Giustizia: in carcere accade anche questo... una storia inquietante e incredibile di Adriano Sofri Il Foglio, 18 luglio 2013 Fra le manifestazioni di insipienza, viltà e brutalità delle autorità varie, ne trascrivo oggi una che solo chi conosce la galera può apprezzare nella sua cattiveria. Un detenuto “modello” nel carcere di Padova, Stefano Carnoli, grazie a un’attività di anni, specialmente nel lavoro delle biblioteche, che lo porta a diventare il responsabile della biblioteca interna e il catalogatore di biblioteche scolastiche esterne, si guadagna l’encomio della direzione e arriva a usufruire dei permessi esterni. (Il suo fine pena è a ottobre 2017). Indirizza al magistrato di sorveglianza un reclamo perché la cella in cui è recluso con due compagni non assegna loro lo spazio minimo che le sentenze europee riconoscono, e il giudice accoglie il suo reclamo. A questo punto, all’improvviso, Carnoli e i suoi compagni di cella vengono trasferiti in altre carceri. La Direzione dice di non conoscere le ragioni del trasferimento. Il quale è una misura punitiva crudele, perché in un’altro carcere l’intero itinerario attraverso cui un detenuto si conquista un lavoro e la prospettiva di ottenere i permessi d’uscita, ricomincia da zero, ammesso che trovi condizioni materiali per ricominciare. E’ esattamente come riprecipitare in fondo a un pozzo uno che l’abbia risalito faticosamente fino a mettere una mano sul bordo e vedere la luce. I bravi volontari di Padova chiedono spiegazioni e raccolgono le ragioni in un appello al ministero, per il quale il dottor Giovanni Tamburino, dal quale ci si aspetterebbe ben altro, risponde che siccome il reclamo avanzato e accolto dal giudice corrisponde secondo l’Europa a una “tortura”, il ministero, che non può tenere i detenuti nella condizione di torturati, invece di distribuirli in modo che la cella per due ridiventi una cella per due, li fa “sballare” qua e là - Carnoli a Cremona, dove ha ora uno spazio di 4 metri quadrati piuttosto che di 2, in cui disperarsi. La risposta di Tamburino, chissà se del tutto nelle sue intenzioni, è spaventosamente provocatoria. A prenderla in parola, vuol dire che le migliaia di detenuti ammucchiati non vengono dotati dello spazio minimo solo perché non hanno fatto reclamo, e che la tortura è tale solo quando viene dichiarata dal torturato. Naturalmente, i trasferimenti per chi reclama (è avvenuto anche altrove) sono una misura intimidatoria: gli altri sono avvisati, guadagneranno il loro metro, perderanno lavoro, permessi, rapporti umani - tutto. Io trascrivo la storia augurando al dottor Tamburino, e alla signora ministro della Giustizia, di voler fare il proprio bene cancellando, per il passato e per il futuro, trasferimenti che simulando sofisticamente di applicare la legge la beffano realizzando odiose ritorsioni. Giustizia: Marco Pannella in sciopero della sete per l’amnistia “il mio è un atto di amore” www.lettera43.it, 18 luglio 2013 Marco Pannella, storico leader del Partito radicale, ha annunciato un nuovo sciopero della sete, un Satyagraha per la giustizia, per chiedere quell’amnistia che servirebbe non solo a mettere fine alle condizioni inumane di vita dentro le carceri ma anche a ottenere la cancellazione delle procedure di infrazione dell’Italia. “Il mio è un atto di amore verso le istituzioni”, ha spiegato l’anziano politico, sottolineando che “dopo un giorno farò le analisi per sapere in quali condizioni sarò per proseguirlo”. Pannella ha inoltre aggiunto che presto dovrebbero prendere il via “altre azioni non violente” nelle carceri. “Dobbiamo arrivare immediatamente alla cessazione di questa flagranza criminale e poter ottenere entro fine anno la decadenza dell’imputazione nei nostri confronti”, ha detto il leader radicale, ricordando, tra l’altro che, tra cause civili e processi penali, sono 15 milioni le famiglie italiane che patiscono per il malfunzionamento della giustizia. Per mettere fine però alla drammatica situazione che vivono i detenuti nelle carceri italiane Pannella spinge anche per la “formalizzazione del reato di tortura”. “Non lo vogliono a causa delle carceri”, ha attaccato, dopo aver invitato anche gli operatori di giustizia, dai giudici ai direttori delle carceri, ad “opporsi all’ordine di carcerazione” quando viola i diritti e le tutele previste dalla Costituzione. Giustizia: ministro Mario Mauro; amnistia e indulto non sono parole di cui vergognarsi Ansa, 18 luglio 2013 "Amnistia e indulto non sono parole di cui vergognarsi, sono nei fondamenti della Costituzione e devono essere coraggiosamente presi in considerazione dal Parlamento per alleggerire la situazione delle carceri". Lo ha detto il ministro della Difesa, Mario Mauro, al termine della sua visita al carcere di Rebibbia. L'iniziativa promossa dal governo con il decreto carceri, ha spiegato il ministro, "aiuterà la gestione degli istituti di pena, ma le misure contenute nel provvedimento hanno la possibilità di essere migliorate nel dibattito parlamentare ed auspico che il Parlamento non abbia timori, deve avere più forza e più coraggio per parlare di temi come amnistie ed indulto". "Le norme promosse dal ministro della Giustizia Cancellieri - ha proseguito il titolare della Difesa - vanno incontro alle esigenze rappresentate dalla sentenza della Corte dei diritti umani di Strasburgo, perché non possiamo permetterci di essere un Paese con condizioni precarie nella gestione della popolazione carceraria che feriscono il comune senso di umanità. Il Governo - ha concluso - ha fatto quello che doveva fare, ora tocca al Parlamento di avere il coraggio di far fare il salto di qualità al dibattito". Giustizia: Cancellieri; rivedere accordi trasferimento in patria detenuti stranieri www.stranieriinitalia.it, 18 luglio 2013 Il ministro della Giustizia alla Camera: “82 trasferiti nel 2013, 131 nel 2012. Complesso omologare le condanne”. Il trasferimento dei detenuti stranieri nei loro Paesi d’origine può ridurre l’affollamento delle carceri italiane. Bisogna però stipulare nuovi accordi e rivedere quelli già in vigore, che funzionano a scartamento ridotto. Lo ha spiegato ieri il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri, rispondendo alla Camera a un’interrogazione leghista. “La condizione di sovraffollamento degli istituti penitenziari italiani costituisce un dato oggettivo. Al 30 giugno 2013 erano presenti 66 mila e 28 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 47 mila e 22” ha premesso il ministro. Il governo, ha spiegato, punta quindi a “meccanismi di decarcerizzazione nei confronti di persone di ridotta pericolosità sociale” e al completamento del “piano carceri” che porterà a diecimila nuovi posti. “È certamente condivisibile - ha aggiunto Cancellieri - l’intento di intervenire sul sovraffollamento promuovendo e attuando la negoziazione di accordi con i Paesi di origine dei detenuti stranieri per fare scontare loro la pena in patria. Al riguardo l’Italia ha stipulato nove accordi bilaterali e ha inoltre aderito, dal 1988 alla Convenzione europea sul trasferimento delle persone condannate”. Nonostante gli accordi, risulta però “ancora molto esiguo il numero dei detenuti trasferiti nei Paesi di origine: 82 nel 2013 e 131 nel 2012. Ciò è principalmente dovuto alla complessità delle procedure di omologa delle condanne emesse dall’autorità giudiziaria italiana da parte dei Paesi esteri”. “È mio intendimento - ha concluso Cancellieri - profondere il massimo impegno per rivedere i contenuti degli accordi al fine di accelerare i tempi di trasferimento, nonché stipulare nuove convenzioni con i Paesi, prevalentemente dell’area del Maghreb, da cui proviene la maggior parte dei detenuti stranieri”. Giustizia: Staderini a Epifani “l’amnistia è per la Repubblica… non per Berlusconi” Notizie Radicali, 18 luglio 2013 Dichiarazione di Mario Staderini, segretario di Radicali italiani: “Intervistato da Repubblica tv rispetto ad un provvedimento di amnistia e indulto, Guglielmo Epifani ha risposto “perché dovremo? Non c’è nessun motivo”. Se il segretario del Pd si liberasse per un attimo dalla ossessione berluscocentrica, di motivi ne troverebbe eccome. A cominciare dal carattere criminale in cui persiste lo Stato italiano a causa della sistematica violazione dei diritti umani di milioni di persone, vittime della bancarotta del sistema giustizia oltre che delle condizioni in cui è costretta a vivere la comunità penitenziaria. A differenza di quanto propagandato anche dalle testate del gruppo De Benedetti, quella proposta dai Radicali e da chi viene spregiativamente chiamato garantista è un’amnistia per la Repubblica, non per Berlusconi. È lo Stato italiano, infatti, ad essere da anni il sorvegliato speciale della comunità internazionale, il Paese con il record di condanne della Corte europea dei diritti dell’uomo per la durata dei processi e la disumanità delle nostre carceri. L’amnistia interverrebbe innanzitutto per interrompere questa flagranza criminale: in gioco c’è il ritorno allo Stato di diritto e dunque alla democrazia. Caro Epifani, provo a farti io la domanda che non ti è stata posta: quali sono le soluzioni alternative all’amnistia per cui il Partito democratico si batte? Oppure l’ignominia di fronte all’Europa e al mondo determinata dalla violazione della Costituzione e delle convenzioni internazionali non vi interessano? Giustizia: Bernardini (Radicali) “carceri piene di detenuti in attesa di giudizio” Giornale di Calabria, 18 luglio 2013 “In Italia la custodia cautelare dovrebbe essere irrogata con maggiore cautela perché le nostri carceri sono inondate da persone detenute in attesa di giudizio”. È uno dei passaggi dell’intervento di Rita Bernardini, l’ex parlamentare radicale giunta in Calabria per una serie di iniziative tese alla raccolta delle firme a sostegno dei dodici referendum sulla Giustizia richiesti dal partito di Pannella. “Con le nostre proposte - ha proseguito - miriamo all’abrogazione dell’ergastolo, una pena che al momento riguarda circa seicento detenuti senza speranza. Una sanzione terribile che così come concepita è contraria al senso di umanità e contrasta con i principi della Costituzione”. La conferenza stampa è stata introdotta dall’avv. Giampaolo Catanzariti, esponente dei Socialisti riformisti, che ha voluto ringraziare i radicali “perché sul tema della giustizia - ha detto - nessuno vuole mettere mano. La giustizia non può rimanere un tabù, meno che mai per un Parlamento che soffre di scetticismo, per questo è dunque necessario dare la parola ai cittadini”. Catanzariti, inoltre, ha chiesto esplicitamente alla sinistra “di essere autenticamente riformista e garantista e di impegnarsi nella raccolta delle cinquecentomila firme necessarie per la celebrazione dei referendum”. Nel corso dell’incontro, sono intervenuti gli avvocati Carlo Morace e Pietro Modafferi, rispettivamente, componente della giunta nazionale delle Camere penali e presidente della Camera penale di Reggio Calabria. Infine, il consigliere del Pdl Tilde Minasi ha preannunciato il sostegno del suo partito per la raccolta delle firme e per la campagna referendaria. “L’obiettivo - ha detto Minasi - è giungere ad una giustizia efficiente di cui tutti abbiamo bisogno, un traguardo che anche gli altri partiti dovrebbero condividere”. Giustizia: la storia di Nadia, volontaria fra gli “uomini-ombra” di Alessandro Micci Famiglia Cristiana, 18 luglio 2013 Una volontaria della Comunità Papa Giovanni XXIII racconta la sua esperienza, nata alla scuola di don Oreste Benzi. Opera nelle carceri, specie fra quei detenuti con scritto “fine pena: mai”. “Chi crede nell’uomo non può credere che l’uomo sia irrecuperabile”. Quando Nadia Bizzotto parla delle giornate trascorse in carcerecon gli ergastolani il suo sguardo si illumina di partecipazione. C’è la convinzione che degli uomini che hanno sbagliato e che pagano per questo debbano pagare il giusto, non di più. Che a un’ingiustizia non si rimedi con un’altra ingiustizia, che il senso del carcere sia il recupero e la rieducazione, proprio com’è sancito nello stesso ordinamento giudiziario, e non la vendetta. Nadia fa parte della Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da don Oreste Benzi che nel 1973 apre la prima casa-famiglia per essere vicino agli ultimi, e oltre a lavorare in carcere con gli ergastolani è responsabile di una casa di accoglienza in Umbria, a Bevagna. La Comunità ne conta circa 200 in Italia ed è presente all’estero