Giustizia: quei detenuti finiti nel buco dell’oblio di Gustavo Zagrebelsky La Repubblica, 19 luglio 2013 La prefazione a un libro di Manconi e Calderone. Questo libro è una scossa alla coscienza del lettore. Apre uno squarcio sulla vita del nostro paese perlopiù sconosciuta; riordina, cataloga, riporta alla luce storie di persone - spesso giovani - che entrano nelle nostre carceri, nelle nostre questure o nei nostri ospedali psichiatrici giudiziari e ne escono morte. Vederle tutte insieme, queste storie, una dopo l’altra, serve innanzitutto come esercizio di memoria. Si tratta di vicende sconosciute, oppure venute a galla sui giornali e sui blog, ma rapidamente dimenticate. Lo scrivono, e bene, Luigi Manconi e Valentina Calderone, autori di questo libro: l’atteggiamento della società nei con- fronti del carcere è la rimozione; una rimozione che fa emergere la cattiva coscienza - di antiche radici - della nostra società. C’è un mondo di reclusi che vengono trattati da esclusi. Sono tagliati fuori dalla società civile, viene ignorata la loro esistenza. Quando siamo al semaforo in auto e vediamo avvicinarsi un lavavetri o un venditore ambulante voltiamo la faccia dall’altra parte per evitare di incrociare il loro sguardo. “Non mi riguarda “ pensa la buona società. E si volta dall’altra parte. Allo stesso modo, essa, nella sua gran parte, si comporta con chi viene da lontano come straniero, oggi nella veste di “clandestino “. Così, nella stessa logica ma ben più drammaticamente, le vicende - vicende di giovani che entrano nel nostro sistema carcerario - vengono accantonate, rimosse. Si tratta di uno strabismo col quale dissimuliamo diffidenza, egoismo, chiusura in noi stessi. Il mosaico doloroso racchiuso in questo libro testimonia di storie che non fanno opinione pubblica. Testimonia di episodi caduti nel buco nero dell’oblio. Accanto a coloro i cui nomi compaiono più o meno fugacemente nelle cronache, altri muoiono nelle nostre carceri senza che nessuno se ne accorga. Uomini che non hanno parenti, magari migranti, extracomunitari. Cosa sappiamo di loro? Niente. Una prassi diffusa che emerge da questo libro è proprio questa: non sono le istituzioni a portare alla luce questi casi. Al contrario. Spesso si allestiscono reti di coperture generalizzate, dove ci si protegge reciprocamente, a colpi di firme false e cancellature. Sono reti che intrappolano spesso anche i compagni di cella dei detenuti morti; altro segno della cappa di omertà che avvolge questo ambiente. Un’omertà che trova sostegno anche in un’idea comunemente accettata: le vittime, in quanto “tossici”, o “alcolizzati”, gente che comunque vive “ai margini” della società, se la sono, in qualche modo, “cercata”. Fanno parte di un’umanità deviante, sono già parte di un’altra umanità; così da sentirle diverse da noi e anche rimuoverle, fino a nascondere le loro morti. Anche per questo ben venga la catalogazione e la sistematizzazione di casi tragici che Luigi Manconi e Valentina Calderone operano in questo loro lavoro; per darci un pugno nello stomaco, per renderci partecipi di quello che accade in alcuni non isolati casi in Italia, per far emergere vicende di soprusi e abusi, per non dimenticare. Questo libro, però, non è un atto d’accusa contro le forze dell’ordine, né contro lo Stato. Non è una generalizzazione. Non vuole dimostrare che lo Stato come tale non funziona né alimentare risentimenti generici nei confronti degli operatori della pubblica sicurezza o delle manchevolezze della giustizia. Vuole essere una documentazione utile per la giustizia, la verità e la conoscenza. Giustizia, verità e conoscenza si costruiscono tassello per tassello, non per assunzione di giudizi a priori. Le storie di vita e di morte qui raccontate sono la testimonianza di come, talvolta, quando una persona debole - non importa se colpevole o innocente - si trova totalmente nelle mani di altri, in istituzioni chiuse e “totali”, il rigore della legge possa facilmente cedere al sopruso. In questi casi, il rapporto tra il detenuto e l’autorità può degenerare, non essere più mediato da una norma, ma basarsi sulla predominanza materiale fra chi dispone della forza e chi sta, inerme, a disposizione della forza. I luoghi di questo libro ci appaiono isole inespugnabili, dove più che la sovranità del diritto regna la legge dell’arbitrio e, nell’arbitrio, si manifesta non il meglio, ma il peggio della natura umana: abusi, violenze, soprusi, manifestazioni di avvilimenti esistenziali di cui gli stessi autori sono le prime vittime. Molti dei casi raccontati in questo libro sono avvenuti in uno spazio “vuoto” di diritto, quando cioè le persone sono nelle mani delle forze dell’ordine nella situazione che precede l’adozione di misure formali nei loro confronti, appena fermate a un posto di blocco o portate in questura a seguito di un controllo. Si tratta di uno “spazio” difficile da regolare: qui è il senso della deontologia degli agenti delle forze dell’ordine che deve avere il primo posto. (...) L’argomento di questo libro è dunque altamente politico, non nel senso della politica dei partiti, ma nel senso delle regole comuni della polis, del nostro vivere insieme. Ci si può augurare ch’esso, sollevando il velo su molti episodi, contribuisca ad alimentare una sensibilità e a sollecitare la responsabilità nei confronti d’un aspetto vergognoso della nostra organizzazione sociale. A volgere lo sguardo verso ciò che si preferirebbe non vedere. Il libro: “Quando hanno aperto la cella”, di L. Manconi e V. Calderone (il Saggiatore, prefazioni di Zagrebelsky e Bergonzoni, con una lettera di I. Cucchi, pagg. 262, euro 12) Giustizia: protesta Psicologi penitenziari; Circolare Dap limita a 4 anni lavoro convenzione Adnkronos, 19 luglio 2013 “Nelle carceri italiane siamo di fronte ad un vero e proprio rischio di rivolta. Ma a ribellarsi per le loro condizioni potrebbero essere i circa 500 psicologi penitenziari (ex articolo 80) sui quali sta per abbattersi, aggravando una situazione di eterno precariato, la scure di una circolare dell’amministrazione penitenziaria secondo la quale uno psicologo a convenzione non potrà restare nello stesso istituto penitenziario per più di quattro anni. Un provvedimento di cui abbiamo chiesto l’immediata sospensione”. Lo denuncia Luigi Giuseppe Palma, presidente del Consiglio Nazionale degli Psicologi. “Gli psicologi ex articolo 80 - spiega Palma - sono figure professionali istituite dalla legge 354 del 1975, che prevede la consulenza di esperti esterni (reclutati tramite selezione pubblica) per l’osservazione dei detenuti e che, pur avendo orari imposti e lavorando a tutti gli effetti come dipendenti, sono considerati dei liberi professionisti. Ad essi, a differenza dei loro colleghi di ruolo, non è stato infatti riconosciuto il diritto a passare al sistema sanitario, previsto dal trasferimento delle competenze, di funzionari e di risorse nell’ambito della medicina penitenziaria, dal ministero della Giustizia a quello della Salute”. Secondo il presidente degli psicologi italiani “questi rapporti di lavoro a intermittenza privano i detenuti del diritto ad essere seguiti nel loro percorso riabilitativo, poiché quattro anni non sono sufficienti a seguire chi ha commesso gravi reati e deve scontare pene ben più lunghe. Inoltre aggravano e sviliscono ancora di più la figura professionale dello psicologo che è già penalizzata dalla continua riduzione delle ore dedicate al rapporto con i detenuti e dalla carenza e, in alcuni casi, dalla mancanza, di qualsiasi strutturazione del servizio di psicologia”. “Poiché non ci risulta che questa interruzione forzata del rapporto di lavoro sia estesa anche ad altri operatori che forniscono i loro servizi in qualità di consulenti nelle carceri italiane, dobbiamo dedurre che l’amministrazione penitenziaria consideri gli psicologi figli di un Dio minore ai quali viene applicato - svantaggiandoli e senza peraltro fornire spiegazione alcuna - un trattamento riservato”. “Solo garantendo stabilità e continuità al lavoro dello psicologo nelle carceri - sottolinea Palma - potrà essere garantito il diritto alla