Giustizia: in origine “Scampia” era l’erba che cresce spontanea e diventa secca e arida… di Antonio Gnoli La Repubblica, 12 luglio 2013 E forse non c’è immagine migliore per iniziare a descrivere il desolante squallore dei grandi spazi cui corrisponde la concentrazione dei termitai umani, edifici che risalgono agli anni Settanta che qui chiamano “Vele”. Penso che in questo luogo dove la mitologia non ha fondato proprio nulla, semmai irrora quotidianamente i gesti e le parole di chi vi abita, il tempo cammini con molta più rabbia che altrove. Un tempo interiore, invisibile, inquietante. Che ha poco a che vedere con le ore del giorno e della notte che sembrano scorrere nella noia del sempre uguale. E che anzi incoraggiano a qualche forma di speranza. In nessun altro posto mi pare di aver visto tante volte effigiata e ben in vista la parola “felicità”. Su di un pilone c’è scritto “Quando il vento dei soprusi sarà finito si spiegheranno le vele della felicità”. Non è semplice entrare a Scampia. C’è diffidenza, pericolo, in qualche caso ostilità da parte di chi ci vive e ci soffre. C’è criminalità, tanta. Ma anche molta gente per bene. Mi accompagnano Gaetano Di Vaio e Guido Lombardi, ho appena finito di leggere il loro Non mi avrete mai. Cos’è esattamente questo libro: un romanzo? Un lacerto di vita? Una confessione resa pubblica? Un’intima e feroce autobiografia? Di Vaio si è fatto vari anni di carcere a Poggioreale e la sua storia sta tutta scritta in questo lungo e coinvolgente racconto. Certo romanzato, ma con un fondo inscalfibile di verità che lo rende in qualche modo unico. Come è unico, appunto, che si entri a vent’anni in un “lager” se ne esca a trenta e si abbia la forza per ricominciare. “Furono anni durissimi. Pensavo di soccombere. Perché lì dentro la tua vita non vale niente. Se non sei affiliato alla camorra sei un cane morto. Ma se ti leghi ad essa è come entrare in un altro carcere, perfino più duro e spietato. È stato questo il primo problema: dove mettermi, io che per tutta la vita precedente ero stato un criminale in proprio”. Guido lo guarda e si fuma l’ennesima sigaretta che ha rollato. Guido dice che Gaetano ha un’energia pazzesca, perché uno che si è fatto pesantemente di droga, che è vissuto per anni di scippi, rapine e spaccio e poi diventa produttore cinematografico di un certo successo non accade neppure nei film. E i film sono la loro passione. E il sangue che gli scorre nelle vene sono fotogrammi, inquadrature, storie di vita. Come quelle bellissime che Guido ha raccontato con Là-Bas, che ha pure vinto un premio importante a Venezia, e Gaetano con Il loro Natale, una vicenda splendidamente drammatica sui familiari dei detenuti di Poggioreale. Scendiamo dalla macchina, nell’unico punto di ritrovo che Scampia offre: una piazzetta con un bar, un giornalaio, una sala slot e accanto un presidio della polizia. Sembra che tutto conviva nell’apparente quiete di una mattina assolata e calda. Bisogna incontrare il comitato di lotta di Scampia. Sono i componenti che decideranno se lo “straniero”, cioè me, può entrare. Sono stanchi di un certo folklore; stanchi dei politici che sotto le elezioni fanno la passarella, promettono e poi spariscono; stanchi degli annunci a vuoto; sono stanchi perfino di essere stanchi. Sono stanchi di sentirsi dire che c’è la crisi. Perché la crisi da loro precede tutte le crisi possibili. E le riassume. Una ragazza che avrà trent’anni si appoggia a uno scooter, ha i polsi carichi di braccialetti e la pelle piena di tatuaggi, sulla maglietta porta scritto “time for love”. Compulsa i tasti di un cellulare. Di amore a Scampia ce n’è poco. Entriamo. Le “Vele” sono imponenti: espressione di una modernità impazzita, frutto di un teorema antropologico che riduce l’uomo a una sottospecie animale. “Devi fare caso non all’insieme che può trasmettere un suo fascino perverso, ma al dettaglio che umilia e frastorna”, avverte Gaetano. Saliamo le scale. Sui vetri infranti delle finestre si apre l’inferno di fronte: un’altra Vela che rimanda a mille storie di disperazione e rabbia. Che fanno di là? Chiedo “Quello che fanno di qua, niente. Qui tutto è congelato da anni, da decenni, da sempre”. Sui muri antiche scritte sbiadite: “Il cazzo è cecato”, recita una. Ridiamo. Ma poi penso che un modo di sopravvivere è cercare di non vedere. Di cimentarsi con il buio della vita, con l’amianto delle case, con le grida e con il silenzio. Dalle scale, sotto lo scroscio violento di un’acqua che da mesi fuoriesce da tubature rotte, si vede un cortile interno. Sembra una discarica a cielo chiuso che dà su delle cantine. A Gaetano trema un pòla voce: “Vedi, quelle sono diventate le stanze del buco. Vengono i tossici, non solo da Napoli, ma da altre città del Sud, comprano la merce e si fanno tranquilli e rassegnati come animali al macello”. Ne scorgo uno, compostamente seduto sullo scheletro di una sedia mentre si infila un ago. Altri tossici aspettano nervosi, forse insospettiti dalla nostra presenza. Nelle “Vele” ancora oggi si concentra l’attività di spaccio più forte d’Italia. È qui che Gaetano spacciava. Erano gli anni di Maradona al Napoli, quando tutta la città pazziava e sognava per il pallone. Gli anni delle faide tra clan, dei morti sparati e spariti; della coca a gogò e del boom dell’eroina, del controllo militare su Scampia da parte della camorra. Chiedo a Gaetano come ha fatto a essere un criminale senza finire affiliato in qualche clan: “Ci hanno provato. Ma poi a loro bastava che gli portassi i soldi. Non è stato facile restare fuori da quel sistema che ti lusinga e ti minaccia. Ma io provenivo da una cultura proletaria; da una famiglia sana. Quando mia madre capì che strada avevo intrapreso, mi disse ti do tre consigli, Gaetà: non ti fare i tatuaggi, non entrare nella camorra, non ti drogare. Sapevo che dalla camorra non sarei mai uscito, dalla droga sì. Ce l’ho fatta a uscirne, e con il carcere ho lavato le mie colpe”. Negli anni della galera Gaetano non ha incontrato solo violenza e umiliazioni, ma anche i libri e le persone, rare d’accordo, che glieli hanno messi in mano. Il romanzo racconta come si risale dagli inferi, come uno su mille, uno su un milione, ce la possa fare. Lasciamo Scampia, Gaetano vuole farmi vedere gli altri luoghi del romanzo. Andiamo a Marianella, un quartiere a Nord di Napoli dove vive e poi a Piscinola, dove è nato. È come un processo liberatorio che passa attraverso la memoria, e il ripensamento del fasto opaco e ribaldo di quei giorni. Non si può continuare ad avere vent’anni. Ma forse Gaetano non h a m a i a v u t o vent’anni, perché se li avesse avuti veramente non avrebbe permesso a nessuno, come dice l’abusata letteratura, di sputarci sopra. “Sono cresciuto in un mondo senza opportunità”, lo dice senza giustificarsi, senza sollevare l’eccezione morale, senza appellarsi alla necessità. È semplice: se rubi sei un ladro; se uccidi sei un assassino: “Non ho mai sparato, ti devi dare un limite se non vuoi essere completamente travolto”. La faccia di Gaetano è una geografia di emozioni, quella di Guido imperturbabile e malinconica. Per Guido il mondo sono le immagini, metafore solo abbozzate di un mondo interiore ricco, elaborato attraverso il confronto aspro con una famiglia borghese del Vomero, dove è nato e vive. Ed è come se chiedesse scusa per le sue origini, per le sue scarse parole, per i suoi ripetuti silenzi. Scampia, penso, non è solo un luogo è un’idea condannata alla corruzione permanente. E qui paradossalmente risiede la sua forza. È il mito di una Napoli senza più volto: “Ha sostituito il Vesuvio”, commenta ironico Gaetano. Come un mito evoca narrazione, inferno e una rara speranza. Dentro la Citroen di Guido sembriamo pesci in un acquario. Muti. Con gli occhi a palla, deformati dai pensieri e dalla fatica guardiamo scorrere il traffico bestiale di Secondigliano. Un carrettino improvvisato, ai bordi della strada, vende orzate. Verrebbe voglia di fermarsi. Ma è tardi. Mi torna alla mente la voce di Gaetano. È un timbro che gratta, raschia, trapana. Penso che arrivi dal buio degli anni trascorsi a Poggioreale. Una voce che ha imparato ad addomesticare i pensieri. E mi chiedo che cosa sopravviva dentro questo esempio di “redenzione” del passato che non passa, delle parole che non bastano a spiegare, a dire, a raccontare. E penso che in questa storia non ci sia un vero finale perché Gaetano e Guido andranno avanti, o magari solo di lato, con altri fantasmi. Dicono che hanno quasi terminato il nuovo film e che è una storia cazzuta. Dicono che hanno in canna la seconda parte del romanzo. Dicono che l’erba di Scampia un giorno forse diventerà verde. Giustizia: sui processi di Berlusconi stiamo assistendo ad uno psicodramma a parti inverse di Curzio Maltese La Repubblica, 12 luglio 2013 I guai giudiziari di un uomo politico in un paese normale dovrebbero essere essenzialmente affari suoi. Oltre che, si capisce, di dirigenti ed elettori del suo partito. Da vent’anni i processi di Berlusconi sono invece diventati problema di un intero paese. E questo è già molto anomalo. Ancora più anomalo, per non dire grottesco, è che i guai con la giustizia del capo della destra stiano diventando uno se non “il” problema del principale rivale politico, il Partito democratico. Non si pretende (non più) dal Pd che si comporti come qualsiasi altra forza democratica del mondo di fronte a un avversario colpito da condanne gravi per reati comuni, chiedendone l’immediata uscita dalla scena politica. Non siamo una democrazia normale, è evidente, altrimenti i primi a chiedere le dimissioni di Berlusconi sarebbero i suoi compagni di partito. È tuttavia paradossale che il Pd sia riuscito a importare in casa i guai altrui e a farne occasione di feroci contrasti interni, fra dirigenti e militanti, base elettorale e vertice del partito. Insomma le condanne di Berlusconi, lungi dal mettere in crisi la destra, servilmente compatta intorno al padrone, rischiano di spaccare la sinistra. L’hanno già spaccata, anzi, fra litigi, appelli, pesanti accuse reciproche, divisioni al voto, in uno spettacolo a un tempo preoccupante e assurdo. In ballo c’è la tragica prospettiva che la condanna in Cassazione il 30 luglio possa stroncare la carriera di leader di Berlusconi. Il futuro politico di un quasi ottuagenario in Italia è evidentemente più importante del presente economico di un Paese sull’orlo del baratro, dell’avvenire dei nostri figli. Ora, in questo ennesimo psicodramma innescato dal berlusconismo, bisognerà forse ristabilire alcuni punti fermi. Il governo Letta e la strana maggioranza che lo sostiene scaturiscono da un’emergenza nazionale che non sono i processi di Berlusconi. Si tratta di un governo chiamato a fare due o tre cose essenziali, lo stimolo alla crescita, il controllo del debito pubblico e una legge elettorale decente, utile e perfino costituzionale. Per compiere questa missione nell’interesse del Paese, il Pd ha messo in conto di accettare qualche compromesso con l’alleato col quale, aveva detto, non avrebbe mai governato. Contro l’opinione di milioni di elettori, compreso chi scrive, ha fatto prevalere il valore della governabilità su ogni altro. Ma se la governabilità finisce per annientare l’identità stessa del Pd, allora tanto vale chiudere l’esperienza e tornare al voto. Dopo aver cambiato la legge elettorale, s’intende, perché il presidente Napolitano ha già detto e ripetuto che non scioglierà mai le camere con il Porcellum imperante. Quello che il governo delle larghe intese aveva promesso agli italiani, in cambio del tradimento del mandato elettorale, era un’assunzione piena di responsabilità da parte di un ceto politico che per due decenni ha lasciato marcire i problemi del Paese per concentrarsi sui propri. E in particolare sui problemi di uno solo. Se dopo poche settimane siamo ancora lì, con una maggioranza appesa alle vicende personali del solito noto, in grado di paralizzare la vita politica e bloccare i lavori parlamentari, allora è stato tutto inutile. Ne prendano atto e tornino a casa. Non si può fermare una nazione perché il più ricco di tutti, secondo vari tribunali della Repubblica, non ha pagato le tasse. Tanto meno una nazione dove ogni settimana un piccolo imprenditore si uccide perché di tasse ne ha pagate troppe. Giustizia: il Papa; via l’ergastolo, tortura è reato… così il codice vaticano scavalca l’Italia di Paolo Rodari La Repubblica, 12 luglio 2013 Stretta sulla pedofilia: abusi puniti anche se commessi fuori dalla Santa Sede. Non ci sono soltanto gli adeguamenti rispetto al fianco scoperto interno alla Chiesa degli abusi sessuali, della pedofilia e della corruzione, ma anche quei profili che per la prima volta scavalcano, e di molto, l’Italia e le sue norme: l’abolizione dell’ergastolo, sostituita con la pena della reclusione da 30 a 35 anni, e l’introduzione del reato di tortura. Sono le nuove disposizioni contenute nella lettera apostolica in forma di Motu Proprio con la quale papa Francesco riforma il sistema penale della Santa Sede. Un giro di vite che dopo lo scandalo Vatileaks riguarda non solo gli ecclesiastici, ma tutto il personale anche laico alle dipendenze della sede apostolica, organizzazioni collegate incluse. Lo stesso Vaticano rimasto indietro rispetto alla maggioranza degli Stati laici nel mettere al bando la pena di morte (venne introdotta oltre Tevere soltanto nel 2001) scavalca oggi l’Italia nell’introdurre il reato di tortura, non ancora previsto dalle nostre leggi, e nel cancellare