in oltre venti Paesi. La casa di Nadia è all’interno di un’ex convento dei frati minori di Assisi, il convento dell’Annunziata, e accoglie adulti in difficoltà. Chiunque può trascorrere un periodo di volontariato, oppure accedere a una verifica, di almeno un anno, se sente la vocazione per la Comunità. Nadia è membro dal 2000, nata in Veneto viveva a Bassano del Grappa, poi di concerto con Don Oreste si trasferisce in Umbria nel 1999. La Comunità non chiede nessun voto, ne fanno parte sacerdoti, ci sono laici e coppie di sposi che gestiscono case, l’importante è sentire il carisma del donarsi agli ultimi, chiunque essi siano. Oltre ad avere la responsabilità di una casa, Nadia frequenta il carcere di Spoleto tutte le settimane, dove incontra gli ergastolani ostativi, e da quando il gruppo che segue da anni è stato spostato e sparpagliato per la penisola gira il nostro Paese senza abbandonarli. Gli ergastolani ostativi sono i cosiddetti “sepolti vivi”: “uomini ombra”, sono quelli che scontano la “pena di morte viva”, ovvero l’ergastolo di chi è condannato per reati associativi e non ha scelto la via della collaborazione. Per loro, secondo l’articolo 4 bis dell’Ordinamento Penitenziario che esclude qualsiasi beneficio a chi non collabora, le porte del carcere non si apriranno mai, neanche dopo 20, 30 o 40 anni, neanche per andare al funerale dei propri familiari. Attualmente gli ergastolani in Italia sono oltre 1500 e “circa i due terzi sono ostativi”, dice la Bizzotto. Sui loro fascicoli c’è scritto “Fine pena: mai”, ma “l’ergastolo è una pena disumana, non si può scrivere la parola mai su un essere umano, la scienza oggi dimostra che le persone nel tempo cambiano, non rimangono sempre le stesse”, continua, “e inoltre va contro il senso dell’articolo 27 della Costituzione”, quello secondo cui le pene dovrebbero tendere alla rieducazione. “In carcere la recidiva è altissima, siamo a oltre l’80% per chi finisce di scontare la pena all’interno, mentre scende al 15% per chi accede alle misure alternative. Ci sono più di cento persone oggi in carcere da oltre trent’anni, ma il carcere non crea maggiore sicurezza. Chi commette un reato ha il diritto alla rieducazione e a essere restituito come valore sociale alla comunità”, dice Bizzotto. Dunque il punto non è quello di mettere in discussione l’esistenza del carcere o l’efficacia della detenzione e della pena, né che il condannato sia tolto dalla società finché può fare ancora del male. Si tratta invece di capire il senso profondo dell’istituzione-carcere per come è concepita nell’ordinamento giuridico, il suo senso e la sua funzione: “Il carcere non può essere il fine”, prosegue Bizzotto, “il vero fine consiste nel riportare in seno alla società chi ha sbagliato. Non è giusto tenere in carcere le persone dopo che sono cambiate, bisogna scegliere se si vuole una giustizia riparativa o vendicativa. E una giustizia riparativa non vuol dire negare il rispetto alle vittime o al loro dolore, ma non dimenticare che nel reato di ognuno c’è anche una responsabilità sociale”. “Incontro ragazzi”, continua, “che sono stati condannati all’ergastolo a 18 anni e a 40 non sono ancora mai usciti, hanno passato più vita in carcere che fuori. Non posso non pensare che se non fossero nati in un determinato contesto sociale forse avrebbero fatto altro. Questo non esclude la responsabilità individuale per le proprie azioni, ma vuole introdurre una responsabilità sociale che trovo ancora più significativa per i reati di tipo associativo (quelli che vanno incontro all’esito processuale dell’ergastolo ostativo, ndr). Non sempre chi nasce in un certo contesto è veramente libero”. Nadia Bizzotto spiega che “esistono due tipi di ergastolo: per chi non ha un reato ostativo dopo 26 anni c’è la possibilità di ottenere la libertà condizionale, e i permessi. Nel caso invece di reati associativi niente di tutto questo è possibile, a meno che non si sia collaboratori di giustizia. Ma così si creano dei paradossi, perché anche nei casi più esemplari di rieducazione non c’è niente da fare”. Ci sono casi emblematici che mostrano il successo nella rieducazione, come quello di Carmelo Musumeci, che sconta un’ergastolo ostativo, e che entrato in carcere con la quinta elementare si èlaureato in giurisprudenza e ora è iscritto a filosofia. Ma soprattutto nel suo caso “la presenza di cinque pagine di relazione positiva da parte di tutti gli organi preposti alla valutazione, dal direttore del carcere, allo psicologo, al comandante delle guardie carcerarie, all’assistente sociale, che riconoscono nel merito il cambiamento della persona - evento molto raro - non cambiano di una virgola la situazione. In più di vent’anni è uscito un solo giorno per undici ore per discutere la tesi di laurea”. “La collaborazione”, sottolinea la volontaria, “è una scelta processuale, non morale, ago della bilancia per le agevolazioni nei casi di reati associativi. Non è in sé indice di pentimento morale”. Ci sono casi di boss mafiosi collaboratori di giustizia che una volta fuori hanno ricominciato con la propria attività criminale, e viceversa casi di persone che non scelgono la via della collaborazione (e quindi non accedono ai benefici) perché è passato troppo tempo dai fatti e non hanno più nulla di nuovo da dire, oppure non vogliono mettere in pericolo la vita dei familiari e dei figli. Entrando nel programma di protezione dovrebbero stravolgere le loro vite a venti o trent’anni di distanza dai fatti. “L’ostatività è una misura introdotta con una legge d’emergenza per i reati associativi di mafia e l’emergenza non può essere tale per vent’anni”, conclude Bizzotto. La sua battaglia come quella degli altri volontari dell’associazione Papa Giovanni XXIII testimonia che l’ergastolo, specie quello ostativo, è una pena irrazionale, perché “non ha senso rieducare per portare alla tomba rieducati. E come diceva Don Benzi “se un uomo ha capito i propri sbagli ogni giorno di carcere in più è un bene tolto all’umanità”. Lettere: a proposito di abolizione dell’ergastolo… di Ettore Bucciero (ex senatore di An e Pdl) L’Opinione, 18 luglio 2013 Caro direttore, il collega Manconi (“La Repubblica”, 12.07.2013), riproponendo una vecchia tesi sostenuta in Senato nel 1998 in un ddl (AS 211) presentato da Rifondazione comunista, afferma che la pena ha funzione rieducativa e conseguentemente quella dell’ergastolo, non prevedendo una fine, mal si concilia con questa funzione “costituzionale” (art. 27 Cost.). Sostenni in Senato (applaudito anche dal senatore Bertoni dei Ds, già magistrato, che insieme alla teoria della funzione rieducativa della pena vanno tenute presenti anche le teorie della funzione retributiva e quella preventiva. E dissi che le tre teorie vanno applicate congiuntamente, non in via esclusiva l’una a danno dell’altra, essendo solo... teorie di politica criminale. Con me ha convenuto anche Seneca, come ricordai nel discorso pronunciato al Senato il 29 aprile 1998. “Onorevole Presidente, signor Ministro, onorevoli colleghi, la discussione di questo disegno di legge proposto da Rifondazione Comunista è stata pretesa ed ottenuta nel momento meno opportuno. Non so capire i motivi di tale pretesa, ma non ritengo di sbagliare se li restringo a due. Infatti delle due l’una: o i presentatori del disegno di legge, e ovviamente coloro che si sono prestati ad agevolarne l’ iter , hanno scarsa sensibilità politica, non avvertendo che di tutto gli italiani hanno bisogno fuorché dell’abolizione dell’ergastolo, oppure proprio perché Rifondazione Comunista si è resa conto che anche colleghi di altri Gruppi potevano essere avviluppati in una falsa battaglia libertaria, ha tentato e sta tentando di ottenere adesioni trasversali, strumentalizzando quanti in quest’Aula e in perfetta buona fede presteranno orecchio ad assiomi giuridici e alle sirene di falsi principi. Vi è, forse, una terza ipotesi, cioè quella dell’uso propagandistico di un tentativo che, male che vada, lascerà a Rifondazione la bandiera di una battaglia persa ma nobile; nobile quanto meno per i pochi ingenui che ci crederanno. Ma la schiacciante maggioranza degli italiani non saprebbe darsi una ragione se questo tentativo passasse sulle loro teste e contro la loro volontà né comprenderebbe il motivo per il quale la maggioranza dovrebbe pagare un prezzo così elevato pur di tenere in piedi un Governo. È infatti evidente che una componente della maggioranza sta forzando il Governo per scopi che a me personalmente sfuggono, ma è certo che, ove riuscisse nell’intento di ottenere il varo di questa legge, il Governo ne uscirebbe indebolito. Tanto ciò è vero, che il Ministro della giustizia si è affrettato a creare un po’ di confusione dichiarandosi contro l’abolizione dell’ergastolo, all’indomani del sondaggio Censis su criminalità e giustizia nel quale si dà atto che l’80 per cento degli italiani è contro l’abolizione. Diciamo allora che il Governo ha avuto coraggio; mi auguro che non sia solo il coraggio del sondaggio, ma anche il frutto dell’intima convinzione di rispettare la volontà dei cittadini, già dimostrata con un referendum. Si è detto da parte del relatore - che peraltro nella XII legislatura ha firmato analogo disegno di legge, lasciando in questa legislatura l’iniziativa a Rifondazione - che erano trascorsi ormai quindici anni dal referendum e tale tempo gli appariva congruo per ipotizzare - soltanto per ipotizzare - che gli italiani avessero ormai mutato radicalmente opinione e fossero ora pronti a subire l’abolizione dell’ergastolo. Per chi scambia i propri desideri con la realtà la giusta punizione è il recente sondaggio, che sotterra tali desideri e gli ipotizzati scenari di una realtà virtuale, rilevando che per l’80 per cento dei cittadini la pena dell’ergastolo deve essere tenuta ferma. Onorevoli colleghi, i sondaggi possono anche sbagliare, ma la percentuale dell’80 per cento è difficilmente contestabile o interpretabile, tanto essa è chiara e schiacciante. Tuttavia, i presentatori del disegno di legge hanno errato, non soltanto nel confondere tra desideri (o ideologie) e realtà, ma anche nel non accorgersi che in questi anni la tendenza dei cittadini è andata verso un sempre maggior inasprimento delle pene. E d’altronde è tendenza naturale difficile da contrastare. Infatti, solo ad una parte di questa Camera, che spero minoritaria, sfugge che piú il colpevole scansa la pena, piú la reazione dei cittadini si fa intensa e rabbiosa. Non starò qui ad analizzare compiutamente il fenomeno. Mi è sufficiente rilevare che il cittadino sa che per l’80 per cento dei reati in media gli autori rimangono sconosciuti e quindi impuniti, che la prescrizione dei reati cancella la pena per la residua percentuale, che la pena, per quei pochi colpevoli che fortunosamente lo Stato individua e condanna, non è mai effettiva o scontata interamente. Questo quadro sconcertante viene visto dal cittadini quale ingiusto e ingiustificato lassismo giudiziario. Essi, i cittadini, sin dai primordi dell’era civile si sono spogliati del potere di farsi giustizia da soli e hanno quindi delegato lo Stato ad amministrarla. È facile profezia prevedere che di qui a qualche anno, ove quantomeno non si torni al Beccaria, che auspicava una pena mite, è vero, ma certa e immediata, ove non si inverta immediatamente questa tendenza al lassismo e alla confusione, i cittadini non solo ci chiederanno di togliere allo Stato questa antica delega di civiltà per difendersi da soli e da soli farsi giustizia, o al limite delegare alla mafia la giustizia in quel territorio, ma ci chiederanno pene sempre piú aspre fino a pretendere il ripristino della pena di morte. La cosiddetta battaglia di principio sulla pena dell’ergastolo è stata motivata dai presentatori, e da quanti vi hanno aderito per convinzione o perché costretti da ragioni di partito e da vincoli di maggioranza e di Governo, con una presunta maggioritaria tendenza della dottrina in merito alla funzione della pena. Non posso, soprattutto per ragioni di tempo, illustrare compiutamente tutte le posizioni della dottrina sulla funzione della pena, ma devo riassumerle, onde offrire a quanti in quest’Aula non sono cultori di diritto quantomeno la possibilità di non appiattirsi su ordini di partito, ma serenamente valutare che in materia non vi è nulla di scontato. Le principali teorie sulle funzioni della pena sono tre: l’una dà alla pena una funzione retributiva, vale a dire la pena ha carattere