salute della popolazione carceraria e sarà possibile mettere il nostro Paese in linea con l’Europa”. Palma infine coglie l’occasione per chiede di “risolvere la vicenda dei 39 psicologi vincitori di concorso nel 2004 e, inspiegabilmente, ancora non assunti”. Giustizia: Corte Costituzionale; niente retroattività per l’ergastolo nel rito abbreviato di Antonio Ciccia Italia Oggi, 19 luglio 2013 No al carcere preventivo come risposta automatica per chi commette un sequestro di persona e niente retroattività per l’ergastolo nel rito abbreviato. Con due sentenze la Corte costituzionale interviene in materia di processo penale con pronunce garantiste. Vediamo i dettagli. Sequestro di persona. La Consulta (sentenza n. 213 del 18 luglio 2013) ha dichiarata l’illegittimità dell’articolo 275, comma 3, secondo periodo, del codice di procedura penale, nella parte in cui individua la custodia cautelare come unica misura da applicare a chi commette un sequestro di persona per estorsione. Per la Consulta, infatti, è sbagliata la scelta tra carcere preventivo o niente. Bisogna prevedere anche la possibilità di applicare altre misure, qualora, in relazione al caso concreto, risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure. Nel caso specifico si trattava di decidere su un’istanza di sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con quella degli arresti domiciliari, proposta da una persona imputata, di sequestro di persona a scopo di estorsione, anche se nella vicenda aveva mantenuto un ruolo defilato. L’alternativa secca (carcere o niente) è stata bocciata dalla Consulta, che ha sottolineato come il reato può assumere le più disparate connotazioni concrete: dal fatto commesso professionalmente e con modalità efferate all’illecito realizzato da singoli e per altre finalità: le esigenze cautelari potranno trovare, quindi, risposta in misure diverse e meno afflittive della custodia carceraria. Rito abbreviato. Bocciata la norma retroattiva che eliminava la possibilità di fruire dello sconto di pena a 30 anni (anziché l’ergastolo) previsto per il rito abbreviato, nel caso di condanna all’ergastolo con isolamento. La consulta, con la sentenza n. 210 depositata il 18 luglio 2013, ha, infatti, bocciato l’articolo 7, comma 1, del decreto legge n. 341/2000. Questa disposizione ha interpretato autenticamente l’articolo 442, comma 2, codice di procedura penale introdotta dal decreto-legge n. 341 del 2000 (sostituzione dell’ergastolo con isolamento con l’ergastolo senza isolamento) a coloro che, pur avendo formulato richiesta di giudizio abbreviato nella vigenza della precedente legge n. 479 del 1999, siano stati giudicati successivamente all’entrata in vigore del decreto legge 341. Pertanto, con il suo effetto retroattivo, la norma ha determinato la condanna all’ergastolo di imputati ai quali era applicabile il precedente testo dell’articolo 442, comma 2, codice procedura penale e che in base a questo avrebbero dovuto essere condannati alla pena di trenta anni di reclusione e non all’ergastolo. Il decreto legge n. 341 del 24 novembre 2000 ha stabilito, che nell’articolo 442, comma 2, del codice di procedura penale, l’espressione pena dell’ergastolo è riferita all’ergastolo senza isolamento diurno e che alla pena dell’ergastolo con isolamento diurno, nei casi di concorso di reati e di reato continuato, è sostituita quella dell’ergastolo. In seguito a quest’ultima modifica normativa, il giudizio abbreviato consente al condannato di beneficiare della sostituzione della pena dell’ergastolo senza isolamento diurno con quella di trenta anni di reclusione e della sostituzione della pena dell’ergastolo con isolamento diurno con quella dell’ergastolo semplice. Bocciato l’ergastolo con effetto retroattivo (Il Sole 24 Ore) La Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità della norma che, introdotta con il decreto legge 341 del 2001, con effetto retroattivo, ha determinato la condanna all’ergastolo di imputati, giudicati con rito abbreviato, per i quali era applicabile la precedente norma, più favorevole, secondo cui la pena era di 30 anni. Con la sentenza n. 210 depositata ieri e scritta da Giorgio Lattanzi, la Consulta ha ritenuto parzialmente fondate le questioni sollevate dalle Sezioni unite penali della Cassazione, nell’ambito di un procedimento riguardante un uomo condannato all’ergastolo per due omicidi. Decisivo il riferimento alla Corte europea dei diritti dell’uomo, che, con la sentenza Scoppola del 17 settembre 2009, ha ritenuto, mutando il proprio precedente orientamento, che “l’articolo 7, paragrafo 1, della Convenzione non sancisce solo il principio della irretroattività delle leggi penali più severe, ma anche, e implicitamente, il principio della retroattività della legge penale meno severa”, che si traduce “nella norma secondo cui, se la legge penale in vigore al momento della commissione del reato e le leggi penali posteriori adottate prima della pronuncia di una sentenza definitiva sono diverse, il giudice deve applicare quella le cui disposizioni sono più favorevoli all’imputato”. Giustizia: decreto-carceri; da tassa e-cig 35 mln per evitare tagli alla Polizia penitenziaria Ansa, 19 luglio 2013 Lo stabilisce un emendamento approvato in Commissione Giustizia del Senato al Dl “svuota carceri” che prevede un aumento delle imposte sulle sigarette elettroniche del 58,5%. In precedenza la Commissione Sanità però esprimendo il parere sul Dl “occupazione”, sempre all’esame del Senato, lamentava gli effetti negativi dell’eccessiva tassazione sulle e-cig. 35 milioni per quest’anno e altri 35 milioni per il prossimo anno da destinare alle precarie condizioni della polizia penitenziaria. Questo l’obiettivo dell’emendamento al disegno di legge di conversione in legge del Dl 1° luglio 2013, n. 78, recante disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena approvato ieri in Commissione Giustizia del Senato e presentato dai senatori del Pd Lumia, Casson, Capacchione, Cappelletti, Giarrusso. La cifra sarà ottenuta grazie ad una tassazione del 58,5% sulle sigarette elettroniche, quanto quella in vigore sulle sigarette tradizionali. L’imposta sarà applicata al prezzo di vendita dei kit delle sigarette elettroniche e delle ricariche, sia quelle contenenti nicotina che quelle contenenti essenze. In questo modo si otterranno 35 milioni per quest’anno e altrettanti per il 2014 utili ad evitare i tagli già previsti alla polizia penitenziaria. Il giorno prima, sempre al Senato, però la Commissione Sanità esprimendo il parere sul “decreto occupazione”, per le parti di propria competenza, aveva lamentato gli effetti negativi dell’eccessiva tassazione sulle e-cig. In particolare, il rilievo della Sanità era che un aumento delle imposte su questi dispositivi può portare alla chiusura un settore a detrimento delle aspettative degli operatori, può far sviluppare la contraffazione e non scoraggiare il fenomeno del tabagismo. Insomma il rischio, per i senatori della Commissione Sanità, è di generare effetti contrari a quelli auspicati se non danni veri e propri. Certo però che un “tesoretto” di 70 milioni da spalmare in due anni, a disposizione degli agenti penitenziari che soffrono il disagio della condizione carceraria come i detenuti, anche se viene dalle sigarette elettroniche, è una bella somma a cui difficilmente si può rinunciare di questi tempi. Il testo dell’emendamento approvato 4.0.1 - Lumia, Casson, Capacchione, Cirinnà, Filippin, Ginetti, Lo Giudice, Manconi. Dopo l’articolo, inserire il seguente: “Art. 4-bis. 1. In deroga alle previsioni di cui all’articolo 2, comma 7, del decreto-legge 6 luglio 2012, n. 95, il personale dell’amministrazione penitenziaria, le cui competenze professionali volgono peculiarmente all’attuazione delle disposizioni contenute nella presente legge, è escluso dalla riduzione di cui al comma 1 del citato decreto. 