dal proprio ordinamento l’ergastolo. Anche se oltre Tevere l’ergastolo non è mai stato sanzionato, la nuova disposizione è fortemente simbolica perché dice che per il Papa nessuna pena è irrevocabile. Del resto, Francesco l’ha sostenuto più volte: “Siamo tutti peccatori. Non c’è nessun peccato per il quale non è possibile il perdono divino, anche per i non credenti”. Sono da gigante i passi in avanti che Francesco sta facendo compiere alla sua Chiesa. Se ne sono accorti ieri anche i politici italiani con reazioni contrapposte. “È arrivato il momento che anche il nostro Paese affronti senza preclusioni e contrapposizioni una questione che non riguarda l’appartenenza politica di ciascuno di noi ma proprio il senso di umanità”, dice Roberto Speranza, presidente dei deputati Pd. Gli risponde il presidente dei deputati di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni: “Evidentemente ai democratici non basta aver portato a casa un indulto mascherato che fa pagare ai cittadini il sovraffollamento carcerario rimettendo in libertà migliaia di condannati per reati gravi come rapine, incesto, crollo doloso: ora propongono anche di cancellare l’ergastolo”. Le nuove disposizioni vaticane non sono tutte farina del sacco di Francesco. Esse arrivano in scia a un’azione intrapresa da Benedetto XVI nel 2010. La legislazione era ferma al Codice Zanardelli, adottato nel 1929 all’indomani dei Patti Lateranensi che istituirono la Città del Vaticano. Per questo, ad esempio, Paolo Gabriele, il maggiordomo infedele di Ratzinger, fu giudicato dieci mesi fa solo per il reato di furto, l’unico applicabile al suo caso nelle norme in vigore che non prevedevano l’attentato alla sicurezza dello Stato. Nelle norme penali varate da Francesco è compresa un inasprimento delle pene per i delitti contro i minori tra i quali la vendita, la prostituzione, l’arruolamento e la violenza sessuale in loro danno; la pedo pornografia; la detenzione di materiale pedopornografico; gli atti sessuali con minori. Nella lotta agli abusi potranno essere per la prima volta perseguiti non soltanto gli officiali e dipendenti della curia romana, ma anche i nunzi apostolici e il personale di ruolo diplomatico della Santa Sede, nonché i dipendenti di organismi e istituzioni collegati alla Santa Sede indipendentemente dal fatto che si trovino sul territorio vaticano. Giustizia: abolizione ergastolo esempio da seguire, la pena deve avere funzione rieducativa Intervista a Luigi Manconi, a cura di Vladimiro Polchi La Repubblica, 12 luglio 2013 Il Vaticano ha dato il buon esempio. “Ora l’Italia dovrebbe riflettere: l’ergastolo contraddice la funzione rieducativa della pena”. Luigi Manconi, presidente della commissione diritti umani del Senato, fatica a “pensare una pena che non si legittimi alla luce del recupero del reo, altrimenti perché dire di no alla condanna a morte?”. Anche in Italia dovrebbe sparire il “fine pena mai”? “Il segnale giunto dal Papa ci dovrebbe indurre a ripensare il senso della pena. Il referendum dei Radicali per l’abolizione dell’ergastolo potrebbe essere un’occasione per riflettere sull’articolo 27 della Costituzione, che assegna alla pena una funzione rieducativa”. Ma la Consulta con la sentenza 264 del 1974 ha considerato l’ergastolo compatibile con la Carta. “Lo dico in modo forse irriverente, ma la Corte ha considerato l’ergastolo costituzionalmente legittimo riconoscendo la possibilità del rilascio, cioè in quanto non viene effettivamente eseguito e se la pena non è di fatto perpetua”. E non è così? “Al 30 giugno 2013 gli ergastoli sono 1.582 e le stime ci dicono che due terzi sono ergastoli ostativi, cioè senza benefici premiali, né liberazione condizionale, a meno che non ci sia la collaborazione del condannato con l’attività giudiziaria. Insomma il “fine pena mai” è spesso effettivo”. L’esempio del Vaticano può portare il parlamento a ripensare l’ergastolo? “Ricordo che dalla visita alla Camera di Giovanni Paolo II, con la sua richiesta di un provvedimento di clemenza, all’approvazione dell’indulto passarono ben quattro anni. E oggi temo che a livello di classe politica la situazione sia nettamente peggiorata”. Giustizia: Ramonda (Papa Giovanni XXIII): il Vaticano toglie l’ergastolo, esempio per l’Italia Ristretti Orizzonti, 12 luglio 2013 "La scelta di Papa Francesco resa nota ieri di abolire l’ergastolo dal codice penale Vaticano è un esempio che dovrebbe seguire anche l’Italia, impegnata com’è ad affrontare l’emergenza carceri", sostiene Giovanni Ramonda, responsabile generale della Comunità Papa Giovanni XXIII. "Il mantenere una persona in carcere per tutta la vita contraddice palesemente l’obiettivo sancito dalla Costituzione italiana di puntare alla rieducazione del condannato. Inoltre è uno spreco assurdo di risorse: perché mantenere per tutta la vita una persona, con costi altissimi, anziché darle la possibilità di riparare al male commesso rendendosi utile per la società?". Non si tratta di sogni, secondo Ramonda, ma di possibilità concrete e dimostrabili. «Nelle nostre CEC - comunità educative per condannati - e nelle nostre case famiglia abbiamo oltre 300 persone provenienti dal carcere. Alcune hanno commesso reati gravissimi, ma si sono pentite e rinascono quando viene data loro la possibilità di dimostrare che hanno qualcosa di buono da dare. E i dati parlano chiaro: se il 75/80% di chi esce dal carcere torna poi a delinquere, da noi la recidiva si riduce al 12%". "La riforma del sistema carcerario - conclude Ramonda - deve partire da queste esperienze concrete, che dimostrano come un’alternativa economica ed efficace sia davvero possibile". Giustizia: i nostri Codici ingialliscono sempre più… perfino al confronto del Vaticano di Michele Ainis Corriere della Sera, 12 luglio 2013 Lì per lì, ti fa crepare dall’invidia. Su questa riva del Tevere litighiamo da decenni sulla riforma di codici e pandette, senza mai cavarne un accidenti; sull’altra sponda basta una sillaba del Papa e via!, riforma battezzata. Significa che per sveltire le nostre istituzioni dovremmo trarre esempio da istituzioni che hanno due millenni di vita sul groppone? Intanto significa che a San Pietro regna un homo novus, che sa accompagnare le parole con i fatti. E a loro volta i fatti non hanno valore esclusivamente per se stessi, bensì per il contesto nel quale si consumano, per il tempo in cui cadono, per il messaggio che trasmettono. C’è infatti un monito, un richiamo, nella decisione d’inasprire le pene per gli abusi sessuali sui minori. Fosse successo prima dello scandalo di Boston, prima dei mille altri casi di pedofilia sbucati come funghi velenosi all’interno della Chiesa, magari non ci avremmo fatto caso. C’è inoltre un altolà nel nuovo reato che punisce chi trafuga documenti: mai più un altro corvo in Vaticano, per dirla con parole spicce. E c’è infine una lezione nella scelta d’abolire la pena dell’ergastolo, sostituendolo con la reclusione fino a un massimo di 35 anni. Questa lezione ci riguarda, ci tocca da vicino. Perché quaggiù, sulla sponda laica del Tevere, l’ergastolo c’è eccome. Punisce 1.582 detenuti (al 30 giugno 2013), una cifra quadruplicata negli ultimi vent’anni. E in buona parte li punisce con l’ergastolo “ostativo”, che vuol dire nessun beneficio penitenziario, niente sconti, né permessi premio, né libertà condizionata. Non è così in Europa, dove il carcere a vita è stato cancellato (come in Spagna, Polonia, Portogallo, Ungheria, Norvegia) o altrimenti viene disapplicato in via di fatto. Ma non dovrebbe essere così neanche in Italia, dato che l’articolo 27 della nostra Carta stabilisce la funzione rieducativa della pena. Insomma, il castigo di Stato serve a recuperare i cittadini, non a consumare una vendetta; e d’altra parte - come ha osservato Umberto Veronesi - il colpevole che marcisce in galera dopo vent’anni è un’altra persona, perché le sue cellule staminali neuronali si sono completamente rinnovate. Ma dopotutto queste sono chiacchiere, librate in aria nel Paese delle chiacchiere. Fatti da commentare, del resto, non ne abbiamo. O meglio è un fatto che qui da noi rimanga in circolo il codice penale del 1930, firmato dal Guardasigilli di Benito Mussolini. È un fatto che mentre Papa Francesco contrasta con nuove figure criminose il genocidio e l’apartheid, l’Italia non riesca nemmeno a introdurre il reato di tortura. È un fatto che nel suo complesso la giustizia sia diventata una fabbrica d’ingiustizie, per i suoi tempi biblici ma anche per i suoi troppi pesi, con 35 mila fattispecie di reato che ci portiamo sul groppone. Ed è un fatto, o forse un misfatto, che per gli italiani l’unica via d’uscita sia ancora una volta il referendum (i Radicali ne hanno proposti 12, c’è anche l’abolizione dell’ergastolo). Da qui l’invidia per chi sa prendere il toro per le corna, come succede in Vaticano. Certo, lì non c’è un Parlamento che dibatte, né un governo sempre in procinto di finire in crisi. Il Pontefice è al vertice del potere legislativo, esecutivo, giudiziario: una concentrazione senza pari, che a suo tempo Cavour aveva definito “il più schifoso despotismo”. Tuttavia non c’è bisogno di rinunciare alla separazione dei poteri, per ottenere finalmente poteri che decidono. Servono riforme: cambiare la politica per cambiare la giustizia. Giustizia: sull’introduzione del reato di tortura l’Italia è stata superata pure dal Vaticano di Eleonora Martini Il Manifesto, 12 luglio 2013 La decisione del Papa di cancellare la pena dell’ergastolo e di introdurre nell’ordinamento penale vaticano il reato di tortura, adeguandosi alle norme internazionali sancite dalla Convezione delle Nazioni Unite, è un segnale. Un segnale ai governi del mondo, oltreché a quelle gerarchie ecclesiali troppo spesso silenti davanti alla violazione dei diritti umani, se non addirittura conniventi con quei regimi ma anche quelle democrazie che la praticano, più o meno sistematicamente. L’Italia, dove la tortura non è ancora punibile, è uno di questi Paesi. Anche se a ricordarlo ieri è stata solo l’associazione Antigone, Rifondazione comunista e un paio di parlamentari Pd. Ratificata da 25 anni la Convenzione Onu contro la tortura, malgrado i richiami e le sanzioni europee, malgrado le sentenze di due diversi tribunali arrivate negli ultimi mesi - violenze a Bolzaneto e morte di Stefano Cucchi - che hanno annotato le difficoltà processuali derivanti dalla mancanza della fattispecie di reato nel nostro ordinamento, l’Italia continua a tergiversare. L’ultimo passo sulla via del rispetto delle regole internazionali lo abbiamo fatto nell’autunno scorso, quando il governo Monti ha ratificato il Protocollo opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura (Opcat), depositato poi nell’aprile 2013 ed entrato in vigore un mese dopo. Un Protocollo che conferisce al Comitato Onu contro la tortura poteri effettivi e non più simbolici - di ispezione e monitoraggio - e impone ai Paesi aderenti l’istituzione entro un anno del National preventive mechanism (Npm), un meccanismo interno di controllo e garanzia dei diritti umani in tutti i luoghi di detenzione: non solo carceri ma anche caserme, centri per immigrati, reparti sanitari protetti, ecc. Entro maggio 2014, dunque, l’Italia dovrebbe anche dotarsi di uno strumento di questo tipo, come può essere l’istituzione del Garante nazionale dei detenuti, magari conferendo a questa figura maggiori poteri rispetto a quelli goduti dai garanti regionali. Eppure non sono pochi i disegni di legge depositati in Parlamento: al Senato c’è quello di Felice Casson che nella scorsa legislatura si è bloccato ai primi passi in commissione Giustizia, e alla Camera ce ne sono almeno un paio, firmati da Luigi Manconi, Sel, M5S. Ma l’accordo tra le forze politiche è difficile da raggiungere, soprattutto su un punto: delitto generico o delitto proprio del pubblico ufficiale? Da noi è forte l’opposizione di certi sindacati di polizia e delle lobby militari a inquadrare la fattispecie di reato nell’ambito del delitto specifico, ossia commesso da persona nel ruolo di rappresentante dello Stato. E certa politica non riesce a emanciparsi. Anche su questo punto siamo sempre più isolati, in Europa. Agli antipodi dei Paesi dove la tortura è un delitto specifico (Austria, Belgio, Danimarca, Estonia, Francia, Germania, Islanda, Lettonia, Lussemburgo, Macedonia, Paesi Bassi, Polonia, Portogallo, Regno Unito, Slovenia, Slovacchia, Spagna, Svezia, Svizzera, Turchia, Ungheria), come scrive Patrizio Gonnella nel suo “La tortura in Italia” edito da Derive Approdi. E ora superati anche dal Vaticano. È evidente che il Parlamento ha bisogno di una spinta per procedere sulla via della civiltà giuridica. Il disegno di legge di iniziativa popolare messo a punto da Antigone, Fuoriluogo, Unione delle camere penali e altre associazioni, ha quasi raggiunto le 50 mila firme necessarie. Si potrebbe partire da qui, per scuotere la politica appaltata o distratta da problemi giudiziari eccellenti. Giustizia: l’ex Cirielli via senza drammi, aprire il carcere si può di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 12 luglio 2013 Edmondo Cirielli, ufficiale dei Carabinieri e oggi deputato dei Fratelli d’Italia, è assurto agli onori delle cronache per una legge che prende da lui il nome, per l’appunto la Cirielli. Una legge da lui successivamente disconosciuta. Ex Cirielli per l’appunto è quella legge che contiene norme in materia di prescrizione e di recidiva. A Cirielli non piaceva la parte della legge che riduceva per taluni