puramente afflittivo, proporzionale all’afflizione che il delitto ha causato alla vittima; altra teoria è quella della prevenzione o della intimidazione, che ha anche la finalità di garantire l’ordinato fluire dei rapporti sociali a mezzo della segregazione del reo dalla società; infine, vi è la teoria emendativa o rieducativa, che molti dicono sia stata quella che ha suggerito l’articolo 27 dell’attuale Costituzione. Tutte e tre le teorie che ho appena elencato hanno nobili giustificazioni, ma possono avere gravi risvolti negativi ove siano accettate e applicate in via esclusiva, l’una a danno delle altre, perché in fin dei conti si tratta solo di teorie, di prodotti della dottrina giuridica. Qui, invece, in questa sede non dobbiamo sposare ideologicamente l’una o l’altra teoria, ma filtrarle insieme, onde farne il miglior uso per risolvere il caso nel concreto, in relazione alla nostra epoca, al nostro attuale sviluppo, ai nostri rapporti sociali, perché quella che stiamo trattando è politica criminale e come tale può mutare. Ecco perché non è corretto, o quanto meno è imprudente e superficiale, trarre a pretesto una teoria per dare un alibi a questa iniziativa legislativa, i cui presentatori in sostanza affermano che poiché la funzione della pena è quella dell’emenda, della rieducazione del reo, ne consegue che l’ergastolo, non prevedendo una fine della pena, è inconciliabile con lo scopo. Questo alibi è facilmente smontabile e a ciò hanno provveduto gli stessi sostenitori dell’abolizione quando, non convinti della bontà della teoria, la neutralizzano affermando che in realtà l’ergastolo è di fatto abolito attraverso l’applicazione costante degli strumenti della liberazione condizionata dopo 26 anni, della semilibertà dopo 20 anni, dei permessi premio dopo 10 anni, dei tre mesi di sconto per ogni anno di pena. Essi aggiungono che non essendo questione di fatto rimane una questione di principio che ha una sua dignità, perché - essi dicono - vale la pena battersi affinché una teoria abbia la sua totale e piena applicazione. Allora, se è solo questione di principio (ma non è così, come tenterò di dimostrare in seguito), è sul principio, cioè sulla teoria emendativa, che vale la pena spendere qualche parola. Innanzi tutto va osservato che questa teoria è figlia dell’utopia, che già tanti danni ha provocato non solo in Italia. Mi correggo: la teoria non è figlia solo dell’utopia, ma anche dell’ipocrisia. Credo che sia ipocrita, infatti, invocare prima la sacralità del principio e poi preoccuparsi della sua applicazione pratica. Intendo chiedere, a quanti sanno o conoscono delle nostre carceri: qual è il grado di ipocrisia cui si deve giungere per credere che nelle nostre carceri ci si possa rieducare? Non ci vuole un grosso bagaglio di esperienze per sapere che il delinquente nel carcere italiano affina le sue qualità negative e quando ne esce è in effetti rieducato, ma al peggio; ne esce infatti abbrutito, incattivito e astioso verso il consorzio sociale che lo ha temporaneamente espulso e verso il quale ha solo sentimenti di vendetta. Nulla nelle nostre carceri aiuta alla rieducazione né le loro strutture, che il piú delle volte sono medioevali, sia come epoca sia come spazi (gli esempi di 7 detenuti per una cella di 15 metri quadri sono frequenti) né la metodica per una effettiva rieducazione. è quindi ipocrita preoccuparsi prima del principio e poi degli effetti della sua applicazione. Avrei apprezzato di piú che tutto il Parlamento si fosse battuto, ove realmente avesse creduto alla teoria emendativa, per fare ottenere al Ministero dei lavori pubblici e al Ministero della giustizia un congruo finanziamento onde costruire carceri moderne, progettate e adeguate al fine di una effettiva rieducazione del reo, nonché per assumere personale specializzato e acquistare attrezzature idonee alla rieducazione. Ma a questo fine la maggioranza non ha speso molti sforzi in sede di finanziaria, tanto che oggi il Ministero della giustizia ha raschiato il fondo del barile e se non sa come sopravvivere per le spese correnti, possiamo figurarci se abbia risorse per porre mano al grande progetto di attuare finalmente la Costituzione, che al terzo comma dell’articolo 27 prescrive che “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità...”. Lo ricordo a quanti dell’articolo 27, terzo comma, richiamano solo la seconda parte, in cui si afferma che le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Credo sia piú corretto evocare tutto l’articolo e non solo la parte che sembra far piú comodo. Ho detto “sembra” perché anche questa parte della norma costituzionale, richiamata per giustificare la non costituzionalità dell’ergastolo, è passata al vaglio della Corte che invece non ha trovato inconciliabile quella pena con la Costituzione. Per tornare alla teoria della rieducazione, che per alcuni sembra dover far aggio su quella retributiva e intimidativa, vorrei concludere aggiungendo sinteticamente due osservazioni. La prima è rivolta a quanti sposano una teoria per motivi ideologici o fideistici o per oscuri motivi psicologici o di pura suggestione. Nel caso che ci occupa mi rivolgo anche a quanti non disdegnano l’etichetta di libertari, perché strenui difensori dei diritti civili, sempre pronti a scattare contro ogni forma di indebita compressione della dignità della persona. E qui mi perdonerete un inciso che surrettiziamente introduce un mio sfogo. Avrete notato che ho parlato di dignità della persona senza aggiungere alcun aggettivo: oggi è di moda, anche da parte di eminenti letterati, aggiungere l’aggettivo “umano”. Io dico che, se proprio non si vuol rispettare l’etimologia, bisognerebbe almeno chiedersi se questo aggettivo serva a distinguere la persona umana da quella animale. Mi scuso per l’inciso e torno alla questione della dignità della persona. Se si vuole accettare acriticamente la teoria emendativa, sposarla fino in fondo ed estremizzarla, male interpretando la prudenza dei nostri primi costituenti, si abbia quanto meno il dubbio che la rieducazione, così come utilizzata in quest’Aula, potrebbe rievocare l’alta e nobile funzione dei gulag e dei campi delle Guardie rosse di Pol Pot: anch’essi infatti tendevano alla rieducazione, ma è noto che molti rieducabili da quei regimi avevano il desiderio di scontare la pura detenzione per espiare la colpa (vera o presunta), ma non certo di essere rieducati a rientrare nelle regole di quel consorzio sociale che li aveva espulsi e segregati. I libertari di tutte le tendenze meditino pertanto sulla loro ingenua buona fede e, soprattutto, manifestino chiaramente in quest’Aula la loro volontà, perché, quando fra qualche anno il lassismo avrà provocato un parossistico incremento della delinquenza, non vengano poi a gemere e a lagnarsi se i cittadini, sull’onda di una conclamata emergenza, chiederanno vent’anni di galera per il furto e la pena di morte per la rapina a mano armata. Non potranno lagnarsi perché saranno considerati loro colpevoli e affetti da cronica querulomania, sia pure a senso unico. Nessuno di essi, libertari o falsi garantisti che tanto si agitano per i terroristi o gli assassini ideologici, nessuno di essi - strana contraddittorietà - sa gemere con lo stesso tono per il cittadino che si difende dall’azione violenta del delinquente. Questi falsi garantisti, e con loro i pubblici ministeri di identica cultura, dimenticano che quel cittadino ha non solo il diritto ma il dovere di difendersi e difendere anche altri cittadini. Eppure quel cittadino oggi è rimasto solo; egli è ed è destinato ad essere vittima, obbligatoriamente vittima, perché gli è impedito di difendersi, mentre il delinquente è pregiudizialmente, ideologicamente se non innocente, quanto meno irresponsabile, in quanto costretto a delinquere dalla società. Insomma è un soggetto debole da proteggere e coccolare come, se continuerà questo andazzo dottrinario e ideologico, sentiremo affermare in una mozione del prossimo congresso di Magistratura Democratica. L’altra necessariamente sintetica osservazione sulla teoria rieducativa si sostanzia nel chiedervi se non troviate strano che dall’area di sinistra-centro, dalla quale si invoca l’eliminazione dell’ergastolo, provengono altresì grosse acquiescenze e complici silenzi in merito al fenomeno sempre piú esteso della carcerazione preventiva, sistema questo di anticipazione della pena - pena ingiusta, perché la maggior parte dei reclusi viene poi assolta, come è noto - applicato per lo piú da quei pubblici ministeri che gravitano nella stessa area e cultura politica degli abolizionisti. Ebbene, a parte la strana coincidenza, a me sembra assurdo che si invochi ad alibi la teoria assoluta della rieducazione e poi non ci si chieda se essa non debba miseramente crollare in presenza della carcerazione preventiva. Se la pena, la reclusione, ha il fine di rieducare, delle due l’una: o la reclusione preventiva va abolita o la teoria va eliminata. Un’ultima domanda per ingenerare altri dubbi in quanti non sono vincolati ad ideologia, ma aperti alla critica: può fondatamente ritenersi applicabile la teoria rieducativa ad incalliti capimafia? Coloro che risponderanno affermativamente evidentemente poco sanno della mafia e di quella radicale cultura. Chi sin da giovanissimo ha vissuto in quell’ambiente, chi ne ha scalato tutti i gradini arrivando ai vertici esclusivamente in forza di crimini sempre piú efferati, chi della mafia ha fatto una religione, si è imbevuto dei suoi riti e ne ha impartito i sacramenti, chi dalla mafia ha tratto fortuna, prestigio e potere, ebbene, non solo non è rieducabile, ma in carcere trova l’ambiente ideale per rafforzarsi nella propria cultura deviata e lì, nel carcere, trova nuova adepti, diffonde il virus , amministra giustizia e impartisce ordini. Tiene nel frattempo nel carcere una condotta irreprensibile - anche perché non avrebbe motivo di protestare o di ribellarsi in quanto trae dal carcere motivi di soddisfazione per il suo ruolo - e dopo pochi anni ne esce, in permesso di semilibertà, piú forte e piú potente di prima, in forza dei nuovi reclutamenti e delle nuove alleanze che ha saputo creare; insomma, se entra colonnello ne esce imperatore. Si può infine escludere con assoluta serenità che possano esistere casi di detenuti non rieducabili, contrari essi stessi a subire qualsiasi condizionamento, ribelli a qualsiasi regola o in particolare alle regole imposte loro dal consorzio che li vuole rieducare? Per un attimo si pensi al caso della Baraldini, che non pare voglia farsi rieducare seguendo i metodi e le regole imposte dagli Stati Uniti; oppure, si pensi a qualche membro di tribù amazzonica incappato nel carcere italiano e sottoposto alla “nostra” rieducazione. Per tornare all’abolizione dell’ergastolo, è chiaro che esso è un lusso, uno sfizio ideologico che si vuole togliere chi oggi sa di attuare un colpo di mano, approfittando del favorevole momento nel quale ritiene di poter condizionare tutta la maggioranza di Governo, maggioranza che come è noto non rappresenta la maggioranza degli italiani. Se qualcuno vuole togliersi questo sfizio, questo antico desiderio represso per tanti anni, di creare caos e anarchia, divisioni e conflitti, si accomodi pure, se ha i numeri. E allora, mi rivolgo a quanti possono sottrarre qualche voto all’approvazione di questo disegno di legge per dire loro di fare appello non ai precordi, ma al buon senso, al pragmatismo, al senso di responsabilità di legislatori seri, attenti e sensibili. Per dirvi, onorevoli colleghi, che se da una parte si richiamano dottrine assiomatiche o falsi principi, dall’altra non è solo la “bieca reazione” che vuole contrastare questo deprecabile tentativo, ma anche eminenti personalità. Non ultima, l’ex presidente della Corte costituzionale professor Conso che, in occasione del barbaro stupro e assassinio di due povere ragazze da parte di un pastore greco sul monte Morrone, a chi invoca la pena di morte ebbe ad affermare che in quel caso era l’ergastolo che andava comminato perché pena piú afflittiva, piú retributiva, piú angosciante rispetto alla pena di morte. D’altronde vi è ancora qualcuno che sa distinguere tra reato e reato e nel tentativo di calibrare le pene non esita a chiedere l’ergastolo per chi sequestra persone a scopo di estorsione. È di pochissimi mesi orsono la presentazione di una proposta di legge (la n. 4282) alla Camera da parte dei deputati popolari Soro, Carotti e