2. Ai maggiori oneri di cui al comma 1 pari a 35 milioni di euro a decorrere dall’anno 2013 si provvede: a) quanto a 35 milioni di euro per l’anno 2013 mediante l’attuazione della seguente disposizione: “a decorrere dal 1º settembre 2013 i prodotti contenenti nicotina o altre sostanze idonei a sostituire il consumo dei tabacchi lavorati nonché i dispostivi meccanici ed elettronici, comprese le parti di ricambio, che ne consentono il consumo, sono assoggettati ad imposta di consumo nella misura pari al 58,5 per cento del prezzo di vendita al pubblico. Con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, da adottarsi entro il 31 agosto 2013, sono stabilite le procedure per la variazione dei prezzi di vendita al pubblico dei prodotti contenenti nicotina o altre sostanze idonei a sostituire il consumo dei tabacchi lavorati nonché i dispostivi meccanici ed elettronici, comprese le parti di ricambio, che ne consentono il consumo:”; b) quanto a 35 milioni di euro a decorrere dall’anno 2014, mediante corrispondente riduzione dell’autorizzazione di spesa di cui all’articolo 1, comma 139, della legge 24 dicembre 2012, n. 228”. Emilia Romagna: II Giornata per giustizia e diritti, raccolte altre 400 firme tra i detenuti Ristretti Orizzonti, 19 luglio 2013 Lo scorso mercoledì 26 giugno - Giornata internazionale contro la tortura - nelle carceri dell’Emilia-Romagna venne effettuata una raccolta di firme a sostegno di tre proposte di legge d’iniziativa popolare per la giustizia e i diritti. I tre progetti di legge sono relativi a: 1) introdurre il reato di tortura nel Codice penale; 2) per la legalità e il rispetto della Costituzione nelle carceri: modifiche alla legge “ex Cirielli” sulla recidiva; introduzione del “numero chiuso” degli ingressi in carcere; istituzione del Garante nazionale; abolire il reato di clandestinità; 3) modificare la legge sulle droghe. La raccolta firme dietro le mura del carcere - promossa dalle Camere penali dell’Emilia-Romagna, in collaborazione con la Garante regionale delle persone private della libertà personale - è stata replicata l’11 luglio, negli istituti di Bologna e Piacenza, con il seguente esito: -a Bologna sono state raccolte 392 firme, di cui 221 non residenti (stranieri) e 171 residenti (italiani), così suddivise, tortura: 74 (stranieri) + 57 (italiani); carceri: 73 + 57; droghe: 74 + 57; -a Piacenza sono state raccolte altre 69 firme - 23 su ognuna delle tre proposte - da parte di 13 stranieri e 10 italiani, ed è stata finalmente coinvolta anche la sezione femminile, dove hanno firmato 6 donne. La Garante regionale, Desi Bruno, rinnova il suo ringraziamento al provveditore regionale, alle Direzioni e agli agenti di polizia penitenziaria, per aver facilitato l’organizzazione che ha reso possibile la buona riuscita dell’iniziativa. Un ulteriore ringraziamento va alle Camere penali territoriali e al Garante di Piacenza, Alberto Gromi, per l’impegno a consentire ai detenuti di esercitare il diritto alla partecipazione e alla cittadinanza. Piemonte: il Garante dei detenuti resta sulla carta. Pdl e Fdl: bisogna tutelare anche agenti di Alessandro Mondo La Stampa, 19 luglio 2013 Avanti così e non si capirà più chi deve garantire cosa: i detenuti, a rigor di logica. Dovrebbe essere il ruolo della figura prevista dalla legge regionale del 2009, stagionata e mai attuata. Ora, a parte il fatto che di per sé è surreale discutere del garante dei detenuti insieme a quelli per la tutela dell’infanzia e degli animali - contemplati dallo stesso provvedimento e, se possibile, ancora più negletti, in Consiglio regionale la questione sta diventando tragicomica: più che un dibattito, un siparietto bloccato da accuse reciproche, veti incrociati e repentini capovolgimenti di scena. Non sono nemmeno chiare quali dovrebbero essere le mansioni del benedetto garante. Il fatto che gli alfieri del garante del detenuti siano in primis i Radicali non aiuta: gli sponsor, si sa, non riscuotono particolari simpatie tra i banchi della maggioranza. In compenso, il tema è stato oggetto di un’inaspettata conversione del Pdl, che della maggioranza è il primo partito. Insomma: ci sono tutte le premesse per un pastrocchio. Pensare che in prima battuta le posizioni, per quanto opinabili, erano chiare: da una parte l’opposizione, favorevole all’istituzione del garante; dall’altra la maggioranza, variamente contraria. In particolare la Lega, convinta che si tratti di soldi buttati. Ai primi di giugno era stato convocato un Consiglio regionale straordinario per abrogare la controversa legge, disattesa e per questo doppiamente scomoda. Poi l’appello del Presidente Napolitano, a livello nazionale, preoccupato dall’emergenza carceri. E quello della Camera Penale “Vittorio Chiusano”, in chiave piemontese: “La proposta della maggioranza di governo della Regione di abolire la figura del garante dei detenuti è un atto di grave irresponsabilità”. Ma a fare la differenza, in chiave locale, è stato l’”outing” di Enrico Costa, coordinatore regionale del Pdl, che si è dichiarato favorevole al garante. Lega in trincea Carossa: “Le funzioni vanno delegate al difensore civico” spiazzando i consiglieri del suo partito. Voilà: il Consiglio straordinario, complici altre emergenze, è finito in soffitta; le carte si sono rimescolate. Oggi come oggi, che in futuro non si sa, Luca Pedrale, Pdl, e Augusta Montaruli, Fratelli d’Italia, hanno presentato una proposta di legge che prevede l’istituzione del garante ma “del mondo penitenziario”. Un passo avanti, secondo Pedrale, a tutela dei detenuti e delle guardie carcerarie: “Il sovraffollamento che caratterizza le nostre prigioni, le aggressioni quotidiane e i frequenti suicidi sia ad opera di detenuti sia di agenti di polizia penitenziaria, ci hanno indotti a ragionare su una figura di garante che affronti i problemi del sistema penitenziario. A partire da chi deve garantire la sicurezza in istituti diventati polveriere”. “Più che un garante vorremmo un osservatorio sulle carceri -precisa Montaruli, prima firmataria. Ma se si vuole parlare di garante, va bene comunque”. La Lega Nord viaggia per conto suo. Come spiega Mario Carossa, il capogruppo, l’a questo punto l’uovo di Colombo è delegare la funzione del garante al difensore civico regionale. Zero costi e fine della storia. Sul fronte opposto Pd (Reschigna), a Federazione della Sinistra e Sel, irritati dalle evoluzioni della maggioranza. Artesio, FdS: “La nuova legge sul garante svela la vera natura culturale del centrodestra”. Cerutti, Sel, “ormai la maggioranza è alla farsa”. Pensare che l’argomento meriterebbe un supplemento di serietà, e di impegno. Stando ai dati forniti dai Radicali Igor Boni e Giulio Manfredi, le 13 carceri del Piemonte ospitano 4.951 detenuti (167 sono donne) rispetto a una capienza regolamentare di 3.679 unità. Gli stranieri sono 2.478, il 50% del totale. Comunque finisca, se ne riparlerà a settembre. Lanusei (Nu): tenta suicidio il detenuto che guidò rivolta a Cagliari; salvato, è in ospedale Casteddu Online, 19 luglio 2013 Un detenuto del carcere di S. Daniele a Lanusei, ha tentato di impiccarsi nella sua cella ed è stato salvato in extremis dagli agenti della polizia penitenziaria. L’uomo, in forte stato di agitazione, si trova ora ricoverato nel reparto di Rianimazione dell’ospedale cittadino e le sue condizioni per ora non sembrano destare particolare preoccupazione da parte dei medici. L’episodio in questione riguarda Mattia Deligia, (detenuto nel carcere nuorese da circa una settimana), dopo il suo trasferimento coatto da Buoncammino, avvenuto (lo ricordiamo), dopo la clamorosa protesta di martedì inscenata dalle celle dell’istituto penitenziario cagliaritano. Deligia, a seguito di una condanna per tentato furto, ha cercato di impiccarsi nella sua cella in circostanze ancora da chiarire, fatto sta che solo grazie al tempestivo intervento degli agenti di polizia penitenziaria è stato impedito che l’uomo portasse a compimento il suo intento. L’ennesimo episodio di suicidio, o come in questo caso, di tentato suicidio, non può non far riflettere sulla drammatica situazioni delle carceri isolane. A lanciare il grido di disperazione, è la moglie di Mattia Deligia, Claudia Pisano, disoccupata, con 4 figli a carico, residente in Via La Somme a Cagliari, impossibilitata a spostarsi a Lanusei per far visita al compagno: “Non ce