminali. Mai più: mai più diritti umani negati o conculcati. L’ambasciata cubana risuona delle proteste di chi trova osceno il trattamento riservato all’Avana ai dissidenti costretti allo sciopero della fame. I massacri di regimi dispotici come quello di Mugabe oramai trovano nella nostra opinione pubblica un’attenzione vigile e intransigente. Abbiamo appreso la lezione. Non lasceremo che nessun essere umano sia umiliato. Non saremo più indifferenti. O no? Giustizia: un’amnistia per i reati sociali Il Manifesto, 22 luglio 2013 Negli ultimi mesi, fra alcune realtà sociali, politiche e di movimento, ma anche singoli attivisti e avvocati, è nato un dibattito sulla necessità di lanciare una campagna politica sull’amnistia sociale e per l’abrogazione di quell’insieme di norme che connotano l’intero ordinamento giuridico italiano e costituiscono un vero e proprio arsenale repressivo e autoritario dispiegato contro i movimenti più avanzati della società. Da tempo l’Osservatorio sulla repressione ha iniziato a effettuare un censimento sulle denunce penali contro militanti politici e attivisti di lotte sociali. Ora abbiamo la necessità, per costruire la campagna, di un quadro quanto più possibile completo, che porterà alla creazione di un database consultabile on-line. Ad oggi sono state censite 17 mila denunce. Il nuovo clima di effervescenza sociale degli ultimi anni, che non ha coinvolto solo i tradizionali settori dell’attivismo politico più radicale ma anche ampie realtà popolari, ha portato a una pesante rappresaglia repressiva, come già era accaduto nei precedenti cicli di lotte. Migliaia di persone che si trovavano a combattere con la mancanza di case, la disoccupazione, l’assenza di adeguate strutture sanitarie, la decadenza della scuola, il peggioramento delle condizioni di lavoro, il saccheggio e la devastazione di interi territori in nome del profitto, sono state sottoposte a procedimenti penali o colpite da misure di polizia. Così come sono stati condannati e denunciati militanti politici che hanno partecipato alle mobilitazioni di Napoli e Genova 2001 e alle manifestazioni del 14 dicembre 2010 e del 15 ottobre 2011 a Roma. Il conflitto sociale viene ridotto a mera questione di ordine pubblico. Cittadini e militanti che lottano contro le discariche, le basi militari, le grandi opere di ferro e di cemento, come terremotati, pastori, disoccupati, studenti, lavoratori, sindacalisti, occupanti di case, si trovano a fare i conti con pestaggi, denunce e schedature di massa. Un “dispositivo” di governo che è stato portato all’estremo con l’occupazione militare della Val di Susa. Una delle conseguenze di questa gestione dell’ordine pubblico, applicato non solo alle lotte sociali ma anche ai comportamenti devianti, è il sovraffollamento delle carceri, additate dalla anche comunità internazionale come luoghi di afflizione dove i detenuti vivono privi delle più elementari garanzie civili e umane. Ad esse si affiancano i Cie, dove sono recluse persone private della libertà e di ogni diritto solo perché senza lavoro o permesso di permanenza in quanto migranti, e gli Opg, gli ospedali di reclusione psichiatrica più volte destinati alla chiusura, che rimangono a baluardo della volontà istituzionale di esclusione totale e emarginazione dei soggetti sociali più deboli. Sempre più spesso dunque i magistrati dalle aule dei tribunali italiani motivano le loro accuse sulla base della pericolosità sociale dell’individuo che protesta: un diverso, un disadattato, un ribelle, a cui di volta in volta si applicano misure giuridiche straordinarie. Accentuando la funzione repressivo-preventiva (fogli di via, domicilio coatto, Daspo), oppure sospendendo alcuni principi di garanzia (leggi di emergenza), fino a prevederne l’annichilimento attraverso la negazione di diritti inderogabili. È ciò che alcuni giuristi denunciano come spostamento, sul piano del diritto penale, da un sistema giuridico basato sui diritti della persona a un sistema fondato prevalentemente sulla ragion di Stato. Una situazione che nella attuale crisi di legittimazione del sistema politico e di logoramento degli istituti di democrazia rappresentativa rischia di aggravarsi drasticamente. Non è quindi un caso che dal 2001 a oggi, con l’avanzare della crisi economica e l’aumento delle lotte, si contano 11 sentenze definitive per i reati di devastazione e saccheggio, compresa quella per i fatti di Genova 2001, a cui vanno aggiunte 7 persone condannate in primo grado a 6 anni di reclusione per i fatti accaduti il 15 ottobre 2011 a Roma, mentre per la stessa manifestazione altre 18 sono ora imputate ed è in corso il processo. Le lotte sociali hanno sempre marciato su un crinale sottile che anticipa legalità future urtando quelle presenti. Le organizzazioni della classe operaia, i movimenti sociali e i gruppi rivoluzionari hanno storicamente fatto ricorso alle campagne per l’amnistia per tutelare le proprie battaglie, salvaguardare i propri militanti, le proprie componenti sociali. Oggi sollevare il problema politico della legittimità delle lotte, anche nelle loro forme di resistenza, condurre una battaglia per la difesa e l’allargamento degli spazi di agibilità politica, può contribuire a sviluppare la solidarietà fra le varie lotte, a costruire la garanzia che possano riprodursi in futuro. Le amnistie sono un corollario del diritto di resistenza. Lanciare una campagna per l’amnistia sociale vuole dire salvaguardare l’azione collettiva e rilanciare una teoria della trasformazione, dove il conflitto, l’azione dal basso, anche nelle sue forme di rottura, di opposizione più dura, riveste una valenza positiva quale forza motrice del cambiamento. [...] Aprire un percorso di lotta e una vertenza per l’amnistia sociale - che copra reati, denunce e condanne utilizzati per reprimere lotte sociali, manifestazioni, battaglie sui territori, scontri di piazza - e per un indulto che incida anche su altre tipologie di reato, associativi per esempio, può contribuire a mettere in discussione la legittimità dell’arsenale emergenziale e fungere da vettore per un percorso verso una amnistia generale slegata da quegli atteggiamenti compassionevoli e paternalisti che muovono le campagne delegate agli specialisti dell’assistenzialismo carcerario, all’associazionismo di settore, agli imprenditori della politica. Riportando l’attenzione dei movimenti verso l’esercizio di una critica radicale della società penale che preveda anche l’abolizione dell’ergastolo e della tortura dell’art. 41 bis. Chiediamo a tutti e tutte i singoli, le realtà sociali e politiche l’adesione a questo manifesto, per iniziare un percorso comune per l’avvio della campagna per l’amnistia sociale. Prime firme: Acad, Associazione contro abusi in divisa onlus, Blocchi Precari Metropolitani, Roma, Coordinamento regionale dei Comitati NoMuos, Comitato Piazza Carlo Giuliani - Genova, Confederazione Cobas, Unione sindacale di base, Legal Team Italia. Movimento No Tav, Osservatorio sulla repressione, Rete 28 aprile Fiom-opposizione Cgil, Consiglio Metropolitano di Roma, Cpoa Rialzo, Cosenza, Csa Depistaggio, Benevent, Csa Germinal Cimarelli, Terni, Csoa Angelina Cartella, Reggio Calabria. Giustizia: detenuti, violazioni costose; cella piccola e affollata? ora lo Stato deve risarcire di Patrizio Gonnella Italia Oggi, 22 luglio 2013 Violare i diritti umani dei detenuti ha un costo per lo Stato. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) è stata condannata a risarcire un detenuto ristretto nel carcere di Lecce in condizioni lesive della sua dignità umana. La sentenza n. 29971/13 dello scorso 12 luglio della Prima sezione penale della Corte di cassazione è un precedente giurisprudenziale di grandissima importanza che potrebbe dare origine a una valanga nei confronti delle povere tasche del Ministero della giustizia. Nel caso in questione il Ministero deve risarcire 2.600 euro a un detenuto costretto a essere chiuso in una cella piccola e affollata, con pochissima luce naturale, senza acqua calda per lunghe diciotto ore al giorno. Il detenuto aveva presentato reclamo al magistrato di sorveglianza della città salentina. Questi, con una ordinanza innovativa e coraggiosa, non si era limitato ad accogliere il reclamo, ma stravolgendo una casistica precedente, aveva condannato l’amministrazione penitenziaria a risarcire il danno subito dal detenuto. Una decisione presa - sulla base della giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani - nonostante non vi sia nella legge penitenziaria del 1975 alcun riferimento espresso a un potere del genere nelle mani del giudice di sorveglianza. Quella risarcitoria è infatti di una prerogativa tipica del giudice civile. Di fronte alla assenza di norme specifiche il Procuratore generale aveva sostenuto che il provvedimento del giudice leccese fosse addirittura abnorme. La decisione della prima sezione penale della Cassazione ha invece smentito ogni previsione nonché le richieste del procuratore. Vedremo dalle motivazioni se tale sentenza è stata favorita dal fatto che il Dap ha presentato in ritardo, ovvero oltre i termini di legge consentiti, il ricorso contro l’ordinanza del giudice leccese. In ogni caso il dado è tratto. E ora questa prima sentenza dei giudici supremi potrebbe determinare una valanga di reclami e di ordinanze con costi notevoli per l’amministrazione penitenziaria. Quest’ultima, pur non avendo possibilità di incidere sui numeri del sovraffollamento di prerogativa legislativa, potrebbe però nei limiti delle sue competenze favorire migliori condizioni di detenzione. Ad esempio evitando la permanenza in celle affollate per lunghe 20-22 ore come avviene in media in molte case circondariali. La sanzione detentiva, d’altronde, è una sanzione alla reclusione in carcere e non alla chiusura in cella. Vanno pensate e costruite occasioni di socializzazione e ricreazione comunitaria che favoriscano l’apertura delle celle. Di certo la peggiore delle risposte, che potrebbe addirittura irrigidire ulteriormente la magistratura di sorveglianza, è fare quanto accaduto a Padova. Qui il detenuto che aveva presentato reclamo al magistrato di sorveglianza (da questi accolto) in quanto soggiornante in una cella con meno di tre metri quadri, è stato trasferito in un carcere lontano dai suoi affetti dove di metri quadri ne avrebbe uno in più, ovvero quattro. Questa è una decisione che assomiglia a una ritorsione piuttosto che alla volontà di risolvere un problema strutturale. Giustizia: tre leggi per non arrendersi ad una giustizia “minore” di Alessandro Graziadei www.unimondo.org, 22 luglio 2013 Negli scorsi mesi è stata lanciata la campagna “Tre leggi per la giustizia e i diritti” promossa da diverse associazioni e organizzazioni italiane impegnate nell’introduzione del reato di tortura, nella difesa dei diritti dei detenuti e nella revisione delle leggi sulle droghe. Un’iniziativa importante che nasce dalla sentenza dell’8 gennaio 2013 della Corte Europea dei Diritti Umani con il caso Torreggiani che ha condannato l’Italia per trattamenti disumani e degradanti, in relazione allo stato delle carceri, imponendo alle autorità italiane l’assunzione di un piano per le riforme in ambito penale e penitenziario nel nome della protezione della dignità umana. Per i promotori “Si tratta dell’ennesimo appello alla cittadinanza affinché dal basso possa contribuire direttamente ad affermare principi di rispetto ed equità, nonché temi universali come quelli dei diritti umani per i quali troppo spesso la classe politica dimostra di avere poca sensibilità e propensione”. L’Italia ha ora un anno di tempo per ripristinare la legalità internazionale e costituzionale nell’ambito del sistema penitenziario, una missione non impossibile, ma che dipenderà molto dalle decisioni del Governo perché il sovraffollamento non è una calamità naturale, né un mostro invincibile: basta cambiare le leggi criminogene alla radice del fenomeno. Le norme di questa proposta di legge, frutto di un lavoro condiviso, hanno l’intenzione di ripristinare la legalità (internazionale e costituzionale) e di contrastare in modo sistemico il sovraffollamento nelle carceri agendo in particolare proprio su quelle 3 leggi che producono carcerazione senza produrre sicurezza. La prima proposta vuole sopperire a una lacuna normativa grave. In Italia manca, infatti, il crimine di tortura nonostante vi sia un obbligo internazionale in tal senso. “Il testo prescelto è quello codificato nella Convenzione delle Nazioni Unite, importante perché la proibizione legale della tortura qualifica un sistema politico come democratico” ha spiegato il comitato promotore. “Nel 1764 Cesare Beccaria pubblica Dei delitti e delle pene, è la prima volta che la tortura e la pena di morte vengono messe seriamente in discussione - ha spiegato Daniele Vicari regista del film Diaz che in questa campagna ha deciso di metterci la faccia. 