Borrometi. Se non erro, l’onorevole Carotti è l’attuale responsabile della giustizia per il Partito Democratico; me ne compiaccio, così come mi auguro che i senatori dello stesso partito vogliano trarre da questa iniziativa parlamentare spunti di riflessione. È infatti necessario riflettere sulle conseguenze che deriveranno dall’abolizione dell’ergastolo, così come propostaci nel testo della Commissione. Ci si chieda dopo quanti anni potrà uscire dal carcere il capo mafioso condannato a piú ergastoli. E ci si chieda se l’autore di una o piú stragi meriti piú la qualifica di ergastolano o quella così gesuitica di recluso speciale. Ci si chieda infine quale pena dovrebbe scontare il già ergastolano - ora recluso speciale - nel caso riesca ad evadere e nei dieci anni di latitanza, commetta omicidi, o nello stesso carcere ammazzi dieci guardie carcerarie. A questi interrogativi non io devo rispondere, ma chi vuole abolire l’ergastolo. Mi avvio alla conclusione con due citazioni. L’una di San Tommaso, che dice “Se un uomo è pericoloso per la comunità, e per qualche peccato è causa della sua rovina, lodevolmente e giustamente lo si uccide, affinché sia conservato il bene comune”. Io non chiedo che dobbiate seguire questo “barbaro” insegnamento così lontano dalla vostra illuministica cultura (che, peraltro, ha portato Robespierre prima a dichiararsi contro la pena di morte e poi a farsi carnefice) ma a riflettere su quanto Seneca ci ha tramandato: “Nel punire i delitti” - egli dice - “tre vie la legge segue: o emendare chi si punisce, o indirizzare la pena a rendere migliore gli altri o, estirpando i malfattori dal corpo sociale, assicurare la tranquilla convivenza degli altri”. Come vedete, pur essendo trascorsi duemila anni, la politica criminale non è cambiata: non vi si chiede di scegliere una via in luogo delle altre due; vi si chiede di consentire che la pena mantenga i suoi tre scopi: prevenire, rieducare, retribuire. Il nostro Gruppo, dichiarandosi contro l’abolizione dell’ergastolo, ha un triplice obiettivo: evitare che la pena sia mutilata nei suoi plurimi scopi; ricordare che le vittime dei crimini non sono ectoplasmi e che sono molti di piú gli Abele dei Caino (accenno anche io a quanto ha già ricordato il senatore Cirami: è di pochi giorni fa la costituzione di un’associazione, che non vuole opporsi all’altra, forse piú famosa perché costituita in precedenza “Nessuno tocchi Caino”, dal nome “Qualcuno pensi ad Abele”, che è la giusta reazione a quello che prima ho dichiarato essere un lassismo giudiziario molto pericoloso); conservare il patto che il cittadino ha stretto con lo Stato a cui ha delegato il diritto di punire, ad evitare che quel deluso cittadino (rotto il patto da parte dello Stato) si trasformi nel giustiziere della notte o, nel peggiore dei casi, in un ribelle organizzato e cioè rivoluzionario, ricordando che in quella che molti chiamano la civilissima America, a New York nel 1976 fu abolita la pena di morte ma nel 1995 fu ripristinata a furor di popolo. Questo ricordiamo a quanti, dileggiando la volontà popolare, nel contempo si lamentano del sempre maggiore distacco tra paese reale e paese legale, rammentando altresì che, ove questo disegno sia approvato, autorizzerete quanti non sono d’accordo ad una pronta verifica: e cioè a proporre subito un referendum ! E il nostro Gruppo sarà tra i promotori! Sappiamo sin d’ora che in questo caso l’ intellighenzia si muoverà in blocco e i mass media faranno muro, ma varrà la pena di confrontarsi: noi non correremo alcun rischio, il rischio, come un cerino acceso, rimarrà a carico solo di chi oggi, in questa Aula, crede di aver già vinto una battaglia. Sappiamo di avere con noi la maggioranza degli italiani e per essi ci batteremo, al solo fine di rispettare il mandato che ci hanno conferito”. (Applausi dai gruppi Alleanza Nazionale e per l’Udr (Cdu-Cdr-Nuova Italia) e del senatore Bertoni. Congratulazioni. Calabria: Ugl; contrari ad apertura nuove carceri nella Regione Asca, 18 luglio 2013 "Esprimiamo il nostro disaccordo per l'apertura di nuovi istituti penitenziari in Calabria in quanto carenti di quelle garanzie necessarie al loro effettivo funzionamento". Lo afferma il segretario nazionale dell'Ugl Polizia Penitenziaria Giuseppe Moretti in merito "alla decisione del Provveditorato regionale dell'amministrazione penitenziaria di Catanzaro di procedere con l'apertura di un nuovo padiglione a Paola e dell'istituto reggino di Arghillà, la cui inaugurazione avrà luogo il 23 luglio alla presenza del Ministro della Giustizia e di altri importanti rappresentanti istituzionali". "Riteniamo inammissibile - prosegue - che in Calabria, dove sono già presenti strutture penitenziarie carenti di personale, si decida di procedere con l'apertura di nuovi istituti che necessitano di un incremento di organico, essendo nella struttura diverse da quelle costruite in precedenza. Inoltre, con riferimento alle difficoltà congenite dell'istituto di Arghillà, va sottolineato come permangano ancora alcune problematiche che ne hanno ritardato l'apertura, come ad esempio il rifacimento della strada di accesso". "Non si possono aprire nuovi padiglioni o istituti - conclude Moretti - senza la previsione di una pianta organica nè tantomeno sottrarre risorse ad altre strutture per sopperire alla carenza di personale. Pertanto ci preserviamo la facoltà di proclamare lo stato di agitazione qualora le nostre perplessità restino inascoltate". Abruzzo: caso Rosci; consiglio regionale approva risoluzione per il riavvicinamento Asca, 18 luglio 2013 Il Consiglio regionale ha approvato questa mattina la risoluzione sul caso di Davide Rosci. Una sola astensione per la risoluzione con la quale il Consiglio regionale si rivolge alla competente direzione del ministero per chiedere l’assenso alla richiesta del giovane detenuto teramano di riavvicinamento alla propria famiglia: “Nella risoluzione - scrive il consigliere regionale Prc Maurizio Acerbo - si fa presente che le condizioni di salute dell’anziano genitore non gli consentono di affrontare il viaggio fino al carcere di Viterbo e che quindi la richiesta di riavvicinamento presso il carcere di Teramo o altro istituto abruzzese è più che fondata. Voglio ringraziare i colleghi consiglieri che superando le logiche di schieramento hanno sottoscritto e votato la risoluzione e che al più presto venga accolta la richiesta di Davide e dei suoi famigliari. Davide già sconta il peso di una condanna abnorme a 6 anni di reclusione derivante dall’applicazione di un residuo del fascismo come il reato di “devastazione e saccheggio”, almeno gli venga consentito di non essere irraggiungibile per gli anziani genitori”. Napoli: inferno Poggioreale, ieri il blitz del capo degli ispettori del ministero della giustizia di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 18 luglio 2013 Ha ripercorso la strada compiuta da cinquecento cittadini al giorno, quelli che si mettono in fila all’alba per un colloquio con un parente detenuto. Ha incontrato i vertici della struttura, gli operatori, gli esperti di formazione, ma ha anche ascoltato storie di vita vissuta, realtà ordinaria per chi è lì in attesa di incontrare un padre, un fratello, un marito. Eccolo il primo giorno di Francesco Cascini, capo dell’ufficio ispettorato del Dap, giunto a Napoli per una visita nel carcere di Poggioreale. Napoletano, per anni pm in forza al pool criminalità economica e alla sezione anticamorra, Cascini è tornato in una realtà spesso al centro delle attenzioni della politica e dei media. Un blitz annunciato quello di ieri mattina, chiesto dal ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, dopo il reportage del Mattino on line, dopo la ricostruzione della vita al di là delle mura blindate, oltre le sbarre, nel chiuso di una sala colloqui. Hanno impressionato le mani di bambini appoggiati alle grate che separano la folla di parenti di detenuti al resto della strada di via Nuova Poggioreale, al resto del mondo civile. Un sopralluogo del capo dell’ufficio ispettorato, che sembra confermare lo sforzo di via Arenula per migliorare le condizioni di vita (e di lavoro) all’interno della casa circondariale. A partire dai più piccoli, secondo quanto sostenuto ieri mattina dal ministro guardasigilli in un’intervista su questo giornale (leggi), ripensando sempre e comunque alle immagini di bambini di pochi anni costretti a subire lunghe attese prima di accedere nel penitenziario. È stato il ministro a lanciare un’idea, un’ipotesi di semplificazione: come il sistema diviso per lettere - ha spiegato il ministro - un modo per disciplinare l’accesso, a partire dalle iniziali del cognome. Una strategia che potrebbe sfoltire la fila, in attesa di interventi strutturali, come la realizzazione di quattro nuovi locali per i colloqui. Sono pronti, dovranno essere consegnati a breve, potrebbero rendere più rapido l’ingresso, più confortevoli le visite all’interno della struttura circondariale. Possibile inoltre che, alla luce del report firmato dal capo degli ispettori, ci sia anche un potenziamento delle risorse umane: più addetti ai lavori, più personale a disposizione. Ma non ci sono solo le sale colloqui nell’agenda di via Arenula. Il carcere di Poggioreale rappresenta un caso anche alla luce di quanto avviene all’interno delle celle. Fino a quattordici persone nel chiuso di uno stanzone, è la storia dei diritti negati, della massima compressione della propria libertà di movimento. Poi, attenzione sui servizi igienici, sulla opportunità di assicurare a tutti una doccia nella cella, ma anche una separazione netta tra bagni e cucine. Sono state le telecamere del Mattino.it a raccontare la capacità di sopportazione di centinaia di detenuti, a cominciare dalla sistemazione notturna: fino a tre brandine messe “a castello”, con l’ultimo letto staccato dal soffitto solo per una distanza di pochi centimetri. Uno scenario noto, che rischia di diventare insostenibile proprio alla luce dell’emergenza sovraffollamento. Davanti alla telecamera, detenuti in attesa di un processo e di una eventuale condanna snocciolano gli articoli della Costituzione, ricordano le regole che impongono il rispetto della dignità delle persone (anche se sottoposte a custodia cautelare), ma anche il principio della riabilitazione della pena. Temi questi ultimi toccati nel corso della mission napoletana di Francesco Cascini. Un argomento sul quale è intervenuto anche il sindaco di Napoli Luigi De Magistris, che ieri ha incontrato a Roma il ministro Cancellieri, soffermandosi proprio sull’emergenza vissuta da centinaia di cittadini al giorno (tra parenti di detenuti e ospiti del carcere) in un pezzo del centro napoletano: “Quanto una democrazia sia realmente compiuta lo si stabilisce anche in base al sistema penitenziario che riesce a realizzare - ha insistito il primo cittadino -, ricordando l’esigenza di interventi strutturali dentro e fuori le celle”. Caso Poggioreale, passata l’ora dell’indignazione, si attendono i fatti. Napoli: i Radicali; basta con la fila della vergogna a Poggioreale… e grazie al ministro Il Mattino, 18 luglio 2013 “Il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, intervistata dal quotidiano “Il Mattino” in merito alle immagini di un documentario sul carcere di Poggioreale prodotto dalla stessa testata giornalistica, ha dichiarato che era a conoscenza di una situazione grave ma non immaginava tanto dolore”. Inizia così il comunicato di Rodolfo Viviani, della direzione Nazionale di Radicali Italiani. “Cancellieri ha poi inviato gli ispettori ministeriali a Napoli e annunciato che a breve nella Casa Circondariale apriranno quattro nuovi locali per i colloqui, proponendo anche un sistema di “prenotazione” per le visite ai carcerati, con agevolazioni per chi ha figli minori. Ringraziamo il Ministro per la sua iniziativa”. “I Radicali dell’associazione “Per la Grande Napoli”, con quasi cento sit-in presso il carcere di Poggioreale, tenuti in oltre due anni di lotta nonviolenta per l’amnistia e l’indulto, hanno continuamente denunciato la vergogna delle file che ogni giorno coinvolgono centinaia di persone colpevoli solo di voler visitare i propri familiari e portare loro il necessario per sopravvivere. Speriamo - si legge nella nota - che gli ispettori abbiano maggiore fortuna di quella che abbiamo avuto noi nel tentativo di convincere la direttrice del carcere più affollato d’Europa che fare qualcosa per migliorare l’esperienza