la fa più a stare rinchiuso lì dentro, lontano da me e dai suoi figli - dice in lacrime Claudia - non so più cosa fare, so soltanto che è stato mandato a Lanusei, forse perché era scomodo, ha urlato dalla cella di Cagliari tutto quello che succede dentro il carcere, le condizioni disumane, gli avevano promesso alcune misure restrittive più leggere ed invece nulla. È vero che deve scontare la sua pena per tentato furto, (ancora quattro mesi), ma se è vero che il carcere deve insegnare qualcosa, non possono essere trattati come bestie lì dentro”. Della complicata vicenda, si sta occupando personalmente il legale cagliaritano, Annamaria Busia, da anni in lotta sul fronte delle questioni legate alle condizioni disumane vissute dai detenuti all’interno degli istituti penitenziari. Sovraffollamento, vicende legate a drammi sociali, reinserimento, sono soltanto alcuni temi allarmanti seguiti dalla Busia e al centro di clamorose proteste, come quella avvenuta la settimana scorsa a Buoncammino, dove i detenuti dalle celle, bruciarono gli striscioni che inneggiavano il le grida di dolore e il disagio tra i reclusi. Non è escluso da parte dell’avvocato Annamaria Busia, una possibile richiesta al Tribunale di Cagliari, per riavvicinare il detenuto Mattia Deligia nel cagliaritano, più precisamente ad Iglesias, mentre per ora il giovane rimane sotto stretta osservazione dei medici e degli stessi agenti per impedirgli che possa commettere altri gesti estremi come quello di oggi. La notizia è stata confermata anche da Maria Grazia Caligaris dell’associazione Sdr che afferma: “Il detenuto si trova ricoverato nel reparto Medicina Generale dell’ospedale di Lanusei, sta meglio e sarà assistito anche in Psichiatria. Si tratta dell’ennesimo caso che dimostra quanto le carceri sarde siano inadeguate”. Caligaris (Sdr): impossibile rimanere indifferenti “Un nuovo drammatico episodio che documenta la necessità di migliorare le condizioni di vita dei ristretti, riconsiderare la disponibilità di spazi, di occasioni di socialità e di affettività nonché incrementare l’osservazione dei detenuti specialmente quando le condizioni individuali sono aggravate dalla distanza dei familiari in conseguenza di azioni dettate dal dramma del sovraffollamento e dalla personale fragilità emotiva”. A sottolinearlo a gran voce questa mattina, è Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, in riferimento alla notizia in esclusiva che la nostra Testata Giornalistica ieri pomeriggio ha battuto nell’immediato sull’episodio del giovane detenuto, Mattia Deligia, trasferito nell’Istituto Penitenziario “San Daniele” di Lanusei in seguito alla protesta inscenata con altri compagni di cella nel carcere cagliaritano di Buoncammino, ha tentato di togliersi la vita la scorsa notte. “Il gravissimo episodio - sottolinea l’ex consigliera regionale socialista - non può lasciare indifferenti anche perché il giovane avrebbe terminato di scontare la pena a novembre. Padre di quattro bambini M.D., cagliaritano, aveva manifestato da tempo evidenti sintomi di insofferenza verso una carcerazione vissuta con particolare difficoltà anche per il livello di sovraffollamento di Buoncammino”. “Il ragazzo, grazie al tempestivo intervento degli Agenti di Polizia Penitenziaria, è stato immediatamente ricoverato nell’Ospedale di Lanusei dove i Medici hanno verificato le sue condizioni tenendolo sotto osservazione per valutare anche la capacità di recupero. L’episodio tuttavia riveste particolare rilievo nel momento in cui i problemi dei detenuti e del personale penitenziario non sono considerati sufficientemente urgenti. Il trasferimento da Cagliari a Lanusei inoltre ha penalizzato la famiglia - conclude la presidente di SdR - non sempre in grado, come in questo caso, di affrontare un viaggio difficile e dispendioso quando si hanno 4 figli. Ciò talvolta può generare una disperazione incontenibile con effetti imprevedibili”. Della vicenda, lo ricordiamo, si sta occupando personalmente anche il legale cagliaritano, Annamaria Busia, da anni in lotta sul fronte delle questioni legate alle condizioni disumane vissute dai detenuti all’interno degli istituti penitenziari. Sovraffollamento, vicende legate a drammi sociali, reinserimento, sono soltanto alcuni temi allarmanti seguiti dalla Busia e al centro di clamorose proteste, come quella avvenuta la settimana scorsa a Buoncammino, dove i detenuti dalle celle, bruciarono gli striscioni che inneggiavano il le grida di dolore e il disagio tra i reclusi. Non è escluso da parte dell’avvocato Annamaria Busia, una possibile richiesta al Tribunale di Cagliari, per riavvicinare il detenuto Mattia Deligia nel cagliaritano, più precisamente ad Iglesias. In queste ore Castedduonline.it sta ancora seguendo la vicenda più da vicino, dato che Claudia Pisano, la moglie di Mattia Deligia, con sforzi e spese di trasferta non indifferenti, si è recata a Lanusei per avere notizie aggiornate sulle condizioni del suo compagno. Il giovane dovrebbe essere trasferito in Psichiatria già nelle prossime ore. Lucca: il carcere San Giorgio destinato a rimanere nel centro città, ma con meno detenuti di Barbara Antoni Il Tirreno, 19 luglio 2013 il carcere. Anche se nel giro di nemmeno un anno (entro il 14 maggio 2014) vedrà diminuire, almeno in parte, il numero di detenuti. Non per effetto di un intervento sulla struttura penitenziaria lucchese ma a seguito del termine assegnato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo allo Stato italiano entro cui procedere “all’adozione delle misure necessarie a porre rimedio alla constatata violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che sancisce il divieto di pene o trattamenti inumani degradanti”. Così riporta il destro del decreto legge 78 del primo luglio scorso. E così conferma il dottor Carmelo Cantone, provveditore regionale per la Toscana dell’amministrazione penitenziaria. Il quale, a inizio settimana, nel corso di un’audizione in Regione in merito alla situazione delle carceri toscane ha sottolineato che “un carcere che nasce come convento, come ad esempio Siena o Lucca, non si può definire come una struttura in cui fare una dignitosa attività di detenzione da paese modello”. Il San Giorgio, conferma il dottor Cantone, “è una struttura non adeguata rispetto agli standard penitenziari previsti dalla legge. In Italia del resto almeno il cinquanta per cento delle carceri vive in strutture costruite a fine Ottocento. E la situazione di Lucca è quella di una struttura che non può ospitare più detenuti del numero previsto. C’è una penalizzazione fra zone di pernottamento e aree destinate ad attività. Nonostante si confidi su un ottimo personale, il San Giorgio naviga in questo mare di inadeguatezza”. Trasferimento impossibile. Non è da prendere in considerazione la possibilità di operare nuovi interventi strutturali sul carcere lucchese. Il dottor Cantone lo dice chiaro. “Rimutuare spazi nel complesso dell’ex convento è escluso. E pensare di costruire un nuovo carcere non appartiene all’esistente. Quello che si deve e si può fare è migliorare gli standard di vivibilità dell’istituto non aumentando le presenze. Tutti i detenuti hanno bisogno di più spazi”. Il decreto 78. E qui entra in ballo il decreto legge del primo luglio relativamente al sovraffollamento degli istituti di pena. “C’è attesa - afferma il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria - rispetto agli esiti del decreto legge 78, che si propone, nel medio termine (doveva essere entro l’8 gennaio 2014, poi la scadenza è slittata a maggio, ndr), di ridurre le popolazione carceraria di 3-4mila presenze in Italia”. Gli effetti della diminuzione di utenza si sentiranno anche sulla casa circondariale di Lucca; i canali attraverso i quali si otterrà la riduzione potranno essere amnistia o indulto: il dibattito è in corso. Progetti per i detenuti. Direzione locale del carcere e amministrazione penitenziaria stanno lavorando per impostare progetti di lavoro per i detenuti in possesso dei requisiti previsti (progetti per l’articolo 21, denominato anche “prognosi di affidabilità”). Anche questo contribuirà