Giustizia: in attesa dell’amnistia… da tutta Italia è un quotidiano bollettino di guerra di Valter Vecellio www.lindro.it, 11 luglio 2013 Bisogna dare atto al ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri di essere persona che cerca di fare quello che dice e auspica, e soprattutto di non nascondere quello che pensa dietro fumosi ragionamenti. “Molte persone non dovrebbero essere detenute”, dice; e, data la fonte, tocca crederci; e dovrebbe essere fonte di turbamento, che queste parole vengano dal ministro della Giustizia. Il ministro, per quanto riguarda la costruzione di nuovi istituti penitenziari, promette che “alla fine dell’anno prossimo avremo 12mila posti in più”; e sarebbe un vero miracolo. Quanto alle misure introdotte per decreto per alleviare la situazione di sovraffollamento carcerario, “abbiamo 30mila detenuti in più” rispetto alla capienza complessiva nelle carceri italiane. “Le persone pericolose non usciranno dal carcere per effetto dei provvedimenti del governo. Escono persone che possono svolgere il loro lavoro all’esterno, possono pagare il loro debito alla società lavorando e rendendosi utili. Il decreto avrà effetto su 5-6mila persone nell’arco di due anni”. Parole pacate in replica a quanti in questi giorni hanno pronosticato sfracelli, paese preda a una nuova orda di delinquenti, e quant’altro. E l’amnistia? Cancellieri non elude la domanda e la questione: “Alleggerirebbe molto il lavoro degli uffici. Riguarderebbe solo reati molto leggeri, ma in ogni caso è problema talmente politico che lo rimetto del tutto al Parlamento. Molte persone sono nelle carceri, ma non dovrebbero starci. Tanti detenuti sono in attesa del primo giudizio, molti dei quali escono innocenti, quindi dobbiamo ragionare per dargli i domiciliari. Poi c’è chi va in carcere per 2-3 giorni e poi va ai domiciliari e questi passaggi aggravano sistema. Le norme che ci siamo dati servono solo a rendere più semplici le pene alternative. Persone pericolose non escono assolutamente”. Nel frattempo, le “cronache carcerarie” regalano quotidianamente paradossi in quantità. Andate, per esempio, a Frosinone. Si parla tanto di reinserimento del detenuto, di possibilità di seconda chance. Ecco, c’è un detenuto di Ceccano, in Ciociaria che l’articolo 27 della Costituzione (“Le pene non possono consistere in trattamenti contrai al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione”), lo ha preso in parola. È un detenuto di 32 anni, sconta una pena di tre anni per rapina ad extracomunitari. In cella ha deciso di terminare gli studi, si è preparato da solo sui libri, perché non ha potuto seguire le lezioni via computer. Ha sostenuto gli esami in cella, davanti a una commissione dell’università, nel libretto sono fioccati svariati trenta e un trenta e lode. Ora deve sostenere la tesi di laurea in Scienze Politiche. Niente da fare: il giudice di sorveglianza ha respinto l’istanza di permesso avanzata dall’avvocato difensore che aveva chiesto di accompagnare il suo assistito anche con la scorta. E vai a capire il perché di questo no. Non ne parla quasi più nessuno, ma ogni giorno, è un bollettino di guerra. L’altro giorno un agente della polizia penitenziaria in servizio nel carcere romano di Rebibbia viene trovato impiccato nel garage di casa; si accerta che si era tolto la vita quattro o cinque giorni prima. Le ragioni che possono aver indotto A.D.M. a farla finita possono essere le più varie. Ma è azzardato ipotizzare che forse non siano del tutto estranee le condizioni in cui lavorava, quello che ogni giorno, al di là della sua volontà e della volontà dei suoi colleghi, era costretto a vedere, subire, sopportare, forse perfino “fare”? È un interrogativo, un sospetto. Ad ogni modo, è il sesto caso dall’inizio dell’anno. A Piacenza la “notizia” che nel locale carcere sono stipati 313 detenuti dove al massimo dovrebbero essere 178. A Teramo sono 401 dovrebbero essere 300; in compenso il personale di polizia penitenziaria conta 160 unità, dovrebbero essere 220. In Lombardia la situazione è disperata e disperante, il garante regionale dei detenuti Donato Giordano invoca l’amnistia e il contestuale alleggerimento del lavoro delle Procure depenalizzando “tutta una serie di reati leggeri o prevedendo vere misure alternative che al momento non vengono concesse”. Le cifre: in Lombardia complessivamente i detenuti sono 9.228, la capienza delle 19 carceri lombarde è di 6.051. A Rimini la locale Camera Penale denuncia la situazione del carcere: “Detenuti in condizioni disumane tra topi, scarafaggi, celle allagate e sovraffollate…Celle allagate, aria irrespirabile, topi, scarafaggi che circolano indisturbati e per finire l’incubo di un’epidemia di scabbia”. A Verona è un sindacato della polizia penitenziaria, il Sappe, a denunciare “una situazione intollerabile, carenze strutturali specie nell’area adibita all’ora d’aria e di sicurezza considerato che in più occasioni, nel gioco delle turnazioni un solo agente è chiamato a controllare un intero reparto…”. 450 i posti disponibili, 900 i detenuti, 300 agenti, di cui 45 in malattia, “vittime dello stress”. A Napoli un detenuto rinchiuso a Secondigliano si impicca, era un “invisibile”: un tunisino quarantenne, stava scontando una pena per un reato legato alla droga. Emilio Fattoriello, segretario nazionale del Sappe: “Si tratta della quinta morte all’interno delle carceri campane in pochissimo tempo: quattro suicidi e una morte per cause naturali”… Dobbiamo, chissà, fare appello al papa Francesco. Che anche lui figlio di emigranti, venuto quasi “dalla fine del mondo”, si presenti in una delle tante Lampeduse carcerarie del paese, e chieda lui scusa per noi, e invochi “mai più”, visto che la classe politica, non sa, non vuole, incapace come sembra essere di intendere, ma non di volere. Giustizia: amnistia o indulto? a cosa serve il decreto carceri? parla il ministro Cancellieri di Letizia Pieri www.leggioggi.it, 11 luglio 2013 Il crocevia tra amnistia e indulto, per risolvere l’emergenza carceri nel nostro Paese, sembra destinato a sbrigliare le rispettive intersezioni. L’indulto, congiuntamente alla grazia, è disciplinato dall’articolo 174 del Codice Penale e “condona in tutto o in parte la pena inflitta, o la commuta in un’altra specie di pena stabilita dalla legge. Non estingue le pene accessorie, salvo che il decreto disponga diversamente, e neppure gli altri effetti penali della condanna”. Il provvedimento ha carattere di indulgenza generale e differisce dall’amnistia perché si limita ad estinguere in tutto o in parte la pena principale, come specificato dal testo penale in quanto la condona o la commuta in altra specie, e dunque non giunge ad estinguere le pene accessorie (salvo che la legge di concessione non disponga altrimenti) e, ancor più rilevante, lascia sussistere gli altri effetti penali della condanna. Lo strumento dell’amnistia, al contrario, estingue completamente il reato. Prevista dall’articolo 151 del Codice Penale, essa infatti “estingue il reato e, se vi è stata condanna, fa cessare l’esecuzione della condanna e le pene accessorie”. Al di là dell’assimilabile natura di clemenza, tra i due provvedimenti eccezionali, è l’amnistia a pesare indiscutibilmente di più rispetto all’indulto, stimolando con frequenza più facile reazioni di scandalo tra la gente comune. Per far fronte concretamente al problema del sovraffollamento, che relega le carceri nostrane entro livelli giudicati ‘incivilì dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, torna ad invertire la rotta sull’amnistia. “Sarebbe molto utile, - ha dichiarato al riguardo il ministro durante un’intervista rilasciata a Radio Vaticana- “però c’è un discorso politico dietro all’amnistia e questo io lo lascio fare al Parlamento che dovrà fare le sue valutazioni. Per quanto ci riguarda, naturalmente, un alleggerimento della pressione della popolazione carceraria sarebbe molto utile”. Le parole della ‘testà del Dicastero della Giustizia non suonano affatto nuove. La situazione detentiva italiana sta rasentando livelli di inaccessibilità tali da riuscire a demolire ogni valenza rieducativa della pena, così come stabilita dalla stessa Costituzione. Riuscire a far collimare, da un lato, l’interesse della società collettiva ad essere tutelata, e dall’altro, la necessità di punire il reo, predisponendo allo stesso modo uno scopo riabilitativo che possa davvero sfociare in una re-immissione societaria positiva e di conseguenza scongiurare la recidiva, è diventato negli anni uno dei compiti più ardui da realizzare per tutte le classi dirigenti del Paese. In merito al provvedimento sulle pene alternative, il Guardasigilli ha escluso la possibilità di far uscire dal carcere soggetti valutati come pericolosi. Il Ddl guarderà più al versante delle entrate. Uno dei fulcri nodali del sovraffollamento rimangono infatti gli ingressi detentivi da parte di quei soggetti, che vista la fattispecie delittuosa a carico e la brevità dello stazionamento dietro le sbarre, potrebbero agevolmente essere “titolari di misure alternative”. In tema di emergenza-carceri, il ministro ha ribadito la predisposizione concreta di una “strategia a 360 gradi” in grado di operare contestualmente su diversi versanti. “Intanto - ha precisato Cancellieri - sul versante normativo con questo decreto, che è servito ad una prima azione, stiamo facendo una rivisitazione di tutte le norme penali, con un’importante azione di depenalizzazione cui procederemo in modo che cambierà molto anche il