Giustizia: Carmelo Musumeci, una vita dietro le sbarre, lancia petizione contro l’ergastolo di Alessia Malachiti www.infooggi.it, 10 luglio 2013 Carmelo Musumeci, ergastolano detenuto nel carcere di Padova, durante gli anni ha avuto modo di studiare ed ha iniziato a scrivere libri ed articoli, raccontando all’Italia la vita dei detenuti da dietro le sbarre. Di recente, ha lanciato una petizione contro l’ergastolo ostativo. A firmarla sono stati anche personaggi illustri, come Margherita Hack, la quale ha anche scritto la presentazione del suo libro “Zanna Blu”. Secondo il principio su cui si basano le carceri, esse dovrebbero essere finalizzate alla rieducazione dell’individuo per il reinserimento nella società. L’ergastolo è dunque incostituzionale? InfoOggi.it ha intervistato Carmelo Musumeci per capire quali sono le motivazioni che lo hanno spinto a lanciare la petizione, ma anche per scoprire come vivono i detenuti condannati all’ergastolo. Carmelo, lei è stato condannato all’ergastolo: per quale ragione? Che cosa è accaduto? “Sono nato colpevole. Poi ho fatto di tutto per diventarlo. Ed è accaduto la fine del mondo. Le mie carte processuale dicono (e non io) che durante una guerra fra bande mi hanno sparato sei colpi, tutti a segno, ma poi, sopravvissuto, mi sono vendicato”. Una persona viene condannata all’ergastolo ostativo quando si ritiene che nessuna pena è in grado di garantire il reinserimento nella società del detenuto. Secondo lei, viene dunque a crollare il principio secondo cui si basano le carceri? Si tratta unicamente di una “punizione”, è dunque incostituzionale? “Come fa una pena che non finisce mai a rieducare o a migliorare qualcuno? L’ergastolo ostativo non solo è anticostituzionale, ma è una vera e propria tortura perché ti ammazzano un po’ per volta tutti i giorni e un po’ tutte le notti”. Lei, durante la sua detenzione, ha studiato ed ha scritto un libro: nel suo caso, il carcere è stato educativo? Si sente un uomo diverso? “Ho cominciato a studiare per non impazzire quando ero sottoposto al regime di tortura del 41 bis. Ed ho pubblicato diversi libri perché credo che in Italia la giustizia e le prigioni siano quelli che sono anche perché, a differenza di altri Paesi, nel nostro manca una letteratura sociale carceraria. E la letteratura è l’anima di un Paese, per questo m’illudo di crearne una con i miei romanzi sociali noir carcerari. E poi scrivo anche perché ogni persona che mi legge mi trasmette un po’ di forza per continuare a esistere e resistere. L’ultimo mio libro s’intitola “Zanna Blu” (Gabrielli Editore) ed ha la prefazione di Margherita Hack (lo si può ordinare anche tramite questo indirizzo email: zannablumusumeci@libero.it). Il carcere non è un luogo educativo, non è la medicina, ma piuttosto è la malattia e per questo io lo chiamo l’Assassino dei Sogni. E dopo ventitré anni di carcere è ovvio che mi senta un uomo diverso, ma molto peggiore e più “criminale” di quando sono entrato”. Se venisse rilasciato, come imposterebbe la sua vita? Cosa le piacerebbe fare? “Con la condanna della “Pena di Morte Viva” (così è chiamata da noi l’ergastolo ostativo) se non metti in cella un altro al posto tuo non avrai mai la possibilità di venire rilasciato. In tutti i casi se questo miracolo accadesse, smetterei di essere uno scrittore ombra e continuerei a scrivere libri. E andrei in giro per l’Italia per presentarli e per continuare a lottare contro l’Assassino dei Sogni per fare conoscere, nella Patria del Diritto e della Cristianità, l’esistenza della “Pena di Morte Viva”. Com’è la vita in carcere? “In carcere non si vive, ma si sopravvive. E funziona solo l’emarginazione sociale. Il carcere migliore è quello che non costruiranno mai”. La petizione che ha lanciato, contro l’ergastolo ostativo, è stata firmata da persone illustri, tra i firmatari ve n’è qualcuno che lei stima particolarmente? “Li stimo tutti perché in un’Italia forcaiola ci vuole tanto coraggio e dare la faccia e schierarsi con i cattivi per dare anche a loro una speranza, una possibilità, una sola. Se proprio devo fare dei nomi, anche se non mi piace farli, stimo moltissimo Margherita Hack, Agnese Moro e Umberto Veronesi”. Quale pena sarebbe idonea, secondo lei, per coloro che non mostrano alcun pentimento e che dimostrano di non avere compreso l’entità di ciò che hanno compiuto? “Dopo un serio percorso sociale, il perdono è la peggiore, più dolorosa e rieducativa, pena che si possa dare a un uomo, perché il male si combatte solo con il bene”. Per chi ha compiuto reati di terrorismo, mafia e per quelli compiuti contro i minori, secondo lei, è possibile mirare al reinserimento? “Non bisogna buttare mai via nessuno, come dice spesso Agnese Moro, figlia dello statista ucciso dalle Br. Tutti possono essere recuperati, ma c’è qualcuno evidentemente che pensa che per gli uomini ombra (così vengono chiamati gli ergastolani ostativi) è giusto che siano destinati ad essere considerati cattivi e colpevoli per sempre”. L’ergastolo ostativo stronca ogni possibilità di rimediare a ciò che si è compiuto? Per quale ragione, secondo lei, è importante debellare questo tipo di pena? “L’ergastolo ostativo è una pena di morte al rallentatore, una pena di morte che si consuma ogni giorno, a gocce, da vivo, senza nessuna possibilità di rimediare al male con il bene. Nulla è più grande di un atto d’amore e di perdono”. Ha in mente altri progetti, per il futuro, al fine di portare avanti la sua causa? “Lasciarmi morire di fame per liberare almeno il mio corpo e la mia mente senza continuare a farli soffrire inutilmente e senza speranza”. Giustizia: il ministro Cancellieri; le carceri italiane scoppiano, ci vorrebbe un’amnistia Adnkronos, 10 luglio 2013 Il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri parla della strategia del governo sulle carceri: “Molte persone non dovrebbero essere detenute”. E annuncia “12mila posti in più nei penitenziari”. La strategia del governo sulla questione delle carceri italiane è “complessa e riguarda tanti aspetti”. Il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, ne ha parlato questa mattina intervenendo a Radio 24. Per quanto riguarda la costruzione di nuovi istituti penitenziari, “alla fine dell’anno prossimo avremo 12mila posti in più”, ha detto il ministro. Quanto alle misure introdotte per decreto per alleviare la situazione di sovraffollamento carcerario, “abbiamo 30mila detenuti in più” rispetto alla capienza complessiva nelle carceri italiane. “Le persone pericolose non usciranno dal carcere” per effetto dei provvedimenti del governo. “Escono - ha spiegato Cancellieri - persone che possono svolgere il loro lavoro all’esterno, possono pagare il loro debito alla società lavorando e