220 anni dopo l’Onu emana una convenzione contro la tortura chiedendo a tutti gli stati di aderirvi e nel 1987 la Comunità Europea chiede a tutti gli stati membri di introdurla nei propri codici penali di ciascun paese. Nel 2013 l’Italia non lo ha ancora fatto, per questo firmare questa petizione è un minimo dovere di civiltà e se vogliamo chieder al nostro Parlamento di adeguare il codice penale italiano alla normativa Onu dobbiamo andare presso tutti gli sportelli comunali e firmare!”. La seconda delle proposte di legge vuole invece intervenire in materia di diritti dei detenuti e di riduzione dell’affollamento penitenziario. Il 29 giugno 2010 è stato approvato il piano carceri dall’allora Governo Berlusconi, che prevedeva la realizzazione di 9.150 posti, per un importo totale di € 661.000.000. Oggi i fondi sono calati a 450 milioni, ma neanche un mattone è stato posto. “Non è con l’edilizia che si risolve la questione carceraria, ma intervenendo sui flussi in ingresso e in uscita - ha precisato il comitato promotore. Le norme da noi elaborate vogliono rompere l’anomalia italiana ripristinando la legalità nelle carceri come anche il Csm ha chiesto, rafforzando il concetto di misura cautelare intramuraria come extrema ratio, pur previsto nel nostro ordinamento”. La modifica normativa sembra così essere indispensabile per porre fine al ricorso sistematico al carcere nella fase cautelare come una forma di pena anticipata prima del processo. Un buon inizio per la campagna potrebbe essere “l’abolizione dell’odioso reato di clandestinità, con i suoi costi enormi umani ed economici, e un intervento drastico sulla legge Cirielli in materia di recidiva, ripristinando la possibilità di accesso ai benefici penitenziari e azzerando tutti gli aumenti di pena”. Infine la terza proposta vuole modificare la legge sulle droghe che tanta carcerazione inutile produce nel nostro Paese. Le pene vigenti per la detenzione a fini di spaccio oggi sono molto alte (da 6 a 20 anni). La presunzione di spaccio continua a portare in carcere semplici consumatori o tossicodipendenti, che poi non riescono neanche ad accedere alle pene alternative proprio a causa della pena elevata, anche nei confronti dei fatti di lieve entità. Inoltre viene punita indiscriminatamente anche la coltivazione casalinga di canapa ad uso esclusivamente personale, colpendo così paradossalmente (e pesantemente) i consumatori che hanno deciso di sottrarsi al mercato controllato dalle narcomafie. Per i promotori, in questo modo, “Viene quindi superato il paradigma punitivo della legge Fini-Giovanardi, depenalizzando completamente i comportamenti dei semplici consumatori, consentendo la coltivazione di cannabis per uso personale, diversificando il destino dei consumatori di droghe leggere da quello di sostanze pesanti. Inoltre, diminuendo le pene e armonizzandole al resto del codice penale, si rendono accessibili le misure alternative ai tossicodipendenti eventualmente condannati”. Per Elio Germano, attore del film Diaz, che come don Luigi Ciotti e Ascanio Celestini ha aderito alla campagna, “Quella del sovraffollamento carcerario è un’emergenza nascosta, che arriva agli onori delle cronache quasi esclusivamente per le tragiche notizie sui suicidi che ogni giorno si consumano tra i detenuti”, ha spiegato Germano nello spot realizzato a favore della raccolta firme lanciato sul sito www.3leggi.it e sui profili facebook e twitter della campagna. “La causa principale del sovraffollamento sappiamo essere la legge sulle droghe. Quasi il 40% dei detenuti è in prigione per averla violata ed è così che in Italia sono più i tossicodipendenti in carcere di quelli nelle comunità di recupero” ha concluso Germano Non è difficile quindi immaginare come queste tre semplici leggi permetterebbero un importante ridimensionamento di questo problema tutto italiano che allarma l’Europa. “In questo momento vi sono nel Belpaese 22 mila detenuti in più rispetto ai posti letto regolamentari - ha concluso il comitato promotore. Abbiamo il tasso di affollamento penitenziario più alto della Unione Europea. Il sistema è fuori ogni controllo. I detenuti dormono per terra. Non vi sono più spazi comuni. Oziano spesso nelle loro celle per oltre 20 ore al giorno rendendo evanescente la funzione rieducativa della pena. Il personale di sorveglianza vive analogamente una condizione di forte sofferenza”. Basterebbe poco per invertire questa tendenza, ma come ha ricordato il 26 giugno durante la Giornata contro la tortura la sorella di Stefano Cucchi, anche lei in uno spot a sostegno della campagna, “Ci sono temi scomodi e impopolari che nel nostro Paese finiscono sempre all’ultimo posto nell’ordine delle priorità, ma alcuni rappresentano delle vere e proprie emergenze perché riguardano la violazione di diritti umani fondamentali. Che in Italia manchi una legge che punisca il reato di tortura è una cosa gravissima perché in qualche modo legittima coloro che la compiono”. Per questo, ha concluso Ilaria Cucchi, “chiedo a tutti di sottoscrivere le tre leggi di iniziativa popolare per sollevare l’attenzione su temi che non possono più aspettare”. Se le condizioni inumane delle nostre carceri mettono in gioco la credibilità democratica del nostro Paese occorre chiedersi se noi intendiamo essere complici, anche solo per l’omissione di questa firma, dell’illegalità quotidiana. Giustizia: Sappe; rammarico e delusione per conferma Giovanni Tamburino a capo Dap Comunicato stampa, 22 luglio 2013 Il Sappe - Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria - prima e più grande organizzazione rappresentativa del personale della Polizia Penitenziaria, ha preso atto con grande delusione della conferma del Pres. Giovanni Tamburino alla guida del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Più volte, infatti, il Sappe aveva chiesto alla Ministro Cancellieri di avvicendare il capo del Dap che, ad avviso del sindacato, è responsabile di una gestione insoddisfacente del personale, dei mezzi e delle strutture penitenziarie. La Ministro Cancellieri ha perso, sempre a parere del Sappe, una grande occasione per insediare un Prefetto al dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, da scegliere tra personalità dotate di spiccate capacità manageriali e di gestione del personale di polizia. Quelle doti che sono sempre mancate al Presidente Tamburino, motivo per il quale il Sappe aveva espresso, già nel febbraio 2012, tutta la propria contrarietà alla sua nomina al vertice del sistema penitenziario italiano. Ciò nonostante, il Sappe, consapevole dello stato di abbandono del personale (sempre più stanco e sfiduciato), intende rinnovare la richiesta di commissariamento dell’Amministrazione Penitenziaria, in analogia a quanto già fatto per l’edilizia per la quale tutte le competenze sono state delegate al Prefetto Sinesio, per affidare il comando della Polizia Penitenziaria ad un dirigente proveniente dal Ministero dell’Interno con specifiche esperienze di gestione del personale. Ad ogni modo, il Sappe non ha nessuna intenzione di abdicare di fronte alle proprie responsabilità di rappresentanza del personale e per questo, a differenza di qualche sindacato giallo di circostanza, si appellerà anche al Capo dello Stato, affinché sia restituita al Corpo della Polizia Penitenziaria quella dignità propria di una Forza dell’Ordine dello Stato, soprattutto in questo drammatico momento che sta attraversando l’esecuzione penale italiana. Giustizia: Riccardo Noury; bisogna reagire, il dovere non si ferma al confine” L’Unità, 22 luglio 2013 Il portavoce di Amnesty International Italia: “Il caso Shalabayeva non è un affare interno che finisce con l’espulsione. Il governo si faccia sentire con Astana”. “L’Italia ha espulso la signora Shalabayeva e sua figlia verso un Paese che non rispetta i diritti umani, e dunque le responsabilità del governo non possono essere limitate a ciò che è accaduto a Roma a fine maggio, ma devono estendersi a ciò che accade ora e potrà accadere in futuro in Kazakistan dove le abbiamo rimandate a forza”. A sostenerlo è Riccardo Noury, portavoce e direttore della comunicazione di Amnesty International Italia. Visto da Amnesty International, c’è il rischio che cali il silenzio sulle sorti di Alma Shalabayeva e della piccola Alua? “Il rischio è evidente. Noi avevamo chiesto due cose: accertare le responsabilità di un atto, illegale, qual è l’espulsione della signora Shalabayeva e di sua figlia, e garantire l’incolumità e i diritti di queste ultime. Non è accettabile che ci si sia concentrati solo sul primo aspetto, quasi si trattasse di una questione di politica interna. La priorità per Amnesty International è che la vicenda della signora Shalabayeva sia seguita dal nostro governo per garantire che nei suoi confronti non vi sia persecuzione giudiziaria e che di ciò non abbia a pagare anche una minorenne. Non sta ad Amnesty indicare la soluzione, ma quello che chiediamo è che vi sia il massimo impegno per assicurare che i diritti della signora Shalabayeva siano rispettati, incluso il diritto alla libertà di movimento”. Quale potrebbe essere un atto concreto che l’Italia dovrebbe compiere? “Dovrebbe segnalare la preoccupazione che la signora Shalabayeva è a rischio di subire violazione di diritti umani e pretendere che questi vengano rispettati, incluso il diritto di lasciare il suo Paese qualora la signora lo desideri”. Cosa segnala il comportamento fin qui tenuto dall’Italia in questa vicenda? “Segnala come le relazioni dell’Italia con altri Paesi siano spesso condizionate da questioni che non hanno a che fare con i diritti umani, anzi li escludono. Segnala anche, sul piano interno, una scarsa sensibilità e conoscenza delle norme internazionali sui diritti umani, quasi che fossero standard da aggirare non appena il governo di un Paese “amico” ci rappresenti, come è accaduto nel caso Ablyazov, una situazione spacciandola come operazione antiterrorismo, quando poi si rivela una richiesta di collaborazione a perseguitare dissidenti e i loro familiari”. Sulla base dell’esperienza a tutto campo di Amnesty International, sono capitati casi come quello che ha visto vittime Alma Shalabayeva e sua figlia? “Sì, è capitato nell’ambito di relazioni di palese complicità tra Paesi che violano i diritti umani, come, ad esempio, testimoniano i numerosi casi di rimpatrio di oppositori tra la Russia e le ex repubbliche sovietiche asiatiche. È preoccupante che questo modus operandi abbia coinvolto anche l’Italia”. L’affaire Shalabayeva riporta alla luce la questione del diritto d’asilo in Italia: lei in queste ore è a Lampedusa, osservatorio particolare, frontiera avanzata in cui misurare la gravità del problema… “Lampedusa ha sempre dato degli insegnamenti sul modo di soccorrere e accogliere. Proprio in queste ore, mentre parliamo, un gruppo di eritrei, circa 200, compresi bambini e donne incinte, lanciano da Lampedusa una protesta contro il regolamento “Dublino 2” che impone di chiedere asilo nel primo Paese comunitario raggiunto. Il paradosso è che dicono all’Italia di non volere restare qui, ma l’Italia li blocca qui. Vorrebbero chiedere asilo in un Paese di loro scelta. Il messaggio che l’Italia deve prendere da questa protesta, è di lavorare all’interno delle istituzioni europee, per modificare profondamente il sistema d’asilo, che oggi come oggi anziché favorire la condivisione gioca allo scaricabarile: l’Europa scarica il barile su Roma, Roma lo scarica su Lampedusa. Oltre Lampedusa non c’è più Europa, c’è solo il mare e il cosiddetto “barile” sono uomini, donne incinte, bambini, che fuggono dall’inferno della tortura, della guerra, della fame”. Giustizia: morire a 25 anni per 5 portafogli contraffatti… annega per sfuggire alla polizia Il Manifesto, 22 luglio 2013 Sembra assurdo ma - proprio mentre impazza il dibattito sul razzismo - è quello che è successo a Mame Mor Diop, un ambulante senegalese che si guadagnava da vivere vendendo borse e statuette di legno tra il lungomare di Sanremo e quello di Ventimiglia. L’ultima borsa, Mame, l’ha venduto l’altro ieri, quando, proprio nella città di frontiera scappando da un controllo della polizia, è finito in acqua ed è annegato. La dinamica dell’incidente è ancora da ricostruire e il comitato