tipo di pena e tutto quello che ad essa è connesso”. “D’altro lato stiamo, invece, provvedendo a riorganizzare le carceri su tutto il territorio nazionale, cercando di coprire i posti che ci mancano, anzitutto con una serie di opere nuove”. Tra queste, la cui realizzazione ha come tetto massimo un anno, spicca la liberazione di “12 mila nuovi posti, e in più altri 5-6 mila” direttamente ricavati dalla ristrutturazione di istituti carcerari già esistenti. Il ministro Cancellieri ha riservato parole di elogio nei riguardi degli agenti della polizia penitenziaria, una categoria, questa, che da anni si vede costretta ad operare in condizioni estremamente depauperate, vista la riduzione all’osso dell’organico, per lo più, all’interno di contesti già di per sé duri e delicati da gestire. Gli agenti penitenziari “svolgono un lavoro preziosissimo - ha sottolineato il Guardasigilli. Poi che i ruoli siano adeguati alle esigenze, credo che vada tutto visto in un’ottica di una riorganizzazione anche del sistema carcerario. Occorre investire molto sugli strumenti informatici, che liberano le guardie carcerarie da tante incombenze; occorre intervenire sulle strutture, che rendano meno faticoso il loro lavoro. C’é tutta una serie di cose, per la quale poi un calcolo di carenza o meno di organico si potrà fare soltanto quando tutto il progetto sarà definito”. In un tempo in cui il problema dei detenuti è stato relegato da molti ai margini delle priorità nazionali, mai quanto ora è opportuno ricordare che il bene di una società parte sempre dalla capacità di offrire strumenti di integrazione (e talvolta rieducazione) a chi invece non ne ha. Giustizia: Rossodivita (Radicali); Berlusconi non rischia il carcere... almeno per ora di Paolo Salvatore Orrù notizie.tiscali.it, 11 luglio 2013 “Ora, nell’immediato, anche se la Corte di Cassazione dovesse decidere di confermare la sentenza di condanna sul caso dei diritti Mediaset, Berlusconi, pur con una condanna a quattro anni, non rischia il carcere: per tre di questi dovrebbero beneficiare dell’indulto che, come si sa, estingue la pena”, spiega l’avvocato penalista cassazionista, responsabile Comitato Radicale per la Giustizia “Piero Calamandrei”, Giuseppe Rossodivita. Insomma, Berlusconi non rischia il carcere? “Al Cavaliere resterebbe solo un anno da scontare e con questo residuo l’ordinamento, anche per il cittadino Berlusconi, prevede la possibilità di usufruire di una serie di misure alternative che non contemplano la reclusione. Ovviamente, una volta che gli è stato notificato l’ordine di esecuzione della pena, con riferimento all’anno residuo non coperto dall’indulto, Berlusconi dovrebbe rivolgersi al tribunale di sorveglianza, per essere ammesso a misure alternative: sicuramente l’affidamento in prova al servizio sociale. Potrebbe verificarsi un cumulo di pena se l’ex premier verrà condannato per il caso Ruby? “Il problema del carcere, potrebbe cominciarsi a porsi quando dovesse diventare definitiva la sentenza sul caso Ruby. Tuttavia, siamo di fronte a un primo grado di giudizio, poi ci sarà da fare l’appello e quasi sicuramente il terzo grado con la Cassazione. Insomma, almeno per adesso il Cavaliere eviterà il carcere. Se però, dovesse giungere la condanna si dovrebbe fare il cumulo, ameno ché, prima che arrivi la sentenza, l’ex premier non abbia già espiato l’anno residuo della sentenza Mediaset nei servizi sociali. Tuttavia, la questione non cambierebbe di molto: se i giudici confermano la sentenza di primo grado il problema carcere per Berlusconi si porrà. E non potrebbe salvarlo nemmeno l’età: nelle nostre carceri ci sono, purtroppo, molti ultra ottantenni. Su quotidiani come Libero, cassazionisti ritengono “irrituale” il comportamento dei giudici. “In termini di legge, la Corte di Cassazione non ha fatto nulla che vada al di là delle norme: a quanto mi risulta dalla lettura dei giornali, c’era stata una segnalazione ad hoc della corte di appello di Milano per far presente alla Corte Cassazione che vi erano delle prescrizioni intermedie che sarebbero potute maturare da qui a breve, così nella stessa mattina in cui è arrivato in Corte il ricorso di Berlusconi era stata fissata un’udienza per il 30 luglio. Tutto questo è perfettamente conforme alla legge, ma senza dubbio è un provvedimento abbastanza raro”. Insomma, è una procedura poco utilizzata? “Soprattutto, i giornalisti dovrebbero andare a vedere quante altre volte la corte d’appello di Milano ha segnalato alla Corte di Cassazione che sue sentenze, che stavano per essere impugnate, erano in procinto di godere della prescrizione. Credo che la Corte d’appello di Milano, così come le altre Corti d’appello d’Italia, non lo abbiamo mai fatto un sollecito e una segnalazione di questo tipo: altrimenti non si verificherebbero, come quotidianamente si verificano, le prescrizioni fra il grado di Appello e il grado di Cassazione. Giustizia: ergastolo… quarant’anni di pena certa di Stefano Anastasia Il Manifesto, 11 luglio 2013 Una curiosità, nulla più che una curiosità. Calogero Diana vuole dare soddisfazione a una personale curiosità: vuole sapere se spetta a lui la palma dell’ospite di più lungo corso nelle carceri italiane. Arrestato a settembre del 1970, al netto di un paio di evasioni (per un totale di due anni e dieci mesi spesi in libertà, tra la seconda metà degli anni Settanta e l’autunno del 1986), Calogero Diana è in carcere da più di quaranta dei suoi sessantaquattro anni di vita. Da quasi venti, dal 1994, il nostro corrispondente è in semi-libertà: esce tutti i giorni dal carcere, va a lavorare in una cooperativa sociale che si occupa di tossicodipendenze, immigrazione, tratta di esseri umani e malati di Alzheimer; fa quel che deve e se ne torna in carcere; tutti i santi giorni da vent’anni in qua. Eppure Calogero Diana non è stato giudicato meritevole di essere ammesso alla liberazione condizionale, prevista dal nostro ordinamento per i condannati all’ergastolo che abbiano scontato ventisei anni di pena (e anche prima se sia stato loro riconosciuto qualche sconto di pena per buona condotta). Ci ha provato due volte, nel 2002 e nel 2004 (quando aveva già superato i trent’anni di pena scontata): una volta gli hanno contestato di non aver assolto alle obbligazioni civili derivanti dai reati commessi e un’altra di non essersi adoperato a dimostrare il suo ravvedimento chiedendo scusa alle vittime dei fatti per i quali è stato condannato. Dunque, Calogero Diana, pur essendo stato condannato (anche) per fatti di terrorismo, non ricade nelle preclusioni del regime del famigerato articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario, quello che fa parlare anche in Italia di un ergastolo senza possibilità di revisione, il cosiddetto “ergastolo ostativo”, contro cui hanno preso parte recentemente molte importanti personalità del nostro Paese dal professor Veronesi alla compianta Margherita Hack. Ciò nonostante, Diana è in carcere da più di quarant’anni, non è stato scarcerato e forse non ha più neanche voglia di fare una nuova istanza di liberazione condizionale, avendo ragione di pensare che sia “a prognosi infausta”. Non sappiamo se la carcerazione di Diana costituisca un primato, di questi tempi in Italia. L’unica volta che chi scrive ha potuto vedere una graduatoria di ergastolani per pena scontata, il recordman era un uomo ormai anziano, abbandonato in un Ospedale psichiatrico giudiziario da quarantanove anni e che avrebbe dovuto aspettarne altri sei per essere graziato dal Presidente Ciampi e andare a morire in libertà. Certo è che seppure Calogero Diana guida questa speciale classifica, non è solo, ma seguito a ruota da decine di altri: ergastolani che hanno scontato o stanno per scontare i ventisei anni di pena previsti per l’accesso alla liberazione condizionale o i trenta di pena temporanea massima prevista dal nostro ordinamento e restano lì, dimenticati da Dio e dal mondo. Tocca ricordarla, questa verità, ai presunti pragmatici e realisti d’accatto, che si rifiutano di discutere della legittimità della pena a vita perché “tanto, in Italia, l’ergastolo non esiste: tutti escono con la liberazione condizionale a ventisei anni, se non anche prima”. Non è così: la realtà non è quella che si studia sui libri o si legge nei codici. L’ergastolo esiste perché rende ogni giorno di pena scontata diversa da quella cui è costretto un detenuto che conosce il suo fine pena e può sperare di raggiungerlo per uscire dal carcere. L’ergastolo esiste perché la sua fine è indeterminata nei tempi e nei modi. Fatevi un giro in carcere, parlatene con gli interessati e poi ne discutiamo. Giustizia: caso Uva… rinvio a giudizio per le persone che ne hanno denunciato la morte di Mario Di Vito Il Manifesto, 11 luglio 2013 Rinvio a giudizio per le persone che hanno denunciato la morte di Giuseppe Uva, a cominciare dalla sorella, e archiviazione per carabinieri e poliziotti. È la richiesta dei pm di Varese. Secondo i quali l’uomo non fu ammazzato di botte in caserma ma si ferì da solo. Per la morte di Giuseppe Uva carabinieri e poliziotti potrebbero non essere mai processati. Davanti a un giudice, invece, potrebbero finirci sua sorella Lucia, lo scrittore e documentarista Adriano Chiarelli, l’inviato delle Iene Mauro Casciari e il direttore di Italia Uno Luca Tiraboschi. La richiesta di rinvio a giudizio per i secondi e di archiviazione per i primi è arrivata dal Gip di Varese lo scorso 28 giugno, firmata dai pm Agostino Abate e Sara Arduini. Per i due investigatori “la prova che non sono stati commessi determinati fatti costituiscono allo stesso tempo elemento costitutivo dei reati di diffamazione contestati”. Cioè, visto che non sono stati Paolo Righetti, Stefano Del Bosco, Gioacchino Rubino, Luigi Empirio, Pierfrancesco Colucci, Francesco Barone Focarelli, Bruno Belisario e Vito Capuano a stuprare e a massacrare di botte in caserma Giuseppe Uva fino a provocarne la morte in ospedale qualche ora dopo, chi ha sostenuto queste tesi è da considerarsi un diffamatore. Da qui la doppia richiesta avanzata dalla procura della cittadina lombarda. Il fascicolo da cui è stato stralciato questo segmento d’indagine è il numero 5509, lì dentro sono ricostruiti i fatti avvenuti nella notte tra il 14 e il 15 giugno del 2008, quando Giuseppe Uva e Alberto Biggiogero vennero fermati da una pattuglia dei carabinieri e portati nella caserma di via Saffi. Erano le 2 e 55. Alle 5 e 41 un’ambulanza con a bordo Giuseppe arriva al pronto soccorso. In mezzo c’è il mistero. L’unico processo che si è celebrato ha scagionato da ogni accusa il dottor Carlo Fraticelli, con il teorema della morte per malasanità portato avanti dal pm Abate che è crollato sotto i colpi di una sentenza decisa in un quarto d’ora, contro una requisitoria che di ore ne durò cinque. Non solo, il giudice Orazio Muscato ordinò anche il ritorno degli atti in procura per capire cosa avvenne tra il fermo dei due e l’arrivo all’ospedale di Uva. Ecco, il risultato è questo: i pm chiedono l’archiviazione per i poliziotti e i carabinieri coinvolti. Con tante scuse. Non solo, nella richiesta di Abate e Arduini ricorrono spesso frasi e toni di sfida nei confronti dello stesso Muscato, in un quasi inedito scontro tra magistratura inquirente e giudicante, tutto su carta bollata: “In sintesi - si legge - il giudice prima ha impedito che si accertasse in aula quanto accaduto, poi ha accettato acriticamente che i periti concludessero con ipotesi basate su un presunto mistero su quanto accaduto in caserma; infine ha ordinato una trasmissione degli atti perché la procura acquisisca le prove”. Tutto questo per dire che Giuseppe Uva “fu trattato in modo idoneo e non lesivo (in caserma, ndr); non fu limitato nella sua libertà se non nei termini minimali necessari, quali indurlo a farlo salire in vettura per accompagnarlo in caserma, farlo soggiornare in una stanza (senza alcun vincolo fisico-costrittivo) in attesa che si calmasse e, dopo poco tempo anche sotto il controllo sanitario con l’arrivo di due medici. Non ha subito lesioni fisiche né trattamenti comunque lesivi e/o pericolosi”. Ma allora, i segni delle botte? I lividi? Le escoriazioni? I traumi rilevati dalle perizie? Il sangue sui vestiti? “Giuseppe Uva in più momenti ha tirato calci contro la scrivania e i mobili, ha volutamente picchiato la testa contro una vetrata, ha tirato pugni contro i mobili e minacciato tutti i presenti intimando loro di non avvicinarsi”. Non basta: “Le abitudini di vita di Giuseppe Uva purtroppo spiegavano la scarsissima igiene personale e le condizioni degli abiti che indossava. Sono vicende umane, tristi ma ricorrenti, significative per l’indagine solo perché dimostrano che le affermazioni delle parti offese non possono di certo basarsi sulla conoscenza vera di come vivesse il fratello, del suo rapporto con l’alcol, dei suoi comportamenti e del suo stato complessivo di salute”. Lucia Uva, insomma, non vedeva spesso suo fratello, quindi non poteva sapere come vivesse. Così adesso, in un ribaltamento degno dello Ionesco più apocalittico, sul banco degli imputati ci finiranno proprio coloro che più di tutti hanno cercato la giustizia. A risultare lesive dell’onore e della dignità degli uomini in divisa sono state alcune frasi di Lucia durante un servizio delle Iene, agli atti: “Me lo hanno inculato, cazzo” riferendosi a un presunto stupro in caserma ai danni del fratello. Più altre parole contenute nel documentario sul caso, “Nei secoli fedele” di Adriano Chiarelli e Stefano Menghini. La voglia di parlare, da parte loro, è poca. Ma, con il loro avvocato Fabio Anselmo, annunciano battaglia. Alla prossima udienza. Giustizia: Vaticano; Papa Francesco abolisce ergastolo, pene più dure per abusi su minori Il Messaggero, 11 luglio 2013 La riforma del codice penale varata in Vaticano ha tra i suoi effetti l’abolizione della pena dell’ergastolo, sostituita con la reclusione da 30 a 35 anni. Le nuove norme sono state presentate in una conferenza stampa con Giuseppe Dalla Torre, presidente del Tribunale Vaticano e con padre Federico Lombardi. Tutte le norme andranno in vigore dal primo settembre prossimo. Un settore molto importante della riforma riguarda la “riformulazione della normativa relativa alla cooperazione giudiziaria internazionale, piuttosto risalente nel tempo, con l’adozione delle misure di cooperazione adeguate alle più recenti convenzioni internazionali”. In pratica, come ha spiegato Dalla Torre, la riforma del codice penale fa sì che le norme potranno essere applicate nei confronti dei dicasteri della Curia, agli Uffici, alle Commissioni e, più in generale, a tutti gli enti dipendenti dalla Santa Sede. “Il lavoro va avanti a ritmi serrati - ha spiegato Dalla Torre. C’era la necessità di porre mano a riforme laddove il nostro sistema era più debole”. Sanzioni a persone giuridiche. Una delle norme introdotte da papa Francesco con un Motu proprio pubblicato oggi che aggiorna il sistema penale della Santa Sede, è la introduzione di sanzioni “a carico delle persone giuridiche per tutti i casi in cui esse profittino di attività criminose commessa dai loro organi o dipendenti, stabilendo una loro responsabilità diretta con sanzioni interdittive e pecuniarie”. Così il giudice vaticano potrà indagare su delitti e reati commessi in organismi di curia e uffici vaticani. Riciclaggio e terrorismo. Con un Motu proprio pubblicato oggi il Papa prosegue la riforma iniziata da Benedetto XVI con le leggi emanate a fine 2010, per dotare la Santa Sede di strumenti per prevenire e contrastare la criminalità, favorendo la cooperazione giudiziaria internazionale anche su riciclaggio e terrorismo. Il Motu proprio, affianca tre nuove leggi, anche esse pubblicate oggi, con cui la Pontificia commissione per lo Stato della Città del Vaticano legifera su norme complementari in materia penale, modifiche al codice penale e al codice di procedura penale e su norme generali in tema di sanzioni amministrative. Abusi su minori. Il Papa rafforza il sistema penale vaticano sui di delitti sui minori: vendita di minori, prostituzione minorile, violenza sessuale su minori atti sessuali su minore, pedopornografia, detenzione di materiale pornografico, arruolamento di minore. Le norme riguardano delitti commessi nella Città del Vaticano o uffici di Curia. Il Papa ha rafforzato le sanzioni per i reati commessi in danno di minori, con un Motu proprio pubblicato oggi e recependo la convenzione internazionale sulla tutela del fanciullo. Dopo Vatileaks. Le nuove norme pubblicate oggi dal Vaticano con un Motu proprio papale prevedono anche l’aumento delle pene per la sottrazione di documenti riservati dagli uffici vaticani, qualora i documenti abbiano particolare rilievo. Reati contro il patrimonio. Con il Motu proprio pubblicato oggi papa Francesco stabilisce che gli organi giudiziari del Vaticano possano esercitare la giurisdizione penale anche su reati commessi contro la sicurezza, gli interessi fondamentali o il patrimonio della Santa Sede e contro ogni reato la cui repressione è richiesta da un accordo internazionale ratificato dalla Santa Sede, se l’autore si trova nello Stato della Città del Vaticano e non è estradato all’estero. Il Motu proprio papale, insieme a tre leggi della Pontificia commissione dello Stato della Città del Vaticano, rinnova il sistema penale vaticano, in parte rispondendo a richieste di Moneyval, in parte ad altre esigenze. L’adeguamento richiesto da Moneyval, ha precisato il direttore del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano Giuseppe Dalla Torre, non si esaurisce con queste norme e proseguirà con ulteriori provvedimenti, probabilmente dopo la pausa estiva. Il primo Angelus di papa Francesco a Castelgandolfo è in agenda per domenica prossima, 14 luglio. Sarà la seconda volta del nuovo Papa nella cittadina dei castelli che ospita la residenza estiva dei papi, dopo la visita del 23 marzo, per lo storico incontro con il papa emerito Benedetto XVI. Il Pontefice domenica prossima arriverà alle Ville Pontificie alle 9.30 circa in automobile. Dopo l’ingresso dal cancello di “Marino”, il Santo Padre, nel cortile, incontrerà per un saluto i dipendenti delle Ville. Riceverà il saluto del vescovo di Albano, monsignor Marcello Semeraro, del direttore delle Ville Pontificie, Saverio Petrillo, e dal sindaco di Castelgandolfo, Milavia Monachesi. L’incontro si concluderà con un saluto del Papa. A mezzogiorno, dal portone centrale del Palazzo Apostolico, papa Francesco reciterà l’Angelus. Poi pranzerà con la Comunità religiosa dei Gesuiti della Specola Vaticana (Osservatorio astronomico), diretta da un argentino, padre Josè Gabriel Funes. Papa Bergoglio rientrerà in Vaticano nel primo pomeriggio. Lettera: una tomba per due cadaveri di Carmelo Musumeci www.carmelomusumeci.com, 11 luglio 2013 Tu costringi molti a cambiare idea su di te; essi te la faranno pagare caro. (Nietzsche) Oggi Giuseppe ed io, durante l’ora d’aria nel carcere di Padova, passeggiavamo nel cortile di cemento a falcate lunghe e