rendendosi utili”. Il decreto “avrà effetto su 5-6.000 persone nell’arco di due anni”. Quanto all’amnistia, Cancellieri ammette che “alleggerirebbe molto il lavoro degli uffici. Riguarderebbe solo reati molto leggeri, ma in ogni caso è problema talmente politico che lo rimetto del tutto al Parlamento”. “Molte persone sono nelle carceri - ha aggiunto il ministro - ma non dovrebbero starci. Tanti detenuti sono in attesa del primo giudizio, molti dei quali escono innocenti, quindi dobbiamo ragionare per dargli i domiciliari. Poi c’è chi va in carcere per 2-3 giorni e poi va ai domiciliari e questi passaggi aggravano sistema”. “Le norme che ci siamo dati - ha detto il ministro in merito al recente decreto in materia - servono solo a rendere più semplici le pene alternative. Persone pericolose non escono assolutamente”. Giustizia: Cancellieri; il decreto carceri non metterà fuori alcun carcerato pericoloso Radio Vaticana, 10 luglio 2013 Prosegue in Italia il dibattito sul Decreto legge sulle carceri, che nei giorni scorsi ha avuto il via libera dal Consiglio dei Ministri, e che punta a una riorganizzazione complessiva del sistema carcerario ormai al collasso. Federico Piana ne ha parlato col ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri: "E’ una strategia a 360 gradi, perché operiamo su più versanti. Intanto sul versante normativo con questo Decreto, che è servito ad una prima azione, stiamo facendo una rivisitazione di tutte le norme penali, con una importante azione di depenalizzazione cui procederemo in modo che cambierà molto anche il tipo di pena e tutto quello che ad essa è connesso. Naturalmente questa strategia richiede tempi un po’ lunghi - qualche mese per lo meno - perché serve proprio un’analisi di tutta la materia penale e una riorganizzazione del sistema. D’altro lato stiamo, invece, provvedendo a riorganizzare le carceri su tutto il territorio nazionale, cercando di coprire i posti che ci mancano, anzitutto con una serie di opere nuove: noi metteremo a punto nell’arco di un anno, massimo un anno e mezzo, 12 mila nuovi posti, e più altri 5-6 mila posti che ricaveremo dalla ristrutturazione di carceri che già ci sono". Alcuni criticano questo Ddl affermando che potrebbe mettere fuori carcerati che poi possano creare problemi… "No, no! Assolutamente! Anzitutto perché non mette fuori alcun carcerato pericoloso. E’ soprattutto un Ddl che opera sulle entrate: nel senso che molto spesso capita che nelle carceri entrino, magari per 2-3-5-10 giorni, delle persone che poi escono dal carcere perché non dovevano stare in carcere o perché non condannate o perché potevano essere titolari di misure alternative. Noi, con questo Ddl, abbiamo cercato di evitare questo fenomeno. Per cui entrerà meno gente in carcere, ma è gente che comunque non sarebbe entrata, che però sono alla fine dell’anno un numero di 20-30 mila persone". C’è anche un aspetto che riguarda l’amnistia: lei pensa che sia utile? Che sia una possibilità oppure no? "Guardi io le dico dal punto di vista tecnico, per la problematica che noi abbiamo del sovraffollamento che c’è, sarebbe molto utile. Però c’è un discorso politico dietro all’amnistia e questo io lo lascio fare al Parlamento: sarà il Parlamento che dovrà fare le valutazioni. Per quanto ci riguarda, naturalmente, un alleggerimento della pressione della popolazione carceraria sarebbe molto utile". Ministro, c’è poi l’annoso problema della Polizia penitenziaria, che dice e che sostiene che da anni è sotto organico e non ce la fa a gestire tutte le carceri italiane… "Svolgono un lavoro preziosissimo! Poi che i ruoli siano adeguati alle esigenze, credo che vada tutto visto in un’ottica di una riorganizzazione anche del sistema carcerario. Occorre intanto investire molto sugli strumenti informatici, che liberano le guardie carcerarie da tante incombenze; occorre intervenire sulle strutture, che rendano meno faticoso il loro lavoro… C’è tutta una serie di cose, per la quale poi un calcolo di carenza o meno di organico si potrà fare soltanto quando tutto il progetto sarà definito". Giustizia: Pd; completare presto interventi su sovraffollamento carcerario Agenparl, 10 luglio 2013 Dichiarazione congiunta di Sandro Favi, Responsabile nazionale carceri del Pd e di Danilo Leva, Presidente Forum Giustizia Pd: “Dopo le positive iniziative parlamentari e governative in materia penitenziaria, che hanno individuato correttamente i nodi strutturali che determinano il sovraffollamento dei nostri istituti penitenziari, occorre continuare su questa strada senza tentennamenti. In particolare il Pd ritiene opportuno che la proposta di legge Ferranti ed altri (Camera 370), che recepisce le indicazioni e le proposte della Commissione mista CSM-Magistratura di sorveglianza-Ministero della Giustizia, venga posta al più presto all’ordine del giorno dei lavori della Commissione Giustizia della Camera. Auspichiamo che tutte le proposte concrete delle forze politiche su questo tema possano trovare, in una stringente sessione parlamentare, la possibilità di essere esaminate e recepite in un ampio pacchetto che contenga, tra l’altro, la riforma della custodia cautelare in carcere e la riforma del trattamento penale sulle droghe. Ci auguriamo che il Ministro della Giustizia Cancellieri voglia, per la parte di sua competenza, concorrere a questo forte impegno che completi gli indispensabili interventi per le carceri italiane”. Giustizia: interrogazione parlamentare sulla morte di Francesco S. nel carcere di Monza Ristretti Orizzonti, 10 luglio 2013 Legislatura 17 Atto di Sindacato Ispettivo n° 4-00504. Pubblicato il 8 luglio 2013, nella seduta n. 60 - Bottici, Paglini, Cioffi, Donno, Girotto, Pepe, Blundo, Lucidi, Simeoni, Bocchino, Cotti, Vacciano, Moronese, Gaetti, Molinari, Castaldi, Scibona, Petrocelli, Casaletto, Orellana, Bignami. Ai Ministri della giustizia e della salute. Premesso che: secondo quanto riportato nel comunicato stampa del 26 giugno 2013 dell’osservatorio permanente sulle morti in carcere (composto dall’associazione “Il Detenuto Ignoto”, dall’associazione “Antigone”, dall’associazione “A Buon Diritto”, dalla redazione di “Radio Carcere” e dalla redazione di “Ristretti orizzonti”), sabato 8 giugno nel carcere di Monza è deceduto un ragazzo di 22 anni, Francesco S., che, dai primi accertamenti, sarebbe morto per arresto cardiocircolatorio. Il giovane era stato arrestato il 1° maggio per una rapina; la mamma del ragazzo, signora Giovanna D’Aiello, chiede con forza di conoscere la verità e si è rivolta all’osservatorio perché venga fatta luce sul decesso del figlio. Da notizie stampa diffuse si apprendono le sue parole: “Sono sicura che non è morto di morte naturale, i suoi organi erano sani. Dopo averlo