reati - in primis quelli dei colletti bianchi - i tempi di prescrizione. Lui voleva solo infierire sui recidivi. Il modello era la three-strikes law di origine statunitense che prevedeva pene severe fino all’ergastolo per chi reiterava il reato. Tre strikes e sei fuori, una espressione tratta dal baseball. Solo che nel baseball chi è eliminato poi torna sul piatto di battuta all’inning successivo, mentre dalle prigioni americane una volta condannati non si esce più. E così la California si riempì di detenuti a dismisura, raggiungendo tassi di affollamento tali da costringere la Corte Suprema degli Stati Uniti d’America a intervenire nel nome della dignità umana imponendo una riduzione dei numeri della carcerazione. La ex Cirielli fu approvata nell’inverno del 2005. L’opposizione di centrosinistra si scagliò contro ma solo nella parte relativa alla prescrizione, definita salva - Previti. Dalle pagine di questo giornale ribattezzammo quella legge ammazza - Gozzini. I detenuti nel dicembre del 2006, a sei mesi dall’indulto del luglio del 2006, erano scesi a meno di 40 mila unità. Nel frattempo però la ex Cirielli aveva ammazzato la Gozzini impedendo automaticamente ai recidivi (principalmente immigrati e tossicodipendenti) l’accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative. I detenuti sono così saliti a 66mila unità per colpa di quella legge, nonché della Fini - Giovanardi sulle droghe, delle norme sulla immigrazione, degli eccessi normativi e operativi di custodia cautelare e di altre idiozie penali. Per anni, ovvero da quel lontano inverno del 2005, abbiamo invocato l’abrogazione della legge ex Cirielli nella parte sulla recidiva. La sua cancellazione è anche uno dei capisaldi delle nostre tre proposte di legge di iniziativa popolare - 3leggi.it - per le quali stiamo raccogliendo nelle piazze 50 mila firme. Su temi analoghi i Radicali sono impegnati in una campagna referendaria. Ebbene, sembrava che la abrogazione delle legge sulla recidiva fosse un risultato impossibile. Anche nel campo democratico le cautele si sprecavano. Di fronte alle nostre richieste di abrogazione ci sentivamo dire in sequenza: non è possibile, non è questo il momento, che penserà la gente, come reagiranno i media, bisogna rispettare la percezione di insicurezza delle persone, non si possono umiliare le forze di polizia. Nel frattempo, però, le condizioni materiali di vita delle persone detenute sono andate progressivamente deteriorando a causa del sovraffollamento crescente e della assenza di spazi minimi vitali nelle carceri. Grazie al lavoro del difensore civico di Antigone ben 150 ricorsi sono stati presentati alla Corte europea dei diritti umani. L’Italia viene così condannata con una sentenza pilota: entro maggio 2014 deve essere risolto il nodo del sovraffollamento in modo da restituire dignità alle persone recluse. Così pochi giorni fa con decreto legge viene abrogata la ex Cirielli proprio nella parte sulla recidiva. Ciò avviene senza che vi sia sollevazione popolare. Nel frattempo la Camera approva un disegno di legge che eleva la detenzione domiciliare a pena principale direttamente comminabile dal giudice di cognizione nonché introduce nel codice di procedura penale per adulti la messa alla prova. Vien da dire allora che se alcune cose si possono fare senza che le masse si indignino perché non fare altri passi in avanti nel nome dell’equità sociale e penale? Perché non abrogare quindi la madre di tutti i problemi carcerari ovvero la legge sulle droghe? Perché non cavalcare l’onda di ragionevolezza e modificare le norme sulla custodia cautelare oppure togliere di mezzo quelle sulla immigrazione? Non ci si spaventerà mica delle reazioni di Carlo Giovanardi o di Fabrizio Cicchitto? O della opposizione dei Fratelli d’Italia, della Lega e del Movimento 5 Stelle? Noi, con molte organizzazioni, abbiamo tre proposte di legge su tortura, carceri e droghe e facciamo appello a tutte le forze politiche perché le mettano subito in discussione e le approvino così come sono. Siamo certi che anche in questo caso non vi saranno reazioni penal-populiste. Infine va ricordato che i problemi del carcere non sono tutti legati al sovraffollamento. Il sovraffollamento è un problema ma è anche una causa di giustificazione perfetta per avallare l’inerzia. Nei giorni scorsi il ministro della Giustizia ha nominato una Commissione per gli interventi in materia penitenziaria e ha chiamato a presiederla il nostro Mauro Palma. “Le celle vanno aperte e il carcere va riempito di occasioni di responsabilizzazione”. Mauro Palma ha totalmente ragione. Non c’è giustificazione plausibile alla regola per cui un detenuto in media trascorre nell’ozio 20 - 22 ore al giorno in celle maleodoranti. Aprire le celle si può fare subito. Giustizia: Legge Pinto; 340 mln di indennizzi arretrati, ma il ministero ne ha soltanto 50 www.giustizia.it, 12 luglio 2013 Nota 11 luglio 2013 - Legge 89/2001. Pagamento da parte del Ministero della giustizia degli indennizzi. Ministero della giustizia. Direzione generale del contenzioso e dei diritti umani. Oggetto: Legge n. 89 del 2001. Pagamento da parte del Ministero della Giustizia degli indennizzi. Al pagamento degli indennizzi e delle spese conseguenti al contenzioso della L. n. 89/2001 (c.d. Legge Pinto), nei quali il Ministero della giustizia è convenuto in giudizio e condannato ai sensi della citata legge stessa, provvede il medesimo Ministero con il capitolo a ciò deputato 1264 (“Somma occorrente per far fronte alle spese derivanti dai ricorsi proposti dagli aventi diritto ai fini dell’equa riparazione dei danni subiti in caso di violazione del termine ragionevole del processo”), gestito dal Dipartimento degli Affari della Giustizia. Tale capitolo è stato fino al 2012 incrementato mediante prelievo dal capitolo 2829 dello stato di previsione del Ministero dell’economia e delle finanze (“Fondo da ripartire per far fronte alle spese derivanti dai ricorsi di equa riparazione” - spese obbligatorie). Stante la disposizione contenuta nella stessa legge 89/2001, secondo cui “L’erogazione degli indennizzi agli aventi diritto avviene nei limiti delle risorse disponibili”, il relativo stanziamento a favore della Giustizia è stato effettuato dal Ministero dell’economia e delle finanze una volta all’anno e con notevole ritardo (solitamente tra aprile e luglio) e in entità mai sufficiente né alla liquidazione dei decreti emessi nell’anno in corso né all’azzeramento del debito arretrato (nel 2011 e nel 2012 lo stanziamento è stato pari a circa il 10% del debito accumulato). Con l’anno 2013, per la priva volta, la Legge di bilancio ha stabilito a favore della Giustizia una assegnazione di fondi sul capitolo 1264, peraltro in quantità ancora del tutto insufficiente (50 milioni di euro) rispetto all’entità del debito (oltre 340 milioni di euro). Quanto alle modalità di pagamento degli indennizzi, considerato l’elevato numero di condanne riportate dalla Giustizia nei contenziosi ex lege Pinto, il Dipartimento degli Affari della Giustizia sin dall’aprile 2005 ha delegato la liquidazione delle somme alle singole Corti di Appello, “in un’ottica di decentramento e decongestione”, con relativo accreditamento di fondi prelevati dal capitolo 1264. Spetta pertanto alla Corte di appello che emesso il decreto di condanna provvedere al pagamento degli indennizzi. Resta a carico dell’Amministrazione centrale, con facoltà di delega, il pagamento degli indennizzi indicati nelle sentenze emesse dalla Corte di cassazione e in quelle emesse dai giudici amministrativi in sede di giudizio di ottemperanza. Firmato: Il Direttore generale, Ersilia Calvanese Giustizia: carriere, carceri e responsabilità civile, ecco i quesiti dei Referendum Radicali di Grazia Longo La Stampa, 12 luglio 2013 Un successo caldeggiato dal Pdl ma targato Radicali. L’apertura di Silvio Berlusconi ai referendum sulla giustizia voluti da Pannella potrebbe garantire un esito positivo per alcuni cavalli di battaglia del centrodestra finora rimasti solo sul piano delle intenzioni. Sul tappeto temi come la responsabilità civile dei magistrati, separazione delle carriere, magistrati fuori ruolo, abolizione dell’ergastolo e abuso della custodia cautelare. Il monito dell’ex premier, durante l’ufficio di presidenza del partito che si è svolto a Palazzo Grazioli, è inequivocabile: “Occorre allestire al più presto i gazebo, in tutto il Paese, per invitare la gente a firmare i referendum dei Radicali sulla giustizia”. E l’ipotesi che - considerati i tanti processi pendenti di Berlusconi a partite dall’udienza in Cassazione il 30 luglio per la frode fiscale di Mediaset - si possa trattare di un suo esclusivo interesse personale, non sfiora minimamente il segretario nazionale dei Radicali. “Non solo non mi scandalizza - afferma Mario Staderini, ma non può che farmi piacere la partecipazione di altri, Berlusconi compreso, a schierarsi al nostro fianco”. I motivi sono sostanzialmente tre: “Innanzitutto senza i referendum dubito che si possano mai risolvere le questioni sulla giustizia perché difficilmente finiranno nell’agenda del Parlamento. In secondo luogo l’attenzione del Pdl mi pare un buon viatico verso il successo”. Quanto al coinvolgimento diretto del leader Pdl, Staderini osserva che “i referendum non sono dei provvedimenti ad perso - nam, non mirano a favorire le sue questioni giudiziarie. Basti pensare a quello sulla carcerazione preventiva: nelle nostri pessime carceri, il 40 per cento dei detenuti è in attesa di giudizio”. La sensibilità del Pdl ai temi che vedono impegnati i Radicali in prima linea è del resto cosa nota. Da Daniela Santan - ché, la quale vorrebbe “che il Pdl firmasse in massa i quesiti referendari dei Radicali e che il governo, di cui il Pdl fa parte, li trasformasse in decreti legge”, all’ex Guardasigilli Nitto Palma, che si è sempre dichiarato favorevole alla linea radicale sulla giustizia. Che non costituisce, tuttavia, l’unica materia dei referendum proposti. “In tutto sono 12 - ricorda Mario Staderini - e riguardano anche altri diritti da rivendicare, come la revisione della normativa sugli stupefacenti e l’abrogazione delle norme che ostacolano il lavoro e il soggiorno regolare degli immigrati”. Senza tralasciare, poi, il referendum per l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti. “Sarebbe stato strano - chiosa il segretario dei Radicali - che Beppe Grillo non avesse sostenuto questo quesito, proprio a cominciare da questo. In ogni caso, noi non possiamo che essere soddisfatti del consenso: più siamo a muoverci e prima riusciremo a raccogliere le 500 mila firme necessarie ad andare alle urne per riformare i diritti umani e la giustizia”. Giustizia: un reportage dal reparto di Medicina Protetta dell’ospedale “Pertini” di Roma di Angelo Mastrandrea Il Manifesto, 12 luglio 2013 Una corsia con le sbarre. Qui è morto Stefano Cucchi. I medici: “Ma non è un lager. Ci hanno descritto come mostri, abbiamo perso la serenità”. La stanza numero 16 è al primo piano, la prima a sinistra una volta superato il cancello di uno dei quattro bracci in cui è suddiviso il reparto di Medicina Protetta dell’ospedale Pertini di Roma. Il letto in cui fu ritrovato Stefano Cucchi, rannicchiato come se dormisse e invece morto, alle 5,30 del 22 ottobre 2009, è in fondo, vicino alla finestra. Oggi è fuori uso, avvisa un cartello scritto a mano all’ingresso, per questo la stanza non è occupata da nessun malato. Per lo stesso motivo manca pure la televisione. Ci sono invece un tavolino, un porta flebo agganciato al muro, il bagno con la doccia. Le mura sono imbiancate di fresco. Paragonato alle carceri italiane, vetuste e sovraffollate come gironi danteschi, questo reparto con stanze singole dall’arredamento spartano ma nuovo - appena 22 posti letto, ridotti a 15 per carenza di infermieri - e una piccola biblioteca comune, appare come un’oasi. Eppure, è tra queste mura che si è consumata, meno di quattro anni fa, una morte che, per la sua dinamica e grazie alle immagini - choc diffuse ai media dalla famiglia, è diventata immediatamente un caso e ha indignato l’opinione pubblica più di qualsiasi altra tra le centinaia che compongono la Spoon river carceraria italiana: quella di un giovane di appena 31 anni, fermato per possesso di modiche quantità di sostanze stupefacenti e rimbalzato per una settimana tra caserme, carceri e ospedali. Una fine cui nemmeno la recentissima sentenza che ha scaricato le responsabilità sui medici che l’hanno avuto in cura negli ultimi giorni è riuscita a dare una risposta esauriente. Dal giorno della morte di Stefano Cucchi, qui dentro sono passati i politici della commissione parlamentare d’inchiesta che il 17 marzo del 2010 aveva sostanzialmente imputato ai medici che lo avevano avuto in cura di non aver compreso quanto le condizioni del giovane fossero gravi, mai un giornalista e tantomeno un fotografo. All’indomani del giudizio di primo grado che, il 5 giugno scorso, ha condannato cinque medici del Pertini per omicidio colposo e un sesto per falso ideologico, assolvendo gli altri imputati - tre infermieri e tre guardie penitenziarie - uno dei dottori condannati, Stefania Corbi, aveva scritto una lettera - pubblicata dal manifesto - in cui, esprimendo solidarietà alla famiglia del ragazzo, sostanzialmente diceva: “Non siamo degli aguzzini, non abbiamo lasciato morire Cucchi, l’ospedale non è un lager, non vogliamo essere equiparati a chi è accusato di pestaggio”. E concludeva invitando a venire all’ospedale