ad alleviare il peso dell’utenza, almeno nelle ore del giorno quando i beneficiari dell’articolo 21 sono fuori per lavorare. Ma il problema per il San Giorgio, sottolinea il dottor Cantone, è legato anche alla tipologia di popolazione penitenziaria. Una larga parte di detenuti sono “imputati o giudicabili. C’è una forte presenza di detenuti in attesa di giudizio. E il numero di persone in questa situazione è molto legato anche al movimento che c’è in Versilia”. Di fatti criminosi, ovviamente. I numeri allo stato attuale. Centosessanta detenuti a fronte di una capienza ideale di novanta. Questi i dati relativi all’utenza del San Giorgio allo stato attuale, quasi doppia rispetto alle previsioni. A fronte un organico di polizia penitenziaria ridotto “ma di alto livello professionale - dice il dottor Cantone - dagli agenti al direttore al comandante di reparto”. La percezione dell’ex convento trasformato in carcere come un’isola a sé nel centro storico per una parte della popolazione è un’idea che arriva anche alla direzione regionale dell’amministrazione penitenziaria. “Il San Giorgio a Lucca - dice Cantone - è come Regina Coeli a Trastevere. Strutture costruite dentro città storiche ma a ridosso delle Mura. Se fosse stato costruito oggi il carcere lucchese sarebbe sorto fuori dalle Mura. È vero anche che investire su un carcere fuori dalla città rischia di creare i presupposti per allontanarlo dalla comunità. Invece è importante che il carcere viva anche un rapporto con la città. So che a Lucca c’è un’amministrazione sensibile in questa direzione”. Pordenone: appalto a settembre per costruzione del nuovo carcere a San Vito Tagliamento Messaggero Veneto, 19 luglio 2013 Acclarata la volontà del ministero della Giustizia di realizzare il nuovo carcere a San Vito al Tagliamento, procede speditamente l’iter burocratico per arrivare all’appalto dell’opera. La presidente della Regione, Debora Serracchiani, ha annunciato l’imminente convocazione della conferenza Stato-Regione per la presentazione del piano carceri che include anche San Vito. Martedì prossimo, invece, si terrà la conferenza dei servizi tra il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, la Regione e il Comune di San Vito al Tagliamento finalizzata a definire le procedure per la concessione della caserma Dall’Armi, di proprietà del municipio, al ministero al fine di realizzarvi il penitenziario da 300 posti. In base al cronoprogramma del ministero il progetto esecutivo, già pronto, verrà inserito nel bando di gara che sarà emesso a settembre in maniera tale che i lavori possano iniziare nel 2014 e concludersi l’anno successivo se non ci saranno intoppi. L’investimento previsto è di 25 milioni di euro. Parallelamente procederà la trattativa, annunciata dalla presidente della Regione, Debora Serracchiani, finalizzata a fare in modo che la parte di accordo di programma Stato-Regione siglato a suo tempo venga rispettata nell’articolo che prevede la cessione a titolo gratuito al Comune di Pordenone del castello di piazza della Motta, una volta che sarà liberato dal carcere, per integrare gli edifici pubblici già presenti nella zona. Venezia; Uil-Pa; vendere struttura in laguna e con fondi ricavati realizzare nuovo istituto Ansa, 19 luglio 2013 Il sindacato Uil-Pa chiederà all’amministrazione penitenziaria e al ministro Cancellieri di prendere in considerazione la cessione delle aree degli istituti penitenziari che sono ubicati in zone lagunari a Venezia e con gli utili realizzare un nuovo carcere. Lo ha detto il segretario della Uil-Pa Eugenio Sarno, dopo aver visitato oggi il carcere veneziano di Santa Maria Maggiore. “Indubbiamente ci si poteva aspettare di peggio, essendo quel carcere ricavato da un vecchio convento - ha rilevato Sarno. Tra le note positive abbiamo riscontrato una particolare cura per la pulizia e l’ordine che connota tutti gli ambienti detentivi”. “D’altro canto nell’ultimo decennio l’istituto ha potuto giovarsi di una importante opera di ristrutturazione ed attualmente - ha aggiunto - è uno dei pochi in Italia a presentare celle con bagni adeguati e docce interne”. Resta il fatto per Sarno che a Santa Maria Maggiore sono ospitati 274 detenuti rispetto ad una capienza prevista di 150 di cui 187 stranieri, 118 quelli condannati con sentenza definitiva, 86 coloro che sono in attesa del processo di primo grado. Palermo: giovedì prossimo la Uil-Pa in visita all’Ucciardone, con reportage fotografico Ansa, 19 luglio 2013 “Certamente tra le visite effettuate nelle varie carceri italiane, con tanto di resoconti fotografici, quella in programma all’Ucciardone di Palermo per il prossimo 24 luglio ha un carattere di particolare rilevanza”. Queste le parole con cui il segretario generale della Uil-Pa Penitenziari, Eugenio Sarno, annuncia la visita che effettuerà il prossimo 24 luglio al carcere palermitano dell’Ucciardone. Nell’occasione Sarno sarà accompagnato dal segretario regionale Chicco Veneziano e dal segretario provinciale di Palermo Paolo Duran. “Riteniamo che la situazione del sistema penitenziario italiano sia molto prossima al collasso definitivo, nonostante l’impegno e i sacrifici di tutti gli operatori penitenziari. Purtroppo inadeguate, quando non sciagurate, politiche applicate al carcere hanno determinato (nell’ultimo trentennio) un inesorabile declino dell’efficienza dei percorsi di trattamento e recupero, un indebolimento complessivo del sistema della sicurezza interna ed esterna, un degrado continuo e costante delle strutture contro un sempre più insostenibile sovraffollamento delle celle. Questo quadro d’insieme - continua Sarno - dovrebbe portare la politica a scelte tanto coraggiose quanto necessarie per garantire un nuovo start-up. Gli ultimi provvedimenti in materia di carcere e di pena varati dal governo Letta possono ascriversi nel novero delle buone intenzioni ma certo non rappresentano soluzioni adeguate ed esaustive delle criticità che hanno portato la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a condannare l’Italia per il trattamento inumano e degradante che si registra nelle nostre prigioni. Noi continuiamo a sostenere che un provvedimento di amnistia ed indulto rappresenti la vera, forse unica, svolta possibile”. “D’altro canto anche il ministro Cancellieri, dall’alto della sua esperienza operativa e politica, ha individuato nell’amnistia una soluzione. Ricordiamo alcuni numeri - prosegue la nota - 23mila detenuti in esubero rispetto alle capacità ricettive. Settemila unità di polizia penitenziaria in meno rispetto agli organici definiti per norma. Un apparato elefantiaco che costa alle casse dello Stato circa 4 miliardi di euro l’anno, senza alcuna garanzia di efficienza. Basti pensare che solo circa 88 milioni l’anno sono destinati al vitto giornaliero (3,60 euro al giorno per garantire ad ogni detenuto colazione, pranzo e cena”. La Uil Pa Penitenziari ritiene che occorra alimentare la coscienza sociale sul dramma penitenziario, per questa ragione è impegnata in un tour di visite con tanto di servizi fotografici. “Non sempre si può o si vuole garantire una completa e puntuale informazione sulle condizioni di vita e di lavoro nelle nostre carceri. Per questo - sottolinea il segretario generale della Uil Pa Penitenziari - abbiamo deciso di documentare lo stato dei luoghi e rendere pubbliche queste rilevazioni. Negli ultimi mesi abbiamo effettuato visite a Trento, Avellino, Paliano, Venezia, Trapani, Firenze documentando, a volte denunciando, lo stato dei luoghi e le condizioni di vita e di lavoro. La nostra attività di trasparenze e informazione è volta non solo a documentare quanto ad alimentare quella necessaria coscienza sociale sulle difficoltà che oberano gli operatori penitenziari e l’inciviltà che, troppo spesso, connota le nostre strutture penitenziarie. Ognuno accedendo alla sezione Lo scatto dentro del nostro sito www.polpenuil.it può prendere visione delle luci (poche) e delle ombre (tante) dei nostri penitenziari”. Per queste ragioni si ritiene che la visita all’Ucciardone rappresenti un momento di grande interesse. “Da sempre - conclude Sarno - l’Ucciardone