dei colloqui con i familiari dei detenuti sia possibile. E che le “file della vergogna” non dipendono solo dalla antropologia dei napoletani come la dottoressa Teresa Abate sostiene”. “Gli ispettori - continua Viviani - non potranno che certificare la situazione totalmente illegale, rispetto alla Costituzione italiana, in cui versa l’istituto di pena di Poggioreale. Il sovraffollamento, la tortura sistematica, la mancanza di lavoro, di cure mediche, di assistenza psicologica, che caratterizzano il carcere più affollato d’Europa sono solo l’evidenza dello sfascio della Giustizia nella città di Napoli. Sono dovute e urgenti riforme strutturali, come proponiamo con la richiesta di Amnistia e con i Referendum sui quali stiamo raccogliendo le firme, ad esempio per abrogare le norme punitive per i migranti e depenalizzazioni in tema di sostanze stupefacenti”. “Che almeno i familiari dei detenuti possano recarsi in modo civile ai colloqui sarebbe un piccolo passo avanti, ma la dimostrazione di una attenzione reale della politica rispetto alla tutela dei diritti dei cittadini. La dignità umana non può aspettare oltre” conclude Viviani. Napoli: la Garante dei detenuti Tocco; subito un piano ad hoc per accelerare i colloqui di Giuliana Covella Il Mattino, 18 luglio 2013 Mamme con bambini che dalla sera prima si accampano in auto per il successivo colloquio mattutino, attendendo per ore il loro turno in spazi angusti. Malati terminali che finiscono in carcere il loro calvario senza ricevere cure specialistiche. Condizioni di vita disumane in celle di pochi metri quadri condivise anche da dieci persone. È l’inferno del carcere di Poggioreale, dove rispetto ai 1.350 detenuti previsti ve ne sono 2.800. Una situazione gravissima che ha spinto il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri ad inviare ieri nel penitenziario i suoi ispettori a seguito dell’incontro di martedì scorso a Roma con Adriana Tocco, Garante dei detenuti della Campania. Quali problematiche sono emerse dall’incontro? “Il calvario dei colloqui, dove si sentono urla e pianti dei bambini che restano in attesa per ore e a cui, secondo la denuncia di 54 detenuti, è impedito finanche di usare i servizi igienici. Da tredici anni chiediamo di abolire i banchi divisori, ma finora non ci hanno dato ascolto. Poi c’è la questione tossicodipendenti, che in Campania rappresentano un terzo della popolazione carceraria, per i quali vanno individuate pene alternative alla detenzione. Bisognerebbe poi ripristinare le sale operatorie interne che esistevano prima del passaggio alla sanità pubblica. Pochi giorni fa a Poggioreale un recluso malato di cancro è morto perché non gli erano stati concessi i domiciliari né un centro clinico per le cure”. Come invece si intende affrontare l’atavica piaga del sovraffollamento? “Su questo tema la Cancellieri si è detta fiduciosa nel Decreto Carceri. Il ministro, che aveva già visto il video pubblicato sul sito del Mattino si è impegnata a ridurre il numero dei detenuti a Poggioreale ed a individuare una soluzione per ovviare alle lunghe attese per i colloqui”. Palermo: lettera dai detenuti dell’Ucciardone, condizioni disumane in cella di Luigi Ansaloni Giornale di Sicilia, 18 luglio 2013 “Siamo cittadini reclusi in un carcere disumano. Oltre la pena detentiva che ricordiamo essere la privazione del bene più prezioso di un uomo, cioè la libertà, dobbiamo sopportare anche la condizione afflittiva di una pena accessoria che nessun tribunale ci ha comminato. Manca il personale assistente penitenziario nelle ore serali. Se qualcuno deve sottoporsi a terapie non sempre l’assistenza è tempestiva. Manca l’acqua e all’interno delle celle non ci sono condizioni igieniche adeguate. Alla fine della giornata non ci si può neppure farsi la doccia. Gli spazi sono sovraffollati. E i colloqui vengono fatti in stanze vecchie, con calcinacci e ferro arrugginito. Siamo pronti a scrivere alla Corte di Strasburgo. Aiutateci a far conoscere le condizioni in cui viviamo”. Firmato, i detenuti dell’Ucciardone, uno dei due carceri del capoluogo, quello che un tempo era chiamato “Hotel”, ma per ben altre questioni. Ora di quel presunto albergo non c’è rimasto nemmeno il sentore o la voce. I detenuti sono allo stremo, non ce la fanno più, e vogliono vivere con dignità, e lo dicono a gran voce in una lettera firmata a spedita alla redazione di Ditelo a Rgs, dove ieri mattina si è parlato del problema delle condizioni delle carceri. “Siamo a conoscenza della situazione, che sicuramente è molto grave - dice Maurizio Veneziano, provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria Sicilia, intervenuto in trasmissione - in Sicilia ci sono 7.603 detenuti a fronte di 5.500 posti, e anche l’Ucciardone ovviamente rientra in queste problematiche”. La buona notizia è che c’è in programma un allargamento delle sezioni e il rifacimento, in parte, delle strutture del carcere: “Ci stiamo muovendo per migliorare la situazione - continua Veneziano - entro il marzo del 2014 ci saranno almeno duecento posti in più. Nelle sezioni 3 a 4 interverremo sicuramente con dei lavori, ci vogliono somme importanti per fare tutto questo. Inoltre, sono pronti trecento posti in più al carcere Pagliarelli. L’importante è razionalizzare il tutto nel miglior modo possibile”. La direttrice dell’Ucciardone, Rita Barbera, ammette i problemi e spiega: “Non è un’impresa facile, ma stiamo cercando di fare davvero di tutto per rendere meno gravosa la permanenza dei detenuti - dice -cercando di far passare loro il tempo più dignitosamente possibile. Attualmente, inutile nasconderlo, ci sono delle condizioni che non favoriscono il rispetto della dignità umana, ma stiamo facendo di tutto, nei limiti delle risorse e delle strutture”. Calogero Navarra, responsabile Sappe in Sicilia: “Arrivano notizie sempre più allarmanti anche per il personale addetto alla carceri, con un aumento di suicidi tra di loro, ultimo uno la settimana scorsa nell’Agrigentino - dice - è una situazione insostenibile, e in estate potrebbe esplodere”. Elvira Morana, della Cgil: “Questa lettera chiaramente materializza quello che era noto dell’invisibilità di questa persone. Un dramma che va affrontato chiaramente e in maniera tempestiva, anche sulle leggi sulle misure cautelari”. Bolzano: bando nuovo carcere; 63 milioni per costruire e gestire la struttura per 20 anni di Davide Pasquali Alto Adige, 18 luglio 2013 Il nuovo carcere a Bolzano Sud, a fianco dell’aeroporto, sarà operativo nel giugno 2016 e costerà 63 milioni di euro, cui sono da aggiungere i 14 milioni già spesi dalla Provincia per espropriare i terreni necessari. Potrà ospitare 200 detenuti più altri venti in semilibertà. Non disporrà di una sezione femminile, perché al momento le detenute altoatesine sono poche, in media fra le 3 e le 5. Economicamente, per il momento non conviene. Verrà tenuto d’occhio da un centinaio di guardie carcerarie, trenta delle quali (i single) avranno a loro disposizione una stanza all’interno del complesso, mentre per gli altri agenti (con moglie e figli) probabilmente verranno costruiti e messi a disposizione degli alloggi di servizio da parte della Provincia, in cambio della cessione dell’area su cui insiste l’attuale casa circondariale di via Dante. Il nuovo istituto penitenziario disporrà di teatro-auditorium, sala di culto, campi da basket, campo da calcio regolamentare secondo i dettami Figc, giardinetto per i colloqui con i familiari dei detenuti eccetera. Ma la vera novità è un’altra: tolta ovviamente la parte sicurezza, di competenza statale, l’intera struttura, oltre ad essere progettata e realizzata da chi vincerà la gara d’appalto europea lanciata ieri, dovrà pure essere gestita direttamente per vent’anni. Non solo la mensa e i servizi per così dire alberghieri, ma anche le attività di recupero dei detenuti, le lezioni di lingue o per imparare un mestiere, nonché eventuali laboratori di produzione artigianale e via discorrendo. I detenuti potranno anche essere utilizzati dal gestore ad esempio per la cucina, le pulizie e via discorrendo, ovviamente dietro la corresponsione di un’adeguata paga. Ieri, alla presenza del capodipartimento dell’amministrazione penitenziaria statale, Giovanni Tamburino, il presidente della Provincia Luis Durnwalder ha illustrato il bando di gara per il nuovo istituto penitenziario, con il supporto dei consulenti aziendali della Price Waterhouse Coopers e del curatore dello studio di fattibilità, l’ingegner Klaus Plattner. Quello per il nuovo istituto penitenziario di Bolzano sarà un progetto pilota a livello nazionale, una partnership tra pubblico e privato finora mai sperimentata in campo carcerario. In base all’Accordo di Milano del 2009, con il quale la Provincia si era impegnata a risanare il debito pubblico italiano con 100 milioni di euro l’anno, Bolzano finanzierà l’opera, progettata in stretta collaborazione con l’amministrazione penitenziaria e realizzata dal privato vincitore del bando europeo. Il vecchio carcere, è stato ricordato ieri, risale al 1895 ed è ormai totalmente fuori dal tempo. Pensato dagli austro-ungarici per ospitare 80 detenuti secondo i dettami carcerari di fine Ottocento (senza spazi per la rieducazione, senza aree verdi per la ricreazione, angusto) oggi è davvero sovraffollato. Attualmente ospita 125 detenuti. Una situazione drammatica che si ripresenta in tutto il paese, quella della sovrappopolazione, come ha chiarito il capo dipartimento Tamburino fornendo dati aggiornati a due giorni or sono: in Italia i detenuti sono 65.600, l’aliquota più bassa degli ultimi tre anni anche grazie alle recenti leggi svuota carceri. Ma, causa carenza di spazi, a livello nazionale servirebbero circa altri 20.000 posti, nonostante l’Italia si situi al di sotto della media europea quanto a numero di detenuti. In Italia sono 110 ogni 100 mila abitanti, mentre a livello Eu la media è di ben 149. “Non sarà un albergo a 4 stelle - ha concluso ieri il presidente Luis Durnwalder - ma anche ai detenuti deve essere garantita una struttura dignitosa. Fra il resto, creerà posti di lavoro sia in fase di costruzione che di gestione”. Sarà un carcere modello, “che aiuterà a uscire e a non ritornare più in carcere”, ha chiosato Giovanni Tamburino. Fuori dalla cinta muraria Nell’area extra cinta muraria del nuovo carcere di Bolzano Sud troveranno posto una block house di controllo accessi, direzione-caserma-servizi, edificio alloggi direzione, sezione detenuti semi liberi. All’interno della cinta muraria All’interno della cinta muraria troveranno posto vari settori: settore colloquio visitatori (con giardinetto e giochi per i bambini), settore colloquio avvocati e magistrati, settore matricola e casellario, settore uffici interni, settore isolamento nuovi giunti, settore infermeria. Ci saranno poi la sezione di custodia cautelare e giudiziaria, la sezione di reclusione, il refettorio detenuti, il settore lavorazioni, il settore culto religioso, il settore teatro-sala polivalente, il settore palestra, il settore servizi cucina e lavanderia, le centrali tecnologiche. Quanto costerà l’opera I lavori veri e propri per la realizzazione del nuovo carcere costeranno 43,73 milioni di euro; altri 3,26 milioni andranno per gli arredi. Per gli imprevisti saranno accantonati 3,5 milioni di euro; per spese varie se ne andranno 6,35 milioni di euro. In totale, dunque, verranno spesi 63,58 milioni di euro. A questi sono da aggiungere i 14 milioni di euro spesi dalla Provincia per l’acquisto dell’area. La tempistica del cantiere Il bando di gara è stato pubblicato all’inizio della settimana sull’apposito sito web della Provincia. La consegna delle offerte dovrà essere effettuata entro il mese di ottobre. La valutazione delle offerte pervenute avverrà tra la fine di ottobre e la fine di dicembre 2013. Dopo l’assegnazione, ci sarà tempo da gennaio a giugno 2014 per la progettazione esecutiva. I lavori dovrebbero iniziare a luglio 2014, ossia esattamente fra un anno, per concludersi nel giro di due anni, ossia nell’estate del 2016. La consegna è prevista per giugno 2016. I dati generali sulla struttura Il fabbisogno della nuova struttura detentiva assomma a 200 detenuti, cui vanno sommati altri 20 detenuti in semilibertà. Il personale di polizia penitenziaria assommerà a 100 uomini. I posti per gli agenti in caserma saranno 30. Ci saranno in servizio altre 25 unità del personale civile, cui andranno ad aggiungersi delle aliquote (variabili) di