per “verificare personalmente chi siamo e come lavoriamo”. L’ospedale - carcere La dottoressa Corbi mi accoglie all’ingresso del reparto. È da poco terminata una cerimonia in ricordo di un agente, Salvatore Corrias, morto il 20 ottobre scorso in una maniera assurda: schiacciato dal pesante cancello d’ingresso che era andato ad aprire per consentire l’uscita di un’ambulanza. Una delle tante morti bianche che oliano le statistiche ma non fanno notizia, nella loro banalità e ripetitività. Corrias aveva 46 anni, sarà ricordato da una lapide nel giardinetto davanti al reparto. Insieme a lei c’è il primario Patrizio Aloisio, uno dei fondatori di questa struttura che ha due soli simili in Italia: nell’ospedale San Paolo di Milano e nel Belcolle di Viterbo. L’unica, sostanziale differenza è che la Medicina Protetta del Pertini non è integrata nell’ospedale civile ma ne rappresenta un corpo separato, quasi estraneo. È un ospedale - carcere, circondato da alte inferriate e cancelli blindati, inaccessibile, scollegato dagli altri padiglioni: il tunnel che avrebbe dovuto metterlo in comunicazione con l’ospedale civile non è mai stato completato. La conseguenza più immediata è l’impossibilità di ricoverare i malati più gravi - quelli infettivi in fase acuta o con complicazioni, a rischio di vita o psichiatrici. In caso di emergenza, infatti, è necessario chiedere l’intervento di una delle due ambulanze in dotazione non esclusiva - un servizio privato che costa 70 euro a trasporto. I tempi di attesa, arrotondati dal primario in un “superiori ai dieci minuti”, in realtà sono mediamente di mezzora (“ma di recente per un trasporto urgente abbiamo aspettato tre quarti d’ora”). Se si aggiungono i tempi di trasporto verso il Fatebenefratelli, a 11 km di distanza, o al Policlinico, 5 km più in là, diventa evidente il perché un malato in condizioni gravissime qui non può essere ricoverato. Fatta questa premessa, appare evidente che, se Stefano Cucchi fu portato qui, dopo una tappa al pronto soccorso del Fatebenefratelli, non fu considerato in pericolo di vita. “Se fosse stato un codice rosso non avremmo potuto accettarlo”, dice il dottor Fierro. La dottoressa Corbi non era di turno al momento del ricovero, però ha avuto a che fare con Stefano nei giorni seguenti, ed è stata lei ad annunciare alla famiglia il decesso (“quando ho visto che stava per comunicarglielo un agente mi è sembrato doveroso che fosse un medico a farlo, di persona”): “Non era collaborativo, certo. Mangiava poco ed era sicuramente molto magro. Mi aveva detto di essere celiaco e che non poteva mangiare patate e riso. Gli avevo portato la lista degli alimenti consentiti per mostrargli che invece poteva, e alla fine mi aveva detto: allora un po’ di riso in bianco lo mangio. La sera prima del decesso aveva incontrato anche una volontaria di un’associazione che lavora con i detenuti. No, non ci aspettavamo proprio che morisse”. E la frattura della terza vertebra sacrale? I lividi sul volto e sul corpo? I periti del tribunale hanno stabilito che possono essere compatibili con una caduta dalle scale, come da versione di polizia, o con un pestaggio, cosa di cui sono certi familiari e amici. I medici che lo hanno avuto in cura non esprimono giudizi, ma lasciano intendere come non sia un caso raro che persone fermate “in flagranza di reato” arrivino malconce nel reparto di Medicina Protetta, magari perché neutralizzate in maniera “energica” o portate via con la forza dopo una colluttazione con gli agenti. Questo particolare potrebbe essere alla base del mancato stupore dei sanitari per come arrivò conciato Stefano Cucchi. “Non sono Mengele” Mi rendo conto che i medici e gli infermieri del reparto Medicina Protetta del Pertini si portano dentro un peso che è come un macigno. Non tanto per la condanna, quella negligenza e quegli errori che hanno fatto propendere i giudici di primo grado per l’omicidio colposo, quanto per l’onta del sospetto di esser stati conniventi con un meccanismo repressivo che ha annientato il povero Cucchi, per la semplificazione mediatica e un po’ populista che ha costruito attorno a loro la figura del “mostro”. Non da ultimo, per la sensazione di esser diventati dei capri espiatori: unici colpevoli in un processo che non è riuscito a venire a capo di nulla. Com’è morto Stefano Cucchi? È stato picchiato dopo il fermo? E, se sì, da chi, dove e quando? Cos’è accaduto in quella settimana di passione in cui il giovane di Torpignattara ha girovagato per caserme, carceri, pronto soccorso e ospedali? Ci sono state reticenze e omissioni oltre che negligenze, qualcuno non ha fatto il suo dovere fino in fondo? Ilaria Cucchi, sorella del giovane deceduto, ha detto a caldo dopo la sentenza, senza attendere le motivazioni: “È stato un processo a Stefano, alla sua magrezza e alle sue scelte”. Poi, rivolta ai dottori: “Ne risponderanno alla propria coscienza. L’Anaao Assomed, associazione di rappresentanza dei medici, non ha avuto dubbi nel prendere le difese dei condannati: “Sono un capro espiatorio, le loro condanne sono un alibi per lo Stato”. A loro dire, la vicenda di Cucchi ha distrutto il reparto. Ne ha minato la serenità lavorativa, smembrato il gruppo di lavoro. “Da quando abbiamo aperto, nel 2005, qui sono state curate 2.700 persone e, né prima né dopo quel tragico episodio, ci sono state morti sospette o casi di malasanità “, racconta il primario. La gran parte dei ricoveri avviene per problemi cardiologici o ortopedici. Molti pazienti, pur se in giovane età, sono segnati dalla vita che conducono, e il loro stato generale di salute ovviamente ne risente. Il dottor Aloisio mostra pochi dubbi: “Il 40 per cento delle persone che vengono ricoverate qui sono in attesa di giudizio, di regola si tratta di tossici, ladri di polli e immigrati clandestini. Basterebbe abolire tre leggi per deflazionare le carceri e pure questo reparto”. Tre leggi: la Bossi-Fini per quanto riguarda l’immigrazione clandestina, la Fini-Giovanardi sulle droghe e la ex Cirielli sulla recidiva. Al giornalista non è consentita la possibilità di parlare con nessun detenuto, né al fotografo di immortalarli, anche per ovvie ragioni di privacy. Affisse alle pareti ci sono alcune lettere: fogli di quaderno vergati a penna da pazienti che esprimono riconoscenza e gratitudine nei confronti di medici e infermieri. Altre sono conservate in un cassetto. “Sono stato ricoverato nel luglio del 2009, quindi in tempi non sospetti, prima della morte del povero Cucchi. Entrando la prima cosa che mi ha colpito è stata la pulizia e l’igiene sia della sezione sia della stanza - cella dove venni ubicato, pensavo che mi avrebbero visitato l’indomani ma dopo poco si presentarono medici e paramedici, con cortesia si sono qualificati lasciandomi di stucco per la gentilezza con cui mi trattavano”, scrive un ergastolano. Tutto il personale civile ci tiene a ribadire la loro distinzione dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria: “Noi siamo medici, non chiediamo a nessuno di quelli che vengono ricoverati il fascicolo penitenziario, per noi sono persone da curare e basta. In passato abbiamo avuto delle liti terrificanti con la polizia penitenziaria, proprio perché consideravano il paziente come un detenuto”. Rifiutano in toto il “teorema” secondo il quale loro avrebbero potuto essere l’ultimo anello di una catena repressiva che ha portato alla morte di Cucchi. Il problema è a monte e non dipende da loro. La struttura è stata costruita con una filosofia “punitiva”: ci sono le sbarre e i bracci come in un qualsiasi carcere, dunque regnano le logiche focaultiane del “sorvegliare e punire”. “È assurdo che i malati vengano ricoverati in isolamento “, dicono i medici, che sostengono di aver perso “la battaglia per avere le porte sempre aperte e consentire ai malati detenuti di potere uscire almeno nel corridoio”. Per questo spesso i detenuti firmano per farsi dimettere dall’ospedale e tornare in carcere. Preferiscono la calca da suk nelle ore di punta alla solitudine alienante di una asettica cameretta blindata. “Perché avremmo dovuto accanirci proprio con il povero Stefano Cucchi? Per ogni medico la morte di un malato è una sconfitta”, dice Aloisio, che in realtà a quel tempo non era lì e con il caso Cucchi non ha nulla a che vedere. Il primario era il dottor Aldo Fierro. Anche lui è fra i condannati e, come gli altri, non entra nel merito della sentenza e neppure la contesta: per quello ci saranno gli altri gradi di giudizio. Chiede solo che gli venga restituito l’onore perduto: “Quello che ci offende è il fattore umano: non vogliamo essere considerati dei delinquenti che si sono accordati per uccidere qualcuno. Nessuno di noi è Mengele”, dice infervorandosi. Poi prosegue: “Questa struttura è stata totalmente destabilizzata, ma ciò pare non interessi a nessuno. Solo il carcere di Rebibbia è il più grande d’Europa. Se dovesse essere chiusa, i detenuti romani dove andrebbero a finire?” Un’ulteriore domanda meriterebbe una risposta: si riuscirebbero a evitare altre morti come quella di Stefano Cucchi? Aperto nel 2005, può ospitare 22 malati Realizzata su un progetto di fattibilità che risale al 1996, grazie ai finanziamenti della Regione Lazio, la struttura di Medicina protetta è in funzione dal 26 luglio 2005 e oggi può ospitare fino a 22 malati. Dipende direttamente dall’Asl RM B. Ogni detenuto occupa una camera singola, protetta, con servizi igienici annessi. Per gli interventi chirurgici, inoltre, è presente una camera operatoria al piano terra mentre nel reparto è compresa tutta la diagnostica pre-operatoria, la preparazione all’intervento e il successivo decorso post operatorio. Il reparto protetto del Pertini oggi è una Unità operativa all’avanguardia nella gestione del paziente proveniente da realtà carcerarie ed è stato concepito per accogliere, in qualsiasi istante, pazienti di diverso sesso, di qualsiasi regime restrittivo (compreso il 41 bis e i collaboratori) e di tutte le patologie stabilite dal Protocollo d’intesa siglato dalle due Amministrazioni. Vi vengono ricoverati detenuti provenienti dagli istituti penitenziari di tutta la Regione. 26 suicidi tra le sbarre dall’inizio dell’anno Dall’inizio dell’anno sono 83 le persone morte in carcere: 26 per suicidio, 13 per cause “da accertare”, casi nei quali è stata aperta un’inchiesta, e altre 44 per malattia. Sono i dati registrati dall’Osservatorio permanente sulle morti in carcere di Ristretti Orizzonti. Gli ultimi due suicidi a Napoli: A.E., 29 anni, si è impiccato utilizzando un cappio ricavato dai propri pantaloni. Era detenuto nel Reparto di osservazione psichiatrica del Complesso penitenziario di Napoli Secondigliano. Nel padiglione Livorno del carcere di Poggioreale si è invece ucciso, impiccandosi con una striscia di lenzuolo, un 38enne di origini casertane. Francesco Smeragliuolo, invece, arrestato il primo maggio per rapina, è morto sabato 8 giugno nel carcere di Monza per arresto cardiocircolatorio. Aveva 22 anni. Giustizia: il 90% delle detenute ha un figlio, un terzo di loro rischia di finire dentro di Stefania Prandi Il Fatto Quotidiano, 12 luglio 2013 “Mamma è in prigione” (edizioni Jaka book, 15 euro) è il risultato di un'inchiesta lunga un anno realizzata dalla giornalista Cristina Scanu, costruita attraverso gli incontri con le recluse e i loro bambini. Vite difficili di donne che condizionano irrimediabilmente anche quelle dei loro piccoli. Un viaggio all’interno delle carceri italiane per fare luce su un aspetto spesso trascurato, che riguarda la condizione delle donne detenute, il 90% delle quali sono madri di uno o più figli, nella metà dei casi minorenni. “Mamma è in prigione” (edizioni Jaka book, 15 euro) è il risultato di un’inchiesta lunga un anno realizzata dalla giornalista Cristina Scanu, costruita attraverso gli incontri con le recluse, i loro figli e con chi nelle prigioni ci lavora (educatori, volontari, direttori, assistenti sociali, agenti di polizia penitenziaria). Di donne e carcere si parla poco, anche a causa della ridotta percentuale femminile, che rappresenta il 5% del totale. Pur essendo “soltanto” 2.820, però, le donne detenute hanno una serie di problemi legati soprattutto alla relazione con i figli. Anche se non ne hanno colpa, 60 bimbi stanno trascorrendo i primi 3 anni di vita dietro le sbarre, in spazi fatiscenti, sovraffollati e malsani (4 detenuti su 10 soffrono di una malattia infettiva). Alcuni sono nati in prigione, altri sono stati portati dietro le sbarre per un essere tenuti lontani dalle madri. Il giorno del loro terzo compleanno si consuma il distacco: vengono affidati a parenti, a volte ai padri ma spesso ai nonni (molte detenute hanno compagni o mariti a loro volta in carcere), oppure messi in istituti. Il carcere e la separazione - a quell’età impossibile da capire - li segnano per sempre, come spiegano le psicologhe e le assistenti sociali intervistate da Scanu, creando ritardi nell’apprendimento e un profondo disagio emotivo. Ci sono due leggi, in particolare, che cercano di regolamentare questa situazione. La prima è quella dell’8 marzo 2011 che prevede “che le donne con figli piccoli possano godere di benefici come la possibilità di assistere e curare la prole che ha meno di dieci anni con la detenzione domiciliare speciale e il differimento dell’esecuzione della pena fino all’anno di vita del neonato per poterlo allattare”. Questa norma, però, non vale per le donne recidive, che sono una buona parte del totale. E tra quelle che potrebbero