è ritenuto, a giusta ragione, una icona del sistema carcere. Ne documenteremo lo stato e renderemo pubblico il servizio fotografico attraverso la distribuzione dello stesso agli operatori dell’informazione nel corso di una conferenza stampa che è convocata il 25 luglio - ore 10.00 - presso la sede della Uil Sicilia in via Enrico Albanese a Palermo. Documenteremo per informare e faremo in modo che nessuno abbia più l’alibi del dire”. Nuoro: “Progetto Colonia”, serata promossa da Arci, detenuti imparano arte cuocere carne Ansa, 19 luglio 2013 Il “Progetto Colonia” affiancato al marchio “Galeghiotto” è ormai un binomio vincente. I prodotti realizzati nelle colonie penali di Mamone, Isili ed Is Arenas (carne, formaggio, miele, mirto, polline, conserve, piante officinali e prodotti ortofrutticoli) sono al centro di una serata promossa dall’Arci a Nuoro, nel suggestivo scenario di Piazza Sebastiano Satta. Durante la manifestazione viene arrostita, con una tecnica particolare non usualmente utilizzata in Barbagia, carne di vitello. Alla cottura partecipano cinque detenuti del Carcere di Badu e Carros, la cui Direzione ha concesso appositi permessi, a cui vengono insegnate queste speciali tecniche per arrostire la vitella: come predisporre l’area, come posizionare negli appositi spiedi la carne, le modalità con cui cucinarla e poi tagliarla per essere servita al pubblico. L’intento dell’iniziativa è quello di offrire ai detenuti, nell’ambito del loro reinserimento ed integrazione sociale, l’opportunità di imparare questa tecnica per poi poterla utilizzare una volta scontata la pena. Alla cottura della carne partecipa anche il pubblico, coinvolto nella campagna promozionale del marchio Galeghiotto con i prodotti esposti insieme ad opuscoli illustrativi e materiale divulgativo del Progetto Colonia. Padova: detenuti in vacanza a Cervinia con CL, la procura blocca due permessi premio di Cristina Genesin Il Mattino di Padova, 19 luglio 2013 Avevano ottenuto dal giudice di Sorveglianza un permesso-premio per trascorrere una settimana di vacanza a Cervinia, in Valle d’Aosta, in un hotel a tre stelle dal 21 al 28 luglio: Gianni Piras è un ergastolano sardo condannato al “fine pena mai”; Rino Poletto è un trentino condannato a 15 anni e mezzo di reclusione e all’applicazione di una misura di sicurezza in seguito al riconoscimento della seminfermità mentale e della pericolosità sociale. Tutti e due erano finiti sul banco degli imputati per omicidio: il primo, coinvolto nella faida di Siurgus Donigala, è stato ritenuto responsabile dell’omicidio di un allevatore; il secondo assassinò a coltellate la moglie a Canova di Gardolo il 22 ottobre 2006. Con un reclamo, la procura di Padova ha immediatamente stoppato il permesso premio di una settimana. Il motivo? Quella vacanza è stata ritenuta inopportuna visto che i due avrebbero soltanto cominciato a beneficiare dei permessi limitati a un giorno o poco più (permessi che vanno concessi con gradualità). Nel caso di Poletto, in particolare, non ci sarebbe stata nemmeno una nuova verifica sulla pericolosità. La vacanza era stata preannunciata al tribunale di Sorveglianza con una lettera inviata il 12 giugno e firmata dal presidente di “Officina Giotto” Boscoletto. “In occasione delle vacanze, alcuni operatori del consorzio Giotto parteciperanno alla vacanza organizzata da Comunione e Liberazione di Padova a Cervinia in Val d’Aosta. Abbiamo ritenuto di estendere l’invito ai detenuti impiegati presso le nostre cooperative in quanto tale esperienza di vacanza diventa un momento formativo e di arricchimento all’interno del percorso di inserimento lavorativo che i detenuti stanno facendo”, si legge, “Le vacanze si svolgeranno a Cervinia e le giornate saranno scandite da un programma di massima: tutte le mattine iniziano con uno spunto di riflessione; durante il giorno si alterneranno incontri di approfondimento con gite guidate in montagna e a siti storico-culturali, attività sportive varie, alle 18 ripresa dello spunto di riflessione, alle 19 santa messa. Dopo la cena le serate saranno dedicate a incontri culturali e musicali, testimonianze e proiezione di film”. Secondo la procura, la vacanza può attendere. Ora la parola passa al tribunale di Sorveglianza. Avellino: detenuto in escandescenza aggredendo quattro agenti di Polizia penitenziaria Ansa, 19 luglio 2013 Caos nel carcere di Bellizzi. Un detenuto napoletano è andato in escandescenza aggredendo quattro agenti della polizia penitenziaria. L’episodio si è verificato nel tardo pomeriggio. Il detenuto ha litigato con il suo compagno di cella. A questo punto è intervenuto il personale della polizia penitenziaria. Ma il giovane era diventato irrefrenabile. Prima è stato trasportato in infermeria e successivamente in ospedale. E durante il trasporto in ospedale è avvenuta l’aggressione. I quattro agenti sono stati ricoverati presso il pronto soccorso dell’ospedale Moscati. Per loro prognosi che vanno dai cinque ai dieci giorni per le escoriazioni riportate. Sull’accaduto sono intervenuti i Sindacati. Pasquale Trifone, vicepresidente dell’Ugl Polizia Penitenziaria denuncia “le gravissime carenze organiche e funzionali che da anni patisce la struttura carceraria di Avellino. Queste frequenti, quanto violente, aggressioni - dice Trifone - mettono drammaticamente a nudo le gravi condizioni di lavoro dei Poliziotti Penitenziari”. Caserta: inclusione socio-lavorativa per disabili e detenuti, un patto con Italia Lavoro di Gianpaolo Dello Vicario Il Mattino, 19 luglio 2013 Nei giorni scorsi si sono incontrati, per la Provincia di Caserta, Gianpaolo Dello Vicario, vicepresidente e assessore alle politiche del Lavoro, Angelo Laviscio, dirigente del Settore Politiche del Lavoro - per Italia Lavoro spa, Michele Raccuglia, responsabile Macro Area Sud ionica Campania-Calabria, Paolo Moser, coordinatore nazionale Inclusione Sociale, e Gennaro Miranda, coordinatore territoriale Campania-Calabria Area Inclusione Sociale. A margine dell’incontro è stato firmato un accordo di collaborazione tra i due Enti nell’ambito delle attività previste dal Pon “Servizi per l’inclusione socio-lavorativa dei soggetti con il concorso dei Spl”, gestito dall’Area Inclusione Sociale di Italia Lavoro, rivolto a due target principali: linea disabilità - persone disabili; linea transizione pena lavoro - persone in transizione dalla pena al lavoro (detenuti a fine pene ed ex detenuti). “L’iniziativa si pone l’obiettivo di realizzare diversi interventi in termini di sostegno alle politiche di facilitazione all’inserimento occupazionale dei soggetti svantaggiati ed il programma si sintonizza maggiormente su peculiarità relative a disabili, detenuti ed ex detenuti”, ha dichiarato Dello Vicario. Da qui il suo auspicio che la collaborazione con Italia Lavoro, ente strumentale del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali per la promozione e la gestione di azioni nel campo delle politiche del lavoro, dell’occupazione e dell’inclusione sociale, consenta di raggiungere gli obiettivi prefissati così come già verificatosi nelle precedenti esperienze. Verrà costituito dalla Provincia il Gruppo Territoriale Operativo (Gto) che avrà funzioni di governance dell’intervento e sarà presieduto dal vicepresidente Dello Vicario. Sarà compito della Provincia individuare le professionalità e provvedere alla verifica delle competenze necessarie per gli operatori da dedicare alle attività previste con l’assistenza tecnica di Italia Lavoro. È stato convenuto di valorizzare il modello di intervento previsto nel Piano Provinciale al fine di potenziare l’efficacia del Collocamento Mirato. A tal fine sarà la funzionaria della Provincia, Virginia Cacace, quale responsabile del competente ufficio, ad occuparsi della gestione e del coordinamento delle attività necessarie. “In linea generale - continua il vicepresidente Dello Vicario - è da evidenziare come la fase di crisi occupazionale ha reso prioritario, in termini di attenzione dell’attore pubblico del lavoro e di finalizzazione degli interventi, impegnarsi per la tutela dei soggetti a rischio di disoccupazione