visto a colloquio in carcere, il lunedì prima della sua morte (3 giugno, ndr) avevo fatto presente che mio figlio stava male. Ha perso sedici chili in un mese. Avevo chiesto che lo mettessero in una struttura adeguata, che lo aiutassero. Lui non aveva problemi di salute. Se aveva sbagliato, doveva rispondere per quello che aveva fatto, ma non è giusto che sia morto così. Voglio sapere cosa è successo, voglio la verità. Io mi rivolgerò a tutti, non mi fermo qui, perché la morte di Francesco deve servire da monito per tanti ragazzi. Avrei voluto che morisse tenendo la sua mano nella mia. E invece è andata in questo modo atroce”; i familiari escludono anche l’ipotesi del suicidio. In una lettera recente alla fidanzata Francesco S. pensava “ai tanti progetti insieme”; su disposizione del magistrato è stata effettuata l’autopsia, che (per quanto è dato sapere) avrebbe escluso che la morte di Francesco S. sia avvenuta per cause violente o per intossicazione da farmaci o droghe. Il responso è stato “decesso causato da arresto cardiocircolatorio”; considerato che: nel solo mese di giugno sono già 11 i detenuti morti: 4 per suicidio, 3 per malattia e 4 per cause da accertare. Dai dati dell’osservatorio si apprende che dall’inizio dell’anno i detenuti suicidi sono 27 e il totale dei decessi in carcere è di 85; in nessuno di questi casi l’amministrazione penitenziaria ha provveduto a dare la dovuta comunicazione, nonostante sia tenuta a dare informazione sulle morti in carcere, come previsto dalla circolare Gdap-0397498-2011 “Sala Situazioni. Modello Organizzativo e nomina Responsabile”, all’articolo 5, comma 6, che recita: “Per garantire una trasparente e corretta informazione dei fenomeni inseriti nell’applicativo degli “eventi critici” le principali notizie d’interesse saranno, inoltre trasmesse al Direttore dell’Ufficio Stampa e Relazioni esterne per le attività di informazione e comunicazione agli organi di stampa e la eventuale diffusione mediante i canali di comunicazione di cui dispone il Dap (rivista istituzionale, newsletter, siti istituzionali)”, si chiede di sapere: di quali informazioni disponga il Ministro della giustizia relativamente ai fatti riferiti; se non intenda avviare, nel rispetto e indipendentemente dall’inchiesta che sulla vicenda ha aperto la magistratura, un’indagine amministrativa interna anche al fine di prendere in considerazione ogni eventuale sottovalutazione di significativi profili di accertamento per dare giustizia ad una madre, Giovanna D’Aiello, e diradare i dubbi che avvolgono la morte di un giovane di 22 anni; quali iniziative i Ministri in indirizzo intendano assumere per ridurre l’alto tasso dei decessi per suicidio in carcere; quali siano le cause che hanno condotto al decesso di Francesco S. e se siano state messe in atto tutte le misure preventive, di cura e di assistenza che le condizioni di salute del detenuto imponevano; se non ritengano che l’elevato numero di suicidi in carcere dipenda dalle condizioni di sovraffollamento degli istituti di pena e dalle aspettative frustrate di migliori condizioni di vita al loro interno; con quali iniziative di competenza intendano scongiurare i rischi derivanti dal sovraffollamento nelle carceri e migliorare le condizioni di vita dei detenuti; se non ritengano infine necessario disporre un’inchiesta ministeriale sulle ragioni delle morti in carcere, inclusi i suicidi, e sullo stato di sovraffollamento degli istituti penitenziari. Giustizia: controlli in cella senza accendere luce, magistrato sorveglianza accoglie reclamo Ristretti Orizzonti, 10 luglio 2013 “Ho dovuto attendere 2 mesi ma, alla fine, il giudice mi ha dato ragione”. Lo afferma il cetrarese Emilio Quintieri, ecologista radicale, da circa 6 mesi ristretto in attesa di giudizio presso la casa circondariale di Paola. “Ho provato più volte a farlo capire sia alla Direzione che al Comando della Polizia Penitenziaria ma non c’è stato niente da fare. Mi hanno costretto, anche per questo, a presentare reclamo alla Magistratura di Sorveglianza per far censurare quanto illecitamente effettuato dalla Polizia Penitenziaria”. In pratica lo scorso 21 aprile, dopo varie proteste, il detenuto cetrarese si è rivolto al Magistrato di Sorveglianza di Cosenza Paola Lucente per lamentare le modalità di esecuzione dei controlli notturni all’interno delle celle dei detenuti da parte del personale di vigilanza. “Per effettuare i controlli nelle ore notturne - dice Quintieri - gli Agenti Penitenziari accendono la luce interna di cui sono dotate le celle, provocando il risveglio di tutti i detenuti e disturbo al sonno notturno. Solo alcuni svolgono tali controlli utilizzando una torcia manuale senza arrecare alcun fastidio alla popolazione reclusa”. A tal riguardo il “detenuto politico” evidenziava che il Regolamento di Esecuzione dell’Ordinamento Penitenziario stabiliva che “per i controlli notturni da parte del personale la illuminazione deve essere di intensità attenuata” per cui quanto veniva effettuato era illegale e non solo da questo punto di vista perché, secondo Quintieri, tale pratica violerebbe anche le garanzie costituzionali previste dagli artt. 13 comma 4 e 27 comma 3 della Costituzione che proibiscono ogni violenza fisica o morale e trattamenti contrari al senso di umanità nei confronti delle persone private della libertà. Per questi motivi chiedeva l’accoglimento del reclamo e che venisse ordinato all’Amministrazione Penitenziaria di cessare le illecite modalità di controllo notturno lamentate. In data 24 giugno 2013 con decreto n. 2502/13 il Magistrato di Sorveglianza di Cosenza Paola Lucente, all’esito della istruttoria espletata, ha accolto il reclamo proposto dal detenuto Emilio Quintieri ordinando alla Direzione del Carcere “di attivarsi per la sistemazione o sostituzione dell’impianto di illuminazione per i controlli notturni con le modalità indicate nella parte motiva e che, nelle more, i controlli notturni dovranno essere effettuati mediante l’utilizzo di luci a batteria di intensità attenuata”. “Le stesse deduzioni della Direzione della Casa Circondariale - scrive il Giudice nel suo provvedimento - riscontrano le doglianze del Quintieri: l’impianto delle luci notturne di vecchia generazione, in passato disattivato, per i problemi che arrecava al riposo dei detenuti, illumina tutte le stanze detentive e ostacola il sonno notturno. Attualmente è in fase di sistemazione da parte dei tecnici del Prap, sicché - se ne deduce - che è ancora attivo quello datato ed inadeguato. Considerato che l’art. 6 del Regolamento di Esecuzione dell’Ordinamento Penitenziario al comma 4 prescrive che l’impianto di illuminazione per i controlli notturni deve essere di intensità attenuata, si impone