regolari. Come facciamo di solito. Avanti e indietro. Da una parete all’altra. E con gli occhi della mente che attraversano i muri. Appartati. E in silenzio. Ognuno per i fatti propri. E con i propri pensieri. Quando passeggiamo nelle vasche di cemento (così chiamiamo i passeggi dei carceri) sembriamo delle ombre. E ci muoviamo come loro perché siamo uomini ombra (così si chiamano fra di loro gli ergastolani ostativi a qualsiasi beneficio penitenziario, destinati a morire in carcere) senza nessuna metà e nessuno scopo. Ad un tratto Giuseppe mi ha detto: “Non capirò mai perché al di là dal muro di cinta se un vigile ferma un’auto con sei persone, che ne potrebbe trasportare cinque, fa la multa e sequestra la macchina, invece in carcere in una cella costruita per un detenuto, ce ne inseriscono due, a volte tre, e nessuno dice nulla”. Ed io gli ho risposto: “Probabilmente perché in carcere non ci sono vigili”. Siamo scoppiati a ridere. E tutti i nostri compagni si sono voltati. Ci hanno guardato. Hanno scrollato le spalle. Poi ognuno di noi, come degli zombi, ha continuato a pensare ai cazzi suoi. Io ai miei. Ed ho pensato che non si può vivere condividendo la propria tomba con un altro cadavere. Preferirei mille volte morire di fame e riprendermi la poca intimità di quando stavo solo nella mia cella-tomba, a guardare le stelle e la luna fra le sbarre della finestra. Le cose sarebbero diverse se ci dessero la possibilità, o anche una sola speranza, che un giorno potremmo tornare uomini vivi. In questo caso dividerei volentieri la mia tomba, non con un cadavere, ma con altri dieci. Ad un tratto il mio cuore mi ha sussurrato: “Se i tuoi guardiani non ti daranno mai la libertà, perché gli hai permesso di levarti quel poco spazio che ti rimaneva?”. Poi è finita l’ora d’aria ed io sono ritornato nella mia tomba, insieme a un altro cadavere, pensando che il mio cuore ha sempre ragione. Ed ho riletto il reclamo che ho presentato al Magistrato di Sorveglianza: (…) premesso che qualche funzionario del Ministero dev’essere un mago dell’edilizia carceraria perché nel carcere di Padova, con un solo colpo di penna, s’è inventato e creato altri venticinque posti letto (raddoppiando la capienza della sezione AS1 Blocco “7” lato “A”) mettendo nelle tombe degli uomini ombra - abituati a stare in celle singole alcuni da oltre venti anni - un altro cadavere; premesso che il Magistrato di Sorveglianza di Padova, nella sua ordinanza n. 2012/1543 del 25.10.2012, ha stabilito: “Orbene osserva il Giudice che sussiste il diritto del detenuto all’allocazione in cella singola ai sensi dell’art. 22 c.p. in quanto condannato all’ergastolo con isolamento notturno.”; premesso che nonostante questo provvedimento giurisdizionale il reclamante è stato obbligato ad allocarsi con un’altra persona nella stanza; premesso che l’istante fra l’altro è iscritto all’Università di Padova alla Facoltà di Filosofia e quest’anno ha già svolto cinque esami e sugli studi universitari il Regolamento di Esecuzione stabilisce: “I detenuti e internati, studenti universitari sono assegnati, ove possibile, in camere e reparti adeguati allo svolgimento dello studio” (art. 44 comma 4 R.E.); per questi motivi, il sottoscritto chiede tutela ed esecutività della precedente Ordinanza che ha emesso questo Ufficio di Sorveglianza. Credo che rimarrò inascoltato anche stavolta. Cagliari: proteste detenuti, Procura apre un’inchiesta; trasferiti responsabili contestazione Ansa, 11 luglio 2013 Il sostituto procuratore della Repubblica di Cagliari, Marco Cocco, ha aperto una inchiesta sulla situazione del carcere Buoncammino. Al momento nel registro degli indagati non c’è alcun nome e non è stata formulata alcuna ipotesi di reato. Si tratta di una indagine conoscitiva avviata a seguito di un esposto presentato dall’avvocato Annamaria Busia alcuni mesi fa, non collegata alla protesta di martedì scorso. I cinque detenuti della cella 72 che hanno organizzato la contestazione, con striscioni e battendo le pentole, per richiamare l’attenzione sulle condizioni del carcere sono stati trasferiti a Lanusei. Fra coloro che sono stati spostati anche Mattia Deligia e l’avvocato Busia ha raccolto l’appello della moglie del detenuto, Claudia: “Ridatemi Mattia non posso permettermi di pagare il viaggio fino a Lanusei. Gli avevano promesso un regime carcerario meno duro, anche domiciliari o in qualche comunità, ma nulla. Lui e gli altri della cella hanno pagato per tutto, per la protesta dell’altra sera ed è stato allontanato. Sono disperata, aiutatemi”. Domani, intanto, davanti a Buoncammino si terrà un sit-in per parlare della situazione del carcere, del trasferimento dei detenuti e dello stesso esposto presentato dall’avvocato Busia. “Ho presentato questo esposto - ha spiegato il legale - perché intendo capire le ragioni della mancata apertura del nuovo carcere di Uta. Inoltre voglio sapere perché è stato modificato nel 2009 l’articolo 41 bis che ha portato al macello che stiamo vivendo. Nel pacchetto sicurezza del 2009 è stata inserita una parte che prevede che i detenuti in regime di 41 bis devono esser concentrati nella carceri insulari, quindi Sicilia e Sardegna. La Sicilia è incompatibile, quindi finiscono tutti qui”. L’avvocato sottolinea inoltre che “non si capiscono le ragioni di questa scelta scellerata che sembra solo politica, i detenuti in questo regime sono stati distribuiti nelle carceri del continente, soprattutto nel nord Italia. Sono stati spesi soldi per creare bracci e istituti speciali per questi detenuti ed il trasferimento in Sardegna sembra non rispondere ad alcun principio”. Osapp: serve un nuovo carcere Ieri la protesta di alcuni detenuti del carcere di Buoncammino, oggi la presa di posizione dei sindacati degli agenti di polizia penitenziaria: “Ora basta, serve un nuovo carcere”. Ieri notte, intorno alle 21.30, alcuni detenuti hanno dato vita a una protesta nel carcere cagliaritano di Buoncammino: le condizioni dell’istituto di pena, non certo ottimali, hanno fatto scattare la rabbia. Sono state bruciate alcune lenzuola e battuto le inferriate con pentolini. A distanza di quasi 24 ore sulla vicenda interviene il segretario generale aggiunto dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria), Domenico Nicotra: “Grazie al tempestivo, professionale e qualificato intervento della Polizia Penitenziaria cagliaritana per questa volta si è scongiurato che la sicurezza penitenziaria, sottoposta a dura prova, venga minata; ma fino a quando si potrà contare sulle sempre minori risorse umane disponibili?” “È necessario che il Dap provveda nell’immediatezza all’invio di almeno 100 unità di Polizia Penitenziaria in Sardegna. Nell’ottica del processo di riorganizzazione avviato dal provveditore regionale De Gesu - prosegue - risulta fondamentale avviare gli iter necessari per prevedere, nel più breve tempo possibile, di dotare la città di Cagliari con un nuovo e più confacente Istituto Penitenziario che possa sostituire la vetusta struttura attualmente in uso all’Amministrazione Penitenziaria.” Sdr: difficile apertura nuovo carcere entro l’anno “Sarà difficile che il nuovo carcere in costruzione a Uta (Cagliari), destinato a sostituire la casa circondariale di Buoncammino, possa essere agibile entro l’anno, anche perché è impensabile un’apertura parziale. I lavori sono ripresi, ma sono ancora in alto mare”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, facendo osservare che “non è stata assunta nessuna iniziativa per una conferenza dei servizi che coinvolga il territorio ed in particolare il Comune di Uta”. “Il nuovo Istituto Penitenziario - sottolinea Caligaris che con il segretario dell’associazione Gianni Massa ha visitato l’area - permane in una desolata e maleodorante landa. È lambito da una distesa di pale eoliche e pannelli fotovoltaici e sorge in prossimità di un’azienda per lo smaltimento di scarti della macellazione da cui provengono miasmi nauseabondi incompatibili per la vita degli operatori civili, degli Agenti della Polizia Penitenziaria e, soprattutto, dei detenuti che vi trascorreranno giorno e notte. Sui tempi della realizzazione dell’opera, costata oltre 60 milioni di euro, non vengono fornite notizie ufficiali. La conclusione peraltro era prevista per il 2011, a cinque anni dalla consegna dei lavori. Sono invece trascorsi inutilmente 7 anni e i costi del progetto, voluto dagli allora Ministri Lunardi e Castelli, sono lievitati”. “Numerose difficoltà permangono anche perché non è stato risolto il contenzioso con i proprietari dell’area. Il nodo - ricorda la presidente di SdR - riguarda la destinazione d’uso dei terreni trasformati, unilateralmente dal Ministero delle Infrastrutture, da zona agricola ad area edificabile. Una questione di rilievo sia per i privati che per il Comune di Uta. Quest’ultimo infatti è stato del tutto estromesso dalle trattative e dalle opere di infrastrutturazione”. “L’agibilità dell’Istituto Penitenziario, pensato per 550 cittadini privati della libertà a cui si è aggiunto un Padiglione di 92 posti per quelli in regime di 41 bis, non si esaurisce - evidenzia ancora Caligaris - con la consegna dell’immobile. Una parte degli arredi, infatti, vengono trasferiti dal carcere di Buoncammino con il supporto dei detenuti. Altri invece sono nuovi. Un corretto funzionamento presuppone un contingente di agenti di polizia penitenziaria adeguato alle necessità della sicurezza, aldilà dei sistemi ad alta tecnologia con cellule fotoelettriche per l’apertura delle celle