o disoccupati, con misure di sostegno al reddito o di incentivi alla rioccupazione. Stiamo assistendo attualmente, pur in uno scenario perdurante di crisi, ad una fase di ripresa di interesse verso l’inclusione socio lavorativa delle fasce particolarmente svantaggiate”. Viterbo: “Difendiamoci”, sindacati in campo con un’assemblea in carcere il 30 luglio www.viterbooggi.eu, 19 luglio 2013 A seguito di un clima di sfiducia che si respira a Mammagialla tra il personale di Polizia Penitenziaria, dopo i fatti accaduti nelle ultime settimane (aggressioni ad agenti penitenziaria, accoltellamenti tra detenuti, ecc.), nel primo pomeriggio di ieri si sono riuniti i rappresentanti sindacali della Polizia Penitenziaria presso il Carcere di Mammagialla all’Aula “Luciano Rossi”. Sono stati evidenziati i problemi che esistono nell’affrontare situazioni di criticità (aggressioni, autolesionismi, danneggiamenti ecc.) senza che si tenga conto in quale condizioni operano i Poliziotti penitenziari, non avendo in dotazione gli strumenti necessari, tali da poter permettere di proteggersi da eventuali criticità, dovendo far uso delle semplici mani nude a proprio rischio e pericolo. Ricordiamo che attualmente la struttura ospita oltre 740 detenuti (previsti 444) di cui oltre 200 con problemi psichiatrici, altrettanti ex tossicodipendenze, con oltre il 35% di etnia estere con problemi che si riscontrano nell’ambito della prevenzione della sicurezza rispetto ad un organico di Polizia Penitenziaria di circa 315 unità (485 previste). Al fine di andare incontro ai nostri colleghi, rimasti sfiduciati ma determinati a far rispettare il proprio ruolo istituzionale, abbiamo deciso di percorrere un programma di sensibilizzazione e confronto per ragionare su come intervenire a tutela degli stessi, indicendo un Assemblea per il prossimo 30 luglio 2013 denominata “Difendiamoci”, che sarà la prima di una serie, anche se ci troviamo nella fase estiva dove la situazione è sempre più difficile rispetto gli altri periodi dell’anno. Al termine della stessa sarà prevista una conferenza stampa dinanzi al carcere. Sappe, Uilpa, Osapp, Sinappe, CislFns, UglPp, Cnpp, Cgil fp Libia: dossier In Migrazione Onlus; torture e stupri, l’inferno dei migranti nelle carceri Redattore Sociale, 19 luglio 2013 Un dossier di In Migrazione Onlus racconta, attraverso la voce dei protagonisti, le condizioni di vita dei migranti nelle strutture detentive del paese. Quasi 8000 gli sbarchi nei primi sei mesi del 2013, 40 i morti o dispersi che cercano di raggiungere l’Europa. In 17 in una stanza di quattro metri per quattro, con cibo insufficiente, condizioni sanitarie allarmanti, botte e torture. È questa la condizione di molti migranti nelle strutture detentive della Libia, documentata dal dossier realizzato da In Migrazione Onlus “0021 trappola libica”, diffuso oggi. L’indagine è stata realizzata attraverso una serie di interviste con persone che hanno vissuto un’esperienza di detenzione nel paese, mentre tentavano di migrare verso l’Europa e l’Italia. “Qui non c’è scelta, ci facciamo coraggio e cerchiamo di resistere - racconta al telefono Abdusalam. Nella stessa stanza di quattro metri per quattro siamo in 17”. Il dossier sottolinea come un censimento dei luoghi di detenzione libici sia pressoché inesistente, così come il numero di migranti forzati che affollano questi non luoghi. “Chi siamo riusciti a contattare ci ha raccontato di almeno 500 persone “accolte” nel campo della Mezzaluna rossa a Benghasi - si legge nel documento - altrettante rinchiuse a Kubz, 1300 a Sabha nel deserto”. Secondo Amnesty International sono 5000 i migranti forzati rinchiusi in 17 centri di trattenimento, che vanno ad aggiungersi ad altre 4.000/6.000 persone tra carceri comuni e campi di accoglienza gestiti da miliziani. La Croce Rossa Internazionale per esempio, di strutture ne ha visitate 60. “Tutti i reclusi subiscono sistematicamente trattamenti crudeli e degradanti, percosse, stupri e torture - spiega il rapporto. Purtroppo non è dato sapere con certezza quante siano le donne e i minori che condividono con i loro compagni di viaggio questo infernale girone dantesco. Per avere un’idea però si può considerare che nel 2011sono sbarcati a Lampedusa 4.300 minori non accompagnati”. “La Libia - dichiara Simone Andreotti, presidente di In Migrazione Onlus - non contempla un sistema d’asilo, non ha mai ratificato la Convenzione di Ginevra sui diritti dell’uomo ed è un luogo di detenzione disumana ormai conclamato. Dal 2010 persino l’Unhcr è impossibilitato al controllo del rispetto dei diritti umani. L’ostinazione dell’Occidente a non voler vedere, rende lecite le pratiche brutali che il paese utilizza per il controllo dell’immigrazione e ci rende colpevolmente complici. Dunque si insiste su un approccio all’immigrazione che fu premessa dei famigerati respingimenti costati all’Italia una condanna da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo”. L’ultimo accordo tra Italia e Libia è stato ratificato lo scorso 4 luglio (pochi giorni prima della visita di Papa Francesco a Lampedusa), tra il premier Letta e il primo ministro libico, Ali Zeidan Mohammed. Il dossier di In Migrazione onlus aggiunge inoltre che il pericolo per la propria vita in Libia non è rappresentato soltanto dalle condizioni detentive cui sono sottoposti i migranti. “La Libia è diventata un enorme supermercato di armi, dove regna la confusione e la legge del più forte. In questo scenario le prime vittime sono le persone provenienti dall’Africa subsahariana, perché come ci ha raccontato Yasin, “anche loro ci dicono [i libici]: “non vogliamo vedere la pelle nera”, perché questa è la situazione...” si legge nel documento. Razzismo e rastrellamenti hanno subito una recrudescenza nel settembre 2012 dopo l’attacco al consolato Usa di Benghazi e nel febbraio del 2013 in occasione del secondo anno della “rivoluzione”. Attraversare il Mediterraneo, spiega il rapporto, rappresenta dunque l’unica speranza per riappropiarsi di una vita. “Il ricco business transnazionale dei migranti impone reiterati passaggi tra trafficanti senza scrupoli e forze dell’ordine altrettanto spregiudicate. Ogni traversata ha un costo anche economico che si aggira tra i 900 e i 1200 euro” continua il documento. La consapevolezza di quanto sia rischioso affidarsi ai trafficanti e prendere il mare con imbarcazioni vecchie e inadeguate, è altissima tra i migranti. Eppure l’istinto di sopravvivenza è maggiore alle paure: “Questa non è una vita, non posso tornare - racconta Teklemariam - non c’era alcuna scelta, per forza dovevo rischiare, per questo il viaggio non ti fa paura, nessuno ha paura di provare il mare, tutti hanno il desiderio di uscire dalla Libia, nessuno ha paura del mare, la cosa peggiore è vivere in Libia, perché vivere con i libici vuol dire vivere in un incubo”. Dal 1988 al novembre 2012 ci sono stati almeno 18.673 morti nel tentativo di raggiungere le nostre coste. Se non si tiene conto dei naufraghi di cui non si ha notizia questi sono i numeri agghiaccianti di una guerra sommersa. Il 2011 è stato un anno orribile con una media di 5 decessi al giorno per un totale di almeno 1.822 morti, di gran lunga di più delle 1.274 vittime del 2008 (anno precedente all’inizio dei respingimenti), quando in Sicilia si contarono 36.000 arrivi. Nel 2012 si sono registrate circa 500 vittime tra Libia e Italia a fronte dell’arrivo di circa 13.200 migranti. I primi sei mesi del 2013 vedono invece 40 persone tra morti e dispersi di cui si è avuta notizia e circa 7.800 persone arrivate sulle coste italiane sane e salve. “Evitare queste morti non è impossibile - conclude il presidente della Onlus Andreotti. Sarebbe sufficiente permettere a queste persone di ottenere un lasciapassare nelle ambasciate e nei consolati europei nei Paesi di transito, per poter fare richiesta d’asilo in Europa. Una scelta che metterebbe fine alla sofferenza delle persone, che salverebbe tante vite e che spezzerebbe gli interessi del traffico di esseri umani. Un modo per smarcarsi definitivamente dai ricatti di paesi che trasformano l’apertura o la