la sistemazione immediata dello stesso, con modalità che consentano una illuminazione non generalizzata e, comunque, attenuata”. “Ora mi auguro - conclude l’Ecologista Radicale Emilio Quintieri - che l’autorità carceraria rispetti quanto stabilito dalla Magistratura di Sorveglianza poiché, in caso contrario, sarò costretto a rivolgermi alla procura della Repubblica di Paola per chiedere la condanna dello Stato Italiano per violazione dell’art. 3 della Convenzione Europea per aver sottoposto i detenuti ristretti nella Casa Circondariale di Paola ad un trattamento inumano e degradante”. Lombardia: una parte del Piano Regionale di Sviluppo vada all’ambito penitenziario Ristretti Orizzonti, 10 luglio 2013 Prevedere uno specifico richiamo nel Piano Regionale di Sviluppo che preveda l’allocazione di risorse per il sistema penitenziario lombardo. A richiederlo è stato il consigliere regionale Fabio Fanetti (“Maroni Presidente”), intervenendo oggi in Aula nel dibattito sul PRS e presentando un ordine del giorno elaborato dalla commissione speciale Carceri di cui è presidente. “Ritengo sia necessario - ha dichiarato Fanetti - tendere a un innalzamento degli standard qualitativi delle prestazioni erogate in ambito di sanità penitenziaria e mantenere la quantità e la qualità delle proposte offerte negli istituti lombardi in materia di lavoro e dei progetti di formazione. Impiegare risorse economiche affinché questi obiettivi siano realizzati, è un dovere a cui regione Lombardia non si è sottratta” “Pur consapevole che diversi sono i soggetti istituzionali a cui spetta di rispondere all’annoso problema del sovraffollamento nelle carceri, sia attraverso il miglioramento delle strutture attualmente esistenti, sia con l’applicazione di pene alternative e misure alternative alla detenzione, Regione Lombardia - ha proseguito il consigliere - deve poter offrire a un maggior numero di persone ristrette nei propri istituti di pena, la possibilità di impegnare il proprio tempo in maniera costruttiva anziché attendere che le ore trascorrano oziosamente all’interno della propria cella. Ciò significa puntare a un risultato importante: sotto il profilo special preventivo, offrire al detenuto una possibilità concreta di reinserimento e riscatto sociale e sotto il profilo preventivo, ridurre sensibilmente quel tasso di recidiva che oggi tanto affligge e preoccupa la società all’esterno delle mura carcerarie”. Attraverso l’ordine del giorno la Commissione speciale Carceri intende impegnare la Giunta regionale “a predisporre - ha spiegato Fanetti - in fase di aggiornamento del Prs, una parte dedicata specificatamente alle politiche regionali nell’ambito penitenziario al fine - ha concluso Fanetti - di valorizzare gli interventi e le azioni rivolti ai detenuti e alle loro famiglie, previste nei diversi ambiti di competenza regionale o aggiuntivi a quelli di competenza statale”. Marche: incontro tra Presidente Spacca e la Cancellieri su carcere e tribunale Camerino Agenparl, 10 luglio 2013 Il presidente Spacca incontra il ministro Cancellieri. Carcere e Tribunale di Camerino, organizzazione degli uffici giudiziari nelle Marche, i temi. Realizzazione del nuovo carcere e mantenimento del Tribunale: queste le richieste che il presidente della Regione Marche, Gian Mario Spacca, ha rivolto oggi al ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri nel corso di un incontro, presente il sindaco di Camerino Dario Conti, in merito alle questioni aperte nel Comune e più in generale alla distribuzione delle strutture giudiziarie sul territorio regionale. Spacca ha sottolineato l’importanza che sia il carcere sia il Tribunale rivestono per una comunità che ha visto negli ultimi dieci anni una drastica riduzione di attività in seguito al terremoto del 1997. “La soppressione del Tribunale e la mancata costruzione del nuovo carcere - ha detto Spacca - sarebbero un duro colpo per l’entroterra appenninico della nostra regione, progressivamente spogliato di funzioni amministrative in una regione, le Marche, dove è già scarsa la presenza di uffici decentrati dello Stato. In linea generale, anche in merito alle sezioni distaccate dei Tribunali, è auspicabile una più attenta redistribuzione territoriale, che non penalizzi l’entroterra e non concentri tutti i servizi esclusivamente sulla fascia costiera”. Il nuovo carcere, per iniziare. Spacca ha espresso la preoccupazione del governo regionale e della comunità di Camerino per la mancata previsione, nel piano carceri, di nuove strutture, inclusa quella di Camerino che pure può contare sulla disponibilità di un’area, su una progettazione già avviata, oltre che sulla piena condivisione della comunità interessata. “La realizzazione del nuovo carcere - ha detto questa mattina il presidente Spacca al ministro - è un’esigenza particolarmente sentita nelle Marche. L’attuale istituto, infatti, è ospitato all’interno dell’ex convento duecentesco di San Francesco, in pieno centro storico, ed è diventato quindi ormai inadeguato ed insufficiente ad ospitare i detenuti. La nuova struttura contribuirebbe ad attenuare i disagi di una popolazione penitenziaria presente in regione in misura superiore alla capienza dei plessi attualmente esistenti. Le Marche potranno quindi offrire un adeguato contributo alla soluzione del sovraffollamento carcerario. Il nuovo istituto, inoltre, andrà ad incidere in modo significativo nel tessuto economico e occupazionale della città e potrà rappresentare un’occasione importante di lavoro in questo momento di particolare difficoltà”. Al centro dell’incontro, anche il futuro del Tribunale di Camerino. Spacca ha espresso l’esigenza che la nuova geografia giudiziaria venga ripensata. Il D.Lgs. 7 settembre 2012, n. 155, infatti, ha sì ridotto il numero dei tribunali soppressi da 37 a 31, salvando le sedi nelle aree a forte presenza di criminalità organizzata, ma ha mantenuto il taglio nelle Marche dei Tribunali e le relative Procure di Urbino e Camerino, oltre a otto sezioni staccate. Ma mentre per Urbino, pochi giorni fa, la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del decreto, per Camerino permane la previsione di soppressione. È stato ricordato al ministro Cancellieri che Camerino ospita una delle più antiche università italiane, in particolare la facoltà di Giurisprudenza, e che il territorio attualmente ricompreso nel proprio circondario, quasi esclusivamente montano, è assai esteso: 22 Comuni e una superficie di oltre 1.300 Kmq, pari a circa la metà della superficie dell’intera provincia di Macerata. “La popolazione residente - ha inoltre detto Spacca - è caratterizzata da una particolare dispersione e da una rilevante presenza di ultra 65enni, in percentuali sensibilmente