usufruire dei domiciliari, ce ne sono parecchie che non hanno una casa dove andare (come accade a molte straniere). La seconda, che entrerà in vigore il primo gennaio 2014, “prevede che le mamme incinte o con bambini fino a sei anni, se imputate, non possano essere sottoposte a custodia cautelare in carcere, salvo esigenze di eccezionale rilevanza. Per le condannate è prevista la possibilità di scontare un terzo della pena ai domiciliari o in istituti di cura o a custodia attenuata, purché non abbiano compiuto particolari delitti”. Fino a oggi, scrive Scanu, l’unico spazio in Italia creato apposta per permettere alle madri con figli piccoli di scontare la pena fuori dall’ambiente angusto del carcere è l’Icam, l’Istituto a custodia attenuata di Milano (la Lombardia è la regione con maggior numero di detenute) che ha ospitato, dal 2007 al 2011, 167 mamme e 176 bambini. Esistono progetti simili in altre città ma l’unico che sarà realizzato in tempi brevi è quello di Venezia. A causa dei tagli degli ultimi governi sarà difficile che nascano presto strutture simili. La scure che si è abbattuta sulle carceri penalizza anche i bambini che in prigione ci sono già: a Rebibbia per anni è stato attivo un servizio che permetteva ai piccoli di frequentare l’asilo nido comunale esterno (come avviene a Genova, Milano, Venezia e Torino), ma “dal gennaio 2013 è stato interrotto perché sono finiti i soldi per il pulmino”. In prigione le donne ci finiscono soprattutto per furti, scippi, reati legati al consumo di stupefacenti, rapine. La maggior parte (ma questo riguarda tutta la popolazione carceraria), prima di ritrovarsi in cella viveva già in condizioni di disagio e marginalità sociale. Il 34% delle detenute ha il diploma di scuola media inferiore mentre il 15,5% la licenza elementare. Tra di loro molte sono straniere: non essendo regolarmente residenti in Italia e non avendo denaro, non riescono nemmeno ad avvalersi del gratuito patrocinio e devono affidarsi a un avvocato d’ufficio, presente solo alle udienze, che cambia in continuazione e raramente conosce la loro storia giudiziaria. Vite difficili, ricorda Scanu, che condizionano irrimediabilmente anche quelle dei bambini: secondo Eurochips (il network europeo per i bambini che hanno genitori in prigione) un terzo dei figli di detenuti è destinato a finire in carcere a sua volta. Giustizia: Fedeli (Pd); trovare i fondi per strutture alternative adatte a madri e bambini Adnkronos, 12 luglio 2013 “La reclusione infantile è un problema sociale che richiede uno sforzo collettivo per individuare soluzioni per garantire un’infanzia serena ai figli delle detenute”. Lo ha dichiarato Valeria Fedeli, senatrice del Pd e vice presidente del Senato. “In prigione, infatti, vivono insieme alle detenute all’incirca 70 bambini di età inferiore ai 3 anni, solo una parte degli oltre 200 bambini della stessa età figli di detenute”. “Con la nuova legge 21 aprile 2011 n. 62 le detenute hanno la possibilità di tenere presso di loro i bambini in strutture non carcerarie fino ai 6 anni. Tali strutture, i cosiddetti Icam, sono un esempio virtuoso e modello da far crescere ma, purtroppo, a oggi non esistono in numero sufficiente. Occorre trovare i fondi necessari per accrescerne il numero - conclude Fedeli - perchè è in gioco il futuro di bambini che non hanno colpe e cui lo Stato deve garantire una buona crescita”. Giustizia: è bufera nell’Arma sul caso del tunisino 36enne morto dopo l’arresto a Sanremo di Pietro Zampedroni www.puntosanremo.it, 12 luglio 2013 Carabiniere invia una foto che ritrae Bohli Kaies riverso a terra in caserma: “Ecco come lo ha massacrato”. Sotto accusa, da parte di un collega, uno dei carabinieri che aveva effettuato il concitato arresto in quel di Riva Ligure. La vicenda della morte del tunisino Bohli Kaies sta assumendo toni a dir poco allarmanti per gli equilibri interni all’arma dei Carabinieri ligure. Il nordafricano, come noto, aveva perso la vita circa due ore dopo essere stato arrestato a Riva Ligure, sorpreso a spacciare eroina vicino ad un supermercato. Un arresto concitato, una colluttazione con i Carabinieri e, infine, la morte. Sospetta. L’autopsia ha confermato la presenza di ecchimosi sul suo volto e, sul corpo, segni dell’acceso scontro con i militari. Ma, come aveva detto lo stesso procuratore Roberto Cavallone, quella di Kaies rimane “una morte inspiegabile”. Ora, però, spunta un nuovo elemento che getta nuova benzina sul fuoco. Qualche giorno fa, da una casella mail anonima, è partito un messaggio di posta con allegata una fotografia che ritrae Kaies riverso a terra in caserma a Santo Stefano al Mare. Il testo recita: “Ecco come lo ha massacrato”. Chi? Chi lo ha massacrato? E perchè? Come? La fotografia è stata scattata da un carabiniere, evidentemente presente al momento dell’arrivo di Kaies in caserma. Nell’immagine si vede il tunisino sdraiato a terra, privo di sensi. Così lo hanno trovato anche i soccorritori del 118 intervenuti su richiesta della caserma stessa. La denuncia del militare, quindi, sarebbe la conferma che Kaies è stato pestato prima di giungere in caserma? Che sia stato un arresto concitato è cosa nota. L’uomo, infatti, era conosciuto come una “testa calda” e, come ha confermato lo stesso procuratore Cavallone, ha opposto resistenza al fermo, tentando la fuga e cadendo da un guard rail nel tentativo di scappare. Ecco spiegate le ecchimosi presenti sul suo corpo. Ma, forse, c’è qualcosa di più. Qualcosa che quel carabiniere ha visto e ha voluto testimoniare con una mail e una fotografia. La vicenda del “corvo” interno all’arma si inserisce in un quadro ben poco rassicurante, tra una busta con proiettili indirizzata alla caserma di Santo Stefano al Mare e intercettata a Genova (all’interno era scritto il messaggio “Questi sono per chi ha ucciso Kaies, la pagherà”) e il conseguente trasferimento ad altra caserma del carabiniere al quale era indirizzata la missiva. E poi il trasferimento improvviso del comandante provinciale Colonnello Alberto Minati. Un quadro allarmante che, da giorni, sta causando più di un mal di pancia negli uffici dell’arma. Procuratore: nessuna foto della vittima in caserma (www.riviera24.it) Il procuratore interviene sulla notizia della presunta esistenza di una foto postata da un carabiniere su Facebook, del tunisino morto in caserma a S. Stefano. Lo stesso carabiniere avrebbe scritto, come didascalia: “ecco come hanno massacrato il tunisino”. “Non siamo al corrente dell’esistenza di alcuna fotografia, non c’è alcuna inchiesta aperta e resta il fatto che se questa foto davvero esiste, chi ce l’ha è pregato di tirarla fuori”. Così il procuratore di Sanremo, Roberto Cavallone interviene sulla notizia pubblicata oggi da un quotidiano che parla dell’esistenza di una fotografia pubblicata su Facebook, e poi sparita dalla circolazione, che ritrarrebbe lo spacciatore tunisino Bohli Kayes (morto successivamente all’arresto, il 6 giugno scorso a Riva Ligure) ormai esanime nella caserma dei carabinieri di Santo Stefano al mare, dov’era stato portato. Fotografia che avrebbe avuto come didascalia la scritta “Ecco come hanno massacrato il tunisino”. Al momento, dunque, questa fotografia non esiste e la vicenda rimane soltanto il frutto di un sentito dire. Di qualcuno che afferma che un non meglio specificato carabiniere avrebbe postato la foto sul proprio profilo Facebook (ma che poi l’avrebbe cancellata), accusando il collega (che procedette all’arresto) di aver massacrato il tunisino, che allo stato degli atti non sarebbe stato ammazzato ma sarebbe morto per cause tuttora in fase di accertamento da parte della Procura di Sanremo, che all’epoca aprì un fascicolo con la dicitura “atti non costituenti reato”. La verità sulla morte di Bohli è contenuta nell’autopsia, effettuata dalla dottoressa Simona Del Vecchio, il cui esito degli esami tossicologici e istologici, assieme al referto, dovrebbe pervenire entro il prossimo 7 agosto (sessanta giorni di tempo dall’esame autoptico). Nel parlare con i giornalisti, oggi, il procuratore di Sanremo ha confermato di aver esaminato il corpo della vittima subito dopo il decesso e di non aver riscontrato segni di violenza tali da essere compatibili con l’omicidio. Si parla soltanto della presenza di lievi escoriazioni agli arti inferiori e superiori e di un’ecchimosi di circa un centimetro e mezzo sullo zigomo, compatibili con la colluttazione con i carabinieri e con la caduta per strada, durante la fuga, da un guard rail che tentò di scavalcare la vittima. Per quanto riguarda le due lettere anonime intercettate al centro smistamento postale di Genova, indirizzate al carabiniere che procedette all’arresto di Kayes e all’informatore di quest’ultimo, il procuratore Cavallone fa sapere che gli atti non sono stati ancora trasmessi dalla Procura di Genova a quella di Sanremo e che, quindi, rimane tutto fermo. Pusher morto dopo l’arresto, caccia al cellulare della foto (Secolo XIX) L’inchiesta è saldamente in mano al procuratore capo di Genova Michele Di Lecce. È un caso scottante, dalle implicazioni ancora tutte da sondare quello delle minacce e dei veleni seguiti alla morte sospetta del pusher tunisino, Kaies Bohli, 36 anni, stroncato da un malore poco tempo dopo il suo arresto, la sera dello scorso 5 di giugno. Mentre è a Sanremo che si cerca di dare una spiegazione a quella tragedia, a partire dall’esito dell’autopsia ancora da acquisire agli atti, è nel capoluogo ligure che sarebbe confluita l’inchiesta sul “corvo” e sulla foto misteriosa diffusa da un ignoto nei giorni successivi al fatto. Si tratta dell’immagine, al centro del caso rivelato ieri dal Secolo XIX, che ritrae il pusher disteso sul pavimento della caserma di Riva Ligure, con una giacca dell’Arma ripiegata a cuscino. E che è stata spedita a un elenco top secret di destinatari. Lo spacciatore è ferito ma ancora in vita. Ma il “corvo” che sta dietro l’obiettivo aggiunge una didascalia a commento alla foto: “Così l’ha massacrato”. Frase ambivalente sulla cui interpretazione verte una parte non secondaria dell’inchiesta. Inchiesta che si sta concentrando in queste ore sulle ricerche dell’autore dello scatto fotografico. Primo. L’immagine è stata ripresa da un telefonino. Ed è questo il punto di partenza degli accertamenti. Nelle ore successive al ritrovamento dell’istantanea, sono stati disposti accertamenti sui cellulari di servizio, ma a quanto pare le ricerche hanno dato esito negativo. Ma gli inquirenti non si sono fermati qui. E avrebbero acquisito, o sarebbero in attesa di ricevere, i tabulati dei numeri compresi nelle celle a cui fa riferimento la caserma di Riva Ligure. Come è noto gli investigatori, grazie alla tecnologia della telefonia mobile, sono in grado di ottenere l’elenco dei numeri di tutte le schede sim presenti insieme ai rispettivi apparecchi in una data area. Questo sulla base degli impulsi che i cellulari inviano durante gli spostamenti ai veri ripetitori presenti sul territorio. Ed è proprio a partire da queste informazioni che si sta cercando di dare un nome all’autore della fotografia. Nella caserma, secondo quanto appurato dai primi accertamenti, erano presenti solo alcuni carabinieri e i militi di una pubblica assistenza, chiamati in aiuto del detenuto ferito. Dal momento che i soccorritori sono risultati estranei alla questione - foto, le ricerche si stanno concentrando su appartenenti all’Arma. Di più. Le indagini sul “corvo” sono destinate a intrecciarsi con quelle relative ai tre proiettili che sono stati indirizzati a uno dei carabinieri autori del movimentato arresto (subito trasferito per ragioni di sicurezza), in una lettera minatoria intercettata dagli investigatori al centro di smistamento della posta di Genova Brignole. Una delle ipotesi sul tavolo del procuratore capo Di Lecce è che a spedire la missiva “armata” possa essere stata la stessa persona che ha scattato la foto al ferito. E che il tutto rientri in un regolamento di conti “avvelenato” tra colleghi. Al momento si tratta, è bene precisarlo, di una mera ipotesi investigativa che non esclude altre possibili piste e non esaurisce di certo gli accertamenti in corso. Il dato indubbio è che la questione viene seguita con la massima attenzione dalle due Procure di Genova e Sanremo. Tra le cause della morte del pusher sarebbero state escluse le lesioni trovate sul corpo del tunisino. Ecchimosi compatibili con la colluttazione ma non effetto di colpi mortali. Morì dopo l’arresto, l’ora del “corvo” (Secolo XIX) Una morte sospetta, una foto agghiacciante e un “corvo” in caserma. Tutto nasce lo scorso 5 giugno, a Riva Ligure. Il caso è quello di Kaies Bohli, 36 anni, pregiudicato tunisino, deceduto all’ospedale di Sanremo subito dopo l’arresto. Sono le 19.05, una telefonata anonima al 112 segnala uno spacciatore all’opera, i carabinieri si precipitano nel piazzale del supermercato Lidl di Riva Ligure, Bohli - vecchia conoscenza delle forze dell’ordine - si dà alla fuga mentre fa scivolare a terra i cento grammi di eroina che ha in tasca. Poi il guard rail che non riesce a saltare, la caduta, il tentativo di sottrarsi all’arresto che sfocia in una colluttazione. I militari lo bloccano e lo caricano sull’auto di servizio. La caserma è ad appena cinquecento metri, ma durante il breve tragitto Kaies accusa un malore e perde conoscenza. Un’ora e mezza più tardi, il tunisino muore al pronto soccorso. L’autopsia scarta una lunga serie di ipotesi, ma non stabilisce le cause del decesso. Due settimane più tardi all’ufficio