provinciale dell’Arci ha già fatto pressione per l’apertura di un’inchiesta: soprattutto, non è chiaro se il giovane si sia dato alla fuga alla vista della polizia da lontano o si sia gettato in acqua per sfuggire all’inseguimento delle forze dell’ordine. Per ora, la prima versione della polizia si discosta molto da quella fornita dagli amici del ragazzo senegalese: secondo le forze dell’ordine, gli agenti sarebbero corsi incontro al giovane immigrato, già finito in acqua, per cercare di salvarlo, mentre alcuni ambulanti presenti sulla scena avrebbero riferito che i poliziotti stessero rincorrendo Mame con l’intenzione di confiscargli la merce che aveva con sé. I fatti si sono svolti nel pomeriggio del 19 tra il lungomare e la foce del fiume Roja, nell’area del grande mercato del venerdì di Ventimiglia, frequentatissimo da giovani venditori africani che sbarcano il lunario allestendo per terra improvvisate bancarelle di oggetti di artigianato e di marchi di moda contraffatti. Si tratta, ovviamente, di un’attività illegale, anche se la necessità di mettere insieme il pranzo con la cena non sa di leggi. E così Mame, che viveva dei pochi euro che guadagnava in giornate passate al sole di fianco ai suoi portafogli falsi, ha pagato con la vita la sua determinazione a non lasciare nella mani degli agenti quella merce che, dopotutto, era il suo sostento. Negli ultimi anni il mercato del venerdì è stato teatro di tensioni crescenti tra i venditori legali e i sempre più numerosi irregolari, che arrivano anche da altre zone della riviera in cui la caccia ai commercianti illegali si è intensificata. Il caso di Diop, peraltro, non è un fulmine a ciel sereno. Chi frequenta il mercato “parla di continue scene di caccia all’uomo del tutto sproporzionate rispetto al tipo di reato, in una città, Ventimiglia, che avrebbe ben altre priorità in tema di legalità”. La tragedia di Mame ha inoltre due precedenti che risalgono agli anni passati e che non sono evidentemente serviti da monito alla polizia: altri due ambulanti hanno cercato di sfuggire alle forze dell’ordine gettandosi nelle pericolose correnti della foce del Roja e sono morti. Con Mame il numero delle vittime di questo assurdo gioco a guardia e ladri (con tante guardie e nessun ladro) sale a tre. Proprio nello stesso giorno (sempre venerdì scorso) in cui faceva il giro del web con relativo strascico di polemiche un video di un pittore abusivo che per sfuggire ai vigili che lo volevano arrestare si è buttato in un canale di Venezia. E se non ci è scappato il morto anche in questo caso è per pura casualità. La morte del ragazzo dell’altro ieri ha subito scatenato le proteste della comunità senegalese della cittadina ligure che è scesa spontaneamente in strada al fianco di qualche ventimigliese al grido di “polizia assassina, polizia razzista”. I manifestanti hanno organizzato un presidio alla Marina San Giuseppe e sotto il commissariato di Ventimiglia, dove intanto la polizia stava interrogando un altro giovane ambulante che si era dato alla fuga con Mame. Le manifestazioni si sono svolte pacificamente, nonostante gli insulti lanciati all’indirizzo del corteo da qualche passante. Ieri le proteste si sono spostate a Sanremo, la città in cui viveva Mame e in cui risiede una nutrita comunità di senegalesi. Nel pomeriggio è giunto a Ventimiglia, da Milano, il console del Senegal che, dopo aver fatto un sopralluogo nel punto dell’incidente, è rimasto a colloquio con le polizia. Secondo le prime ricostruzioni il console avrebbe preso per buona la versione delle autorità. Lettere: ci sono due modi per raccontare una notizia: uno diabolico e uno simbolico di Don Marco Pozza (Cappellano del carcere di Padova) Il Mattino di Padova, 22 luglio 2013 Ci sono due modi per raccontare una notizia: uno diabolico e uno simbolico. Affrontarla in modo diabolico significa farlo in un modo frammentario, sospettoso, analitico: è il modo di ragionare del Demonio nei Vangeli. Affrontarla in maniera simbolica, invece, significa farlo con uno sguardo che tenti di coglierne la totalità, la profondità, il mistero stesso in essa racchiuso. Apri i giornali e le notizie affrontate in maniera diabolica prosperano: il mondo va male, si cercano le cause, si analizzano le circostanze, si compie l’analisi grammaticale delle singole azioni. Raccontare le stesse notizie in modo simbolico non ne cambierebbe affatto il significato, semplicemente le si guarderebbe con gli occhi degli innamorati, con un colpo d’ala che renda l’informazione una vera e propria occasione di tenere “in-forma” chi legge. Giorni fa qualche giornale locale trattava come uno scoop una notizia riguardante il mondo del carcere: la procura respinge a due detenuti la possibilità di usufruire di alcuni giorni per partecipare ad una vacanza formativa. Precisato che la procura potrà avere avuto le sue buone ragioni per ritenerla una “concessione eccessiva” e salvo restando che i due detenuti hanno semplicemente chiesto ciò che per loro prevede la legge (i “permessi premio” fanno parte del percorso di esecuzione della pena), la notizia è stata presentata in maniera diabolica, seppur corretta: “Agli assassini la procura dice no”. Hanno fatto, cioè, l’analisi grammaticale della loro biografia, dei loro delitti e delle conseguenze dei loro atti delittuosi. Fino a far dire al lettore dell’osteria: “Anche in ferie vogliono andare gli assassini!”. Fosse stata raccontata in maniera simbolica - pur salvando la precisazione della procura e il rispetto di coloro che soffrono a causa delle loro gesta, si sarebbe dovuto porre l’accento su un altro aspetto della notizia, cioè sul fatto che centocinquanta famiglie padovane, con relativi pargoli, bambini e adolescenti al seguito, abbia da anni il coraggio e l’ardire di ospitare durante le loro vacanze gente che nella vita ha sbagliato, fino a fare deragliare la loro vita e quelle altrui. Sarebbe stata la stessa notizia ma affrontata con il piglio dell’amore e, quindi, sarebbe divenuta una notizia buona da leggersi. Con un accredito maggiore: probabilmente avrebbe instillato nel cuore di chi la leggeva il sospetto che l’umanità non sia poi così aguzzina e razzista ma tenga ancora notevoli sprazzi di misericordia e di amore. Facendo di una vacanza - tempo sacro per coloro che durante l’anno s’adoprano nella laboriosità del quotidiano - un’occasione per testimoniare alla gente un amore più viscerale per la vita e, laddove le condizioni del cuore lo permettano, l’invito ad una maggiore misericordia nei confronti della gente che sbaglia. Dentro ogni giornale ci sono fiumi di parole e tonnellate di notizie: Ignazio Ramonet, scrittore e giornalista spagnolo, ha calcolato che negli ultimi trent’anni siano state prodotte nel mondo più informazioni che nei cinquemila anni precedenti, mentre un solo numero domenicale del New York Times contiene più informazioni di quante ne poteva consumare un erudito del Settecento in tutta la sua vita. Aumentata a dismisura la copiosità delle notizie, non cambia la duplice possibilità in esse custodite: raccontarle in maniera diabolica o simbolica. Oggi la gente va cercando speranza tra i percorsi del mondo: intestardirci a raccontare questo splendido mondo in maniera diabolica non aiuta la gente a provare sussulti d’innamoramento. Perché la creatura ha bisogno di “visioni simboliche” per convertirsi. E ci si converte solo lasciandosi sorprendere, per poter essere veri. Era una notizia da scoop quella citata: forse lo scoop, però, non stava nel “no” della Legge ma nel “sì” dell’accoglienza. Sicilia: protesta dei detenuti al Pagliarelli. Il Garante Fleres: “L’amnistia è necessaria” di Claudio Porcasi www.blogsicilia.it, 22 luglio 2013 “L’amnistia è un provvedimento da prendere in considerazione se si vuole davvero risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri che come testimonia la lettera inviata oggi al ministro dai detenuti di Pagliarelli è un’emergenza”. Queste le parole di Salvo Fleres , garante dei detenuti siciliani, dopo l’iniziativa di protesta messa in atto nel carcere palermitano. Oggi un gruppo di detenuti ha scritto una lettera indirizzata al ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri per chiedere che venga emesso il provvedimento di “amnistia e indulto”. “Il ministro Cancellieri - aggiunge Fleres - entro il mese di maggio sarà in Sicilia e visiterà alcuni istituti carcerari. La incontrerò e le chiederò di farsi promotrice di un iter legislativo per riformare il regime carcerario italiano. In tutta Italia le carceri sono sovraffollate. In Sicilia i detenuti sono 7200 a fronte di una capienza prevista di 4500 unità. Bisogna puntare subito sulle misure alternative alla reclusione”. Fleres invierà domani i suoi funzionari a Pagliarelli. “Purtroppo conosco già le condizioni in cui sono costretti a vivere i detenuti del carcere palermitano. La situazione più critica si registra nella sezione di alta sicurezza”. “L’Italia - avverte il garante dei detenuti siciliani - dovrà investire sull’adeguamento delle strutture detentive altrimenti presto dovrà pagare i danni ai detenuti”. Sardegna: sos magistrati; con detenuti 41-bis alto rischio d’infiltrazioni mafiose nell’isola di Pier Giorgio Pinna La Nuova Sardegna, 22 luglio 2013 Gomorra alle porte delle nuove carceri. “Con l’arrivo in Sardegna dei detenuti sottoposti al regime del 41 bis c’è il forte pericolo d’infiltrazioni della criminalità organizzata”. A lanciare l’allarme sono i magistrati impegnati sul fronte antimafia nel centro-nord dell’isola: “Attenzione - dicono - si rischiano pesantissime conseguenze”. Che fare, allora? “Solo attraverso indagini preventive si riuscirà a bloccare organizzazioni come Cosa Nostra, Camorra e ‘Ndrangheta sostengono. Ma per attuare queste strategie bisogna dare autonomia alla sezione staccata della Corte d’appello di Sassari: così, a costi zero, si potrà combattere una lotta che si annuncia molto difficile”. E se a dirlo non è il solito politico in campagna elettorale permanente ma gli operatori della giustizia, c’è davvero da essere preoccupati. Già, perché a denunciare per la prima volta in termini tanto chiari e scoperti un fenomeno così grave sono alcuni tra gli inquirenti più esperti. E qui si parla d’inchieste sul riciclaggio di denaro sporco, sulle ramificazioni mafiose nelle aziende sarde in difficoltà, sui tentativi delle gang emergenti di controllare vasti contesti economici dell’isola. Un problema nel problema, quest’ultimo: è la stessa articolazione geografica di ampie regioni che vanno da Alghero e Stintino sino alla Gallura, toccando le aree settentrionali della provincia di Nuoro, a suggerire metodi investigativi che vedano ovunque la presenza costante di uomini della polizia giudiziaria specialisti nei controlli, negli accertamenti, nella repressione. Procedure. Tra i più convinti sull’urgenza di risposte adeguate, a Sassari, è l’avvocato generale della Repubblica Claudio Lo Curto, che ha lavorato sul versante della battaglia contro Cosa Nostra a Caltanissetta e nel Trapanese. In seguito ha operato prima in Ogliastra e poi, come capo della Procura generale a Sassari, e con competenze per tutto il Nord e il Centro Sardegna. Oggi parla quindi per esperienza diretta. E spiega: “Se si rendesse autonoma l’attuale sezione di Corte d’appello, il beneficio immediato sarebbe la creazione a Sassari della Procura distrettuale competente per le indagini su criminalità organizzata, sequestri e altri gravi reati. La sua presenza in loco, e quella parallela delle forze dell’ordine, porterebbe a un più diretto controllo di tutte le zone a forte pericolo di contaminazione dopo l’apertura del carcere di Bancali. E questo senza nuove spese di alcun genere. Anzi, ci sarebbero risparmi: perché la nostra sezione è già dimensionata per pianta organica di magistrati e personale amministrativo come una vera Corte d’appello di media caratura, più grande cioè di altre che in Italia hanno minori carichi di attività”. Si dice sicuro dei futuri vantaggi della possibile svolta Mariano Brianda, sempre a Sassari presidente della sezione penale della Corte d’appello. Che osserva: “Una sede distaccata simile alla nostra di solito funziona come esperimento di breve durata. Da noi, invece, la situazione va avanti da 20 anni: caso unico a livello nazionale. E mai come in questi momenti si sente invece l’esigenza di reagire rispetto alle potenziali minacce della criminalità. Con squadre di polizia giudiziaria dislocate stabilmente sui territori e una più immediata, diretta costanza di rapporti, che ora sono a volte resi ostici dalle difficoltà logistiche imposte dalle lunghe trasferte a Cagliari da parte degli investigatori che solitamente operano in Gallura, nel Sassarese e nel Nuorese”. I precedenti. Non appena in cella arriveranno i primi boss sottoposti al regime carcerario più duro, comunque, saranno guai. Non ci sono ancora date precise, tanto per Bancali quanto per Uta (che dovrebbe aprire i battenti solo all’inizio del prossimo anno), ma il perché dell’emergenza è evidente. “I familiari e i personaggi che in genere li accompagnano ai colloqui non sbarcano da un aereo mezz’ora prima e se ne vanno mezz’ora dopo si lascia scappare un ex sottufficiale dei carabinieri che a suo tempo ha monitorato la posizione di Luciano Liggio che chiedeva la semilibertà da Badu ‘e Carros. No, questi arrivano qui dieci giorni prima e ripartono dieci giorni dopo. O ci siamo dimenticati di che cosa succedeva quando Raffaele Cutolo era all’Asinara negli anni 80?”