e delle porte interne, e la regia con i monitor in ciascuna sezione. Sono altresì indispensabili una efficiente rete viaria e una vasta area attrezzata per accogliere i familiari dei detenuti, i magistrati, gli avvocati, i volontari e gli operatori. Indispensabili quindi i collegamenti pubblici”. “Deve essere tenuto presente che alla sicurezza occorre affiancare l’umanizzazione della pena e il diritto alla salute e all’affettività. La distanza dalla città di Cagliari e dai principali Ospedali costituisce un motivo di preoccupazione non solo per i detenuti ma anche per gli operatori. Allontanare la realtà detentiva dal centro urbano significa inoltre ridurre la possibilità per i familiari di raggiungere i parenti ristretti e limitare in molti casi anche il diritto alla difesa”. Sassari: il nuovo carcere, dalla parte dei detenuti di *Franca Puggioni e **Marina Casu La Nuova Sardegna, 11 luglio 2013 Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri ha nei giorni scorsi inaugurato il nuovo carcere di Bancali entrato a regime dopo anni di attesa e di scadenze non rispettate. È ovvio che non ci sia da parte nostra nessun rimpianto per la vecchia struttura finalmente dismessa, non ci può essere però alcuna enfasi per gli ampi spazi e le celle luminose, che sono un atto dovuto per garantire ai cittadini detenuti condizioni di reclusione decorose che facciano dimenticare le condizioni del vecchio carcere che, in moltissimi casi, hanno violato i diritti essenziali della persona umana. Per noi e per la città lo spostamento del carcere in periferia richiede un ulteriore impegno perché l’allontanamento del penitenziario dal tessuto urbano non porti all’oblio e aggravi le condizioni di isolamento che i detenuti, i loro familiari e gli operatori vivono già come condizione ineliminabile. In ogni caso il carcere, ci preme ribadirlo, è e deve essere l’estrema ratio, il recupero alla società civile, il saldo del debito di un reato ha tanti strumenti di legge quali i percorsi di educazione alla legalità, la possibilità di lavori socialmente utili e tutte le numerose forme di pene alternative come contributo risarcitorio verso la società. L’esperienza storica documenta il fallimento della rieducazione e recupero dei condannati attraverso il mero circuito penitenziario e rafforza la consapevolezza che tutti i discorsi sul carcere partono dalla constatazione che l’istituto così com’è non assolve il suo compito né punitivo né rieducativo. Negli anni 70 del Novecento si fa strada la convinzione che bisognasse trovare modelli di sanzione diversi rispetto alla pena detentiva che porterà nel 1986 alla legge Gozzini, nel tentativo di dare piena attuazione all’art 27 della Costituzione. Nasce in questi anni l’istituto dell’affidamento ai Centri di Servizio Sociale del Ministero di Giustizia, attuale Uepe (Ufficio dell’esecuzione penale esterna) che ha il compito di favorire il reinserimento sociale delle persone che hanno subito una condanna definitiva. Il percorso indicato parte dalla persona detenuta e ne rispetta la dignità e unicità, punta allo sviluppo delle sue potenzialità e all’assunzione di scelte autonome e responsabili. I dati sull’efficacia della pene alternative lasciano poco spazio ai dubbi: a fronte di una recidiva del 79% per chi ha scontato l’intera pena detentiva in carcere si passa al 18/20% per chi invece usufruisce delle soluzioni alternative alla detenzione. Solo così si può favorire l’umanizzazione della pena e coniugare difesa sociale e trattamento socio-educativo delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà. In occasione dell’inaugurazione del nuovo carcere è stata inaugurata anche la nuova sede dell’Uepe a Sassari, sempre alla presenza del ministro della giustizia. In questa occasione la direttrice Anna Maria Pala nello svolgere la sua relazione oltreché ricordare che l’Uepe ha avuto in carico, dalla sua istituzione, migliaia di detenuti, molti dei quali sono stati completamente reinseriti nel percorso civile, ha indicato anche le convenzioni stipulate con i soggetti del III settore attivi nel territorio, ed impegnati nell’attuazione della legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali. Il Ministro nel porgere il suo saluto ha riconosciuto “Sassari come modello per il Paese” in questo impegno innovativo dell’esecuzione della pena. Il lavoro e l’impegno degli operatori e delle operatrici dell’Uepe, con i quali collaboriamo, va proprio in questa direzione. *Presidente Arci Sassari **Responsabile Carcere e Giustizia Arci Sassari Pordenone: progetto per il nuovo carcere da 300 posti pronto, gara d’appalto in autunno Messaggero Veneto, 11 luglio 2013 La caserma Dall’Armi di San Vito al Tagliamento, dove verrà realizzato il nuovo carcere della provincia di Pordenone, è stata dismessa dal Demanio militare e concessa gratuitamente alla Regione che l’ha poi “girata” al Comune di San Vito il quale, in un primo tempo, pensava a un insediamento di carattere produttivo che poi è sfumato. Quando il sito di Pordenone vacillava, la carta giocata dall’attuale sindaco, Antonio Di Bisceglie, che è risultata vincente. La struttura che sarà realizzata dal dipartimento dell’edilizia penitenziaria prevede 300 posti, contro i 450 ipotizzati in Comina, per una spesa di 25 milioni di euro al posto dei 45 previsti dall’accordo di programma Stato-Regione (25 del ministero e 20 di Regione, Provincia e Comune). In base alle informazioni raccolte dal senatore Lodovico Sonego che si è attivato recentemente per portare a termine l’operazione, il progetto esecutivo dell’opera è pressoché completato e tra settembre e ottobre verrà emesso il bando di gara per l’esecuzione dei lavori. In base alle stime del ministero l’opera dovrebbe essere completata entro la fine del 2015, primi mesi del 2016 consentendo il trasloco dei detenuti (attualmente sono circa 80) dal castello di piazza della Motta. Contro la realizzazione del carcere a San Vito si sono schierati gli avvocati ma anche il Pdl pordenonese, anche se il centro-destra di San Vito ha accolto favorevolmente la notizia in quanto la struttura ha un indotto importante legato soprattutto alla presenza della polizia penitenziaria e alle visite dei familiari delle persone detenute. Ora si vedrà se i tempi di realizzazione di quest’opera dalla storia infinita saranno rispettati. Savona: incontro tra assessore Rambaudi e ministro Cancellieri su progetto nuovo carcere Secolo XIX, 11 luglio 2013 Il problema del carcere di Savona, sovraffollate e in una struttura fatiscente, è stato oggetto di un incontro, ieri a Roma, dell’assessore alle Politiche sociali della Regione Liguria, Lorena Rambaudi con il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri. Un incontro che è servito a riportare la questione-carceri, da anni in condizioni insostenibili, nell’agenda regionale e ministeriale per far decollare finalmente una proposta alternativa all’ex convento di Sant’Agostino. La passata amministrazione savonese, con il sindaco Carlo Ruggeri, alle prese con un territorio scarso di aree pubbliche a disposizione e un dibattito politico non facile, aveva individuato un nuovo sito in località Passeggi. L’area, a seguito della progettazione definitiva e della gara di affidamento dell’opera, evidenziò problemi tecnici superabili, ma con costi di gran lunga superiori alle disponibilità economico finanziarie messe a disposizione dal Ministero della Giustizia. Da qui la gara bloccata ed una situazione di stallo che ha impedito l’avvio dell’opera e non ha trovato soluzioni alternative da parte del Comune di Savona. Frattanto da due comuni della Val Bormida, Cairo Montenotte e Cengio, arrivò la disponibilità a costruire il carcere nel loro territorio con l’ individuazione di aree adeguate. Nel corso dell’ultima seduta della giunta regionale, nell’ambito della discussione sullo sviluppo economico e produttivo della Val Bormida, l’assessore Rambaudi era intervenuta per porre il problema del carcere di Savona. “L’incontro è stato molto positivo, il ministro ha ben presente la situazione di Savona e di Marassi, che aveva già affrontato con il Presidente Burlando”, spiega l’assessore Rambaudi. “Essendo stato risolto il problema dell’appalto con la ditta che si era aggiudicata la gara, è possibile ripartire a ragionare sul tema del carcere di Savona e il ministro si è impegnato a programmare in tempi ragionevoli un sopralluogo del Commissario Straordinario Piano Carceri, il Prefetto della Repubblica Angelo Sinesio, nel territorio”. Frosinone: detenuto sostiene 8 esami in carcere, ma giudice nega il permesso per la laurea Corriere della Sera, 11 luglio 2013 Niente autorizzazione per andare a sostenere l’esame di laurea. Un detenuto nel carcere di Frosinone non potrà laurearsi. Almeno nei prossimi giorni. Il giudice di sorveglianza del tribunale di Frosinone ha infatti negato il permesso a un detenuto di Ceccano, in Ciociaria, che venerdì è chiamato a discutere la tesi alla facoltà di Scienze politiche di un’università telematica romana. Il recluso a un passo dal dottorato è un trentaduenne arrestato e condannato a tre anni con l’accusa di rapina a extracomunitari. Una volta rinchiuso nell’istituto di pena del capoluogo ciociaro, nel dicembre 2011, si è dedicato a completare i suoi studi preparandosi da solo sui libri perché dal carcere non ha potuto seguire le lezioni via computer. Ha sostenuto nel penitenziario ciociaro, davanti a una commissione dell’università, gli ultimi otto esami, conseguendo tra l’altro voti altissimi ( alcuni trenta e un trenta e lode) e ora è pronto a sostenere la tesi di laurea. Ma il giudice di sorveglianza ha respinto l’istanza di permesso avanzata dall’avvocato Calogero Nobile, che aveva chiesto di accompagnare il suo assistito anche con la scorta. Il legale ora si rivolgerà al ministro della Giustizia e al Consiglio superiore della magistratura. “Il giudice - spiega l’avvocato - ha sostenuto che non c’è bisogno dell’autorizzazione ma che la Commissione di laurea dell’università deve recarsi in carcere per l’esame di laurea. È una decisione - polemizza il legale - che contraddice i principi fondamentali di rieducazione e reinserimento sociale dei detenuti. Si nega la possibilità a un recluso di laurearsi, cosa che non capita tutti i giorni, e di aprirsi a nuove prospettive una volta finita di scontare la pena”. Il trentaduenne, che uscirà dal carcere a marzo del prossimo anno, rischia di dover aspettare ancora alcuni mesi prima di poter diventare dottore in Scienze politiche. “Così il reinserimento sociale dei detenuti - conclude l’avvocato Nobile - resta solo nelle belle parole dei politici”. Venezia: il ministro Cancellieri oggi in visita al carcere femminile della Giudecca Adnkronos, 11 luglio 2013 “Venezia può raccontare al mondo di essere una città grande anche in questo campo che non è da poco, perché questo livello di cultura di civiltà dell’accoglienza della detenzione che consente al detenuto di esprimere se stesso con un’attività lavorativa e anche in piena libertà all’interno della struttura, è una cosa molto civile”. Lo ha sottolineato Il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri dopo la sua visita al carcere femminile della Giudecca di Venezia modello tra le strutture carcerarie italiane per il lavoro interno a cui si dedicano le detenute. Il ministro ha quindi sottolineato “l’importanza dell’Icam (Istituto custodia attenuata per detenute madri) e lo dobbiamo raccontare perché è la prima in Italia. L’Icam di Venezia funziona molto bene grazie al personale che si dedica con molta cura, ma c’è anche grazie ad una società civile che concorre a questo e i veneziani possono essere orgogliosi. Mi ha colpito soprattutto la serenità del clima”. Il ministro ha quindi sottolineato che “il sovraffollamento nelle carceri è un problema che c’è e lo stiamo affrontando. Sono convinta che lo risolveremo nei tempi dovuti perché è un problema che non si risolve in un giorno. Assieme a questo problema abbiamo anche tanta civiltà e cultura delle diverse accoglienze”. Molto civile far lavorare detenute “Questo livello di cultura di civiltà della detenzione, che consente al detenuto di esprimere sé stesso con un’attività lavorativa e anche in piena libertà all’interno della struttura, è una cosa molto civile”. Lo ha riconosciuto il ministro della giustizia, Anna Maria Cancellieri, dopo aver visitato il carcere femminile della Giudecca e l’Icam, l’istituto di custodia attenuata per madri detenute. Icam funziona molto bene “L’Icam di Venezia funziona molto bene grazie al personale che si dedica con molta cura ma c’è anche una società civile che concorre a questo e i veneziani possono essere orgogliosi. Mi ha colpito soprattutto la serenità del clima”. Giudica positiva il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, la visita fatta stamane nell’isola veneziana della Giudecca all’Icam, un istituto per madri detenute con figli fino a tre anni di età e situato in un apposito appartamento, adiacente al carcere, con entrata autonoma. Nella struttura penitenziaria ci sono 78 detenute, di cui 35 straniere, 43 italiane e 4 bambini. “Questo Icam lo dobbiamo raccontare perché è la prima in Italia” ha sottolineato il ministro, osservando poi che “oggi è stata una bella giornata perché Venezia può raccontare al mondo di essere una città grande anche in questo campo che non è da poco, perché questo livello di cultura di civiltà dell’accoglienza della detenzione che consente al detenuto di esprimere se stesso con un’attività lavorativa e anche in piena libertà all’interno della struttura, è una cosa molto civile”. Bari: donato apparecchio Emogas per i detenuti della Casa circondariale Ristretti Orizzonti, 11 luglio 2013 Grazie all’Associazione “Il Carcere Possibile” Onlus Delegazione di Bari “Giuseppe Castellaneta” verrà donato al Centro Diagnostico Terapeutico della Casa circondariale di Bari un apparecchio Emogas – analisi per l’accertamento di varie patologie. La conferenza di presentazione del progetto si terrà venerdì 12 luglio alle ore 10.30 nella Sala Consiliare dell’Ordine degli Avvocati di Bari, presso il Tribunale di Piazza De Nicola. L’iniziativa, realizzata con il patrocinio e la collaborazione dell’Ordine degli Avvocati di Bari, risulta molto utile per il carcere barese, dove la carenza di strutture e mezzi del Centro diagnostico terapeutico limitano la possibilità di interventi tempestivi. L’apparecchio palmare che sarà donato permette di verificare in urgenza, e di monitorare, l’insorgere di varie patologie come l’edema polmonare, le insufficienze respiratorie acute, gli scompensi cardiaci attraverso il dosaggio dell’emoglobina, oltre ad essere un ausilio nella valutazione di stati anemici acuti, nel controllo di intossicazioni respiratorie ed altre applicazioni. L’obiettivo della donazione è di migliorare la salute del paziente detenuto offrendo, innanzitutto, maggiore garanzia, tempestività, appropriatezza e certezza della cura, gravando il meno possibile su un sistema sanitario già fortemente compresso. Ma, anche, di garantire un maggiore controllo della sicurezza con la limitazione degli spostamenti del detenuto e il risparmio di risorse rappresentate dall’impiego delle scorte. Empoli: “Rose dietro le sbarre”, i prodotti realizzati dalle detenute ad Apriti Chiostro La Nazione, 11 luglio 2013 Sembrava non potesse più accadere. Ed invece, qualcosa di importante si muove per le donne detenute del carcere di Empoli. Sabato 13 luglio 2013 alle 21.30 nel suggestivo Chiostro degli Agostiniani, dove tutto sembra possibile, si terrà una serata in “rosa” con “Donne in viaggio tra ricordi e canzoni”, il concerto-recital del coro “Oltre il Canto”, sul ruolo delle donne nella storia d’Italia e della Toscana ma soprattutto, in un angolo del Chiostro, ci saranno loro, le “Rose dietro le sbarre”: un punto informativo dove verranno esposte cinque esempi di lavorazione di borse, realizzate dalle donne detenute della Casa Circondariale di Empoli con la collaborazione della associazione donne L’Acqua in Gabbia da tempo presente all’interno del carcere empolese e pronta per nuovi progetti futuri e nuove anime-socie da coinvolgere. Lo spettacolo-concerto è composto da una parte corale con il coro Oltre il Canto ed una parte di letture, con canzoni popolari rappresentative della storia italiana con brani e testimonianze. Il punto informativo sulle donne ospiti del carcere di Empoli è la riprova del legame che quel luogo, fin dalla sua nascita, ha avuto con la città ed i suoi cittadini. Domani, venerdì 12 luglio 2013, le porte della struttura si apriranno all’esterno su apposita autorizzazione, perché andrà in scena lo spettacolo teatrale “Agnese dolce Agnese” esito di un percorso formativo teatrale, realizzato dalle operatrici Teresa Delogu e Rossella Parrucci della compagnia Giallo Mare Minimal Teatro, con mi sostegno della regione Toscana, nell’ambito del progetto regionale teatro-carcere ed il liceo delle scienze umane Isis “Il Pontormo” di Empoli. E là ci sarà la prima esposizione delle borse cucite dalle donne ospiti della Casa Circondariale di Empoli, con la possibilità di comprarle su offerta minima. Due momenti dove al centro ci sono loro, le donne tutte, e soprattutto le donne detenute di Empoli, private della propria libertà, consapevoli che con l’aiuto delle Istituzioni, con una riflessione più profonda, con la loro vicinanza, possono sentirsi meno sole e più vive come “Rose” dietro le sbarre”. Il progetto della associazione “L’acqua in gabbia”. Il progetto “Rose dietro le sbarre” può affiancarsi a quello che già esiste nel carcere di sartoria con una novità: realizzare qualcosa. Ma che cosa? Delle borse! Così le donne ex confezioniste della associazione L’acqua in gabbia si impegnano, non solo a seguire la realizzazione delle borse, ma a distribuirle e proporne la vendita ad offerta minima, con conseguente ricavo distribuito alle ospiti che si sono interessate a questa attività e che hanno partecipato ben volentieri. Questo per sviluppare più vivacità e volontà a gestire il proprio tempo in modo utile e creativo. Il contatto con il gruppo di donne dell’Acqua in Gabbia potrebbe, inoltre, creare un momento di incontro e di scambio straordinariamente emozionante per tutte. L’associazione si è impegnata a trovare il materiale tessile necessario alla realizzazione delle borse che sono state realizzate in maniera molto semplice. Le responsabili del progetto: Maria Polizzotto, Sara Stabile, Alberta Tamburini. La tecnica utilizzata. Sono state utilizzate delle macchine da cucire del laboratorio sartoriale già esistente nel carcere. Realizzazione di un modello in carta; accostamento di tessuti e colori diversi; cuciture dei tessuti. Le difficoltà sono medie. L’attività necessita una certa precisione nella realizzazione delle cuciture ed un buon gusto nell’accostamento dei tessuti e dei colori. Le borse ottenute sono di semplice realizzazione, ma di grande effetto per i materiali ed accostamenti realizzati. Il materiale occorrente è stato