smistamento delle Poste di Genova viene intercettata una busta con tre proiettili e un biglietto: “Questi sono per chi ha ucciso Kaies, la pagherà”. La storia è questa ed è una brutta rogna. Ma a distanza di poco più di un mese, si aggiunge un nuovo, inquietante elemento che ha indotto la Procura di Sanremo ad aprire un altro fronte investigativo. Quello dedicato al “corvo”. Ovvero il carabiniere, ancora in via di identificazione, che in quella drammatica serata del 5 giugno, nell’atrio della caserma, mentre i colleghi chiedevano l’intervento di un’ambulanza, ha scattato almeno una foto con un cellulare. L’immagine cui stanno ora lavorando gli inquirenti, è cruda: come può esserlo la scena di un giovane vittima di una grave insufficienza respiratoria. Sotto la testa una giacca ripiegata che gli fa da cuscino. Sullo zigomo destro un’ecchimosi, diverse escoriazioni su entrambi gli avambracci. “Segni compatibili con la dinamica dell’arresto”, scriverà due ore dopo nel suo rapporto il medico legale. Una foto per documentare le condizioni del tunisino? Un’immagine da allegare alla relazione di servizio in attesa, nel caso, di trasmetterla alla polizia scientifica? No. Quello scatto resta senza un autore. Ma l’autore ha fatto di peggio: servendosi di un anonimo account di posta elettronica, ha inviato l’immagine a una serie di indirizzi (l’elenco è coperto dal segreto istruttorio) corredata da un commento: “Ecco come ha massacrato il tunisino”, chiamando in causa uno dei due militari che avevano operato l’arresto. A quel punto, la vicenda dei proiettili e quella della foto, hanno indotto i vertici dell’Arma a procedere all’immediato trasferimento del carabiniere: ragioni di sicurezza, è scritto nella motivazione. Il procuratore Roberto Cavallone, già alle prese con una inchiesta tanto delicata quanto spinosa (anche se non vi è conferma della presunta iscrizione dei due militari nel registro degli indagati), adotta la linea del silenzio: “Nel merito, non ho nulla da dire”. Imbarazzo e tensione, invece, nell’Arma. Chi sapeva della foto? E quanto tempo è trascorso prima che ne venisse informata la Procura? Cagliari: Buoncammino; leader rivolta trasferito a Lanusei. I familiari “siamo disperati” di Alessandro Congia Casteddu Online, 12 luglio 2013 “Ridatemi Mattia, vi prego, non ho i soldi per andare a fargli visita, gli mancano appena 4 mesi da scontare, riportatemelo a Cagliari. Lui non deve pagare per tutto quello che sta accadendo lì dentro. Sono disperata”. Ha gli occhi lucidi, accanto a lei c’è Silvio Pinna, residente in Via La Somme, da sempre in prima linea per difendere i deboli e chi per anni è considerato emarginato. Ha poca voglia di parlare e raccontare il suo dolore, il suo dramma, ma è sola, con quattro figli da sfamare, senza un lavoro. E il suo compagno, Mattia Deligia, ora è in carcere a Lanusei, trasferito d’urgenza insieme agli altri detenuti del carcere di Buoncammino, protagonisti qualche giorno fa, della clamorosa protesta inscenata dalle celle dell’istituto penitenziario. Nella breve ma significativa intervista, Claudia Pisano lancia un appello: “non ho notizie di Mattia - dice - non so come sta, so soltanto che è stato mandato a Lanusei, forse perché era scomodo, ha urlato tutto quello che succede dentro il carcere, le condizioni disumane, gli avevano promesso alcune misure restrittive più leggere ed invece nulla. È vero che deve scontare la sua pena per tentato furto, ma se è vero che il carcere deve insegnare qualcosa, non possono essere trattati come bestie lì dentro”. Martedì sera intorno alle 20, Casteddu Online ha seguito in diretta quello che stava accadendo dinnanzi al braccio maschile del penitenziario, la clamorosa protesta nella notte dei detenuti del carcere cagliaritano di Buoncammino: “Non siamo delle bestie” - hanno scritto in uno degli striscioni appesi alle celle. Hanno sbattuto le porte, le finestre contro le grate delle celle, con urla disperate che si sentivano sino al viale. “Ci siamo asserragliati nella cella 725, viviamo in condizioni disumane” - gridavano davanti alle famiglie - chi sta fuori deve sapere come stiamo qui dentro e in che condizioni siamo costretti a vivere. E intanto domani mattina venerdì 12 Luglio 2013, ore 11.00, davanti all’ingresso principale dell’istituto penitenziario di Buoncammino a Cagliari, il legale cagliaritano Annamaria Busia, terrà una conferenza stampa per illustrare alla stampa le iniziative urgenti per chiedere ai Parlamentari Sardi di intervenire urgentemente con la richiesta della modifica del 41 bis. Non solo, si parlerà anche di Uta e del problema di collocare i detenuti in regime del 41 bis nell’Isola. Problematiche inerenti il sovraffollamento, le condizioni disumane dei detenuti cagliaritani e non solo, ambienti malsani e situazioni di malessere sociale e condizioni disumane, sfociate l’altra sera con la protesta di chi deve scontare la pena senza adeguata assistenza anche sanitaria. Dopo il clamoroso segnale d’allarme di martedì sera, con i detenuti che hanno protestato bruciano lenzuola, sbattendo finestre e urlando attraverso le sbarre il loro grido di dolore, alcuni detenuti, tra cui Mattia Deligia che deve scontare 4 mesi di reclusione, sono stati trasferiti d’urgenza a Lanusei. La moglie di Mattia Deligia, Claudia, è disperata: 4 figli piccoli, disoccupata, abita nel quartiere popolare di Via Podgora: “Ridatemi Mattia - in lacrime - non posso permettermi di pagare il viaggio fino a Lanusei con i bambini - gli avevano promesso un regime carcerario meno duro, anche domiciliari o in qualche comunità, ma nulla. Lui e gli altri della cella hanno pagato per tutto, per la protesta dell’altra sera ed è stato allontanato. Sono disperata, aiutatemi”. Assieme a Claudia, ci sarà anche l’avvocato Annamaria Busia che cercherà di trovare una soluzione alla drammatica vicenda del post protesta, che accentuerà ancora una volta le drammatiche condizioni di detenzione del carcere. Macomer (Nu): il provveditore Gianfranco De Gesu “la chiusura del carcere non è decisa” La Nuova Sardegna, 12 luglio 2013 I programmi del ministero di Grazia e Giustizia non prevedono il carcere di Macomer nel circuito delle carceri sarde, ma va sottolineato anche che il ministro non ha ancora adottato nessun provvedimento che ne dispone la chiusura. Questo, in sintesi, è quanto è emerso ieri a Cagliari nel corso dell’incontro col provveditore regionale delle carceri, Gianfranco De Gesu, al quale hanno partecipato il sindaco, Antonio Succu, e l’assessore Giovanni Lai. Si tratta dell’incontro istituzionale che il sindaco aveva chiesto una settimana fa su mandato del consiglio comunale. Succu ha espresso la preoccupazione della città di Macomer per il possibile rischio chiusura e smantellamento della struttura carceraria. Ha poi chiesto al provveditore di intervenire presso il ministero per evitare che venga emanato un decreto di chiusura e di sollecitare l’amministrazione penitenziaria perché verifichi la possibilità di mantenere la struttura di Macomer integrandola con nuovi servizi anche innovativi. Tra le proposte avanzate una riguarda la possibilità di mantenere l’unità cinofila attualmente presente nel carcere e di istituire nella struttura una scuola di addestramento cani utile non solo alla polizia penitenziaria, ma anche alla polizia di Stato, che già la utilizza, ai carabinieri e alla guardia di finanza. Il sindaco e l’assessore Lai hanno anche ipotizzato la possibilità di riconvertire la struttura del carcere per consentire l’accoglimento - reinserimento dei detenuti pazienti degli ex ospedali psichiatrici giudiziari. “A questo proposito - ha detto il sindaco Succu, si chiederà quanto prima all’assessore alla Sanità, Simona De Francisci, di prendere in considerazione l’opportunità che offre la struttura di Macomer. Il suo utilizzo eviterebbe spese inutili per la costruzione di strutture ex novo in altre parti del territorio regionale”. L’obiettivo primario resta comunque il mantenimento delle funzioni attuali del carcere attorno al quale ruotano un centinaio di posti di lavoro tra quelli del personale e l’indotto. Alghero: il carcere senza nemmeno un educatore… 1 è in maternità e 4 sono in malattia di Andrea Massidda La Nuova Sardegna, 12 luglio 2013 Nel carcere di San Giovanni attualmente non risulta in servizio nemmeno uno dei cinque educatori che ci lavorano: a parte una di loro che è in maternità, tutti gli altri sono in malattia. Per stress, a quanto pare. A segnalarlo - proprio nel giorno dell’arrivo in città del ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri - è Salvatore Sanna, referente territoriale della Cisal funzione pubblica. Il quale avverte che se non si troverà un immediato rimedio alla vicenda la sua organizzazione sindacale è pronta a segnalare tutto alla direzione generale dell’amministrazione penitenziaria. “Gli educatori di un carcere - spiega Sanna - sono figure professionali molto importanti, si tratta di funzionari giuridico - pedagogici cui sono assegnati dall’ordinamento penitenziario compiti fondamentali nell’attività di trattamento e risocializzazione dei detenuti. È impensabile poterne fare a meno, dunque, così come sarebbe assolutamente assurdo se davvero tali assenze per malattia dovessero essere giustificate, come purtroppo ci risulta, da disagi correlati all’ambiente e all’organizzazione del lavoro”. Sanna non lo dice, ma la voce che circola insistentemente è che ci siano forti dissidi tra gli educatori e il direttore del penitenziario Elisa Milanesi, 48 anni, romana da tempo trapiantata in Sardegna, ad Alghero dal 2011. “Al momento - continua Sanna - non si conoscono le reali ragioni che hanno determinato questa sorta di epidemia, anche se si è appreso che in diverse occasioni alcuni componenti della cosiddetta area trattamentale, al termine della giornata di lavoro hanno dovuto far ricorso a cure mediche per eccesso di stress. Così - continua il sindacalista - ci chiediamo chi e che cosa abbia prodotto una tale situazione, specie in un istituto che soltanto qualche anno fa veniva indicato come carcere modello. E ciò anche grazie all’imprescindibile contributo di tutti gli educatori, da sempre impegnati con professionalità in diverse attività trattamentali che hanno consentito un importante collegamento tra i detenuti e la società esterna”. Sanna conclude la sua denuncia con alcuni interrogativi. “Ci chiediamo allo stato attuale chi si relazioni con i detenuti, chi si occupa delle loro istanze e chi porterà avanti le attività trattamentali. Sono domande che pretendono una risposta immediata, prima che la situazione degeneri: il disagio si potrebbe infatti estendere agli oltre 120 ospiti del carcere e a tutti gli operatori del comparto sicurezza. Non si può più far finta di nulla”. Palermo: lettera detenuti dell’Ucciardone “noi… cittadini reclusi in un carcere disumano” www.livesicilia.it, 12 luglio 2013 “La Costituzione italiana assegna al “carcere” non solo la funzione di espiazione della pena ma in primis il compito di recuperare alla società il cittadino italiano condannato, attraverso un percorso di ravvedimento, rieducazione e reinserimento nella società”. Lo scrivono i detenuti del carcere Ucciardone, in una lettera inviata alla massime cariche dello Stato. Che pubblichiamo. “Signor Presidente della Repubblica, Sigg.ri Presidenti, Sig.ra Ministro, ci rivolgiamo alla Vostra sensibilità perchè siano adottate le opportune misure, anche di carattere straordinario, volte ad eliminare, o quantomeno affievolire, le disumane condizioni in cui versiamo noi cittadini italiani reclusi presso l’Istituto di Palermo Ucciardone. Nonostante gli sforzi della Direttrice e l’umana comprensione da parte degli Agenti di Custodia di qualunque grado, il “sistema carceri” in Italia, e quello dell’Ucciardone in particolare, non può essere definito degno di uno stato civile. Oltre la pena detentiva che ricordiamo essere la privazione del bene più prezioso di un uomo, cioè la libertà, dobbiamo sopportare anche la condizione afflittiva di una pena accessoria che nessun Tribunale ci ha comminato: locali fatiscenti, spazi angusti (tre esseri umani in meno di 9 mq.), sistema sanitario anchilosato, assoluta mancanza di spazi e tempi di socialità, ma soprattutto nessuna iniziativa tesa a riscattare la coscienza dei cittadini italiani reclusi e favorirne il loro reinserimento nella società civile. La Costituzione italiana assegna al “carcere” non solo la funzione di espiazione della pena ma in primis il compito di recuperare alla società il cittadino italiano condannato, attraverso un percorso di ravvedimento, rieducazione e reinserimento nella società. In questo lo Stato italiano ha fallito trascinando nel suo fallimento anche la nostra dignità di uomini e cittadini. Ci auguriamo che le SS.VV. Prendano coscienza della grave situazione in cui tutti noi (in qualunque Istituto reclusi) stiamo versando, prendano il coraggio a due mani e promulghino una legge che conceda indulto e amnistia, senza curarsi che a beneficiarne possa essere anche il Presidente Berlusconi. Non è segno di civiltà sacrificare all’altare di uno solo, la dignità ed il futuro di oltre 20.000 cittadini che, vero hanno commesso errori anche gravi, ma hanno tutto il diritto alla benevolenza di uno Stato civile. Ci congediamo nella speranza che questa nostra appassionata richiesta trovi accoglienza nei Vostri cuori e nella Vostra azione ed esprimiamo i sensi del nostro rispetto a Voi uomini ed alle Istituzioni che così degnamente