unità di personale specializzato del Servizio sanitario nazionale. Reggio Calabria: in corso il trasferimento dei detenuti nel nuovo carcere di Arghillà Calabria Ora, 18 luglio 2013 I primi inquilini del nuovo istituto penitenziario di Arghillà saranno i detenuti che hanno lavorato lì dal mese di febbraio per completare gli interni. In queste ore inizieranno gli ingressi ufficiali nella struttura che si pone come una novità nel panorama penitenziario, in attesa che sia il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri a tagliare il nastro martedì prossimo. Arghillà ospiterà circa trecento detenuti già condannati a pene non superiori ai tre anni. Quelli in attesa di giudizio e i detenuti per reati associativi invece continueranno a rimanere nel carcere di San Pietro, già messo a dura prova nella sua capienza massima teorica di 260 e di trecento in pratica. Da carcere di massima sicurezza, come era stato concepito in origine, Arghillà diventa un istituto di media sicurezza, con un percorso che aiuterà i detenuti a riacquistare la propria libertà nel tentativo di non indurli nella reiterazione del reato. A dirigere l’istituto sarà Maria Carmela Longo, già impegnata a San Pietro. Il direttore ha già in mente l’attuazione di programmi specifici che consenta ai detenuti di esprimersi e lavorare nei laboratori. Soddisfatti, dopo decenni di attesa, anche i vertici del Sappe segretario provinciale Massimo Musarella elogia la struttura che aiuterà i detenuti in un percorso di fine pena. Trieste: al carcere del Coroneo arriva un nuovo direttore, diviso a metà con Padova di Laura Tonero Il Piccolo, 18 luglio 2013 Ha 46 anni, è di origine barese, non è sposato, non ha figli. Ottavio Casarano, il nuovo direttore del carcere del Coroneo, si è insediato il 20 giugno scorso prendendo il posto di Alberto Quagliarotto ritornato a dirigere a tempo pieno la casa circondariale di Pordenone dopo la breve parentesi triestina. “Vivo tre giorni alla settimana a Trieste, - spiega il dirigente - la città mi piace moltissimo e se riesco mi trattengo anche nei fine settimana”. Casarano copre anche il ruolo di direttore aggiunto del carcere Due Palazzi di Padova. Incarico che ha precedentemente rivestito anche nella struttura carceraria di Trani. Da direttore titolare è stato invece impegnato nelle carceri di Rovigo e Livorno. E ora l’incarico a Trieste, a tempo determinato, a scadenza. Dal 30 luglio scorso, quando Enrico Sbriglia dopo 22 anni alla direzione della casa circondariale triestina ha assunto l’incarico di Provveditore regionale per gli istituti di pena di Piemonte e Valle d’Aosta, la struttura di via Coroneo ha già cambiato tre direttori. Prima di Casarano e Quagliarotto il penitenziario è stato guidato da Silvia Della Branca, direttore del carcere di massima sicurezza di Tolmezzo. Per assegnare in via definitiva il ruolo di direttore della casa circondariale triestina, entro fine anno il ministero della Giustizia predisporrà un “interpello”, un concorso interno. Casarano preferisce non rilasciare dichiarazioni in merito, ma da indiscrezioni potrebbe essere proprio lui uno dei papabili candidati a ricoprire la carica. Il nuovo direttore sta già svolgendo a pieno ritmo la sua attività all’interno della struttura penitenziaria “mentre devo ancora incontrare le autorità locali - spiega Casarano - e prendere contatto con i referenti delle cooperative che operano all’interno del Coroneo nell’ambito delle diverse attività offerte ai detenuti. I loro lavoro è prezioso, non voglio che quanto costruito negli anni passati vada disperso”. Domani incontrerà il sindaco Roberto Cosolini. “Ho trovato una struttura ben gestita e ben organizzata - dichiara il nuovo direttore - malgrado la vetustà dell’edificio e i problemi di sovraffollamento”. Oggi le celle del Coroneo ospitano 246 persone, di queste 25 donne, quando la capienza regolamentare prevede 155 detenuti. “Anche per questa situazione - spiega - punterò a rafforzare le collaborazioni con le istituzioni che con progetti ben definiti consentono ai reclusi di svolgere dei lavori esterni. Un modo, questo, - illustra il dirigente - per agevolare il percorso di rieducazione e reinserimento sociale delle persone detenute che consente loro di guadagnare una somma utile a dare una mano alle famiglie e in parte anche a risarcire le vittime”. Dei 155 detenuti del Coroneo, 10 lavorano in maniera regolare, fissa. Inoltre ci sono altri 10 posti di lavoro che a rotazione, ogni 15 giorni, impegnano altri reclusi. In pratica 20 persone hanno un impiego. C’è chi è stato destinato alla rimessa a punto delle aree verdi per conto del Comune, chi si occupa di sgomberi o altri che gestiscono il panificio interno. “A Trieste ho riscontrato una grande partecipazione della società alla vita della casa circondariale, - evidenzia il neo-direttore - la città si fa carico dei problemi della struttura, l’istituto penitenziario non viene concepito come un qualcosa di chiuso, di estraneo e isolato ma un luogo dove chi ha l’opportunità può dare, in maniera diversa, il proprio piccolo contributo”. Sassari: processo per la morte di Marco Erittu, il detenuto impiccato e il supertestimone di Elena Laudante La Nuova Sardegna, 18 luglio 2013 Marco Erittu, sassarese di 40 anni, entrava e usciva dal carcere per reati legati alla droga. Il pomeriggio del 18 novembre 2007 fu trovato senza vita nella cella “liscia” del braccio promiscui del carcere di San Sebastiano, dove era stato rinchiuso perché si era ferito, sembrava pronto a suicidarsi. Gli agenti lo trovano riverso, sostengono per terra, per altri invece era sul letto, con un cappio attorno al collo. Sembra un suicidio per impiccamento. Senza ulteriori elementi, la procura della Repubblica accerta le cause della morte e poi archivia l’inchiesta come un suicidio. nel 2008, spunta la testimonianza che fa riaprire il caso. Giuseppe Bigella, di Porto Torres, condannato per l’omicidio della gioielliera Fernanda Zirulia, parla del giro di droga in carcere, del ruolo di presunto capo di una sorta di organizzazione che individua in Pino Vandi. E spiega che la morte di Erittu fu in realtà una esecuzione ordinata da Vandi, sul quale Erittu diceva di conoscere un presunto ruolo nella scomparsa di Giuseppe Sechi (1994) legato al sequestro Ruiu (1993). Bigella dice di essere stato esecutore materiale del delitto Erittu (è stato già condannato), e chiama in causa Vandi, l’allora detenuto Nicolino Pinna, l’agente della Penitenziaria Mario Sanna. E fa riaprire anche le indagini sui sequestri Sechi e Ruiu. Morte di Erittu, cella manomessa? Prima dell’arrivo dei carabinieri qualcuno fu incaricato di “perquisire” la cella del carcere dov’era appena stato scoperto un cadavere, quello del detenuto Marco Erittu, morto nel 2007 forse perché sapeva troppo su un boss della droga. Prima degli inquirenti, un agente della Penitenziaria entrò nella camera, col corpo ancora sul pavimento, per effettuare una non meglio precisata bonifica: “Dovevo cercare un corpo contundente o una lametta, ma non trovai niente”, racconta alla corte d’assise di Sassari l’assistente capo di polizia Alessandro Piliu. Se lui non notò nulla - a parte una coperta, diversa da quella usata per ricavare il cappio col quale Erittu si sarebbe suicidato o sarebbe stato ucciso - il giorno seguente, i carabinieri avevano trovato diversi reperti. Almeno un pezzo di lametta Bic e due coperte differenti (una invece compatibile con il cappio). Scontata la domanda: chi, nottetempo, era entrato nella cella per aggiungere oggetti che la sera prima non c’erano? Sono trascorsi due anni dall’arresto degli imputati - il presunto mandante Pino Vandi, il sospetto esecutore Nicolino Pinna e un agente (ora ai domiciliari) Mario Sanna, accusato di aver aperto il blindo. Ma a ogni udienza il quadro sulla fine di Erittu si fa più fosco. Il detenuto sembrava in procinto di fare rivelazioni su un delitto rimasto insoluto, quello di Giuseppe Sechi (scomparso nel 1994), collegato al sequestro di Paolo Ruiu, farmacista orunese anche lui mai tornato a casa. Il recluso, in carcere per spaccio, sembrava voler testimoniare contro Vandi, almeno così assicura un super testimone, Giuseppe Bigella, reo confesso del delitto e per questo già condannato. Storie che oggi si sovrappongono a quella dei due sequestrati e alle vicende della criminalità sassarese. Oltre ai tanti “non ricordo” di alcuni agenti testimoni, il poliziotto Piliu invece sembra avere ben presente quel pomeriggio. Domenica 18 novembre 2007 il cadavere di Erittu fu scoperto poco dopo le 17.15. Aveva un lembo di coperta attorno al collo. Piliu vide i rianimatori del 118 tentare di salvarlo, ma fu tutto inutile. Piliu cambiò postazione, ma poi fu raggiunto da un superiore, il sovrintendente Piras, che gli disse di “bonificare” la cella. “Quando tornai la cella era vuota, a parte il cadavere. Il blindo era aperto, ma i sigilli non c’erano”. Perché in quella stanza non erano ancora arrivati i carabinieri, intervenuti il giorno seguente sebbene all’epoca la Procura indagasse per suicidio, per quanto strano. Solo in seguito, il teste Bigella, racconterà che si era trattato, così pensa la magistratura, di un’esecuzione ordinata da Vandi. Quando Piliu entrò, il cadavere era per terra e sul letto c’era “una coperta a tinta unita. Ma nelle fessure del letto e nella turca non c’era null’altro”. Cioè nessun oggetto che si potesse usare per tagliare il tessuto, come ipotizzato dalla difesa, certa che Erittu si sia impiccato. Il cappio, però, non c’era più. “Lo aveva Piras, in una busta gialla”, risponde Piliu su domanda del pm Giovanni Porcheddu. Alcuni legali fanno notare al testimone che agli atti ci sono foto di un frammento di rasoio Bic, e di due coperte, non una. Ma lui conferma: “La lametta non c’era”. Contraddizioni che forse non troveranno mai spiegazione. Come sarà difficile appurare cosa Erittu avesse da dire a proposito del presunto ruolo di Vandi nella scomparsa di Sechi, nel 1994. In aula, un carabiniere che indagava sui due casi (Sechi e Ruiu), in una della scorse udienze ha spiegato che nell’aprile 1996 una fonte gli disse: “Erittu può essere a conoscenza di importanti circostanze” sul giallo poi rimasto tale. All’epoca, gli investigatori erano concentrati sulla presenza sospetta di un poliziotto nella vita di Sechi. Testimoni raccontarono che prima della scomparsa, Giuseppe ricevette la sua telefonata a casa della fidanzata. E che prima di uscire, e sparire, prese dei gioielli. Su questo la Dda sta ancora indagando. Venezia: carceri sotto i riflettori, visita ispettiva con video e foto della Uil-Pa Penitenziari La Nuova Venezia, 18 luglio 2013 Che cosa c’è dietro le mura di un carcere? Un mondo che a malapena si conosce, abitato da persone. In questi giorni le carceri di Venezia e del Veneto sono sotto le luci dei riflettori per tre notizie. La prima è che domani la entrerà nel carcere maschile di Santa Maria Maggiore per documentare con video e foto le condizioni di lavoro degli operatori e dei luoghi destinati a scontare la pena. La visita è all’interno del progetto “Lo scatto dentro” e verrà effettuata da uno staff composto dal coordinatore regionale Leo Angiulli, dal coordinatore e dal segretario provinciale Umberto Carrano ed Eugenio Sarno della Uil-pa Penitenizari. “La Corte Europea dei Diritti dell’uomo” afferma Angiulli “ha più volte condannato e messo in mora l’Italia per trattamento inumano e degradante. L’iniziativa viene svolta per superare le barriere che dividono il dentro e il fuori al fine di dare un’informazione trasparente e rendere il carcere un luogo vero e non immaginario”. Lo stesso obiettivo è stato raggiunto con grande successo venerdì scorso al carcere femminile della Giudecca grazie al regista Michalis Tritalis, responsabile del progetto teatrale “Passi sospesi” nelle carceri veneziane. Dopo la visita della ministra Cancellieri le detenute hanno infatti potuto incontrare la fondatrice dello storico “Leaving Theatre”, Judith Malina e altri attori. Insieme a lei hanno varcato le mura la critica Valeria Ottolenghi e molti attori della compagnia “Motus” che hanno trascorso il pomeriggio con le donne. L’incontro conferma l’importanza di uno scambio umano tra dentro e fuori le mura che verrà riproposto con altri attori. Infine la Regione ha trovato i fondi per le attività da destinare all’interno delle carceri rafforzando un percorso umano necessario. Messina: detenuto si ferisce con lametta durante