maggiori rispetto alla media della Regione Marche. In questo contesto il Tribunale di Camerino è stato fino ad oggi in grado di offrire una risposta efficace alle esigenze di giustizia dei cittadini, in tempi brevi e inferiori alla media nazionale. Tutto questo all’insegna della massima efficienza: in termini di spesa questo Tribunale è il presidio meno costoso tra quelli con meno di dieci magistrati”. È stato infine sollecitato il rafforzamento del personale dell’amministrazione penitenziaria nelle Marche, in particolare di quello della Polizia penitenziaria, oggi in sottonumero rispetto alle necessità. Da parte sua, il ministro Cancellieri ha assicurato la massima attenzione e tutto il proprio impegno per le questioni sollevate. Cagliari: rivolta nella notte a Buoncammino “siamo detenuti, ma non siamo bestie” www.castedduonline.it, 10 luglio 2013 Clamorosa protesta nella notte dei detenuti del carcere cagliaritano di Buoncammino: “Non siamo delle bestie” - scrivono in uno degli striscioni appesi alle celle. Sbattono le porte, le finestre contro le grate delle celle, con urla disperate che si sentono sino al viale. “Ci siamo asserragliati nella cella 725, viviamo in condizioni disumane” - gridano davanti alle famiglie - chi sta fuori deve sapere come stiamo qui dentro e in che condizioni siamo costretti a vivere. Un detenuto intorno alle 20.35, getta una lettera nascosta dentro un panino. Una lettera che racconta storie di straordinaria disperazione. A leggerla, in nostra presenza, è la moglie dell’uomo, che tiene con se in braccio un bimbo di pochi anni. Ecco, leggete - dice la donna - lo hanno scritto stasera, non vogliono vivere rinchiusi e trattati peggio delle bestie. “Questa non è una rivolta, soltanto un segno di protesta”, scrivono in un secondo striscione mentre per precauzione gli agenti della Polizia penitenziaria staccano energia elettrica e l’acqua del braccio maschile. Una manifestazione di rabbia che arriva proprio nel giorno della visita in Sardegna del ministro Cancellieri, proprio nel giorno dell’inaugurazione del nuovo carcere sassarese di Bancali. A Buoncammino invece resta attualissima l’emergenza, delle celle sovraffollate e di un carcere troppo vecchio per essere umano. E la protesta sembre essere soltanto all’inizio. Uil-Pa: protesta contro sovraffollamento Dal pomeriggio di ieri “diversi detenuti” del carcere di Cagliari “hanno intrapreso una clamorosa protesta barricandosi all’interno delle celle, lanciando oggetti di ogni genere e causando il black out dell’energia elettrica”. A renderlo noto è il segretario provinciale di Cagliari della Uil Penitenziari, Mauro Muscas. “Una violenta forma di protesta” messa in atto dai detenuti, “che a quanto pare è da ricondurre al sovraffollamento e alle condizioni di vita all’interno del carcere. Attualmente -aggiunge Muscas - un gruppo di detenuti è barricato all’interno delle proprie celle, limitando l’intervento del personale di Polizia Penitenziaria”. “La tensione all’interno dell’istituto è ai livelli di guardia anche se tenuta sotto controllo dal personale di Polizia Penitenziaria in servizio. L’auspicio -aggiunge Muscas- è quello che Direzione del carcere e Provveditorato Regionale individuino in tempi rapidi soluzioni utili a ripristinare la normalità all’interno dell’istituto”. “Nel frattempo - conclude il sindacalista - non è facile prevedere i risvolti della protesta, ma va detto comunque che nonostante l’apprensione la situazione è tenuta sotto controllo dalla Polizia Penitenziaria. La situazione del carcere cagliaritano - conclude Muscas - purtroppo è precaria da tempo e l’unica soluzione percorribile a nostro avviso è quella di aprire il nuovo istituto”. Cagliari: oggi situazione tornata alla tranquillità C’è chi vuole andare nella colonia penale, chi chiede il permesso di uscire per lavorare e chi si lamenta per il sovraffollamento e le condizioni del carcere. Sarebbero queste le ragioni che hanno spinto ieri cinque detenuti della cella 72 del carcere di Buoncammino a protestare. Proprio nel giorno in cui il ministro della Giustizia Cancellieri si trovava in Sardegna per inaugurare il nuovo carcere di Sassari. Ma la situazione a Cagliari è tornata alla normalità poco dopo. Alle 21 dalle finestre sono stati appesi alcuni striscioni ricavati dalle lenzuola: “Questa volta vogliamo fatti e non chiacchiere, qua alla cella 72 ci siamo rinchiusi noi perché stiamo male psicologicamente, derivato dalla detenzione. Entriamo sani e si esce malati senza reinserimento”. In un altro striscione: “Non siamo bestie”. Quasi contemporaneamente alla protesta è mancata l’elettricità e durante il black out i detenuti della cella hanno iniziato a battere contro le finestre pentole e suppellettili, coinvolgendo anche altri carcerati. Intanto all’esterno sono arrivati anche familiari di alcuni detenuti. La protesta si è conclusa dopo pochi minuti con l’entrata in funzione del generatore ausiliario e l’incendio di uno degli striscioni. “Non ci sono problemi - hanno fatto sapere questa mattina dal carcere - la situazione è tranquilla, si sono riprese le attività. Tutto Å tornato alla normalità tanto che stasera ci sarà come previsto la presentazione di un libro da parte di una associazione di volontariato”. Sassari: il ministro Cancellieri; con chiusura carcere San Sebastiano finita una vergogna di Elena Laudante La Nuova Sardegna, 10 luglio 2013 “Qualcuno potrà pensare che sarebbe stato preferibile inaugurare una scuola, un ospedale, una industria. Ma qui oggi, celebriamo il superamento di una situazione insostenibile”. La fine di una vergogna di Stato. “Festeggiare” per aprire un nuovo carcere si può, spiega il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Tamburino, se vuol dire chiudere la galera di San Sebastiano. Perché qui, nel nuovo penitenziario di Bancali, che si estende alle porte di Sassari su 15 ettari di campi e celle dignitose, i detenuti “potranno ritrovare una via di redenzione”. Toni solenni per una inaugurazione avvenuta ieri per mano del ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri, arrivata a salutare l’apertura di una delle quattro supercarceri dell’isola (Nuchis e Massama già pronte, Uta entro il 2013) come “esempio di un nuovo concetto di detenzione”. Sotto un sole particolarmente cocente sulla landa di Bancali, il Guardasigilli è circondato dalle autorità, in prima fila il provveditore regionale del Dap Gianfranco Degesu, il capo delle Infrastrutture in Sardegna Donato Carlea, e la padrona di casa, la direttrice dell’istituto Patrizia Incollu, accompagnata dal capo degli agenti Eraclio Seda. Alle 11 Cancellieri e Tamburino scoprono la targa che intitola la struttura a Giovanni Bacchiddu, agente ucciso nel 1945 durante