procurato dalle socie de “L’acqua in gabbia”, così come il filo per cucire. Tutti i costi molto limitati sono stati a carico della associazione. Il laboratorio era articolato su un incontro una volta alla settimana per cinque mesi. Il risultato sarà sotto gli occhi di tutti. L’associazione donne “L’acqua in gabbia”, nata nel 1991 e attiva in ambito sociale e culturale, in particolare rispetto le tematiche femminili, è interessata al carcere femminile di Empoli, continuando a promuovere progetti all’interno dello stesso, che interpretino i bisogni delle donne ristrette. L’esperienza scolastica vissuta lo scorso anno dalla presidente dell’associazione Maria Polizzotto con l’attuazione del progetto “Oltre i muri”, condotto con alcune delle sue classi del liceo delle Scienze Umane “Pontormo”, ha favorito l’interesse ad estendere alle componenti della associazione l’argomento del carcere ed a promuovere un progetto diventato una opportunità per le donne socie e per le detenute. Un’opportunità di conoscenza della reale condizione delle carceri e di confronto e superamento dei pregiudizi che, talvolta, condizionano, purtroppo e molto spesso, il nostro pensiero. Al chiostro domani sera, venerdì 12 luglio 2013 alle 22, sarà inaugurata la mostra “Il mare nel Chiostro: colori e forme a confronto” a cura del gruppo Empolese Attività Subacquee in collaborazione con il Cine foto club di Empoli. Domenica 14 luglio 2013 alle 21.30 “Per gli occhi di zia Bettie: cinema nel Chiostro”, il film Monnrise Kingdom di Wes Anderson. Modena: i piccoli attori del Teatro Sociale di Finale Emilia incontrano i figli dei detenuti Ristretti Orizzonti, 11 luglio 2013 Ventinove giugno 2013. Ci sono alcuni sabati speciali al S. Anna, la casa circondariale della nostra città, nei quali ci si prende cura del legame più profondo che possa coinvolgere l’essere umano: quello fra genitori e figli, bambini anche piccolissimi, nati quando già uno dei genitori era recluso e adolescenti che hanno piena percezione dei luoghi, delle circostanze, della crudezza della verità. In questi sabati si cerca, nel teatro del vecchio padiglione “rivestito a festa”, di ricreare un’atmosfera familiare, di organizzare giochi con pagliacci, spettacoli con burattini. Per i piccoli ospiti, i bambini. A questo sabato speciale hanno voluto partecipare altri bambini. Anche loro bambini speciali. Sono i piccoli attori del Teatro Sociale di Finale Emilia. Bambini delle scuole primarie organizzati e diretti dall’insegnante Antonella Diegoli, scrittrice e autrice di un testo teatrale dal titolo “Gatto pompiere”. I bambini raccontano se stessi e la notte della grande paura attraverso questa “favola di paese” che vuole essere messaggio di speranza. Partendo da una rete di solidarietà e affetti è possibile allontanare la paura e l’angoscia e rinascere dalle macerie. Nel carcere altre macerie e altre paure, ma anche da quelle si può rinascere. NB. Il testo dello spettacolo è tratto da un libricino della stessa autrice, edito da Baraldini nella collana “An ghin gò” dal titolo “Piccola storia di un gatto che si scoprì pompiere”. I proventi del libro, come quelli dello spettacolo itinerante nella nostra regione, vanno a sostegno delle bambine e dei bambini dell’Emilia ferita dal terremoto di un anno fa. Gli squarci del cuore Soglia dell’estate. Questo è un giorno nel quale, come allora, l’aria profuma di rose. Piccoli attori in un teatro a parte. Bambini della torre spaccata a metà che recitano per altri bambini, dal cuore spaccato a metà. Salti, balli, canti per il blues del bel gattino dal cappello rosso da pompiere che nella notte nella quale “il cielo parve stancarsi della terra e la terra cominciò a scuotere”, salvò un rondinotto intrappolato nel crollo della torre. Un rondinotto come un bambino, con le ali troppo piccole per poter volare, per poter scappare. Un rondinotto, un bambino, un germoglio di vita: per poter ricostruire i muri, rinsaldare affetti, ricucire legami. Che cosa resta, nascendo fra le rovine, quando qualcosa si spezza, quando qualcuno ti viene portato via, quando tutto cambia. La nostra umanità più profonda. La parte migliore di noi e i bambini, i nostri figli. Loro che sono la nostra speranza di futuro, di riscatto. Loro che sono il nostro coraggio. Per ricominciare. Asti: sport e carcere, Primo Trofeo “Liberi di giocare” con la Croce Verde di Mombercelli www.atnews.it, 11 luglio 2013 L’8 luglio si è svolta presso la Casa Circondariale di Quarto d’Asti una partita di calcio a 7 tra alcuni volontari della Croce Verde Mombercelli Onlus e una squadra interamente composta dai detenuti della Casa Circondariale di Quarto d’Asti. (Sez. PTB). Il Primo trofeo “Liberi di giocare” è stato vinto dalla squadra composta dai Detenuti della Casa Circondariale di Quarto d’Asti, Sez. PTB. Il match è stato disputato alle ore 13.00 all’interno della Casa Circondariale di Quarto d’Asti. La Direzione dell’Istituto in accordo con il Magistrato ha autorizzato l’accesso dei volontari della Croce Verde Mombercelli all’interno della struttura stessa. L’idea di realizzare questo piccolo progetto nasce dal desiderio di alcuni volontari che hanno deciso di rendersi disponibili per dedicare un pò del proprio tempo libero ad un gruppo di giovani, reclusi all’interno della Casa Circondariale di Quarto d’Asti. L’idea di organizzare un evento simile nasce dalla convinzione che il Calcio, come altri sport, possono divenire un’occasione di divertimento e di “evasione mentale” per i ragazzi che stanno scontando la propria pena, all’Interno dell’Istituto, e possano contribuire a rafforzare il percorso rieducativo che i detenuti svolgono all’interno dell’Istituto. I volontari della Croce Verde Mombercelli che hanno partecipato all’evento sono: Alessandro Sconfienza, Andrea Bozzolan, Daniele Boggero, Eusebio Benchea, Gianluca Gai, Manuel Lepore, Matteo Ciola, Mauro Gallerio, Roberto Roasio e Roberto Rosania. Presente all’incontro, per sostenere i ragazzi dell’Associazione, anche il nuovo Presidente della Croce Verde Mombercelli Onlus, Gianpaolo Volpin. La Croce Verde Mombercelli Onlus coglie l’occasione per ringraziare il Direttore della Casa Circondariale di Quarto D’asti, Dott.ssa Elena Lombardi Vallauri, il Comandante dell’Istituto, il Dottor Leonardo Gagliardi e la Responsabile dell’Area Educativa Anna Cellamaro. Immigrati: dopo il viaggio del Papa a Lampedusa scoppia la polemica di Maria Rosa Tomasello Il Centro, 11 luglio 2013 Dopo il giorno dei gesti e dei simboli, arriva inevitabile l’ora delle polemiche. Il viaggio del Papa a Lampedusa e il suo appello a una assunzione di responsabilità collettiva sulla tragedia dell’immigrazione lacerano la politica italiana, e mentre sull’isola continuano gli sbarchi (340 persone solo ieri), a dare fuoco alle polveri è Fabrizio Cicchitto, maggiorente del Pdl. “Quella del Pontefice è una riflessione di alto profilo – commenta. Ma un conto è la predicazione, altro è la gestione da parte dello Stato di un fenomeno difficile, complesso e insidioso, per lo più segnato dall’intervento di gruppi criminali, qual è l’immigrazione irregolare. Uno Stato degno di questo nome non può abbassare la guardia”. Ce n’è quanto basta per scatenare una rissa tra il centrodestra, gli alleati del Pd e gli oppositori di Sel, che fa tornare a galla storiche differenze sul tema dell’integrazione. A fine giornata replica a Cicchitto il presidente della Camera Laura Boldrini, ex portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, che chiede di mettere fine a “contrapposizioni e demagogia”: “Lo Stato deve gestire i flussi migratori e questo non vuol dire abbassare la guardia, ma affrontare la questione in modo responsabile: chi arriva in Italia a chiedere asilo - ricorda - fugge da posti in cui la politica ha fallito e ha vinto la guerra”. Arriva il mea culpa a nomi dei governi passati del ministro degli Esteri Emma Bonino: “La nostra politica di pura reazione e respingimenti era sbagliata” e non aveva “nessuna attenzione ai diritti di queste persone. Ora abbiamo cambiato l’ordine delle cose”. Il ministro dell’Integrazione Cecile Kyenge chiede di tradurre il messaggio del Papa in azione, a partire dall’introduzione dello ius soli, un diritto anche “temperato - afferma - come in molti Paesi europei: ovvero dare la cittadinanza a chi nasce e cresce nel nostro Paese, o anche a chi arriva da piccolo e cresce qui”. Ma mentre il ministro è a Bruxelles, il Pdl fa quadrato attorno alle posizioni di Cicchitto e la Lega si scatena con una frase di Fabrizio Boso su cui Sel si riserva di presentare un esposto per “istigazione all’odio razziale”: “Sono contento se affonda un barcone, non sono ipocrita, difendo la mia gente - afferma il leghista. Non me ne frega niente di quello che ha detto il Papa, anzi chiedo a lui soldi e terreni per gli extracomunitari”. Marco Furfaro di Sel, intanto, attacca Cicchitto: “Non ha compreso la portata storica del messaggio lanciato a Lampedusa, è il momento di abolire il reato di immigrazione clandestina e di cambiare la Bossi-Fini”. Contro di lui Daniela Santanché insorge: “C’è chi strumentalizza le parole del Santo Padre, le parole di Chiccitto sono più che condivisibili”. Osvaldo Napoli punta il dito contro “farisei e pubblicani”, coloro “che difendono il matrimonio gay e diventano difensori del Papa in materia di immigrazione”. Lo ripete Sandro Bondi: “Non si può scegliere a piacimento ciò che ci piace dell’insegnamento della Chiesa”, e Maurizio Gasparri: “La gestione dell’emergenza e