rappresentate”. I cittadini italiani reclusi nell’Istituto di Palermo “Ucciardone”. Verona: Tribunale di Sorveglianza accoglie ricorso di un detenuto contro sovraffollamento L’Arena, 12 luglio 2013 È in cella a Montorio da due anni e mezzo in celle giudicate inadeguate. Il Tribunale di sorveglianza accoglie il ricorso di un detenuto che lamentava le condizioni di sovraffollamento della struttura. È in carcere a Montorio dal 9 febbraio del 2011 per scontare una condanna a 4 anni e 5 mesi ma le condizioni in cui ha vissuto e in cui attualmente vive sono state ritenute dal magistrato di Sorveglianza non rispondenti a quanto stabilito dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo. E l’amministrazione penitenziaria dovrà provvedere quanto prima per far venir meno tali “degradanti condizioni”. Nel luglio 2009 la Corte che ha sede a Strasburgo, accogliendo il ricorso di un detenuto, aveva condannato lo Stato italiano a risarcire un cittadino dell’Est europeo obbligato a patire “condizioni di sovraffollamento carcerario in grado di avere ripercussioni sul diritto dei detenuti a non subire trattamenti disumani e degradanti”. Sorin N., rumeno di 32 anni, non sarà risarcito (perchè il magistrato ha rinviato la questione davanti al giudice del tribunale civile) ma nell’ordinanza notificata all’avvocato Emanuele Luppi che lo assiste il giudice Rosa Liistro ha ritenuto fondata la “doglianza inerente lo spazio disponibile all’interno della camera detentiva” poiché “il ricorrente ha avuto a disposizione, nelle celle in cui è stato ristretto, metri 4,33/3,12 quadrati lordi senza considerare l’ingombro della mobilia”. Così, accogliendo il reclamo, ha disposto l’invio del provvedimento al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria direzione generale detenuti, al Provveditorato regionale per l’amministrazione penitenziaria del Veneto e alla direzione della Casa circondariale di Montorio affinché vengano “adottate tempestivamente tutte le iniziative utili a garantire al ricorrente il rispetto del suo diritto”. E cioè, come stabilì la Corte Europea richiamando le direttive del Comitato per la prevenzione della tortura, che ciascun detenuto deve avere a disposizione 7 metri quadrati e trascorrere 8 ore al giorno fuori dalla cella. Questa la soglia ritenuta idonea ma la Corte individuò anche che la “soglia di minima gravità” non poteva essere inferiore a 3 metri quadrati “al di sotto del quale”, scrive il magistrato, “si considera automaticamente integrato il trattamento inumano e degradante, al di là dell’esistenza di soluzioni organizzative e trattamentali atte a temperare tale situazione detentiva”. Stando all’istruttoria fino al gennaio 2013 Sorin aveva cambiato 4 celle e in ognuna erano ospitate da due a 4 persone e ogni stanza misura 12,50 metri quadrati. Aveva anche lamentato di non poter svolgere attività lavorativa e di non disporre del minimo garantito per provvedere all’igiene personale. Il magistrato, ritenendo necessario verificare il fondamento della lamentela, aveva chiesto alla direzione di Montorio alcune precisazioni. “Le risposte non consentivano di dedurre con precisione quante ore al giorno il detenuto trascorre fuori dalla cella (e questo è un altro aspetto da tenere in considerazione per la violazione dell’articolo 3, ndr). Non vi è un registro ufficiale e attualmente Sorin è in cella con altre tre persone”. Dal dicembre 2011 è stato impegnato ad allestire il presepe, da agosto 2012 effettua le pulizie nella cappella come volontario e parte della giornata la impiega effettuare lavori di restauro. Non sufficiente per un “trattamento che non sia disumano e degradante”. Livorno: sull’isola di Gorgona l’omeopatia cura i reclusi e gli animali di Marco Verdone* Il Sole 24 Ore - Salute, 12 luglio 2013 Un luogo ricco di storia e di originali frontiere sociali, sanitarie ed etiche come l’isola di Gorgona (Livorno) dal 1869 ospita una casa di reclusione che ha sempre accolto persone detenute alle quali era consentito di lavorare con gli elementi fondamentali della natura (terra, piante, animali) o in altri settori utili alla vita dell’isola e della sua comunità. Nel tempo si è assistito all’evoluzione di un percorso innovativo. Negli anni 90 fu stabilito con la direzione del carcere un patto di qualità rispetto al benessere degli animali presenti per realizzare uno stato di salute che andasse oltre la sfera degli animali stessi e fosse veicolo educativo per gli umani che vi interagivano. Tutto questo non si sarebbe potuto realizzare senza l’introduzione della medicina omeopatica che ha fornito strumenti teorici e pratici per affrontare le complesse dinamiche che intervengono necessariamente in un carcere, a maggior ragione se questo ospita persone - detenute e non - che lavorano affrontando anche i disagi dell’isolamento. Come già documentato in una prima ricerca svolta per la Regione Toscana nel 2005, l’introduzione del modello omeopatico in Gorgona ha prodotto benefìci sul piano clinico, relazionale, produttivo, economico, formativo, ambientale. L’isola ha stabilito nuovi e fecondi scambi con il mondo esterno, come a esempio la realizzazione di quattro edizioni della Giornata mondiale dell’omeopatia, evento internazionale promosso dalla Liga medicorum homeopathica internationalis. Durante queste giornate sono stati affrontati i temi della salute in senso ampio, attraverso seminari interdisciplinari teorici e pratici e coinvolgendo anche la comunità - libera, reclusa e non umana - presente. Mentre la medicina omeopatica si andava consolidando nel settore veterinario è avvenuta un’inedita e interessante contaminazione culturale con il settore umano e alcuni medici dell’isola hanno iniziato percorsi formativi in medicine complementari (omeopatia, fitoterapia e agopuntura). Nel 2009 la Carta dei servizi del presidio sanitario di Gorgona, arricchendosi di un’ulteriore offerta terapeutica che diminuisce ancor più le differenze con la cittadinanza libera, così recita: “Avrai la possibilità di essere curato con la medicina omeopatica se utilizzi o vuoi utilizzare questa medicina complementare”. Un’altra tappa significativa è stato il convegno svoltosi sull’isola nel giugno 2011 “Gorgona tra utopia e realtà”, che ha confermato il valore dell’esperienza di questa realtà e il ruolo del lavoro e delle medicine complementari in carcere rispetto al diritto alla salute inteso come “stato di completo benessere fisico, psichico e sociale e non semplice assenza di malattia” in accordo a quanto espresso anche dall’Oms. Gorgona offre condizioni di vita qualitativamente più elevate rispetto agli standard delle carceri chiuse come testimonia, a esempio, anche il ridotto consumo di farmaci della popolazione detenuta rispetto ad altre realtà. Dopo il buon esito della prima e documentata fase di introduzione della medicina omeopatica per la cura degli animali dell’isola, è stato attivato nel 2012 un nuovo progetto, con la Regione Toscana e l’Asl 6 di Livorno, che coinvolge sia gli animali che gli umani (Progetto Ondamica) offrendo a questi ultimi, per la prima volta, la possibilità di accedere gratuitamente a visite e terapie con l’omeopatia e la fitoterapia. Inoltre sono previste attività di educazione alla salute con particolare riferimento alle medicine complementari. Oltre al risparmio economico per entrami i settori, lo scopo è di promuovere un modello di salute che tenga conto, come indica l’Oms, delle singole persone, della salute dell’intera società e infine anche delle relazioni rispettose tra gli umani e gli altri animali. In quest’ultima direzione si colloca la pubblicazione di una “Carta dei diritti degli animali di Gorgona”, ultima frontiera etica esplorata e che sta suscitando un inaspettato interesse in vista d’inediti scenari nei processi di pace e salute tra specie diverse. * Medico veterinario omeopata incaricato Casa Reclusione Gorgona Messina: appello dell’Osapp, necessario potenziare l’organico del carcere di Gazzi Gazzetta del Sud, 12 luglio 2013 “Con la recentissima operazione della magistratura peloritana che ha portato contemporaneamente nella casa circondariale di Messina altri 35 detenuti, il personale di polizia penitenziaria messinese è chiamato ad un immane sacrificio, perchè ora più che mai è ridotto a minimi termini”. “Con la recentissima operazione della magistratura peloritana che ha portato contemporaneamente nella casa circondariale di Messina altri 35 detenuti, il personale di polizia penitenziaria messinese è chiamato ad un immane sacrificio, perchè ora più che mai è ridotto a minimi termini”. Lo scrive, in una lettera inviata al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, la segretarie regionale del sindacato di polizia penitenziaria Osapp. “Abbiamo sempre rappresentato - si legge - la necessità di incrementare l’organico del corpo nell’istituto, ma sino ad ora poco o niente è stato posto in essere, con l’unica risultante di gravare oltre misura sugli ormai stremati poliziotti penitenziari rimasti in servizio”. “Per garantire sufficienti standard di sicurezza oltre che il godimento dei più basilari diritti soggettivi dei poliziotti penitenziari - conclude - si chiedono provvedimenti urgenti”. Chiavari (Ge): due detenuti in art. 21 usano Facebook, giudice revoca lavoro esterno Corriere Mercantine, 12 luglio 2013 Detenuti e Facebook, un binomio che oltre a far pensare al reinserimento sociale può significare guai, se non si rispettano le regole. Ad avere i problemi sono due detenuti scoperti ad usare il social network, durante i permessi di lavoro. Così un italiano e un peruviano, per non aver rispettato le regole relative all'uso di Internet, si sono visti revocare il permesso di lavorare all'esterno del carcere. Ora uno dei due tornerà alla sua attività lavorativa dopo aver tenuto una condotta adeguata, dopo la revoca, mentre l'altro deve attendere il benestare del magistrato di sorveglianza per poter riprendere l'attività esterna al carcere (articolo 21 dell'ordinamento penitenziario). La vicenda, che racconteremo per sommi capi e senza rivelare l'identità dei protagonisti, risale a diverse settimane fa. La scoperta dell'uso di Facebook da parte di due detenuti è avvenuta grazie ad un agente della Polizia penitenziaria che, fuori dall'orario di ufficio, stava chattando sul social network. Casualmente si è imbattuto in un profilo che ritraeva uno dei due detenuti conosciuti: uno dei quali aveva addirittura messo la propria fotografia e il suo vero nome nel profilo. L'agente, seppur sorpreso dalla scoperta ha approfondito, scoprendo, fra l'altro che il detenuto, che sta scontando una condanna per aver commesso un omicidio, aveva anche un altro profilo con il quale manteneva l'anonimato. E facendo un'ulteriore approfondimenti ha scoperto un altro detenuto che postava su Facebook durante la sua attività lavorativa esterna al carcere. Dopo la scoperta l'agente informava i superiori del carcere che, avviata un'inchiesta interna, faceva presente l'irregolarità al magistrato di Sorveglianza. Il giudice (titolare della giurisdizione in materia di diritti dei detenuti) così ha revocato ad entrambi il permesso di lavorare. Quanto commesso dai due detenuti non rientra in alcun reato penalmente perseguibile ma come si sa i detenuti non possono usare internet. Non lo possono usare sia coloro che sono in carcere ma anche coloro i quali hanno permesso di lavorare all'esterno. "Questa vicenda - commenta il segretario del Sappe (Sindacato autonoto Martinelli - è la dimostrazione che la Polizia penitenziaria la massima attenzione anche ed oltre al servizio stretto all'interno della Sezione. E dimostra, inoltre, che un agente della Polizia penitenziaria è in grado di poter svolgere i propri compiti con il massimo della professionalità. Ma c'è un altro aspetto da tenere in considerazione - termina Martinelli - a fronte dì questa vicenda; ossia il controllo che bisogna avere nei confronti di chi è stato messo in condizioni di poter lavorare al di fuori della struttura penitenziaria. Per queste persone occorre un'attenzione maggiore e costante". Frosinone: potrà laurearsi il detenuto da 30 e lode, aveva sostenuto 8 esami in carcere Corriere della Sera, 12 luglio 2013 Dopo aver negato il permesso, il giudice di sorveglianza ci ripensa: venerdì l’esame a Roma, accompagnato dai genitori. Va verso la laurea il detenuto di trentadue anni, di Ceccano, in Ciociaria, che mercoledì 10 luglio si era visto negare dal giudice di sorveglianza del tribunale di Frosinone il permesso per andare a Roma a discutere la tesi di laurea in Scienze politiche nella sede si una università telematica. Giovedì pomeriggio dal carcere di Frosinone, dove si trova recluso da dicembre del 20011 per rapina, è arrivata l’autorizzazione chiesta dall’avvocato Calogero Nobile. Così venerdì il trentaduenne, che ha sostenuto in carcere gli ultimi otto esami, potrà recarsi a Roma, senza scorta. Forse ad accompagnarlo saranno i genitori. Sul caso il senatore del Pd, Francesco Scalia, ha presentato un’interrogazione al ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri. “È una buona notizia - commenta l’avvocato Nobile - perché si dà la possibilità al mio assistito di completare il percorso di laurea che, una volta finita di scontare la pena, gli aprirà nuove prospettive. Fondamentale è stato il ruolo svolto dalla stampa che ha consentito di arrivare a questo risultato”. Il recluso a un passo dal dottorato è un uomo condannato a tre anni con l’accusa di rapina a extracomunitari. Una volta rinchiuso