una rivolta tra le sezioni di Alghero. “Perché il carcere è anche un posto di rischio”, ammonisce Tamburino riferendosi all’impegno e alla dedizione di chi ci lavora. Seguito dai vertici della giustizia sassarese, delle forze dell’ordine, sindaco, presidente della Provincia e pure dai rappresentanti del Gremio della Mercede, il ministro varca l’ingresso del penitenziario per una visita alla sala di controllo. Fuori restano solo i giornalisti. Ma dopo pochi minuti esce e spiega che la Sardegna ha di che “essere orgogliosa di questa opera”, costata 87 milioni per 465 posti, 92 dei quali destinati al 41 bis. Sui mafiosi da portare qui il ministro “non fa polemiche”, perché “ci sono delle norme e degli atti di indirizzo del Parlamento firmati da persone che adesso fanno polemica, ma a suo tempo sono stati favorevoli”. Nessun rischio infiltrazioni? “La Sardegna è un territorio molto sano sotto il profilo della criminalità organizzata e non verrà minimamente compromesso. Questo è un impegno”. Caso chiuso. Come è fuori discussione un ritorno dei boss all’Asinara. “Noi non abbiamo alcun progetto sull’Asinara”. Ma poi apre uno spiraglio su quello che sembra restare il sogno “penitenziario” proibito: “Qualora la Regione Sardegna lo valutasse e ne parlasse, lo prenderemmo in considerazione”. Allontanato lo spettro dell’isola-Cayenna, c’è spazio solo per ricordare come in una struttura fresca di inaugurazione, finalmente, l’uomo può tornare ad “essere uomo”, per dirla con Tamburino. Anche grazie alla tecnologia applicata alla detenzione. “E anche un segnale - spiega ancora la Cancellieri - dell’amministrazione penitenziaria che, laddove interviene con strutture nuove, lo fa secondo la tecnologia più moderna, dando la possibilità ai detenuti di vivere in condizione di assoluta civiltà perché hanno spazi larghi di socialità di lavoro, tutto secondo i più moderni criteri”. Chissà che i grandi laboratori di Bancali vengano riempiti ora con le attrezzature necessarie. Nessun cenno alle critiche dei sindacati degli agenti sulle carenze d’organico. Adesso i poliziotti sono quanto i reclusi (160 divise per 161 ospiti), ma secondo l’Ugl quando tutte le celle saranno piene ce ne vorranno almeno 338. E per ora non si vedono. Anche su questo il Guardasigilli usa l’estintore: “Stiamo lavorando molto col personale sotto gli aspetti sindacali per quello che sarà necessario, abbiamo grande attenzione per questo settore che fa parte del comparto sicurezza a tutti gli effetti”. Dal luogo di detenzione il ministro è passato a inaugurare la nuova sede dell’ufficio che si occupa del dopo-carcere, l’Esecuzione penale esterna, in via Asproni, accanto a San Sebastiano. Il ministro si è complimentato con Anna Maria Pala, capo dell’ufficio che dal 1976 ha visto passare 16mila condannati in procinto di ritornare a vivere fuori dalla cella. La visita si è conclusa a Tramariglio, per l’inaugurazione del museo sul vecchio carcere realizzato grazie al lavoro dei reclusi che hanno digitalizzato l’archivio. Sassari: il carcere di San Sebastiano non c’è più… resta un vuoto pieno di voci di Giampaolo Cassitta La Nuova Sardegna, 10 luglio 2013 Ci siamo guardati intorno. A soppesare quel vuoto. A capire, per esempio, se occorreva chiuderle le celle. Se darle un’ultima mandata o se invece lasciarle così: aperte, per poter dire che almeno nell’ultimo giorno abbiamo regalato la libertà. I rumori sordi di un carcere ci hanno accompagnato per anni e, per quanto riguarda San Sebastiano, per molti anni. Chissà quante generazioni ci son passate da queste parti: ad aprire e chiudere. A farsi aprire e farsi chiudere. Con i reati più incredibili. Il furto del vino, l’oltraggio al vigile, le molestie a seguito di ubriachezza nei vicoli del centro storico, lo schiaffo al rivale, il piccolo spaccio, le lesioni personali, la rapina alla Upim, lo scippo vicino alle poste, il tentato omicidio, l’omicidio e qualche strage. Ci sono passati tutti da queste parti. Chi ha rubato le mele al mercato, chi ha sequestrato e deriso gli uomini, chi ha tentato ed è riuscito ad evadere, chi ha protestato con le gavette, chi ha vissuto nel buio delle celle, nell’umido, nella tristezza, chi ha cercato con gli occhi e le parole e i pianti la madre, il figlio, il fratello, la moglie, l’amante. E anche quello che ha ucciso la madre, il figlio, il fratello, la moglie e l’amante. Nella miseria delle scelte c’è sempre un briciolo di dignità e il carcere ha questo di buono: c’è sempre dentro tutto. Ci sarà sempre dentro tutto, ben miscelato, ben condensato. San Sebastiano era sistemato proprio al centro della città. Un grosso acquario dove poche volte si sono sentiti gli spruzzi delle onde, le voci dal silenzio. Dove le gavette hanno suonato e la città, per la prima volta, è stata muta ad ascoltare quella musica, quell’urlo dall’acquario. Poi, un carcere viene inghiottito dalla quotidianità delle cose, dalla retorica degli eventi, dalla normalità che sovrasta. Un carcere, in fondo, interessa solo se può creare una notizia. San Sebastiano ha raccolto uomini un po’ da tutte le parti e li ha centrifugati nei suoi raggi, li ha ristretti nelle sue celle umide e con pochi spicchi di sole. Adesso quell’acquario, quell’immensa vasca gonfia di silenzio va via dal centro di una città perché, in fondo, ha ragione Goffman che le istituzioni totali (i carceri, gli ospedali, i manicomi, i cimiteri) si costruiscono al di fuori del tessuto urbano. Per paura, per non volersene occupare, per voler rimuovere quello che l’uomo non ama. Il carcere si spinge lontano. A Bancali. A molti chilometri di distanza da Sassari. Le camere sono luminose e per sole due persone. Bagno in camera e doccia, molti spazi e nuove possibilità. Lontano però. Sarà difficile ripartire, ma si dovrà fare. Ci siamo guardati intorno. Quel rumore sordo delle chiavi e dei pensieri mai raccontati, quei visi che sono rughe dell’esistenza, quei detenuti, quegli agenti, quegli educatori, assistenti sociali, medici, infermieri, quei direttori, comandanti che si sono succeduti per oltre un secolo girano tutti, indistintamente e per la prima volta la chiave nello stesso modo: aprono quel vecchio carcere. Lo aprono definitivamente per svuotarlo di quei silenzi, di quella rabbia, di quelle ingiustizie, di quelle giustizie, di quegli odori, sapori, di quelle cose intense e dure. Lo aprono perché tutti che hanno vissuto a San Sebastiano hanno, in ogni caso, mantenuto la propria dignità. Da qualche parte, dentro le celle, nella rotonda, nei cortili passeggi, nell’infermeria, nella caserma, nel lungo corridoio degli uffici ci sono storie, frammenti di vita che andrebbero raccontati. La memoria è la forza di una città. San Sebastiano non chiude. Si apre per