la tutela dell’ordine pubblico spettano allo Stato”, mentre Roberto Calderoli, Lega Nord, ricorda che “in Vaticano per chi entra senza autorizzazione c’è il respingimento nonché l’arresto”. Dal Pd replica al centrodestra Khalid Chaouki, responsabile Nuovi italiani, che parla di “cattolicesimo a targhe alterne” e ricorda che il Papa “parla alle anime, ma anche a chi ha incarichi di governo e siede in Parlamento: confondere immigrazione, rifugiati e criminalità - sottolinea - è un film già visto in questi anni di politica “cattivista” che oggi mostra il suo evidente fallimento”. “Per Cicchitto pure il Papa non è degno di attenzione - commenta Edoardo Patriarca, Pd - ma l’Italia ha grosse difficoltà, i Cie sono come carceri, le domande d’asilo vengono accolte con il contagocce”. Nicola Fratoianni, Sel, accusa il Pdl: “Si sente chiamato in causa perché ha buona parte di responsabilità per una politica fallimentare e razzista” dice, e Roberto Cappelli, deputato del Centro democratico, ricorda: “Cicchitto confonde l’immigrazione clandestina con lo ius soli”. Famiglia Cristiana, intanto, lancia sul web un appello per l’abolizione del reato di clandestinità: “Una legge crudele che trasforma una condizione in uno stigma che solo il buon cuore degli italiani ha impedito che facesse troppi danni e che non serve a nulla sul piano della sicurezza”. Grecia: in fin di vita anarchico detenuto in sciopero fame da 40 giorni La Presse, 11 luglio 2013 Kostas Sakkas, 29enne anarchico greco detenuto e in sciopero della fame, è in “fin di vita”. Lo ha fatto sapere un medico che si occupa dell’attivista, chiedendo al tempo stesso al governo di permettere il suo rilascio dal carcere. Sakkas ha iniziato lo sciopero della fame il 4 giugno e attualmente è ricoverato in un ospedale di Atene, dove è sorvegliato dalla polizia. Il giovane era stato arrestato nel 2010 per accuse di terrorismo, ma è rimasto in custodia in attesa del processo oltre il limite di 18 mesi stabilito dalla Costituzione greca. Sakkas respinge tutte le accuse che sono state formulate nei suoi confronti. I suoi sostenitori, tra cui noti politici e professori universitari, hanno fatto sapere che la settimana prossima inizieranno a loro volta uno sciopero della fame se l’uomo non sarà rilasciato. Thanassis Karabellis, membro del team di medici nominati dalla famiglia di Sakkas per occuparsi del ragazzo, ha avvertito che il giovane potrebbe morire in qualsiasi momento. “Sono consapevole - ha sottolineato Karabellis - di quello che sto dicendo. Kostas Sakkas è nella fase finale dello sciopero della fame”. Il caso dell’anarchico ha scatenato un acceso dibattito tra il governo conservatore e la sinistra all’opposizione in Grecia, in un’atmosfera politica già difficile a causa della crisi finanziaria. Nei giorni scorsi il partito di sinistra Syriza ha chiesto all’Unione europea di intervenire e chiedere il rilascio di Sakkas, mentre Nuova democrazia del premier Antonis Samaras ha accusato gli oppositori di “identificarsi con un uomo sospettato di terrorismo”. Il 29enne è accusato di essere membro del gruppo anarchico militante Cospirazione dei nuclei di fuoco (Spf), responsabile di diversi attacchi con bombe incendiare ad Atene e Salonicco, nonché di aver inviato nel 2010 pacchi bomba alle sedi di diverse ambasciate straniere e all’ufficio della cancelliera tedesca Angela Merkel. Domani una commissione di giudici si incontrerà per valutare il suo rilascio. “Voglio aiutare a mantenere vivo questo ragazzo”, ha detto Ioanna Kondouli del partito Verdi ecologisti dopo aver annunciato che si unirà allo sciopero della fame di protesta. “Considero questo caso una disgrazia, è una cosa vergognosa. Se lui non ce la farà, non so come riusciranno a dormire le persone che restano indifferenti. Voglio sostenere questo sforzo perché se questa vita non verrà salvata, non potremo guardarci negli occhi uno all’altro per tanto tempo”, ha aggiunto Kondouli. Le autorità greche hanno giustificato la continua reclusione di Sakkas con il fatto che nel 2010, 2011 e 2012 sono state formulate nei confronti dell’uomo diverse accuse relative al terrorismo. La Costituzione greca stabilisce tuttavia che “è vietato superare il limite massimo di detenzione in attesa di processo applicando questo limite ad azioni separate nell’ambito dello stesso caso”. Diversi gruppi per i diritti umani, tra cui Human Rights Watch, hanno messo in dubbio la legalità della detenzione di Sakkas. Stat Uniti: Guantánamo; nutrizione forzata dei detenuti prosegue anche durante Ramadan di Patricia Lombroso Il Manifesto, 11 luglio 2013 “Guantánamo è la barbarie del ventunesimo secolo... È l’immagine sporca di Obama e della sua amministrazione... Guantánamo sarà lo stigma per ogni americano che invochi la democrazia e invoca la libertà”. Inizia così la lettera scritta da un detenuto di Guantánamo al suo legale, David Remes, giurista e avvocato dei diritti umani che ha concesso al manifesto di pubblicarla. “Perché questo silenzio? Tutti dovrebbero chiedersi perché tanta violenza nei nostri confronti. E così a lungo. I tribunali vengono messi a tacere. I giudici tacciono. Il mondo è indifferente. I media sono in gran parte assenti. Eppure è una tragica storia. Un essere umano dovrebbe essere in grado di difendersi, se la situazione continua saremmo costretti a intraprendere la più tragica e difficile, ma semplice, delle decisioni, perché non ci rimane altra opzione di fronte all’umiliazione della dignità umana “, conclude la drammatica missiva. Sono 166 i detenuti che da oltre dieci anni restano rinchiusi in questo gulag sull’isola di Cuba, spogliati di ogni dignità umana, senza avere diritto a un processo e all’habeas corpus. Centosei di loro hanno aderito allo sciopero della fame iniziato il 6 febbraio scorso, 45 tra questi sono nutriti forzatamente perché in precarie condizioni fisiche, anche durante il Ramadan appena iniziato. Il governo degli Stati uniti ha infatti respinto la loro richiesta di interrompere la pratica almeno nei giorni del digiuno islamico. “Non abbiamo alcuna intenzione di interrompere la nutrizione forzata con i sondini e lasciar morire di fame i prigionieri durante il Ramadan. Vorrà dire che da oggi praticheremo l’alimentazione forzata durante la notte e prima dell’alba per rispetto della religione islamica”, è stata la risposta del portavoce militare di Guantánamo, Robert Durand, pervenuta ai 100 avvocati che avevano presentato un ricorso per il rispetto dei diritti “etici e morali” affinché venisse interrotta, o almeno sospesa, questa “tortura crudele e inumana” della nutrizione forzata. Una pratica crudele, che anche l’ufficio dei diritti umani dell’Onu considera tortura e violazione del diritto internazionale, che costringe il prigioniero a essere legato a forza a una sedia, soprannominata dai fornitori del carcere “cella a rotelle”. Un documento del Pentagono rivela altri dettagli delle norme seguite dai militari dello Standard Operating Procedure: una maschera viene applicata alla bocca del detenuto per evitare che questi sia tentato di sputare o mordere mentre i secondini inseriscono una sonda nello stomaco, e per sedare il dolore o lo stimolo al vomito somministrano un sedativo, il Reglan, i cui effetti, a lungo andare, provocano depressione fino al suicidio. “È meglio il rischio di morte in cui incorriamo rifiutando il cibo, è la nostra scelta, piuttosto che continuare la detenzione a Guantánamo senza speranza di uscirne se non in una bara”, ha dichiarato telefonicamente un detenuto all’avvocato David Remes, che sta seguendo 13 dei prigionieri in sciopero della fame. È grazie a legali come lui che la barbarie di Guantánamo riesce a uscire fuori dalla barriera di filo spinato che circonda il carcere. Come fu nel caso di Samir Naji al Hasan Moqbel, prigioniero yemenita, rinchiuso dal 2002 senza accuse formali, che raccontò delle tremende condizioni di prigionia e della crudeltà del sondino naso-gastrico ai suoi avvocati che hanno raccolto la sua testimonianza pubblicata poi in un editoriale dal New York Times l’aprile scorso. L’illegalità di Guantánamo è stata più volte denunciata all’amministrazione Obama: da Navi Pillar commissaria delle Nazioni unite per i diritti umani, dall’associazione mondiale dei medici, da Amnesty International, ma sebbene Obama continui a promettere una soluzione, la chiusura del supercarcere non sembra all’ordine del giorno nei programmi dell’amministrazione Usa. L’ultima decisione del dipartimento di Giustizia lo dimostra chiaramente. Tra le situazioni più tragiche c’è quella di 96 yemeniti innocenti, prosciolti già da Bush nel 2006 e dallo stesso Obama nel 2009, che ormai non hanno più speranza di uscire vivi. Da maggio sono rinchiusi in celle di totale isolamento cui si è aggiunta una recente duplice tortura. Per comunicare con il proprio avvocato o i familiari devono sottoporsi a un’umiliante perquisizione fisica per due volte: in uscita dal campo 6 e al ritorno in cella. “Non riesco ad avere più nessuna notizia dai miei clienti, pur di evitare la duplice tortura evito di chiamarli - dice David Remes. Temiamo un altro suicidio o un altro caso di morte, come fu per Adnan Latif, mio cliente, per dieci anni a Guantánamo, innocente, è uscito dal carcere in una bara”. “Il Pentagono - aggiunge Remes - ha redatto una inchiesta di 80 pagine per dimostrare che Latif è morto per eccesso di narcotici e antidepressivi. Una risposta per evitare la responsabilità di una morte per suicidio indotto, che resterà impunita”.