. Timori. Le ragioni ancora più tecniche collegate a certi rischi le chiarisce lo stesso Lo Curto: “Le modalità d’infiltrazione sono note e collaudate, a partire dalle ricadute negative che ebbe l’obbligo di soggiorno in località lontanissime da quelle di dimora e che determinò in regioni del Nord Italia l’esportazione del fenomeno mafioso. Gli effetti furono così devastanti che nel 1988 il parlamento dispose che quell’obbligo coincidesse solo col luogo di abituale dimora”. Non a caso, negli stessi anni, s’instaurarono legami per lo spaccio della droga tra la malavita locale e gli Stiddari al “confino” nel Sulcis. “Ma venendo al 41 bis - prosegue l’avvocato generale - è estremamente probabile il rischio che la visita ai detenuti possa essere strumentale. Infatti, prima e dopo i colloqui, con possibilità di mascherare gli spostamenti durante la stagione turistica, i personaggi che accompagnano i parenti si tratterrebbero per molto più del necessario. Lo scopo? Studiare il territorio, sondare la sua permeabilità criminale, stringere rapporti di conoscenza che sarebbero poi pronti a intensificare con chi ha disponibilità economiche o potere d’influenza”. “Contemporaneamente le stesse persone potrebbero attivare contatti con titolari di imprese, aziende, esercizi in difficoltà - prosegue Lo Curto. Chiaro lo scopo: prospettare la “protezione” e un sostegno ingannevole: aiuti che il più delle volte equivalgono a ingenti prestiti di capitale con tassi elevatissimi. Una situazione che a lungo termine, a causa dell’impossibilità di fare fronte alla restituzione, si tradurrebbe nel trasferimento di fatto dell’ azienda nelle mani del malavitoso”. “Tutto ciò non si realizza in un giorno, ma si protrae con scansioni coincidenti con l’accompagnamento dei familiari del recluso, permettendo quindi un’intrusione sempre più capillare - conclude il magistrato. È inoltre facile prevedere che la criminalità di tipo mafioso sarà portata a operare in Sardegna, soprattutto in zone come la Gallura dov’è maggiore la disponibilità di ricchezza: né più né meno come nelle altre regioni”. Sistemi fragili. “Le infiltrazioni nel tessuto sociale potrebbero poi mirare a obiettivi più elevati, magari seguendo canoni rodati come il controllo degli appalti nella pubblica amministrazione e la sistematica imposizione del pizzo ai commercianti”, spiega il giudice Brianda. Il quale ricorda che “in un contesto economico debole nessuna impresa può dirsi al riparo da quest’eventualità”. E sostiene che, per questi stessi motivi, “non possiamo permetterci di abbassare la guardia”. Barbagia. D’accordo sulla necessità della svolta il procuratore della Repubblica di Nuoro. “Per le esigenze d’indagine avere la Dda a Sassari consentirebbe un utilizzo più razionale ed efficace della polizia giudiziaria”, osserva Andrea Garau. “E per capirlo - aggiunge - basta pensare a che cosa significa oggi organizzare da Cagliari missioni in certe aree del centro Sardegna e addirittura a Olbia o alla Maddalena”. “In definitiva, l’autonomia della Corte d’appello a Sassari darebbe l’opportunità di un raccordo più organico e funzionale, permettendo perfino risparmi nel funzionamento della macchina giudiziaria”, osserva il magistrato, che conosce bene la realtà del Nord Sardegna per averci lavorato a lungo in passato. “Ed è evidente alla fine come, di fronte all’arrivo dei detenuti “al 41 bis”, tutte le misure di prevenzione debbano essere prese in considerazione, a cominciare da quelle patrimoniali, le più efficaci in assoluto visto il timore che le cosche hanno di perdere i loro mezzi finanziari d’azione”, afferma in conclusione il procuratore della Repubblica di Nuoro. Prospettive. Quadro a tinte fosche, dunque, se non saranno posti rimedi adeguati e immediati. Con Gomorra alle porte vengono in mente le parole pronunciate da Beppe Pisanu, sino a pochi mesi fa presidente della Commissione parlamentare antimafia, a un convegno sulle norme antiriciclaggio: “Anche la Sardegna è a rischio: ha già subito intrusioni mafiose, italiane e straniere, sulle quali occorre tenere gli occhi quanto più aperti possibile. L’isola è sana, ma non è inviolabile. Guai a noi se sottovalutassimo questi pericoli: l’insediamento della criminalità organizzata costituirebbe una minaccia permanente alla convivenza civile, un ostacolo enorme al nostro progresso”. Calabria: PolPen, mancano uomini e mezzi, il Sappe proclama lo stato di agitazione Ansa, 22 luglio 2013 “Dall’analisi dei dati relativi alla capienza negli istituti penitenziari della Calabria, soprattutto per quanto riguarda Catanzaro, emergono delle forti incongruenze. A fronte di una capienza, dichiarata dal Dipartimento, di 354 posti ad ottobre dello scorso anno, improvvisamente, quest’anno, senza che avvenisse alcun cambiamento strutturale, i posti sono diventati 617, a fronte di una presenza di 570 detenuti”. Lo affermano, in una nota congiunta, Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Damiano Bellucci, segretario nazionale. “Così posta - prosegue - la questione sembrerebbe che il carcere di Catanzaro sia inutilizzato in parte, invece, da quanto ci è stato riferito di recente, circa 60 detenuti stanno per essere trasferiti ad Arghillà, insieme ad altri di altre strutture calabresi proprio a causa del sovraffollamento. Sembra quindi che i dati forniti dal Dipartimento siano alterati; ci auguriamo non ad arte, per far vedere ciò che non esiste: quell’incremento di posti, a livello nazionale, che, in realtà, non c’è . A fronte delle iniziative del Dipartimento: apertura di un nuovo padiglione a Paola, apertura di Arghillà, prossima apertura di un nuovo padiglione a Catanzaro, senza un adeguato incremento di personale, ipotesi di chiusura di Lamezia Terme, carenza di mezzi e di risorse economiche, il Sappe indice lo stato di agitazione regionale, nell’attesa di concrete risposte da parte del Dipartimento”. “In caso contrario - concludono Durante e Bellucci - valuteremo l’ipotesi di una manifestazione regionale, da tenersi nei prossimi giorni”. Intanto, per illustrare la situazione del carcere di Catanzaro, il Sappe terrà una conferenza stampa marted prossimo dopo una visita che sarà effettuata nella struttura. Rossano Calabro (Cs): detenuto greco muore suicida nel circuito di media sicurezza Agi, 22 luglio 2013 Un detenuto straniero, di origine greca, ristretto nel circuito di media sicurezza della casa di reclusione di Rossano Calabro, questa mattina si è tolto la vita, impiccandosi. Lo rende noto l’organizzazione sindacale Sappe. “La casa di reclusione di Rossano, al pari delle altre strutture nazionali e regionali - si legge in una nota stampa - è interessata da sovraffollamento di detenuti. Infatti, a fronte di 233 posti regolamentari, risultano essere presenti circa 320 detenuti, dei quali circa 130 appartenenti al circuito di alta sicurezza. A Rossano sono anche ristretti, in un apposito reparto, 11 detenuti per reati di terrorismo internazionale. Da tempo richiediamo l’adeguamento dell’organico del Corpo di Polizia penitenziaria per l’intera regione e per la struttura di Rossano Calabro che ha cambiato destinazione d’uso, tant’è che a fronte delle 90 unità previste dal decreto ministeriale del 2001, oggi funziona, con notevoli difficoltà, attraverso l’utilizzo di circa 130 appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria che, lo scorso anno, sono stati costretti ad effettuare circa 47.000 ore di lavoro straordinario in servizi che continuano ad essere organizzati su tre quadranti orari”. Domani, alle ore 10.30, il Sappe terrà una conferenza stampa nel carcere di Catanzaro, dopo aver visitato la struttura alle ore 9.30. Saranno effettuate riprese fotografiche e video da consegnare ai giornalisti che interverranno. Nel corso della conferenza verrà illustrata la situazione della regione Calabria e quella nazionale. A fronte delle iniziative del Dipartimento: apertura di un nuovo padiglione a Paola, apertura di Arghillà, prossima apertura di un nuovo padiglione a Catanzaro, senza un adeguato incremento di personale, ipotesi di chiusura di Lamezia Terme, carenza di mezzi e di risorse economiche, il Sappe indice lo stato di agitazione regionale, nell’attesa di concrete risposte da parte del Dipartimento - affermano Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe e Damiano Bellucci, segretario nazionale - in caso contrario valuteremo l’ipotesi di una manifestazione regionale, da tenersi nei prossimi giorni”. Roma: Boldrini visita Regina Colei “nelle carceri sovraffollamento non più tollerabile” Asca, 22 luglio 2013 “Ritengo importante tenere alta l’attenzione su questo tema che è una cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese”, ha detto Boldrini, ricordando che in Parlamento è allo studio del Senato dopo l’approvazione alla Camera il provvedimento di messa alla prova per pene alternative alla detenzione. È stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. Nel corso della visita odierna a Regina Coeli a Roma, sia nei colloqui con il personale del carcere sia nell’incontro con i detenuti, Boldrini ha detto che la piaga del sovraffollamento che “veramente non è più tollerabile”. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614; si prevede prossimamente l’attivazione di altre due sezioni adesso chiuse per ristrutturazione, la quinta e la sesta, per aumentare la capienza, ma i sindacati sottolineano che sarebbe necessario aumentare anche le guardie carcerarie, già in forte affanno. “Ritengo importante tenere alta l’attenzione su questo tema che è una cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese”, ha detto Boldrini, ricordando che in Parlamento è allo studio del Senato dopo l’approvazione alla Camera il provvedimento di messa alla prova per pene alternative alla detenzione. “Chi ha sbagliato è giusto che paghi - ha detto Boldrini - non stiamo parlando di sconti ma ritengo che scopo della pena sia anche la rieducazione, per uscire dal carcere migliori di come si è entrati, ma in condizioni di sovraffollamento la rieducazione diventa impossibile”. “La pena stabilita dal Codice è la mancanza di libertà, ma nel Codice non c’è scritto che ci deve essere una pena ulteriore, quella del sovraffollamento, e questo veramente non è più tollerabile - ha sottolineato Boldrini - spero che Parlamento e governo diano presto delle risposte concrete”. Sia nell’incontro con il personale del carcere che in quello con i detenuti, Boldrini ha poi detto che bisogna “rimettere a punto il sistema della custodia cautelare perché se le persone sono innocenti il danno è incalcolabile”. I detenuti nell’incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: “Secondo la Corte europea di Giustizia”, ha detto uno di loro “ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l’orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana”. Sappe: la prossima volta senza preavviso “Un plauso ed un ringraziamento particolare alla visita del Presidente della Camera, Laura Boldrini, presso il carcere romano di Regina Coeli, per l’attenzione mostrata alla grave emergenza delle carceri italiane”. Lo dichiarano Donato Capece e Giovanni Passaro, rispettivamente Segretario Generale e Segretario Provinciale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe (il più rappresentativo della categoria), che hanno segnalato “la grave carenza di organico del Corpo di Polizia Penitenziaria che determina una condizione detentiva al limite dei dettami costituzionali”. “Certo, per il futuro, sarebbe auspicabile che le alte cariche dello Stato visitassero gli istituti penitenziari senza darne preavviso, per percepire la realtà della vita detentiva. In particolare, non