la città che ha voglia di sentire le voci degli ultimi e di chi con gli ultimi ci lavora. Ci siamo guardati intorno. A contare gli attimi, a soppesare gli umori. Abbiamo lasciato le celle aperte per fare uscire le voci e gettarle nel mondo. San Sebastiano, adesso, è una carcassa che non pulsa, ma può raccontare la moltitudine di cuori che al suo interno hanno seminato battiti per anni e hanno raccolto cassetti di vita che sono figli di questa città. Dirigente dell’ufficio detenuti e trattamento del Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria. Teramo: chiesta archiviazione procedimento su morte in carcere di Valentino Di Nunzio www.abruzzo24ore.tv, 10 luglio 2013 La procura di Campobasso ha chiesto l’archiviazione del procedimento a carico del gip di Pescara Gianluca Sarandrea ed altri, riguardante la morte del giovane di Manoppello (Pescara) Valentino Di Nunzio, avvenuta il 5 agosto 2012 a seguito dei traumi riportati nel tentativo di suicidio avvenuto il 14 febbraio 2012 nel carcere di Teramo. Il padre del giovane si è opposto alla richiesta di archiviazione. A darne notizia è il legale della famiglia Isidoro Malandra. Di Nunzio era in carcere per aver ucciso a coltellate la madre il 25 settembre del 2011. Il ragazzo, affetto da disturbi psichici, un anno e mezzo prima aveva messo in rete un video che anticipava l’omicidio. Il pm di Campobasso Nicola D’Angelo nella sua richiesta di archiviazione ritiene che debba “escludersi la ricorrenza nella vicenda, di condotte di interesse penale. Tutti i soggetti coinvolti si sono doverosamente attivati per individuare le soluzioni più idonee al trattamento penitenziario di un soggetto che aveva dimostrato un’estrema pericolosità estrinsecantesi nella barbara uccisione della madre”. Per l’avvocato Malandra “ciò che emerge dagli atti è una realtà completamente diversa da quella descritta dal pm: non solo ci sono stati gravi errori ed omissioni da parte di chi, magistratura e Dipartimento amministrazione penitenziaria, ha disposto in merito al trattamento penitenziario cui il Di Nunzio è stato sottoposto, ma si evidenziano precise responsabilità da parte di organi di direzione, personale sanitario ed agenti di custodia del carcere di Teramo”. Roma: Rita Bernardini (Ri); a Rebibbia detenuto in condizioni di abbandono assoluto www.clandestinoweb.com, 10 luglio 2013 Ancora un’altra storia di abbandono e incuria arriva dalle nostre carceri. La radicale Rita Bernardini ha denunciato il caso del detenuto C.D., ristretto nel carcere di Rebibbia. La sua storia parte da molto lontano, ed era già stata segnalata lo scorso anno a seguito di una visita ispettiva eseguita dall’allora deputata. Lei stessa spiegava come nella cella n. 9 (2° sezione, piano terra) fosse ristretto C.D., un detenuto di 30 anni in attesa di giudizio accusato di aver violato la legge in materia di sostanze stupefacenti; il racconto parla chiaro: “C.D. non dice nulla e non si muove dalla sua branda posta al secondo piano del letto a castello, ma i suoi compagni di cella manifestano estrema preoccupazione per le sue condizioni: ‘questo ragazzo come vedete è un vegetale, ha problemi mentali molto seri, la notte si graffia e al mattino è tutto pieno di sangue, a volte si fa la pipì addosso, anche l’altra notte se l’è fatta addosso; è qui da 4 mesi e da più di 3 mesi non va all’aria; ha anche una situazione familiare delicata, in questo carcere ci sono tanti problemi, però per favore occupatevi del suo caso, noi non sappiamo cosa possiamo fare per aiutarlo”. A distanza di un anno, la Bernardini è stata contattata dalla madre del detenuto che disperata, ha palesato le ragioni della sua preoccupazione: “il figlio, tossicodipendente conclamato, ora si trova a Rebibbia, dopo un passaggio in comunità. In poco tempo ha perso 23 kg”. Nell’arco di un anno ha già tentato due volte il suicidio; ora si trova in carrozzina impossibilitato ad alimentarsi. L’unico sostegno è quello dei suoi compagni di cella che lo aiutano e lo cambiano saltuariamente. La cosa più grave è che, come spiega Rita Bernardini, “nella relazione sanitaria trasmessa al Gip si sostiene che il ragazzo “sta bene”. Vicenza: il presidente di Confindustria in visita al carcere “diamo lavoro ai detenuti” di Chiara Roverotto Giornale di Vicenza, 10 luglio 2013 Zigliotto: “Ho visto giovani motivati con voglia di rimboccarsi le maniche, officine e laboratori attrezzati, l’occupazione rimane la ricetta giusta”. “Il carcere è una discarica sociale. Non diamo la possibilità ai detenuti di riciclarsi, preferiamo spendere 300 euro al giorno perché guardino un soffitto dalla mattina alla sera, invece le opportunità di lavoro ci sono. Almeno a San Pio X, basta che le imprese allunghino una mano”. Prima un grido d’allarme. E, poi, una richiesta di aiuto quella che lancia Guerrino Tagliaro, storico presidente della cooperativa “Saldo & Mec”, che ha messo radici in via Della Scola nel 2001. E da allora sono stati 145 i detenuti che hanno concluso un ciclo di lavoro, prima con la formazione e poi con la pratica. Uomini che quando hanno lasciato la casa circondariale di Vicenza avevano un piccolo gruzzolo da parte e, soprattutto, una professionalità da spendere fuori, per rifarsi una vita, per immaginare un futuro dopo aver trascorso anni dietro le sbarre. Il messaggio della “Saldo & Mec” è fin troppo chiaro: in carcere ci sono professionalità da sfruttare, ma serve qualcuno che dia una mano. Che faccia capire che cosa accade dietro alle sbarre di San Pio X. E per comprenderlo ieri mattina hanno varcato i cancelli di via Della Scola il presidente di Confindustria, Giuseppe Zigliotto e i tre segretari provinciali di Cgil, Cisl e Uil, Marina Bergamin, Gianfranco Refosco e Grazia Chisin, accompagnati dal direttore Fabrizio Cacciabue. “Non immaginavo di trovare tanti giovani motivati, laboratori ben costruiti. Era una realtà che non conoscevo e che mi ha colpito - spiega Giuseppe Zigliotto, presidente di Confindustria Vicenza. Forse sono in pochi a considerare questa struttura al suo interno, ma ho visto detenuti motivati, alle prese con una saldatrice e mi sembravano concentrati e preparati”. “Alla fine chi riesce a lavorare è un privilegiato - prosegue - perché non impara solamente un lavoro, ma ha anche la possibilità di guadagnare un po’ di soldi. Un’occupazione per loro rappresenta una speranza, magari non tutti la pensano allo stesso modo, ma la maggioranza mi sembra attenta. Inoltre, i progetti non mancano, e se le aziende conoscessero questa realtà potrebbero fare veramente molto. Oltre al reparto saldatura c’è un capannone che verrà destinato all’assemblaggio. Per ora si tratta di un’idea, ma potrebbe diventare un’opportunità importante per i detenuti e non