udienza Ansa, 18 luglio 2013 Tensioni nel corso di un’udienza nel Tribunale di Messina. Un detenuto si è volontariamente ferito utilizzando una lametta nascosta in bocca. A darne notizia il segretario generale aggiunto dell’Osapp Mimmo Nicotra. Solo l’immediato intervento del personale di polizia penitenziaria, che ha bloccato il recluso e provveduto al trasporto d’urgenza al vicino ospedale, ha impedito che il gesto autolesionistico avesse conseguenze peggiori. “Simili episodi”, spiega Nicotra, “si registrano sempre più frequentemente nel sistema penitenziario italiano”. Roma: Nieri; orto a Rebibbia bellissima iniziativa, avvieremo altri progetti di questo tipo Adnkronos, 18 luglio 2013 “Questa mattina ho partecipato all’evento finale del progetto E.L.F.O. - Educazione al Lavoro per la Formazione di Operatori agricoli, finanziato dalla Cassa delle Ammende e realizzato dalla Casa di Reclusione di Rebibbia, in collaborazione con l’Enaip e la Coop. Spazio Verde. Una bellissima iniziativa grazie alla quale è stata creata una vera e propria azienda agricola. L’intervento è stato pensato per riqualificare un’area agricola presente all’interno dell’istituto penitenziario, realizzando nel contempo anche un punto vendita, “L’orto di Casa”, che è stato inaugurato oggi”. È quanto dichiara Luigi Nieri, vicesindaco di Roma Capitale. “Per adesso - spiega Nieri - la vendita è limitata all’interno del carcere, ma il sogno di chi ha lavorato al progetto è portare i prodotti fuori dalle mura, magari attraverso gruppi d’acquisto solidali. La formazione ha riguardato 15 detenuti che hanno appreso tecniche delle produzioni vegetali e le hanno subito messe a frutto, curando l’orto”. “La formazione - prosegue il vicesindaco di Roma - è il miglior strumento di rieducazione negli istituti penitenziari ed è un percorso che può avere significative ricadute occupazionali per i detenuti e, di conseguenza, moltiplicare le chance di reinserimento di detenuti ed ex detenuti nel tessuto produttivo e sociale delle nostre città”. “Ricordo bene la fase embrionale di questo progetto - dice Nieri - nato grazie a un finanziamento dell’amministrazione comunale diversi anni fa. Oggi sono stato dunque molto contento di portare il saluto di Roma Capitale, ma non solo. Ho portato anche la promessa di un impegno della nuova amministrazione capitolina a sostenere iniziative di questo tipo”. “Rebibbia è un’eccellenza - sottolinea - ma anche in quell’istituto permangono i problemi strutturali legati al sovraffollamento e alla scarsità di fondi per dar vita a progetti che assolvano pienamente alla funzione rieducativa della pena”. “Purtroppo, nei nostri istituti - conclude Nieri - le attività trattamentali sono ridotte all’osso e i detenuti passano gran parte del tempo chiusi in celle di pochi metri quadri. Le istituzioni devono fare di più. Noi daremo certamente il nostro contributo”. Nuoro: tutte le bontà della Colona penale agricola di Mamone servite da cinque detenuti di Sebastiano Deledda La Nuova Sardegna, 18 luglio 2013 Una serata all’insegna della bontà, in tutti i sensi. Quella genuina dei prodotti della linea “Gale-ghiotto”, innanzitutto, realizzati dai detenuti delle colonie penali di Mamone, Isili e ls Arenas, che domani, a partire dalle 19, nell’incantevole scenario di una piazza Sebastiano Satta rinfrescata di bianco, allieteranno sicuramente i palati fini dei nuoresi. Ma anche la bontà del risvolto sociale di una manifestazione promossa da Arci Solidarietà e Sviluppo, sodalizio nuorese impegnato da anni nella cultura dell’integrazione e dei diritti umani, che nella stessa serata darà un’opportunità di riscatto a cinque fortunati detenuti della Casa circondariale di Badu ‘e Carros. I prodotti del marchio “Gale-ghiotto” (carne, formaggio, miele, mirto, polline, conserve, piante officinali e primizie ortofrutticole) costituiscono - insieme al Progetto Colonia - il binomio vincente del programma che il Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria della Sardegna ha realizzato al fine di costruire occasioni di lavoro e di reinserimento sociale dei detenuti reclusi nei penitenziari dell’isola. Una filosofia sposata in pieno dall’associazione nuorese, che - proprio domani sera - tenterà di offrire ai detenuti, nell’ambito del loro programma di reinserimento e integrazione sociale, l’opportunità di imparare un’originale tecnica di cottura della carne, per poi, eventualmente, poterla utilizzare una volta portato a termine il periodo di detenzione. Grazie al coinvolgimento dei titolari del ristorante Monti Blu di piazza Satta, che metteranno a disposizione il loro personale qualificato, verrà arrostita carne di vitello, utilizzando una tecnica innovativa per la cultura enogastronomica di Barbagia. Alla cottura sono stati invitati (e per l’occasione usufruiranno di un permesso premio) cinque detenuti del carcere di Badu ‘e Carros, a cui verranno insegnate le tecniche per arrostire la carne, che poi sarà offerta per una degustazione in piazza. Ma, oltre alla carne, sarà possibile assaggiare i prodotti tipici del marchio “Gale-ghiotto”, direttamente giunti dalle colonie penali della Sardegna, mentre saranno allestiti degli appositi spazi informativi che faranno conoscere meglio, con opuscoli e altro materiale informativo, le peculiarità del Progetto Colonia, prevede la conversione al biologico delle colonie agricole delle Case di reclusione di Is Arenas, Isili e Mamone in un’ottica di sviluppo sostenibile dal punto di vista sociale, ambientale ed economico. Milano: le detenute-attrici di San Vittore sono di scena a Palazzo Isimbardi www.omnimilano.it, 18 luglio 2013 Domani, alle 19, nel Cortile d’Onore di Palazzo Isimbardi (Corso Monforte, 35), le detenute del Laboratorio teatrale del carcere di San Vittore si esibiranno per la prima volta fuori dalle mura del penitenziario con una reading teatrale tratta dal racconto La Casa di Bernarda Alba di Federico Garcia Lorca. La sede della Provincia di Milano è la prima tappa esterna di “Edge Project 2013/2014. Libertà Teatro e Cultura dentro e fuori le Mura di San Vittore” promossa dalla cooperativa sociale Cetec (Centro europeo teatro e carcere): un programma di formazione e produzione artistica che ha l’obiettivo di avvicinare i detenuti alla cultura, portando spettacoli teatrali in tournée nei corridoi del penitenziario, ma anche all’esterno per avvicinare il grande pubblico al teatro d’arte sociale. “Un’iniziativa che conferma la nostra attenzione alla realtà del carcere prima di tutto come luogo della riabilitazione e del reinserimento in società di chi ha commesso un reato - commenta il presidente, Guido Podestà. La nostra collaborazione con l’amministrazione penitenziaria della Regione ha reso possibile questo evento certamente eccezionale per le detenute, ma anche per quanti assisteranno allo spettacolo”. “Siamo orgogliosi di ospitare questa iniziativa - commenta Fabrizia Berneschi, Garante dei detenuti della Provincia - Far conoscere all’esterno ciò che accade dietro le sbarre di un carcere è il primo passo per cambiare le cose dentro”. La direzione artistica dello spettacolo è affidata a Donatella Massimilla, pioniera del teatro-carcere in Italia e in Europa. “La nostra è una sfida culturale prima ancora che artistica - spiega - L’idea è quella di avvicinare il pubblico alla realtà della detenzione attraverso la conoscenza di un teatro spesso invisibile, provato nei corridoi, nei cortili o nelle biblioteche carcerarie. A questo si aggiunge il tema dell’inclusione, visto che con le detenute reciteranno anche consigliere provinciali, professioniste, studentesse, ex detenute e il pubblico stesso potrà partecipare in una ideale continuità tra dentro e fuori le mura”. La serata comincerà alle ore 19 con un omaggio poetico-culinario alla cucina rurale della Spagna di Lorca. Seguirà la presentazione di un documentario fotografico Gin Angri sulle carceri e, alle ore 20, lo spettacolo “La Casa di Bernarda Alba”. Al termine della rappresentazione, spazio alle riflessioni dal vivo con domande e suggestioni del pubblico. Milano: la cavalla Nina, dalla cecità alla gioia ritrovata nel carcere di Bollate Corriere della Sera, 18 luglio 2013 La campionessa di trotto è stata affidata a un detenuto che si prende cura di lei: ora sono inseparabili. Nove mesi fa impiegò un’intera mattinata per uscire dal suo box, rassicurata passo dopo passo dai suoi nuovi tutori, i detenuti del carcere di Bollate. L’esistenza di Nina, ex campionessa del trotto che aveva perso la vista ad appena quattro anni di vita, forse avrebbe potuto finire così, chiusa in un box dorato. Invece, Nina ha ricominciato a trottare, seppur per ora sfruttando un circuito immaginario che corre lungo le mura del moderno carcere milanese, e fa lunghe passeggiate in compagnia di Paolo, alla quale è stata affidata sin dal giorno del suo arrivo. Una magia resa possibile dall’empatia nata tra i due, uomo e cavallo, e dall’affidarsi reciproco. Se Nina oggi vede con gli occhi di Paolo, per lui - un talento in cucina - che non aveva mai preso una sola lezione di equitazione, lavorare con questa cavalla, privata del suo senso più importante, la vista, ha significato riscattare un’esistenza segnata dalla condanna e dalla detenzione in giovane età. Un rapido corso di mascalcia, seguito a vista da Claudio Villa, che con Francesca Manca è l’anima di Asom (Associazione Salto Oltre il Muro), e Paolo, che sembra avere un talento naturale per capire di cosa hanno bisogno questi cavalli, ha restituito a Nina la sicurezza di muoversi, anche nel buio. Abbiamo raccolto queste immagini nel giorno in cui il centro, dove vivono “liberi” venti cavalli (alcuni sequestrati da diverse Procure d’Italia a mafia o ‘ndrangheta), ospitava uno stage di Angelo Telatin, che insegna equitazione consapevole al Delaware Valley College in Pennsylvania e con il suo metodo (“i cavalli sono più veloci di noi ad apprendere messaggi”) sta ribaltando i principi della relazione con il cavallo e aiuta i grandi campioni a migliorare le loro performance. Il guru dei campioni ha subito notato l’incredibile coppia impegnata nel lavoro quotidiano, dalla pulizia alla sgambata, e ha premiato Nina e Paolo con una entusiasmante lezione che ha esaltato maestro e allievi. Volterra (Pi): a cena coi detenuti chef vegani… venerdì 2 agosto all’interno del carcere Il Tirreno, 18 luglio 2013 Vegani e antispecisti di tutta la regione unitevi a Volterra. Dove palazzi storici, piazze e persino il carcere diventano “cruelty free”. Dal cibo, alle conferenze, alle iniziative. Per la prima volta, con il patrocinio del Club Unesco di Volterra, e del Comune, durante il primo fine settimana di agosto l’associazione Gavol (gruppo animalisti Volterra) organizza il “Volterra Vegan”. Un weekend di stile di vita etico e sostenibile che esclude l’uccisione, la sofferenza e lo sfruttamento di esseri senzienti. “Vivere consapevolmente senza consumare prodotti di derivazione animale è non solo possibile, eticamente corretto e molto più semplice di quanto si possa immaginare ma anche molto salutare”, dicono dalla Gavol. La sera di venerdì 2 agosto, all’interno del carcere della città, la quattrocentesca Fortezza medicea, con la collaborazione degli chef della “Veganeria” e de “La capra campa” di Roma, si svolgerà la prima “cena vegaleotta” della storia, durante la quale sarà possibile degustare un pasto completamente cruelty free preparato con l’aiuto dei detenuti della struttura. Piazza dei Priori con il Palazzo più antico della toscana, e altri suggestivi luoghi del centro storico si animeranno di banchetti informativi a cura di associazioni italiane che si occupano di “animali non umani”, di stand con articoli e cibo vegano, di installazioni video, musica e divertimento, mentre in Torre Toscano, nella medievale Sala Melani, si contribuirà a far luce sulla realtà dello sfruttamento animale nei nostri giorni (informazioni e prenotazioni www.volterravegan.it ) Non mancheranno laboratori per grandi e piccini nel parco archeologico E. Fiumi, un area di tre ettari dove sarà possibile fare la conoscenza di Bega, una pelosetta che insegnerà ai bambini il giusto approccio al cane e le cose da fare e non fare, oppure partecipare al laboratorio artistico e creativo e infine rilassarsi alla lezione di Yoga. Volterra (Pi): al via il Festival Teatro, con i 25 anni della Compagnia della Fortezza Il Tirreno, 18 luglio 2013 Si rialza oggi il sipario sul Festival Volterra