è apparso il quotidiano rapporto di 1 a 200, tra poliziotto penitenziario e detenuto, dove il personale è costretto a turni di servizio anche di 24 ore per garantire la sicurezza di Regina Coeli che attualmente ospita 1.011 detenuti a fronte di una capienza di 725 posti”, sottolineano. “La realtà penitenziaria che si vive è insostenibile, le condizioni di lavoro sono disumane e l’evoluto ordinamento penitenziario è divenuto impraticabile. Pertanto, è ora che la politica intervenga seriamente per il ripristino dei valori sanciti nella Carta Costituzionale. Perché anche la politica abbia cognizione - conclude Passaro - del duro lavoro della Polizia Penitenziaria al servizio del Paese”. Roma: da domani detenuti carcere di Regina Coeli in sciopero della fame Agi, 22 luglio 2013 Da domani i detenuti della seconda e terza sezione del carcere di Regina Coeli di Roma saranno in sciopero della fame. Lo ha annunciato uno dei detenuti del carcere nel corso dell’incontro avuto questa mattina con la presidente della Camera, Laura Boldrini. Lo sciopero della fame, ha spiegato il detenuto, è a sostegno delle iniziative sulla giustizia di Marco Pannella e in particolare dei referendum per cui i Radicali stanno raccogliendo le firme. La presidente Boldrini ha visitato la terza sezione di Regina Coeli, dove sono stati detenuti, nel periodo bellico, anche nomi illustri come Sandro Pertini e Giuseppe Saragat. Oggi, ci sono per lo più extracomunitari, in galera per spaccio. Laura Boldrini invece ha incontrato un gruppo di detenuti colpevoli di reati di truffa e contro il patrimonio pubblico, che hanno sollecitato l’intervento di governo e Parlamento sui problemi più urgenti delle carceri: sovraffollamento, condizioni igienico-sanitarie, problema della custodia cautelare. A Regina Coeli dovrebbero esserci al massimo 850 detenuti, e invece ce ne sono 1.100, viene riferito dagli assistenti penitenziari. La maggior parte è in attesa di sentenza definitiva. La Quinta sezione, appena ristrutturata, resta chiusa perché manca il personale: servirebbero infatti almeno 50 assistenti penitenziari e, ad oggi, una guardia controlla ben tre piani, il che significa 200 detenuti. Boldrini ha spiegato di aver voluto “fortemente questo incontro con voi perché altrimenti questa visita sarebbe stata una passerella, sarebbe stata incompleta. Condivido - ha detto - la vostra indignazione sulle condizioni delle carceri. Il concetto di pena non deve essere solo la limitazione della libertà personale, pur giusta perché bisogna garantire la certezza del diritto, ma deve esserci anche la riabilitazione, perché le persone escano dal carcere migliori di come sono entrate”. La presidente della Camera ha aggiunto che “c’è parecchia rabbia nel Paese ma bisogna veicolare il messaggio che esistono pene alternative alla detenzione” per evitare quelle “condizioni disumane e degradanti” per cui la Corte europea di giustizia ha condannato l’Italia. “I cittadini chiedono più sicurezza ma questa - ha concluso - si garantisce se il sistema carcerario funziona e se restituiamo alla società detenuti recuperati. Io credo in questo approccio”. Cagliari: il nuovo carcere, tra lavori infiniti e silenzi assurdi di Maria Grazia Caligaris (Presidente Associazione “Socialismo Diritti Riforme”) Sardegna Oggi, 22 luglio 2013 Il nuovo carcere di Cagliari, che sta sorgendo da sette anni nell’area industriale di Macchiareddu afferente al territorio del Comune di Uta, non è nato sotto una buona stella. È il frutto amaro di un progetto politico teso, con l’obiettivo di ridurre il sovraffollamento, a “scaricare” in Sardegna una consistente fetta del sistema penitenziario italiano. L’assegnazione dei lavori alle imprese, secretata per l’emergenza, risale al 2005. Al via 1.400 nuovi posti tra Tempio Pausania, Cagliari, Oristano e Sassari. L’investimento complessivo, aveva precisato il Guardasigilli Roberto Castelli, ammontava a circa 160 milioni di euro, lievitati sensibilmente, anche se la cifra complessiva è uno dei misteri dell’intera operazione, non solo per la realizzazione, decisa nel 2009, di due nuove sezioni a Uta e Bancali per ospitare oltre 180 cittadini condannati al carcere duro riservato agli associati alla criminalità organizzata. La nuova struttura penitenziaria, la più importante dell’intera operazione che a regime interesserà quotidianamente circa mille persone, sarebbe dovuta entrare in funzione nel 2010. Nel 2005 infatti si svolse una conferenza di servizi, l’unica finora che abbia visto coinvolti l’amministrazione comunale di Uta, il Ministero delle Infrastrutture, la Regione e il Prefetto. In quella circostanza furono definite le condizioni di lavoro e fu fissata la data di cinque anni per la consegna dell’opera. I tempi di realizzazione della struttura, slittati più volte, non hanno ancora una data definita. Nel frattempo gli interventi a favore del territorio, per ridurre il peso dell’imponente servitù, non sono stati previsti e gli enti locali interessati (Comuni, Provincia, Regione) non sono stati coinvolti nella predisposizione dei servizi pubblici indispensabili per l’inserimento della mega struttura nella realtà urbana dell’area vasta di Cagliari. Il cumulo di ritardi nella realizzazione della megastruttura con 650 posti è stato segnato anche dalle periodiche rivendicazioni degli operai per il mancato pagamento degli stipendi in tempo utile e dai ritardi nel rispetto degli impegni assunti con i fornitori dei materiali provocando contenzioni che si aggiungono a quello iniziale legato alla valutazione dei terreni espropriati. Nonostante il finanziamento di 60 milioni di euro, “Opere Pubbliche” ha continuato a non rispettare gli impegni e a pagare con il contagocce i lavoratori. L’associazione Socialismo Diritti Riforme, che segue dal 2010 le vicende di Uta, dopo diversi sopralluoghi con tecnici e i volontari, ha segnalato la presenza di due vasconi per l’irrigazione a ridosso del muro perimetrale, di rumorose pale eoliche, di pannelli fotovoltaici e di un odore insopportabile derivante da un’azienda per la lavorazione degli scarti delle macellazioni sollecitando un accertamento da parte dei tecnici della Asl e/o dell’Ufficio di Igiene Pubblica per verificare la salubrità dell’aria. I miasmi infatti pesano gravemente sulla zona, specie nelle giornate estive. Ha anche chiesto un’indagine parlamentare che deve essere estesa alla realizzazione dell’intera operazione “emergenza carceri” in modo da accertare, dopo la secretazione degli atti, i motivi che hanno condotto alla scelta dei terreni dove sono state ubicate le strutture e delle imprese che le hanno realizzate nonché le responsabilità dei gravi ritardi e degli errori commessi (uno per esempio la mancata impermeabilizzazione della mega-struttura di Massama-Oristano). Per quanto concerne i ritardi di Uta non è pensabile, infine, che vengano indicate date di apertura - come quella del prossimo ottobre - sapendo che non potranno essere rispettate o si tenti di aprire, in una fase iniziale, solo un settore di 100 posti destinato ai detenuti pericolosi utilizzando un apposito reparto di personale della Polizia Penitenziaria con un ulteriore aggravio di costi. Si tratta di soluzioni-tampone che aggravano gli errori iniziali provocati dal mancato coinvolgimento degli Enti Locali e di chi il carcere oltre a subirlo deve viverlo e frequentarlo. Maria Grazia Caligaris, presidente associazione Socialismo Diritti Riforme Reggio Calabria: dopo 15 anni di lavori domani si inaugura il carcere di Arghillà Asca, 22 luglio 2013 “Sono felice che martedì prossimo Il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri sarà a Reggio Calabria per inaugurare il nuovo carcere di Arghillà. Finalmente dopo circa 15 anni vede la luce il nuovo istituto penitenziario, la cui apertura sembrava avvolta nella nebbia a causa di una serie di problemi che nonostante tutto restano ancora in parte da risolvere”. Lo afferma Giuseppe Longo (Prc), consigliere provinciale di Reggio Calabria. “Dispiace, infatti, che ancora persistano vari disagi come quelli relativi alla strada di collegamento con l’istituto e quelli per la metanizzazione dell’area, che certamente non rappresenteranno un bel biglietto da visita per il ministro. In ogni caso, l’allocazione di circa 180 detenuti che sarà effettuata su due dei tre piani del reparto detentivo - dice Longo - in quanto la capienza ottimale di ogni piano è di 90 unità, contribuirà ad una migliore ripartizione detentiva nelle altre sedi e ad una migliore operatività del personale di polizia. La visita del ministro Cancellieri sarà anche l’occasione per rassicurare il territorio rispetto alla riapertura dopo l’estate del carcere L. Daga di Laureana di Borrello, chiuso da nove mesi per mancanza di personale. Lo spostamento dell’infermeria dal Daga al carcere di Arghillà avvenuto la scorsa settimana, in vista dell’inaugurazione di quest’ultimo aveva provocato non poche preoccupazioni, ma è certo che non appena le forniture previste per Reggio Calabria saranno consegnate, tutto ritornerà al proprio posto come è giusto ed opportuno che sia. Le rassicurazioni avute in tal senso un mese fa a Roma e soprattutto quelle comunicatemi dall’ufficio di gabinetto del ministro pochi giorni fa mi soddisfano, ma è chiaro che sarà compito di tutti quelli che hanno a cuore le sorti dell’istituto di Laureana non abbassare la guardia sino a quando non verrà ufficializzata la data della riapertura. Per queste ragioni, martedì pomeriggio dopo l’inaugurazione del carcere di Arghillà, insieme ad una delegazione del comitato pro-carcere di Laureana a cui va il plauso per la caparbietà dimostrata, saremo ricevuti in Prefettura dal ministro Cancellieri per ribadire le nostre ragioni e delineare il percorso che porterà alla riapertura del L.Daga. Infatti, proprio a settembre il sottosegretario alla giustizia Giuseppe Berretta verrà a visitare il L. Daga - sottolinea Longo - affinché, di concerto con il dipartimento nazionale dell’amministrazione penitenziaria si possa pianificare il lavoro utile alla ripresa delle attività con 110 detenuti. Tutto questo credo che rappresenti il modo migliore per ridare speranza ad un territorio che troppo volte è stato derubato e calpestato nella propria dignità”. Reggio Calabria: la Cancellieri sconfessa il Dap, presto riapertura del carcere di Laureana www.reggiotv.it, 22 luglio 2013 Il Ministro Cancellieri, presto potrebbe annunciare la riapertura del carcere a custodia attenuata di Laureana di Borrello. Sono giorni di attesa. Anna Maria Cancellieri, che da ministro dell’Interno ha segnato la storia del Comune di Reggio Calabria chiedendone lo scioglimento dopo la relazione della terna comnmissariale, adesso è attesa in Calabria nella nuova veste di ministro della Giustizia per la tanto annunciata apertura di un’ala del carcere di Arghillà, dopo 14 anni di cantiere. Ma l’attesa attiene anche ad un altro istituto penitenziario, il carcere sperimentale a custodia attenuata “Luigi Daga” di Laureana di Borrello, in provincia di Reggio Calabria, chiuso lo scorso settembre in un clima di vibranti contestazioni, la cui riapertura era attesa entro aprile. Mantiene alta l’attenzione da questo punto di vista e non da ora, il consigliere provinciale di Rifondazione Comunista Giuseppe Longo che martedì incontrerà il ministro Cancellieri. Il comitato civico di Laureana Di Borrello ha programmato un sit in nella stessa giornata con l’auspicio di poter incontrare il ministro. Il prossimo settembre saranno dodici mesi dalla chiusura, dal trasferimento di detenuti ed agenti di Polizia Penitenziaria da quel carcere ritenuto sottoutilizzato in cui tuttavia spiccavano la virtuosità di una recidiva bassissima e la testimonianza preziosa di giovani ex detenuti che concretizzavano il principio di rieducazione della pena almeno in questo angolo di Calabria. Eppure la chiusura fu mantenuta con la necessità anche di battersi per evitare la modifica della destinazione della medesima. Ma adesso tutto sembra evolversi per il meglio. Il ministro Cancellieri potrebbe annunciare l’apertura dell’istituto penitenziario in occasione di questa visita che, d’altro canto, comincia a scrivere la parola fine sulla decennale vicenda del carcere di Arghillà. L’auspicio è che la struttura,diretta da Angela Marcello, possa tornare ad operare in Calabria riprendendo a rappresentare un modello virtuoso di detenzione per persone al primo reato non associativo e di stampo mafioso, di età non superiore ai 35 anni, e protagonisti del progetto sperimentale, fondato sul patto ideato dal