chiusura delle frontiere in un’arma di pressione internazionale”. Kazakhstan: torture e leggi bavaglio, così il regime punisce i dissidenti di Giampaolo Cadalanu La Repubblica, 19 luglio 2013 La terra dei Cosacchi, degli spiriti indipendenti, dei leggendari cavalieri liberi e selvaggi, è in realtà un luogo di abusi e di impunità, grande più dell’Europa occidentale ma molto meno popolato, dove le carceri sono incubi e la repressione ancora quella dei tempi di Stalin, che proprio qui aveva voluto i suoi campi di concentramento per dissidenti. Il regime di Nursultan Nazarbaev, l’ultimo ad abbandonare riluttante l’Urss in disfacimento, ha garantito una continuità di metodo: le organizzazioni per la difesa dei diritti umani raccontano di un gulag senza garanzie e senza speranze, con violenza e isolamento dentro le prigioni, repressione e paura fuori. L’unica rottura con il passato è in economia, con il via libera allo sfruttamento dei lavoratori, in nome del capitalismo petrolifero. Il regime è considerato “tollerante” in tema di religione, e la storia delle deportazioni volute dal “piccolo padre” georgiano ha imposto una tradizione di convivenza fra diverse etnie. Ma forse nazionalismi e religioni sono considerati sovrastrutture, ciò che conta sono i giacimenti, su cui si svela il pugno di ferro dell’ex leader sovietico, eletto presidente per la terza volta con oltre il 95 per cento dei voti. Il “caso” più eclatante, lo sciopero degli operai represso brutalmente a Zhanaozen, è rimasto un simbolo dell’incapacità di uscire dalla logica dittatoriale, tanto che le autorità kazake stanno valutando persino se proporre alla popolazione locale un referendum per dimenticare il vecchio nome sporco di sangue e ribattezzare la cittadina Beket-Ata, con il nome di un filosofo Sufi nato da quelle parti. Era il 2011 quando gli operai del campo di Ozenmunaigas incrociarono le braccia, per sentirsi dire che lo sciopero era illegale e decidere di occupare la piazza del paese. Nei disordini che seguirono, almeno 15 persone rimasero uccise. Chi sopravvisse alle pallottole della polizia, finì poi davanti ai giudici, decisi a non ascoltare le denunce di tortura e abusi. Né il presidente Nazarbaev ha mai ascoltato il cantante Bavyrjan, che ai fatti di Zhanaozen ha dedicato una canzone: era così critica che il regime ha preferito vietarla. Ufficialmente la repressione era dovuta al sospetto che lo sciopero degli operai fosse stato strumentalizzato da un vecchio nemico di Nazarbaev, l’oligarca Mukhtar Ablyazov, per cercare di rovesciare il presidente. Ma nessun riferimento a cospirazioni internazionali può cancellare le denunce di Amnesty International, di Human Rights Watch, della Fondazione Open Dialog, sulla gestione dei processi, sul trattamento dei detenuti, sui limiti alla libertà di stampa e al diritto di espressione. Alla fine, dietro le sbarre sono finiti 37 fra operai e attivisti, ma nessun agente. La certezza dell’impunità favorisce poi il trattamento disumano di arrestati e detenuti. E i racconti che filtrano sono raggelanti: l’attivista sindacale Roza Tuletaeva, che organizzava i lavoratori di Zhanaozen, ha rifiutato di fornire durante il processo i dettagli degli abusi sessuali subiti, perché in aula c’erano i suoi parenti e amici. Pestaggi, esposizione al freddo, minacce, persino soffocamenti provocati da buste di plastica: la lista delle sevizie è lunga. Ma nemmeno i richiami dell’Onu e quelli dell’Europa hanno smosso qualcosa. Oltre alle vicende italiane, anche la recente visita del premier britannico David Cameron, che ha posto con linguaggio molto prudente il problema dei diritti umani, ne è la prova: Nazarbaev ha risposto che nessuno stato straniero deve dire cosa fare al Kazakhstan. In altre parole, finché il presidente-padrone controlla i rubinetti del petrolio, nessuno potrà impedirgli di fare del suo popolo quello che vuole. Russia: condanna a cinque anni di detenzione al blogger dissidente Aleksej Navalny di Fabrizio Dragosei Corriere della Sera, 19 luglio 2013 Navalny giudicato colpevole di frode allo Stato. Dall’America all’Europa coro di reazioni sdegnate. Cinque anni senza condizionale per un caso di furto già archiviato in una precedente inchiesta: in un’aula affollata e caldissima, il leader dell’opposizione Aleksej Navalny è stato subito arrestato ieri dopo la lettura della sentenza. Mentre fuori i suoi sostenitori protestavano, il blogger 37enne ha abbracciato la moglie Yulia e la madre, ha stretto la mano al padre e si è fatto ammanettare. All’ultimo momento ha consegnato a Yulia l’orologio da polso che gli sarebbe stato tolto poco dopo. A sorpresa, l’accusa ha subito chiesto alla corte di scarcerare l’imputato fino alla conclusione del processo di appello, almeno secondo quanto ha riferito l’agenzia Interfax. Il tribunale deciderà stamane. La sentenza, criticata in tutto il mondo, toglie Navalny di mezzo per le prossime elezioni al Comune di Mosca e per quelle presidenziali del 2018. Inoltre lo pone accanto ad altri personaggi che in questi ultimi anni si sono trovati nei guai dopo aver avuto scontri politici con i gruppi di potere che si riconoscono nel presidente Vladimir Putin. Mikhail Khodorkovskij, l’ex patron della compagnia petrolifera Yukos che è in carcere da otto anni; le ragazze del gruppo punk Pussy Riot che protestarono in chiesa; un altro leader dell’opposizione, Sergej Udaltsov, agli arresti domiciliari. E infine l’avvocato Sergej Magnitskij, che morì in cella dopo aver denunciato una truffa ai danni dello Stato e che ha appena subìto una condanna postuma da un tribunale. La sentenza contro Navalny ha immediatamente portato in piazza i suoi sostenitori anche a Mosca, San Pietroburgo e Ekaterinburg, in risposta all’invito dello stesso blogger: “Ok, non vi annoiate senza di me. E, soprattutto, non rimanete fermi. Il rospo non si staccherà da solo dall’oleodotto”. Il riferimento è al presidente che guida un partito che Navalny aveva definito “di ladri e truffatori”. I tremila dimostranti scesi in piazza a Mosca con i ritratti del loro leader gridavano “vergogna!”. Molti paragonavano questa nuova stagione di repressione (altri partecipanti ai cortei dell’anno scorso sono stati recentemente incriminati) agli anni Trenta di Stalin. Allora i processi farsa furono scatenati dopo l’assassinio del leader bolscevico Sergej Kirov. Casualmente la città dove Navalny è stato processato porta proprio il nome di Kirov. È lì che negli anni passati, quando Navalny era consigliere del governatore, sarebbe avvenuto il furto. L’accusa è che il blogger avrebbe agito con vari complici per rubare dalla società forestale Kirovles legname che poi avrebbe rivenduto. Alla società sarebbero stati sottratti 16 milioni di rubli, circa 400 mila euro. Il fatto è che il caso era già stato esaminato anni fa e chiuso per non luogo a procedere. Poi, quando Navalny è diventato uno dei leader della protesta contro la rielezione di Putin dell’anno scorso, il Comitato investigativo ha riaperto le indagini e ha chiesto il processo. Come spesso avviene in Russia (nel 99% dei casi, secondo le statistiche) il giudice ha accolto quasi in pieno le richieste dell’accusa: colpevolezza e condanna a cinque anni (anziché i sei richiesti). Dalla sua cella, Khodorkovskij ha detto che si aspettava un verdetto simile: “Basta essere una persona per bene oggi in Russia per diventare un eroe”. Mikhail Gorbaciov ha giudicato “molto deprimente” la sentenza: “è la conferma che non abbiamo un sistema giudiziario indipendente”. Anche la responsabile della diplomazia Ue, Catherine Ashton, pensa che il verdetto sollevi seri problemi sul rispetto della legge in Russia, mentre l’ambasciatore Usa ha parlato di “una profonda delusione”. Preoccupati per come funziona il sistema legale russo anche i tedeschi. Il portavoce della cancelliera Merkel ha affermato che in ogni caso per i reati contestati “cinque anni sembrano una condanna sproporzionata”. Il segretario della Cgil Susanna Camusso, a Mosca per un vertice di organizzazioni sindacali, ha detto che sia l’Italia che l’Europa devono essere “più netti in materia di diritti umani”.