Teatro, giunto alla sua XXVII edizione, con i 25 anni della Compagnia della Fortezza, fondata da Armando Punzo e composta da detenuti-attori del carcere di Volterra. Un Festival che si svolge quasi completamente all’interno della Fortezza Medicea, da sempre carcere, dimostrando a tutti che la cultura può cambiare radicalmente i luoghi. La kermesse volterrana comprende teatro, musica, poesia e arti visive con proposte di importanti eventi site specific. Il programma di questa edizione si declina, in particolare, in un ventaglio di proposte tenute insieme dal filo rosso dell’arte engagé che si risolve in poesia. Il vero prodigio che si produce nei giorni di Festival è nel completo stravolgimento che si compie all’interno del Carcere di Volterra, l’incisivo slittamento da Istituto di Pena a Istituto di Cultura della Fortezza Medicea. All’originale compleanno è dedicato un ricco progetto speciale dal titolo Venticinque anni della Compagnia della Fortezza. Un compleanno veramente speciale, dunque, che molti artisti vogliono festeggiare regalando eventi pensati appositamente per la Compagnia. A inaugurare domani il Festival è uno spettacolo di e con Laura Cleri presentato all’Itis Santucci di Pomarance (ore 21.15). L’attrice, reduce dai successi della stagione parmense, rappresenta una vera rarità: pur rimanendo all’interno del circuito istituzionale dello Stabile da anni è impegnata nella costruzione di un intenso percorso all’insegna dell’impegno civile. Cleri, che dal 1982 è una delle attrici del collettivo del Teatro Stabile di Parma, ora Fondazione Teatro Due, è ospite del festival con ben due lavori. Lo spettacolo che presenta questa sera nel comune di Pomarance è intitolato “Una eredità senza testamento”. In una classe scolastica Laura Cleri, nei panni di maestra, racconta la storia di Laura Seghettini, che a soli vent’anni, durante la seconda guerra mondiale, sale sui monti per prendere parte alla lotta partigiana. In quella situazione di imprevedibile quotidianità la giovane stringe un legame amoroso con il comandante di Brigata, Facio, che viene fucilato dopo un processo sommario dai suoi stessi compagni di lotta. Nel frattempo a Volterra aprono le quattro mostre in programma per quest’edizione di VolterraTeatro (tutte visitabili fino al 28 luglio). Fiore all’occhiello del festival la mostra di Mario Francesconi, artista di enorme prestigio. Il suo lavoro si innesta infatti sulle suggestioni dall’universo di Genet, autore di riferimento del nuovo spettacolo della Fortezza, in una sorta di percorso concettuale e filosofico condiviso. Lo storico Palazzo dei Priori di Volterra e il carcere di Volterra si prestano come spazi espositivi alle sue opere in una mostra di grande fascinazione intitolata Film. India: caso marò; processo a settembre, Latorre e Girone a casa entro Natale di Alberto Simoni La Stampa, 18 luglio 2013 La vicenda dei marò volge al termine, per l’autunno dovrebbe essere tutto finito”. Lo dice il portavoce della Farnesina Aldo Amati all’indomani dell’incontro che il ministro degli Esteri Emma Bonino ha avuto a Budapest con l’omologo indiano Salman Khurshid che proprio in Ungheria era presente in veste di ospite d’onore della Conferenza degli ambasciatori ungheresi. La strada per riportare quindi in Italia, dopo il processo, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, trattenuti in India dal 15 febbraio del 2012 poiché accusati dell’omicidio al largo delle coste del Kerala di due pescatori, potrebbe aver imboccato una strada definita. Fonti diplomatiche italiane infatti confermano che “il processo potrebbe iniziare in settembre e i tempi per giungere a una conclusione sarebbero contenuti, due-tre mesi”. A Natale insomma, i due fucilieri potrebbe salpare per far ritorno in patria. La cautela resta tuttavia d’obbligo, basta un inceppo per rovinare i piani e lo schema. A sbloccare la vicenda il clima di ritrovata fiducia fra New Delhi e Roma al quale ha contribuito non poco il passaggio del “caso marò” dalla giurisdizione del Kerala a quella federale con New Delhi quindi protagonista. Un passaggio - confermano in ambienti diplomatici - che ha consentito di allentare le tensioni che hanno minato sin dall’inizio l’intero procedimento contro Girone e Latorre. Da qui si spiega anche la probabile rapidità del processo: “Si tratta di rivedere le stesse cose note però senza le manipolazioni fatte dal Kerala”, precisano le fonti. A misurare il nuovo clima è la vicenda della richiesta di una testimonianza dei 4 fucilieri su quanto accaduto il 15 febbraio al largo del Kerala. La Nia (la polizia anti-terrorismo cui sono affidate le indagini) ha richiesto di ascoltare i soldati Massimo Andronico, Alessandro Conte, Antonio Fontana e Renato, dopo aver sentito il capitano della Enrica Lexie Umberto Vitelli. Su questo, malgrado l’impegno firmato dall’ambasciata italiana a Delhi di far rientrare i quattro in caso di necessità durante i processi, l’Italia ha ora mostrato fermezza. Senza trovare attualmente, ostilità netta negli indiani, spiegano in ambienti diplomatici. A questo punto sono tre le ipotesi allo studio: lasciar cadere la deposizione se non arriverà un’ulteriore richiesta, procedere a un interrogatorio in videoconferenza o optare per risposte scritte a domande preparate dalla polizia indiana che chiuderebbe così la pre-indagine. Ma a nessuno ora conviene tirare la corda, la situazione è mutata. Anche per gli stessi Girone e Latorre che sono liberi di muoversi nella grande Delhi e frequentano ambienti pubblici senza venire riconosciuti o aggrediti verbalmente. Scena impossibile fino a qualche mese fa. Montenegro: sciopero della fame detenuti contro emendamenti a legge amnistia Ansa, 18 luglio 2013 Circa 250 detenuti del carcere di Spuz, in Montenegro, hanno cominciato oggi uno sciopero della fame per protestare contro una serie di emendamenti alla legge sull’amnistia introdotti di recente. Come ha reso noto il ministero della giustizia a Podgorica, la situazione nel penitenziario è stabile. “Il rifiuto del cibo è un diritto di ogni detenuto, e viene adottata ogni misura per garantire il rispetto dei diritti umani dei detenuti”, ha aggiunto il ministero in una nota, aggiungendo tuttavia come lo sciopero della fame non è e non può essere il modo di risolvere potenziali conflitti. Cina: campi di lavoro, la storia di Tang Hui Il Post, 18 luglio 2013 Dopo il risarcimento dato a una donna cinese rinchiusa ingiustamente, si discute - con molto scetticismo - di una riforma del governo per abolirli. Lunedì 15 luglio, una donna è stata risarcita da un tribunale della provincia di Hunan, in Cina, con circa 3 mila yuan (poco più di 300 euro) per essere stata arrestata e detenuta per diciotto mesi in un campo di rieducazione. La storia di Tang Hui ha suscitato in Cina un ampio dibattito sul sistema giudiziario che concede alla polizia la possibilità di rinchiudere le persone accusate di reati minori - come droga, prostituzione o “disturbo sociale” - nei campi di lavoro, senza dar loro la possibilità di rivolgersi all’autorità giudiziaria. Nell’ottobre del 2006 sette uomini rapirono la figlia undicenne di Tang Hui, la violentarono e la costrinsero a prostituirsi. La madre si rivolse alla polizia locale che, però, non diede molta importanza al caso, commettendo anche diversi errori durante le indagini. Tang Hui iniziò a raccontare e a dare visibilità alla propria storia sul web. Tre mesi dopo - in modo poco chiaro, secondo quanto scrive il New York Times - la madre riuscì a liberare la figlia e si rivolse al tribunale di Changsha, capitale della provincia di Hunan, per denunciare i responsabili del rapimento. Nel 2012 le sette persone che avevano rapito la figlia di Tang Hui furono arrestate e condannate a varie pene: due di loro furono condannati a morte, quattro all’ergastolo e uno a 15 anni di carcere. Tang Hui decise di non fermarsi e di presentare una serie di petizioni alla Corte di giustizia di Pechino per chiedere che venissero puniti anche i mandanti del sequestro. Molti media locali iniziarono a raccontare la sua storia, tanto che nei titoli dei giornali Tang Hui era ormai conosciuta come “la mamma delle petizioni”. Le sue proteste furono spesso plateali, come quando passò diverse ore in ginocchio davanti al tribunale di Changsha. La polizia locale, nell’agosto del 2012, decise dunque di arrestare Tang Hui e spedirla in uno dei campi di lavoro della provincia per un periodo di 18 mesi, con l’accusa di aver compromesso la “stabilità sociale”: nel frattempo, nessuno dei tribunali a cui lei si era rivolta accolse il suo ricorso. La decisione presa dalla polizia della provincia di Hunan provocò fin da subito una serie di forti proteste e Tang Hui divenne il simbolo della battaglia contro i campi di lavoro cinesi. Il 15 luglio 2013 l’alta corte del tribunale di Changsha - a cui si era rivolta Tang Hui prima di essere rinchiusa - ha stabilito che la donna dovesse essere liberata e risarcita con 3 mila yuan per “violazione della sua libertà”. Il capo della polizia della provincia di Hunan ha anche rivolto pubblicamente le sue scuse a Tang Hui. Che cosa sono i “campi di rieducazione attraverso il lavoro” Il sistema cinese di punizione e rieducazione “attraverso il lavoro” si chiama laogai e comprende prigioni, centri di detenzione, ospedali psichiatrici e veri e propri campi di lavoro chiamati laojiao. Il laojiao è un metodo di “detenzione amministrativa” per cui si può essere imprigionati direttamente dalla polizia senza nessuna sentenza, fino a 3 anni. I campi di lavoro iniziarono ad essere usati in modo sistematico in Cina a partire dagli anni Cinquanta con Mao Zedong come strumento per punire chi si opponeva al regime (seguendo l’esempio dei Gulag russi). Dopo la morte di Mao, nel 1982, si stabilì che la durata massima della condanna ai laogai fosse di tre anni, ma non ne venne mai messa in discussione l’esistenza. Anche oggi - nonostante le numerose condanne internazionali e una convenzione dell’Onu che ne chiede l’abolizione e che la Cina non ha mai ratificato - è un sistema che continua ad essere utilizzato dalla polizia locale per punire i responsabili di reati minori, come tossicodipendenti e prostitute, o i dissidenti di ogni tipo, dagli attivisti religiosi a quelli politici. Tutti coloro che vengono inviati nei campi di lavoro non hanno la possibilità, dal momento in cui vi entrano, di rivolgersi all’autorità giudiziaria. Le uniche notizie sulle condizioni di vita dei campi le conosciamo attraverso le testimonianze degli ex detenuti come ad esempio Harry Wu, ora cittadino Usa, che ha trascorso nei campi 19 anni e ha scritto libri raccontando la propria esperienza. Wu ha parlato di uso della denutrizione e della tortura come sistemi punitivi, di sedute periodiche di “critica” e “autocritica” in cui i detenuti si accusano a vicenda, di isolamento e di lavoro forzato fino a 16 ore al giorno. Sul numero dei campi presenti sul territorio cinese e sul numero dei detenuti non si hanno informazioni ufficiali. La Laogai Research Foundation, organizzazione statunitense che si occupa della diffusione di notizie riguardo i laogai e le altre violazioni dei diritti umani in Cina, ha pubblicato nel 2008 un catalogo dei campi di cui è a conoscenza e in cui sono elencati 1422 luoghi di detenzione attualmente attivi. Le ripercussioni del caso sul sistema giudiziario La storia di Tang Hui e della sua detenzione in un laojiao è diventata un caso politico poiché rappresenta un precedente importante per una possibile messa in discussione della pratica, spesso abusata dalla polizia locale cinese, di utilizzare i campi di lavoro come misura detentiva. Il Quotidiano del Popolo, il giornale del Partito Comunista cinese, ha ad esempio scritto che “la sentenza ispira una nuova e profonda fiducia nella giustizia”. Da alcuni mesi in Cina si discute della volontà del governo di riformare il sistema giudiziario, compresa la pratica dei campi di lavoro. Gli avvocati di molte associazioni cinesi che si battono per la difesa dei diritti umani sostengono che probabilmente saranno creati dei sistemi detentivi simili, ma con un nome diverso e quindi più accettabili da parte dell’opinione pubblica. La sentenza del tribunale di Hunan sul caso di Tang Hui, ha detto John Kamm, avvocato della fondazione cinese Dui Hua, si è basata soltanto sulla volontà del governo di calmare le proteste e non può essere considerata il primo passo per una futura riforma della giustizia.