compianto provveditore Paolo Quattrone, e dunque sulla responsabilizzazione della persona detenuta. Un patto che di fatto aveva ridotto la recidiva, dunque la ricaduta, una volta fuori dall’istituto di Laureana, nell’atto criminoso. Una brusca ed inattesa battuta di arresto da cui trarre l’occasione per rilanciare la struttura con nuovi progetti di reinserimento professionale e lavorativo. Si attende adesso l’annuncio ufficiale del ministro Cancellieri. Catanzaro: parlamentari del Movimento cinque stelle in visita al carcere www.cn24tv.it, 22 luglio 2013 “Il M5S, ieri, ha toccato con mano una delle realtà più sconosciute della città di Catanzaro: le carceri. Ieri, io e una attivista, come concordato, ci siamo recati nel carcere di Siano e, dopo le formalità di routine, siamo stati accompagnati nell’ufficio della Dottoressa Paravati che ci ha accolti con squisita urbanità e cordialità”. è quanto scrive il deputato M5s Paolo Parentela. “Dopo un normale preambolo sul nostro movimento e le sue finalità - continua Parentela - siamo entrati nel vivo del discorso, illustrando il motivo della nostra visita: verificare le reali condizioni dei detenuti e del carcere, nonché ravvisare eventuali potenzialità progettuali all’interno dello stesso. La disponibilità della Direttrice ci ha favorevolmente predisposti, il colloquio è risultato costruttivo e propositivo. Così, dopo aver espletato la compilazione dei moduli informativi, al fine di raccogliere i dati sull’organizzazione interna del carcere, la Dott.ssa Paravati e il capo della Polizia Penitenziaria, con alcune guardie, ci hanno accompagnati nel cuore dell’Istituto penitenziario, a conoscere i detenuti. La visita è partita dal laboratorio per lavorare il legno; il prof. Rotella, insegnante al Conservatorio, ci ha ampiamente e con estrema soddisfazione, spiegato il lavoro creato con un gruppo di detenuti: con macchinari reperiti attraverso il volontariato, i detenuti stanno costruendo strumenti musicali della tradizione calabrese, con il fine di allestire, presto, una mostra degli stessi. Questo recupero della tradizione musicale calabrese ci ha colpito molto. Ovviamente, le attrezzature sono di fortuna, trovate grazie all’impegno dei volontari e degli stessi operatori del carcere, cosa che ci ha fatto riflettere su quanti macchinari inutilizzati giacciono in fondo a cantine, essendo oramai, l’artigianato, un mestiere in estinzione; da qui, come è solito ragionare il MoVimento, la volontà di attivare meccanismi costruttivi per dar loro una mano a reperirli; addirittura potremmo mobilitarci per recuperare il legno inutilizzato, ad esempio da falegnamerie o aziende del legno. Pensate che non costerebbe nulla regalare gli scarti del legno affinché vengano utilizzati per creare delle vere opere d’arte. Noi le abbiamo viste e, in verità, sono davvero pregevoli, non solo gli strumenti ma anche oggetti come i portagioie o i modellini di veliero. E siccome si va per una cosa e se ne fanno, alla fine, due, con il Prof. Rotella, parlando della sua precedente attività di insegnamento, abbiamo concordato di incontrarci per discutere la situazione deplorevole del nostro Conservatorio. La dott.ssa Paravati ci ha anche parlato di un corso di ceramica, di corsi di scrittura creativa, della volontà di portare avanti tanti progetti, come “l’orto penitenziario”, corsi di recitazione. La nostra disponibilità, ovviamente, è stata totale, perfettamente in linea con la filosofia del movimento. Durante il percorso, le progettualità sono state tante e diverse: si è discusso di ristrutturazione dell’Istituto penitenziario, fatiscente ed esposto alla dispersione energetica e, dunque, molto costoso da mantenere, considerando la reticenza delle Istituzioni nell’erogare dei finanziamenti adeguati per una radicale rifacimento ( il consumo di gasolio, durante la stagione invernale, produce una spesa di circa 10 mila euro a settimana, con una gran dispersione del calore stesso); dell’installazione di pannelli fotovoltaici, per ottimizzare i costi e usufruire di energia pulita; della realizzazione dell’orto penitenziario, un’attività che permetterebbe ai detenuti di tenersi occupati e faciliterebbe il recupero degli stessi; un progetto per la raccolta differenziata, vista la mole di rifiuti, specie plastica, che il carcere produce; del recupero dei materiali per la riconversione e riparazione (mobili usati, vecchi oggetti, pc, ecc.); un progetto per rendere l’acqua potabile, anche con l’installazione di fontanelle all’interno dell’Istituto; di sburocratizzare e potenziare le attività lavorative, il “lavoro terapeutico” all’esterno del carcere per lavori di pulizia del verde pubblico, spiagge, potature alberi, ecc., che avrebbe una doppia finalità, porterebbe la comunità a toccare con mano la realtà sensibile dei detenuti e aiuterebbe il processo di reinserimento per gli stessi; potenziare le ore di attività sociali e ricreative (attualmente fanno solo 2 ore a settimana) e lavorare a progetti come attività teatrali o corsi di scrittura, e tanto altro. Tutto questo, mentre sfilavano davanti a noi le celle della sezione Alta Sicurezza, dove vengono detenuti gli ergastolani ostativi, i terroristi (Br), i mafiosi (41bis) ma anche i detenuti per reati minori ma sempre per mafia. Celle piccolissime, almeno per noi “liberi”, abitate, a volte, anche da due persone. La maggior parte di loro si affaccia alle sbarre, ci saluta cordiale, chi prepara un dolce, chi legge, chi mangia (è l’ora del pranzo), chi ci sorride, chi ci chiede di far due chiacchiere, chi ci mostra i suoi quadri, bellissimi, a tinte forti, quasi avessero una percezione più potente del giallo, del blu, del rosso, tra quelle pareti anonime e sbiadite dal tempo. Tutto, mentre ti guardano con una profonda, dignitosa e orgogliosa tristezza. Solo i terroristi ci ignorano, ovviamente, qualcuno accenna un saluto distratto; gli altri, però, sono avidi di parole, ricercano il contatto, quel bisogno antropologico dell’uomo solo e privo di libertà di regalarti un pezzettino della sua vita e prenderne un po’ della tua. Così, ci siamo ritrovati a guardare foto di figli, nipoti, mogli, madri, spesso lontani; qualcuno ci racconta felice di aver avuto il permesso di conoscere il nipotino e rivedere la figlia dopo 5 anni, permesso che lo porterà per un giorno fuori da queste mura che sentiamo strette anche noi, pregne di tanta sofferenza e solitudine, di tanta miseria umana e altezze inimmaginabili. Perché in questo non luogo della vita, vi sono persone che durante la loro lunga detenzione, parliamo di 25/30 anni, hanno studiato, scritto, conseguito lauree, con ottimi risultati. Ci ritroviamo a parlare con persone di grande cultura, persino sceneggiatori per grandi registi, e poi scrittori, avvocati, gente che è entrata giovanissima in carcere, manovalanza della Mafia, e si è redenta attraverso la conoscenza. Attraverso sbarre azzurrine, tocchiamo le loro mani, guardiamo i loro occhi profondi, sorridiamo ai loro sorrisi mesti, ascoltiamo le loro parole. Ci chiedono informazioni, ci parlano di politica, scherzano con la Direttrice, della quale hanno un’ottima considerazione, la maggior parte alza il tiro sul carcere ostativo, senza fine pena, uno status oramai umanamente insopportabile, paragonabile, se si pensa che condanna alla morte nel carcere, alla tortura. Prendiamo impegno, su tutto, per tutto, dal semplice aiuto di vestiario e altre necessità, ai progetti già descritti, alla volontà di tornare tra loro. E per fortuna abbiamo l’appoggio della dott.ssa Paravati, che ci chiede di ritornare, ci regala qualche libro scritto dai suoi ragazzi, con orgoglio, ci lascia i suoi recapiti, ci invita a collaborare; noi la rassicuriamo, non abbiamo intenzione di sparire, non facciamo campagna elettorale o propaganda, non ci interessa. Siamo intenzionati a far emergere questa realtà così sensibile e difficile, i dati parlano chiaro, c’è la volontà di sensibilizzare la comunità, affinché si sfati il mito di una incomunicabilità tra cittadino e detenuto, abbiamo il desiderio di attuare i propositi comuni. Oggi abbiamo visto uomini, dietro le sbarre per giusta pena ma pur sempre uomini, vittime dell’ignoranza e del sistema, caduti per bisogno, usati dalla Mafia e dai politici, uomini, oggi, in cerca di riscatto, molti di loro, ancora una volta, gioco forza, maltrattati dal sistema che non offre condizioni adeguate. È a loro - conclude Parentela - che dobbiamo il nostro contributo, la nostra solidarietà, la nostra pietà, come movimento e come comunità, perché nessuno di noi è veramente al sicuro “dalla caduta”, nessuno tanto “puro” da poter giudicare”. Alghero: appello del Sindacato Infermieri per garantire l’assistenza sanitaria ai detenuti www.buongiornoalghero.it, 22 luglio 2013 “Dopo un lungo iter legislativo, avviato alla fine degli anni 90 sul il “Riordino della Medicina penitenziaria” si è stabilito il passaggio della competenza in materia di salute al Servizio Sanitario Nazionale, lasciando all’Amministrazione Penitenziaria il compito di provvedere alla sicurezza dei distretti”. Lo sostiene Alessandro Nasone, segretario del sindacato infermieri Nursing Up, intervenendo sull’assistenza sanitaria del carcere di Bancali. “La legge pone una separazione tra la gestione della sicurezza e il diritto alla salute - aggiunge - che spetta ai detenuti come ai cittadini liberi e consolida l’orientamento già previsto dall’articolo 27 della Costituzione ad un lavoro sinergico tra le Istituzioni con il fine comune del reinserimento e del recupero del detenuto. Allo stesso spettano il diritto alla salute secondo i livelli essenziali di assistenza riconosciuti ai cittadini liberi e il diritto all’assistenza, alla prevenzione, alla riabilitazione attraverso prestazioni adeguate ed efficaci. Il carcere si apre al Servizio Sanitario Regionale Pubblico lasciando però da definire l’integrazione in un contesto rigidamente controllato da vincoli e regole proprie al fine di creare le giuste sinergie di lavoro. Ebbene questa integrazione allo stato attuale e nelle Carceri del Nord Sardegna esiste solo a livello di bozza soprattutto nel nuovo carcere di Bancali , dove ci saremmo dovuti attendere da parte dell’Amministrazione dell’Asl 1di Sassari un occhio di riguardo , cosa che invece puntualmente non è avvenuta . Sarebbe stato opportuno che proporzionalmente all’aumento della popolazione carceraria aumentasse anche l’organico infermieristico e socio-sanitario , invece è avvenuto il contrario, tant’è che se l’amministrazione dell’Asl non porrà rimedio, dalla settimana prossima il turno notturno dell’ambulatorio infermieristico cesserà di esistere per mancanza di personale. In questi mesi ci sarebbe piaciuto - prosegue il sindacalista - che l’amministrazione e il servizio delle professioni sanitarie convocassero i sindacati per illustrare un piano di riordino ed organizzativo della sanità penitenziaria, cosa che mai è avvenuta. Monitorando la situazione dei colleghi prima a San Sebastiano ed Alghero e poi nel nuovo carcere di Bancali non abbiamo potuto che notare una mancata attenzione alle condizioni di lavoro dei colleghi Infermieri. La Struttura carceraria può essere a tutti gli effetti equiparata ad un reparto di malattie infettive e dunque necessita della stessa attenzione data a questo tipo di reparto: anche questo non è mai avvenuto. Manca a tutt’oggi un vero coordinatore infermieristico ed i colleghi sono lasciati soli e spesso sono coordinati da un medico le cui competenze e priorità devono essere la prevenzione e l’assistenza sanitaria e non certo i problemi organizzativi dell’ambulatorio. Secondo il Nursing Up dunque , per garantire sicurezza e tutelare sia gli operatori che i 160 detenuti, che a regime arriveranno ad essere 250 , gli infermieri numericamente devono essere adeguati ai parametri regionali per i reparti infettivi. Le condizioni nelle carceri sono critiche, mentre i bisogni di salute sono enormi e richiedono una vera e propria presa in carico dei detenuti, che oltre alle malattie comuni a tutta la popolazione, spesso presentano stati di salute aggravati dalle condizioni di vita legate alla reclusione. Il vissuto di malattia e l’assistenza infermieristica sono destinate ad alterarsi nelle carceri, rivestendosi di significati particolari. Gli Operatori Sanitari essendo distanti dalle altre strutture sanitarie hanno più difficoltà a farsi sentire, ad avere accesso alla formazione alle informazioni e alle attrezzature necessarie per svolgere adeguatamente il loro lavoro. In questi giorni abbiamo più volte sentito