nell’istituto di pena del capoluogo ciociaro, nel dicembre 2011, si era dedicato a completare i suoi studi preparandosi da solo sui libri perché dal carcere non aveva potuto seguire le lezioni via computer. Il laureando aveva sostenuto nel penitenziario ciociaro, davanti a una commissione dell’università, gli ultimi 8 esami, conseguendo tra l’altro voti altissimi (alcuni 30 e un 30 e lode). Di fronte al rifiuto del giudice di sorveglianza verso l’istanza di permesso avanzata dall’avvocato difensore (che aveva chiesto di accompagnare il suo assistito anche con la scorta), il legale aveva annunciato un appello al ministro della Giustizia e al Consiglio superiore della magistratura. Non ce ne è stato bisogno. Roma: laboratorio sartoriale “Ricuciamo”, domani in passerella vestiti realizzati detenute Dire, 12 luglio 2013 Domani alle 21, presso la scalinata di Palazzo Colonna a Marino, si terrà la Prima Edizione “Fashion talent”, una sfilata di moda di stilisti emergenti, a cura dell’assessorato alla Cultura e Pubblica istruzione del Comune di Marino, durante cui sfileranno, insieme agli abiti di alta moda dell’atelier Minucci, i primi capi realizzati all’interno del carcere femminile di Rebibbia, a Roma, nel laboratorio sartoriale “Ricuciamo”. Il progetto, nato dall’associazione Gruppo idee e la Casa della famiglia città di Marino, ha permesso l’apertura di un laboratorio sartoriale stabile all’interno del carcere, dove alcune detenute stanno imparando un mestiere grazie alle insegnanti dell’Accademia Altieri - guidata da Giada Mucci - Adele Del Duca e Laura Zagaglia. Nel corso della sfilata delle modelle professioniste indosseranno i vestiti che per la prima volta escono dal carcere per far conoscere all’esterno questo importante progetto sociale. La linea di accessori e abiti ha il nome “Neroluce”, per simboleggiare come nel buio della condizione carceraria si possa ritrovare la luce grazie a progetti concreti. Alcuni accessori e altre piccole creazioni della detenute saranno invece in vendita durante tutto il weekend in occasione del Mercatino della creatività in piazza San Barnaba (oggi dalle 17 e domani dalle 10). Israele: quel bambino palestinese “arrestato” per un sasso di Adriano Sofri La Repubblica, 12 luglio 2013 Trattare un bambino di cinque anni e nove mesi, che piange spaventato, come se fosse un pericoloso nemico adulto, e umiliare suo padre davanti a lui e a causa di lui, non è solo un’infamia: vuol dire fare di quello e di tanti altri bambini, asciugate le lacrime, irriducibili e temibili nemici. È successo il 9 luglio a Hebron, il video è in rete da ieri, girato da un militante di B-Tselem. B-Tselem significa, dalla Genesi, “a sua immagine”, è una preziosa organizzazione israeliana per la difesa dei diritti umani nei territori occupati. Il bambino si chiama Waadi, il suo giovane padre Abu Karam Maswadeh. L’operazione è condotta da una decina di soldati e un ufficiale. Volevano portarlo via da solo - ha tirato un sasso all’auto di un colono, dicono; testimoni dicono che l’ha tirato a un cane - ma sua madre si è opposta, vuole che arrivi il padre, altri bambini, specialmente una minuscola e risoluta, lo circondano e lo incoraggiano. Arriva Karam e chiede: “Perché volete arrestare un bambino di cinque anni?” Ha tirato un sasso. Lui cerca di farli ragionare, invano. Li fanno salire sulla camionetta, li portano via insieme, Waadi piange e si stringe al padre. Li chiudono per mezz’ora in caserma. Poi i soldati ammanettano il padre e gli bendano gli occhi con una fascia bianca, e li portano a piedi, in una ostentata gogna, fino al checkpoint 56 (non so se sia un numero ordinale, certo Hebron è piena di check points), dove li trattengono un’altra mezz’ora. L’uomo di B-Tselem filma tutto, i soldati lo fotografano più volte, per intimidirlo: ma tutta la scena si svolge in una surreale tranquillità. “Mera routine”, osserverà un commentatore israeliano, aggiungendo: “Mero razzismo”. Arriva un ufficiale più alto in grado, il padre - che parla l’ebreo oltre all’arabo e l’inglese - è in grado di seguire i loro discorsi: l’ufficiale li rimprovera per averli arrestati platealmente davanti alle telecamere: danno d’immagine. Allora un soldato slega il padre, gli toglie la benda e gli dà dell’acqua. Padre e figlio vengono consegnati a poliziotti palestinesi, e subito rilasciati. Il video è un incidente, ma rivela che l’arresto di bambini e genitori e la loro consegna alla polizia è la norma, illegale, naturalmente. L’età minima per la responsabilità penale è di 12 anni. Nessun bambino israeliano che tirasse pietre a palestinesi è mai stato arrestato, e neanche gli adulti. Hebron, che per i palestinesi è Al Khalil, capoluogo della Cisgiordania meridionale, occupata dal 1967, sacra a tutte le religioni monoteiste, è abitata da più di 150 mila palestinesi, da 700 coloni israeliani, e più di mille soldati a loro difesa. A Hebron, nel 1994, Baruch Goldstein, medico colono dell’insediamento di Kiryat Arba, fece strage di palestinesi in preghiera nella moschea di Ibrahim - la tomba dei patriarchi: il primo attentato suicida avvenne proclamando di vendicare quella carneficina. Dicono che il viaggio a Hebron stringa il cuore. Che i soldati israeliani e i bambini palestinesi giochino come il gatto coi topolini. Che l’esercito scorti i coloni e i visitatori sionisti in incursioni sprezzanti ai quartieri palestinesi. Che le aggressioni per sradicare colture e forzare i palestinesi a lasciare altre terre ai coloni siano continue. Dall’alto della città vecchia divenuta un luogo fantasma, è stesa una gran rete per impedire ai rifiuti, i sassi, le bottiglie lanciate dagli haredim incattiviti di colpire i passanti palestinesi. Dicono che ai più fanatici piaccia pisciargli sopra, dall’alto. Molti anni fa c’era in Israele un gruppo di riservisti pacifisti che aveva scelto per titolo “Yesh gvul”, che vuol dire “C’è un limite”. Non so se il gruppo ci sia ancora. Il limite dovrebbe esserci, sempre, dovrebbe esserci un limite a tutto. Il 9 luglio è stato di nuovo superato. I cristiani sussultano specialmente alla vista di un giovane uomo incolpevole trascinato per le strade da armati con gli occhi bendati: gli ricorda un altro. E non c’era il bambino. Ma non occorre essere cristiani per sussultare. Ho letto i commenti sul sito di Haaretz, combattuti, alcuni orrendi, altri ammirevoli. Uno ha scritto: “Anch’io da piccolo ho tirato un sasso alle bambine. Mi hanno castigato e non l’ho fatto più”. Un altro ha risposto: “Hanno anche portato via tuo padre con gli occhi bendati?”. Russia: processo postumo; condanna per l’avvocato Magnitskij, morto in carcere nel 2009 di Nicola Lombardozzi La Repubblica, 12 luglio 2013 L’avvocato simbolo della lotta alla corruzione perse la vita in cella: “Era un evasore fiscale”. Il Morto è colpevole, e la condanna è l’unica possibile: la sua memoria non potrà mai più essere riabilitata. In una piccola aula chiusa al pubblico del tribunale Tverskoj, nella Mosca dello shopping e delle gallerie d’arte, il giudice Igor Alissov ha pronunciato ieri mattina una surreale e macabra sentenza contro Sergej Magnitskij, avvocato, morto nel 2009 probabilmente a causa di un pestaggio dei carcerieri della famigerata prigione dall’insolito nome di Matrosskaja Tishina (La Quiete del marinaio). Poco prima di morire si era detto disposto a rivelare nomi e cognomi di un sistema criminale di estorsioni alle grandi aziende, molto vicino allo stesso presidente Vladimir Putin. Proprio la denuncia di Magnitskij e i pesanti sospetti sul Cremlino hanno fatto di lui un simbolo e uno dei punti centrali delle recenti frizioni tra Russia e Stati Uniti. Obama in persona, colpito nella sua sensibilità da ex avvocato, aveva infatti dato il via a una procedura che ha portato alla famosa “lista Magnitskij”, un elenco di grandi personalità della politica e della finanza russa banditi dagli Stati Uniti perché ritenuti responsabili, da un’inchiesta indipendente, dell’omicidio in carcere del giovane accusatore. Un’interferenza che Putin non ha mai accettato e che lo ha convinto a pretendere dai suoi giudici una spericolata acrobazia sul diritto russo ma anche su tutte le procedure legali internazionali. Il più clamoroso processo nei confronti di un morto, fatto solo allo scopo di rimarcarne la colpevolezza, risale addirittura alla Roma dell’alto medioevo, nell’897, con il processo al cadavere di Papa Formoso voluto dal suo successore Stefano VI. Una macchia nella storia della Chiesa ricordata come “Il sinodo del cadavere”. Ma per il Cremlino questo processo era importante almeno come per Stefano VI più di mille anni fa. Serviva a certificare legalmente le parole che Putin ha sempre ripetuto più volte davanti alle proteste dei difensori dei diritti umani: “Magnitskij non era un difensore dei diritti di nessuno, ma solo un criminale inquisito dalla nostra procura per gravi reati fiscali”. E così ieri, dopo quattro mesi di processo, è arrivata la sentenza definita dal giudice “non rivedibile per eventuali richieste di riabilitazione”. Condannato invece a nove anni di carcere, l’altro imputato, il britannico William Browder. Vivo ma rifugiato nella sua Londra che non prenderà mai in considerazione la richiesta di estradizione già partita ieri sera stessa da Mosca. Magnitskij e Browder sono stati ritenuti colpevoli di organizzazione a delinquere e di evasione fiscale per quasi 150 milioni di euro. La loro disavventura cominciò nel 2008. Magnitskij, moscovita ma dipendente della azienda americana Firestone Duncan, rappresentava gli interessi in Russia del Fondo britannico Hermitage Capital Management del miliardario londinese Browder. Entrambe le aziende si ritenevano vessate da un gruppo di alti funzionari che continuavano a chiedere somme di denaro sempre più elevate basandosi su inesistenti reati fiscali. Magnistkij, che allora aveva 36 anni, denunciò un complotto e promise di fare i nomi dei ricattatori. Arrestato, fu rinchiuso nel vecchio carcere zarista della Butyrka per un anno intero. Denunciò pestaggi, pressioni e minacce per fargli ritrattare le accuse. Seguì il trasferimento nel centro di custodia cautelare di Matrosskaja Tishina e, poco dopo, la morte: giustificata dalle autorità carcerarie con una “improvvisa crisi cardiaca”. Browder investì molto denaro per montare un caso pur di avere giustizia. Inchieste giornalistiche, interviste, perfino un musical dedicato a Magnitskij e messo in scena con successo a Londra, mobilitarono l’opinione pubblica e attirarono l’attenzione di Obama. Mosca reagì con un’inchiesta interna conclusa con una lieve nota di biasimo per “scarsa attenzione” alla giovane dottoressa di turno quella notte. E davanti alle accuse degli Stati Uniti ha sempre risposto che si tratta di invenzioni senza fondamento. Per il Cremlino Magnitskij era solo un criminale. E la sentenza di ieri ha chiuso definitivamente il caso. Indonesia: rivolta nel carcere di Medan, cinque morti e centinaia di detenuti in fuga di Mathias Hariyadi Asia News, 12 luglio 2013 I carcerati hanno appiccato il fuoco e iniziato a lanciare oggetti contundenti. La protesta contro la mancanza di acqua ed elettricità è iniziata nel pomeriggio di ieri. Ma vi sarebbe anche una richiesta - disattesa - di uno sconto di pena per il Ramadan. Una parte dei detenuti è già stata catturata dalle forze di sicurezza. È di cinque vittime, di cui due guardie carcerarie, il bilancio parziale della rivolta nel Tanjung Gusta Detention Centre, a Medan, nella provincia di North Sumatra. La sommossa è iniziata alle prime ore dell’alba, quando almeno 500 detenuti - esasperati dalla continua mancanza di elettricità e acqua potabile nella casa circondariale - hanno iniziato a scandire frasi durissime contro la direzione, rovesciare oggetti e dare fuoco alle suppellettili e a qualsiasi altro oggetto a disposizione. I primi cenni di rivolta sono iniziati nel tardo pomeriggio di ieri, ma sono peggiorati nella notte; infine, i prigionieri hanno dato fuoco al carcere, mentre la polizia e le forze di sicurezza cercavano di riportare la situazione sotto controllo. Tuttavia, ancora alle prime ore dell’alba di stamane migliaia di detenuti continuavano a “occupare” l’area, con le forze di sicurezza pronte a intervenire con un blitz per riprendere il controllo del carcere. Pare che dietro la rivolta nel carcere - oltre ai problemi inerenti luce e acqua - vi sia la richiesta (rimasta disattesa) al ministero per i Diritti umani e la Legge, di una “riduzione” della pena detentiva; una richiesta formulata in vista del mese sacro di Ramadan, di digiuno e preghiera per i musulmani, e dell’anniversario della festa dell’Indipendenza. Il numero totale dei detenuti al carcere di Tanjun Gusta è di circa 2.600 persone; di questi almeno 200 hanno tentato la fuga durante la rivolta della notte, ma una buona parte è già stata catturata dalle forze di polizia e posta di nuovo sotto custodia. Al momento sono in atto le procedure di evacuazione. Esercito e squadre di soccorso hanno fatto il loro ingresso nella struttura, accolti dai carcerati che - in precedenza - avevano respinto un tentativo di irruzione della polizia. In Indonesia non è raro assistere a rivolte e proteste nelle carceri, note alle cronache per il sovraffollamento e gli abusi commessi dalle guardie, facili a fenomeni di corruttela e favoritismi verso alcuni detenuti. A fine febbraio 2012 un episodio simile aveva interessato la casa circondariale di Bali, teatro di una rissa cui era seguito un incendio doloso.