politici che intervenivano per verificare e giustamente denunciare le condizioni dei detenuti e della polizia penitenziaria: ora, dunque, il Nursing Up chiede ed invita i parlamentari sardi e i consiglieri regionali del territorio ad interessarsi e prendere posizione sulla situazione della sanità penitenziaria che in questo momento ci risulta essere priva di organizzazione e programmazione, oltre che delle risorse umane necessarie per tutelare - conclude Alessandro Nasone - la salute all’interno del nuovo carcere di Bancali oltre che naturalmente in quello di Alghero”. Cagliari: a Buoncammino sfiorato un altro dramma, detenuto tenta di impiccarsi in bagno Casteddu Online, 22 luglio 2013 Ancora un drammatico episodio che ha come comune denominatore la situazione di malessere e di disagio sociale a Buoncammino. Un detenuto ieri pomeriggio, ha tentato di impiccarsi nel bagno della sua cella ed è stato salvato in extremis dagli agenti della polizia penitenziaria. Si tratta di Alessio Deidda, 42 anni, rinchiuso nel carcere cagliaritano una pena cumulativa dovuta a reati di furto. A dare la notizia, gli stessi familiari dell’uomo, preoccupati dopo il suo gesto estremo: “Non sappiamo come sta - dice preoccupato un nipote - ci hanno telefonato dicendoci soltanto che aveva tentato di ammazzarsi e poi nulla”. L’uomo, in forte stato di agitazione, è andato in escandescenza e su disposizione del magistrato di turno, si trova ora ricoverato nel reparto S.D.P.D.C. 1 (Psichiatria) dell’ospedale S.S. Trinità. Questo pomeriggio, intorno alle 14.30, il caldo torrido rende deserta via Is Mirrionis. Dinnanzi al citofono del Reparto di Psichiatria, In S.D.D.C. 1, il nuovo reparto guidato dal direttore sanitario Caterina Burrai, che ospita almeno una quindicina di pazienti, ci riceve il personale medico di guardia. Il paziente ora sta decisamente meglio - dicono - è completamente sedato e controllato a vista da due agenti della Penitenziaria, era l’unico modo per calmarlo dato ieri, appena dopo esser stato ricoverato, ha continuato ad andare in escandescenza e sbatteva la testa contro una vetrata, una situazione che poteva degenerare e avere conseguenze abbastanza gravi sia per lui che per gli infermieri che non riuscivano a calmarlo. L’ennesimo episodio di suicidio, o come in questo caso, di tentato suicidio, non può non far riflettere sulla drammatica situazioni delle carceri isolane. A lanciare il grido di disperazione, è la moglie di Mattia Deligia, Claudia Pisano, disoccupata, con 4 figli a carico, residente in Via La Somme a Cagliari, impossibilitata a spostarsi a Lanusei per far visita al compagno: “Non ce la fa più a stare rinchiuso lì dentro, lontano da me e dai suoi figli - dice in lacrime Claudia - non so più cosa fare, so soltanto che è stato mandato a Lanusei, forse perché era scomodo, ha urlato dalla cella di Cagliari tutto quello che succede dentro il carcere, le condizioni disumane, gli avevano promesso alcune misure restrittive più leggere ed invece nulla. È vero che deve scontare la sua pena per tentato furto, (ancora quattro mesi - n.d.r), ma se è vero che il carcere deve insegnare qualcosa, non possono essere trattati come bestie li dentro”. “Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria deve alleggerire il numero di detenuti nel carcere di Buoncammino trasferendo i cittadini privati della libertà vicino ai familiari nel rispetto della territorialità della pena, promuovendo occasioni di socialità e favorendo l’assegnazione degli ammalati e/o dei tossicodipendenti in strutture adeguate. Senza provvedimenti urgenti sarà un’estate particolarmente difficile”. Lo sostiene Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, avendo appreso del gesto disperato con cui A.D. ha tentato di togliersi la vita. “Affinché una struttura penitenziaria svolga il suo compito - ha sottolineato l’ex consigliera regionale socialista - è necessario che l’intero sistema funzioni adeguatamente. Ciò significa un particolare impegno per consentire a ciascun ambito di svolgere il proprio ruolo. Buoncammino, sulla carta, dispone di risorse umane - Agenti, educatori, psicologi, medici - calibrate per 345 detenuti mentre in realtà ce ne sono 518. Non può garantire per limiti logistici e struttura ottocentesca idonei spazi per attività alternative e per il lavoro. In queste condizioni si deve far leva esclusivamente sul senso di responsabilità dei singoli cittadini privati della libertà. Talvolta però, soprattutto quando il caldo diventa insopportabile, il sovraffollamento è pesante e prevale la disperazione, è impossibile prevenire l’autolesionismo”. “Ancora una volta i compagni di cella e gli Agenti in servizio hanno evitato il peggio ma c’è da domandarsi se sia opportuno - conclude la presidente di SdR - fare sempre affidamento sul senso di abnegazione di quanti operano in condizioni di grave difficoltà e senza che il Ministero attui iniziative per rendere più vivibile le strutture detentive”. Modena: Casa Lavoro di Castelfranco, un internato su tre in “detenzione sociale” Gazzetta di Modena, 22 luglio 2013 L’assenza di una rete di rapporti all’esterno crea un “circolo vizioso” che costringe i giudici a prorogare l’internamento anche a fronte di regolare condotta: è questa la situazione che si è presentata all’Ufficio del Garante regionale per le persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, che ha effettuato una visita alla casa di reclusione di Castelfranco, per effettuare colloqui con gli internati. Alla data del 16 luglio, risultavano in carico alla struttura 97 internati, di cui 79 presenti, 4 in licenza e 14 in licenza finale di esperimento: nel complesso sono 25 i senza fissa dimora, con 32 proroghe di misure di sicurezza dall’inizio del 2013. Si assottiglia il numero dei detenuti (5, di cui uno in permesso) con problemi di tossicodipendenza in custodia attenuata. Gli internati, in esecuzione della misura di sicurezza della casa-lavoro in forza di un giudizio di pericolosità sociale operato dalla magistratura di sorveglianza, al fine del reinserimento nella società necessiterebbero di progettazione con il lavoro che dovrebbe stare al centro del percorso. Lavoro che all’interno, alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, scarseggia e comunque non è sufficiente per chi è in condizioni di lavorare e lo richiede con forza. E all’esterno senza lavoro non restano praticamente possibilità di fornire alla magistratura di sorveglianza elementi idonei per esprimere un giudizio di cessata pericolosità sociale, provvedendo conseguentemente alla revoca della misura di sicurezza. E talvolta succede anche che intervengano trasferimenti in altre sedi penitenziarie, a centinaia e centinaia di chilometri di distanza, vanificando di fatto programmi già avviati per la riabilitazione dell’internato. Perché moltissimi degli internati della struttura non hanno una rete di rapporti familiari e sociali, né tantomeno risorse autonome che possano favorire la “fuoriuscita” dalla misura di sicurezza. La considerazione, quindi, tanto realistica quanto amara è che gran parte di questi internati presenta le caratteristiche della cosiddetta detenzione sociale, si tratti di poveri, emarginati, alcool o tossicodipendenti, portatori di disagio psichico: moltissimi di loro sono cresciuti in una subcultura criminale ed hanno avuto accesso al circuito penitenziario anche perché svantaggiati nell’accesso alla disponibilità di risorse sociali e lavorative. L’obiettivo dell’Ufficio del Garante è quello di mantenere alta l’attenzione sulla vicenda degli internati, auspicando, da un lato, riforme legislative che prevedano l’abolizione delle case-lavoro. Reggio Emilia: Iori (Pd); stop ai manicomi criminali, no alla “regionalizzazione” degli Opg Gazzetta di Reggio, 22 luglio 2013 Le condizioni dei detenuti dell’Opg di Reggio, rese ancora più difficili dal caldo di questi giorni, sono state riportate alla luce da un’accorata denuncia di don Daniele Simonazzi, che trova l’appoggio della senatrice del Pd Vanna Iori. “Credo che sia necessario rompere il silenzio che circonda le persone detenute in queste strutture e coloro che vi lavorano, a titolo professionale o di volontariato” ha scritto in una nota la parlamentare reggiana. “La recente Legge 57/13 ha infatti prorogato al 1° aprile 2014 la chiusura degli Opg. Ma l’aspetto che preoccupa è che la principale (o l’unica) soluzione che si sta progettando è quella di “strutture speciali” in ogni regione dove trasferire (e rinchiudere di nuovo) le oltre mille persone ancora internate “in proroga” che aspettano di essere dimesse. Tanti piccoli manicomi regionali? Dei “mini Opg”? Una regionalizzazione degli Opg anziché il loro superamento? Bisogna continuare a verificare se e in che modo le Regioni favoriscano l’adozione di misure alternative all’internamento. Il budget assegnato ad ogni Regione potrà essere utilizzato per le strutture residenziali ma anche per il potenziamento e la riqualificazione dei servizi del Dipartimento di Salute Mentale e delle strutture del privato che possono essere destinatarie di interventi. L’Emilia Romagna ha destinato 3 milioni di euro per tale scopo. I parlamentari della mia Commissione hanno chiesto un preciso intervento al Ministro della Salute, in cui si impegna il Governo a superare la logica manicomiale e inaugurare percorsi innovativi di cura e di assistenza, oltre che di reinserimento (housing sociale e lavorativo)”. Brescia: Elisabetta Ballarin impiegata come guida turistica a Montisola, è subito polemica Ansa, 22 luglio 2013 Da Bestia di Satana a guida turistica. Nuova vita per Elisabetta Ballarin, condannata a 22 anni di carcere per il coinvolgimento nell’omicidio di Mariangela Pezzotta avvenuto nel gennaio del 2004. Lo riferisce l’edizione bresciana del Corriere della Sera. Elisabetta Ballarin da ieri lavora nell’ufficio turistico del Comune di Montisola, sul lago di Iseo. “So di non poter restituire nulla, ma i miei sforzi sono dedicati a chi ho fatto soffrire”, ha detto la ragazza che sta scontando la sua pena in regime di semilibertà nel carcere bresciano di Verziano. Nei mesi scorsi l’ex sindaco di Brescia Adriano Paroli aveva sottoscritto la richiesta di grazia per Elisabetta Ballarin, richiesta presentata al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Sindaco Monte Isola: Ballarin può cambiare “Non capisco tutto questo clamore attorno alla Ballarin, è qui nell’ambito di un progetto del carcere”: Pietro Giuseppe Ziliani, sindaco di Monte Isola (Brescia), dice di non riuscire a spiegarsi l’attenzione dei media attorno a Elisabetta Ballarin, la ragazza condannata per gli omicidi delle Bestie di Satana che da ieri lavora nell’ufficio turistico sull’isola sul lago d’Iseo. L’amministrazione comunale ha avviato nel 2011 “Liberi a Monte Isola”, progetto che nasce da una collaborazione tra Comune, l’associazione “Carcere e territorio” di Brescia e i penitenziari di Verziano e Canton Mombello. Si basa sul concetto di giustizia riparativa e consiste nell’ospitare detenuti a cui sono affidati lavori di pubblica utilità. “Oltre ai lavori di manutenzione come la creazione di sentieri o il ripristino di zone boschive - continua il sindaco, quest’anno avevamo esigenza di potenziare il personale nell’ufficio turistico. Così, da Verziano ci hanno segnalato la Ballarin, che tra l’altro si è laureata da poco, e l’abbiamo presa. Ha iniziato ieri, lavorerà nell’ufficio il week end fino all’ultima domenica di settembre”. Ziliani spiega che la decisione non gli sembra “assurda” e non crede possa in qualche modo condizionare negativamente il turismo della zona. “Sono convinto di questo: l’unica cosa che non si può cambiare di una persona è il passato. Presente e futuro invece sì”. Bari: “Caffè ristretto dentro le mura”, oggi incontro-dibattito tra Alessio Viola e detenuti www.barilive.it, 22 luglio 2013 Nell’ambito del progetto “Caffè ristretto-percorsi e discorsi dentro le mura”, finanziato dall’assessorato comunale alle Politiche educative giovanili e sostenuto dall’ufficio regionale del “Garante delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale”, lunedì 22 luglio, alle ore 15.00, presso la Casa circondariale di Bari, lo scrittore Alessio Viola dialogherà con i detenuti. Si tratta dell’evento finale del laboratorio di scrittura sul tema del viaggio: un incontro-dibattito sul romanzo di Viola “Il ricordo è un cane che ti azzanna”, edito da Progedit. All’incontro interverranno l’assessore comunale alle Politiche educative e giovanili Fabio Losito, il garante delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale Piero Rossi, la direttrice del C.C. di Bari Lidia De Leonardis, i responsabili delle aree Sicurezza e Trattamentale del C.C: di Bari, Francesca De Musso e Tommaso Minervini e il dirigente scolastico dell’Istituto Comprensivo “Massari Galilei” Francesco Lorusso. Caffè ristretto - percorsi e discorsi dentro le mura Il progetto propone una serie di appuntamenti rivolti ai detenuti con autori che, attraverso le proprie opere, abbiano documentato esperienze particolarmente significative. Tali incontri costituiscono il fulcro di un percorso in cui, attraverso laboratori, letture, cineforum e sollecitazioni musicali, sono messe a tema riflessioni inerenti dei percorsi tematici. Detti percorsi - Il viaggio, L’io, Il Lavoro, La terra (le origini) - strutturati in funzione della permanenza dei detenuti, hanno durata mensile. Al termine di ciascun percorso, in programma un evento di fine laboratorio. Prevista una rete di collaborazioni con librerie, case editrici, emittenti radio televisive, università, associazioni culturali e organizzazioni di volontariato - in particolare con l’associazione culturale Spettaculant - di cui fanno parte gli esperti nominati dalla scuola per la conduzione dei laboratori al fine di rendere il progetto patrimonio della città e motivo di riflessone pubblica attraverso la cultura e, in particolare, la lettura. L’iniziativa è un cantiere culturale in cui i soggetti della rete collaborano per rendere osmotico il rapporto tra il dentro e il fuori. Soggetti attuatori del progetto sono: Istituto Comprensivo “Massari Galilei” (capofila), Casa Circondariale di Bari, Ufficio regionale del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale. Le attività sono finanziate con fondi dell’assessorato alle Politiche giovanili del Comune di Bari e sostenute dall’Ufficio regionale del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale. Cosenza: progetto “Una biblioteca per la casa circondariale”, promosso dai club Rotary Gazzetta del Sud, 22 luglio 2013 Ormai al traguardo il progetto “Una biblioteca per la casa circondariale”, promosso dai club Rotary della città e della provincia di Cosenza, dal Comune di Cosenza, dalla Lidu (Lega Italiana per i Diritti dell’Uomo) e dall’Amministrazione penitenziaria. L’iniziativa era partita lo scorso anno dal Club “Rotary Cosenza Telesio” ed ha raccolto strada facendo le adesioni degli altri due club cittadini, il “Rotary Cosenza” ed il “Rotary Cosenza Nord”, ma anche dei club Rotary di Corigliano e Rossano, di Castrovillari, Paola e Amantea. Obiettivo del progetto è attrezzare le quattro piccole biblioteche delle carceri di Cosenza, Rossano, Castrovillari e San Lucido al fine di delineare un percorso di reinserimento, rieducazione e risocializzazione dei detenuti. Accanto all’implementazione delle dotazioni librarie delle biblioteche delle case circondariali, piccoli luoghi di cultura da destinare al recupero dei detenuti, prevista anche l’attivazione di corsi di restauro, di scrittura creativa, recitazione e lettura dei giornali. Dalle linee progettuali ora si passa ai fatti. Grazie al finanziamento della “Rotary Foundation” il progetto potrà spiegare concretamente i suoi effetti e lunedì 22 luglio, alle ore 17,00, nel salone di rappresentanza di Palazzo dei Bruzi, sarà data ufficialmente la notizia dell’arrivo dei fondi per finanziare la biblioteca della casa circondariale di Cosenza, da dove partirà il progetto pilota che sarà esteso alle carceri di Rossano, Castrovillari e San Lucido. A finanziare la Biblioteca della casa circondariale di Cosenza saranno in parte i fondi stanziati dalla “Rotary Foundation”, in parte i conferimenti dei diversi clubs Rotary del territorio. Alla manifestazione di lunedì sono stati invitati tutti i Presidenti dei Rotary club cittadini e della provincia di Cosenza. Padova: prendono il diploma da ragionieri, mentre guidano il clan da Facebook di Fabiana Pesci Il Mattino di Padova, 22 luglio 2013 Studiavano molto, stavano ore davanti al computer. Pc attraverso cui, ufficialmente, dovevano studiare per l’esame di maturità. Un traguardo che hanno raggiunto pochi giorni fa. Secondo la Procura di Lecce però, l’intensa operosità informatica di alcuni detenuti del Due Palazzi nascondeva un’attività di stampo mafioso: Cataldo Catapano e Cristian Pepe, oltre all’attestato del Gramsci, hanno rimediato due avvisi di garanzia. Pepe, diplomato con un ottimo 82/100, è accusato di dirigere, utilizzando come base operativa il carcere di Padova, un’organizzazione di tipo mafioso, il clan della Sacra Corona Unita. Pepe, secondo l’accusa, si connetteva via internet, utilizzando i programmi più diversi, social network compresi, in particolare Facebook. A fronte dei sospetti, la Procura ha emesso un decreto di perquisizione nei confronti di Pepe, Catapano e di altri undici detenuti, eseguito dalla Squadra mobile di Padova. In carcere è permesso utilizzare il computer, che però non può essere connesso al web. Le porte Usb vengono chiuse, in modo che non possano essere inserite Internet key, collegamenti portatili alla rete. La Procura e la Direzione distrettuale antimafia sospettano però che i computer in dotazione agli indagati in realtà avessero occlusioni delle porte Usb taroccate, blocchi fasulli che permettevano di inserire chiavette con cui comunicare con l’esterno. Internet key che sarebbero state passate a Catapano da sua moglie, Lucia Labriola, durante i colloqui in carcere. La Squadra mobile ha perquisito nove celle, sequestrando sette pc. Hanno dato esito negativo invece i controlli effettuati nel cosiddetto magazzino detenuti e nella sala benessere. Oltre a Cataldo Catapano e Cristian Pepe, sono state perquisite le celle e i luoghi in cui hanno accesso i detenuti Emanuele Cataneo, Ivan Firenze, Carmelo Salemi, Mario Pace, Massimo Mello, Eros Murador, Maurizio Sanfilippo, Giuseppe Lapiccirella, Guglielmo Greco, Alfredo Guarnieri e Mario Colini. Questi ultimi, non indagati, secondo l’accusa risultano essere i “terzi” presso cui possono essere stati nascosti gli oggetti utilizzati dagli indagati per connettersi all’esterno. Dalle indagini è emerso che Catapano il computer non lo utilizzava solo per studiare, ma anche per chattare messaggi, ritenuti dalla magistratura una sorta di “pizzini 2.0”, frasi in codice con cui il capo dell’organizzazione malavitosa dà ordini all’esterno del carcere. Tutto il materiale sequestrato è stato inviato alla Polizia scientifica di Roma, che dovrà verificare chi abbia fatto il login dai computer e risalire a che tipo di chiavette Usb siano state inserite all’interno dei pc. Obiettivo, acquisire la prova dei contatti tra l’interno e l’esterno del carcere. Cataldo Catapano è al Due Palazzi perché coinvolto in una lunga storia di estorsione ai danni di imprenditori pugliesi. Pepe invece ha un passato da assassino e ora sta scontando una pena supplementare per essere evaso dal carcere di Foggia. I due quest’anno hanno trascorso giornate intere davanti al personal computer. La motivazione era più che nobile, dovevano studiare per conquistare il diploma. Ma secondo gli inquirenti quella frenesia nascondeva scopi ben meno ammirevoli, il controllo di un’associazione a delinquere. Computer in carcere a chi studia “blindati” per vietare l’accesso a internet Sono 800 i detenuti nella casa di reclusione del Due Palazzi, una struttura fatta per ospitarne 400. Alcuni, in cella, possono avere un computer, ce l’hanno di solito quelli che studiano, superiori (ragioneria attraverso l’istituto Gramsci) o corsi universitari, ma non solo. L’iter per ottenere un pc inizia con una domanda al direttore del carcere: in caso di risposta positiva, si passa all’acquisto, a carico del detenuto ma del quale si occupa direttamente il carcere. Dopo di che il computer viene affidato alle mani di un tecnico che lo “blinda” ovvero sigilla l’entrata per chiavette usb e lo tratta in modo da impedire qualsiasi possibilità di connessione ad internet. A questo punto il computer viene consegnato in cella al detenuto che lo può usare per scrivere e per consultare il contenuto dei due cd e due dvd che gli è consentito di tenere. Quasi tutti i nove detenuti che hanno appena passato la maturità con ottimi voti avevano il computer in cella. Compresi Cristian Pepe, 39 anni di Lecce, e Cataldo Catapano, 58 anni di Taranto, reclusi in massima sicurezza: quest’ultimo, partito da una condizione di semi analfabetismo, in sette anni ha fatto tutto il percorso di studi fino ad arrivare al diploma di ragioniere. Uno studente dotato che si impegnava molto. Anche troppo. Verona: raccolta firme tra i detenuti a sostegno proposta “3 leggi per la giustizia e i diritti” Ristretti Orizzonti, 22 luglio 2013 Si è svolta giovedì, 18 luglio, alla presenza del Segretario del Consiglio Comunale di Verona, la raccolta firme all’interno della casa circondariale di Verona, a sostegno della proposta di 3 leggi riguardanti il mondo della carcerazione, in particolare le pene legate agli stupefacenti, la tortura e il rispetto della Costituzione. Il garante dei diritti delle persone private della libertà personale, Margherita Forestan, ne ha coordinato l’attività grazie alla collaborazione con il direttore dell’istituto, Mariagrazia Bregoli. Napoli: concerto di Enzo Gragnaniello per i detenuti di Poggioreale Adnkronos, 22 luglio 2013 Concerto di Enzo Gragnaniello per i detenuti del carcere napoletano di Poggioreale. L’iniziativa è promossa dalla Comunità di Sant’Egidio “in uno dei periodi di peggior disagio per la popolazione carceraria perché, all’ormai cronico sovraffollamento, si aggiunge il caldo afoso”. Il concerto si terrà domani alle ore 14 nel carcere di Poggioreale, recentemente intitolato a Giuseppe Salvia, una delle case circondariali simbolo del problema del sovraffollamento carcerario. La Comunità di Sant’Egidio, “presente da anni nell’istituto con iniziative di solidarietà e promozione sociale, ha voluto essere vicina ai detenuti, grazie alla sensibilità di Enzo Gragnaniello, con un pomeriggio di solidarietà e di buona musica”. Durante lo spettacolo, verrà offerto un gelato rinfrescante per tutti. Israele: saranno liberati 82 detenuti palestinesi, telefonata Peres-Abu Mazen Ansa, 22 luglio 2013 Israele libererà nelle prossime settimane 82 palestinesi detenuti da decenni per aver partecipato a gravi spargimenti di sangue. Lo anticipa la radio militare. Il capo dello Stato Shimon Peres ha intanto telefonato al presidente palestinese Abu Mazen per congratularsi del suo assenso alla ripresa di trattative di pace. Peres ha reso omaggio al “coraggio” di Abu Mazen e ha aggiunto: “Dobbiamo portare avanti il processo che abbiamo iniziato assieme molti anni fa (con gli accordi di Oslo del 1993, ndr) e portarlo a compimento”. Da parte sua, la radio delle forze armate ha precisato che gli 82 detenuti palestinesi saranno rimessi in libertà gradualmente nei prossimi mesi, con il procedere delle trattative di pace. Un primo scaglione di 20 palestinesi sarà rilasciato nelle prossime settimane. Nove di essi sono reclusi dal 1985. Israele continua invece a rifiutarsi di liberare alcuni arabi israeliani, responsabili come i loro compagni - secondo l’emittente - di gravi attentati. Iraq: attacchi armati a prigioni Abu Ghraib e Taji a Baghdad, oltre 40 morti Adnkronos, 22 luglio 2013 Uomini armati hanno attaccato nella notte in Iraq la prigione di Abu Ghraib e un carcere di Taji, a nord di Baghdad. Lo riferisce la tv satellitare al-Jazeera. Il penitenziario di Abu Ghraib, nella periferia ovest della capitale, è stato colpito con Rpg e colpi di mortaio. Gli attacchi, ha fatto sapere il ministero dell’Interno, sono stati respinti dalle forze di sicurezza irachene. Tuttavia, su Internet, i militanti islamici hanno sostenuto che migliaia di prigionieri sono riusciti a fuggire. È di almeno 41 morti accertati, tra cui venti poliziotti e agenti carcerari e 21 detenuti, il bilancio degli assalti coordinati lanciati da miliziani islamisti nella tarda serata di ieri contro due penitenziari situati nei pressi di Baghdad: quelli di al-Taji, 20 chilometri a nord della capitale irachena, e di Abu Ghraib, 25 chilometri a ovest, famigerato quest’ultimo per le sevizie inflitte nel 2004 ai reclusi da alcuni dei loro carcerieri americani, quando ancora la struttura era controllata e gestita dalle truppe Usa. Secondo fonti governative, i combattimenti scoppiati con gli assalitori, che si erano aperti la strada con un fitto fuoco di sbarramento e facendosi precedere da kamikaze, sono durati la notte intera, per non meno di dieci ore.