solo. Far passare la rieducazione attraverso il lavoro e la formazione è una strada percorribile e corretta”. In termini tecnici si chiama riabilitazione, praticamente significa lavoro, formazione. “Cgil, Cisl e Uil sono presenti sul territorio e di conseguenza conoscono bene la realtà imprenditoriale della nostra provincia - spiega Gianfranco Refosco, segretario provinciale della Cisl - inoltre possiamo proporre contratti per commesse che prevedano agevolazioni particolari visto sono diretti a persone svantaggiate. Il sindacato può impegnarsi nella formazione, soprattutto con le persone più fragili che occupano S. Pio X”. “All’interno - ridadisce Marina Bergamin della Cgil - ci sono altre attività che potrebbero riprendere: c’è un forno per la panificazione che è chiuso da dicembre e che potrebbe creare altro lavoro. Dispiace vedere una struttura funzionante e chiusa in attesa che qualcuno torni ad investire su un capitale umano importante in grado di immettere sul mercato prodotti conosciuti e di qualità come accadeva in passato”. “A S. Pio X c’è una struttura organizzata - conclude Grazia Chisin della Uil - che ha bisogno di essere conosciuta dalle aziende. Il carcere non può essere visto solo come un luogo di pena: programmi e progetti vanno sostenuti e portati avanti con determinazione”. Brescia: per i detenuti tossicodipendenti di Verziano c’è l’aiuto di Narcotici Anonimi www.bresciaoggi.it, 10 luglio 2013 I membri della fratellanza visitano il carcere per condividere la loro vittoria. Emozioni e confessioni senza filtro nella riunione guidata da ex dipendenti diventati “testimonial”. “Un tempo mi sembrava di essere perfetto, senza bisogno di cambiare nulla della mia vita. Una volta soddisfatti i bisogni primari, a partire dall’uso di droghe, il resto non contava. Oggi vivo davvero, attraversando la vita senza filtri; faccio fatica, ma finalmente ci sono”. Antonio (il nome è di fantasia come gli altri che seguono) apre così la riunione convocata in una saletta spoglia come solo uno spazio carcerario può essere. Spoglia, ma piena di una umanità straordinaria; così forte e avida di risposte e di nuove prospettive oltre le sbarre da far venire i brividi. Inizia così, a Verziano, un incontro di recupero dalle dipendenze curato da due membri della fratellanza di Narcotici anonimi, libera associazione di tossicomani che stanno vincendo così bene la dipendenza da attuare fino in fondo il dodicesimo passo del loro programma: condividere la rinascita, il risveglio spirituale ottenuto, praticando i passi di Na con chiunque ne abbia bisogno. Anche, appunto, tra le mura di un penitenziario. L’esperienza è una novità anche per una gestione carceraria “illuminata” come quella di Verziano, che si sta distinguendo positivamente per i tanti pezzi di società portati tra chi dalla società è stato momentaneamente espulso. I ragazzi di Na sono i coraggiosi testimoni di una umanità e di una vittoria che si fa beffe di un passato che sembrava una condanna a vita, e i detenuti presenti all’incontro non faticano a entrare in sintonia. “In qualche modo dovevo apparire ciò che non ero e non sono, letteralmente soffocato da un ego malato - racconta Luigi. Poi ho conosciuto l’umiltà, ho imparato a conoscere almeno una parte di me, a individuare i miei difetti e i miei problemi. Se non soffri, non capisci; se non sai chi sei. continui a correre inutilmente fino a quando non tocchi il fondo. Oggi sto ritrovando la pace, la consapevolezza dell’importanza delle piccole cose. Questa è l’occasione per riprendere in mano la mia vita”. Luigi dovrà convivere ancora un po’ con il carcere, ma ha colto l’occasione per un confronto, per conoscere una chiave di lettura diversa della dipendenza: non un problema morale, ma, secondo Na, una banale per quanto potenzialmente mortale malattia comportamentale. Una lettura tanto più preziosa per persone già alle prese con etichette e pregiudizi per effetto della posizione di carcerati. Una liberazione, un punto di ripartenza che, per dirla con Carlo, un altro detenuto, “può riscattare da una realtà nella quale pensavo solo a me stesso, ai soldi, alla prossima dose. Usare non mi ha fatto crescere: ho perso troppo tempo nella vita e adesso voglio recuperare”. L’atmosfera si carica sempre più di emozioni, e la riunione diventa uno spazio magico dal quale la paura di raccontarsi è bandita; non ha più senso, in mancanza di qualsiasi giudizio. Narcotici anonimi non giudica ma salva la vita, gratis. Offre un percorso di conoscenza e condivisione che mette al centro l’unicità della persona e la trasversalità uniforme della malattia; che promette l’affrancamento dalla dipendenza a partire dall’ammissione senza riserve della sconfitta. Come ha fatto Roberto: “Ho sempre vissuto una vita che non è la mia; poi, arrivando a Na è crollato tutto come un castello di carte”. Il tempo offerto dai tempi separati del carcere sta per finire; bisognerà aspettare un po’ per vedere di nuovo i ragazzi di Na e condividere con loro la certezza di una vita da sobri. Ma prima dei saluti e della “preghiera della serenità” Luigi deve fare una domanda: ancora fatica a credere nella concretezza di persone che apparentemente fanno questo per niente. “Ho trovato una strada che mi consente di volermi bene così come sono - gli risponde Roberto: è il minimo che posso fare per manifestare la mia gratitudine è condividerla con gli altri”. Catanzaro: i detenuti scoprono come costruire gli strumenti tradizionali calabresi di Francesco Iuliano www.catanzaroinforma.it, 10 luglio 2013 Con l’inizio della stagione estiva, tutte le attività didattiche e di laboratorio dei vari istituti penitenziari vengono sospese per essere riprese a settembre. Nella Casa Circondariale “Ugo Caridi” di Catanzaro, nelle settimane scorse, si è concluso il seminario teorico pratico di “Falegnameria e di restauro” e quello di “Costruttore di strumenti tradizionali Calabresi”. I corsi, organizzati e curati dall’associazione Promocultura presieduta dal maestro Tommaso Rotella (in foto), hanno coinvolto circa venticinque detenuti del reparto di “Media sicurezza” della Casa Circondariale cittadina. “È da anni, ormai - ha detto Rotella - che la nostra associazione si occupa di realizzare iniziative rivolte alle fasce più deboli della popolazione in generale, convinti che tali interventi possano dare benessere e aiuto. Un’attenzione che rivolgiamo anche a quanti si trovano a vivere nella condizione di reclusi. Con il laboratorio di falegnameria e restauro - ha aggiunto, i corsisti hanno eseguito alcune riparazioni di tavolini e sgabelli in uso dagli stessi detenuti. Inoltre, attraverso l’arte del restauro di alcuni mobili antichi, si è data la possibilità di apprendere ed apprezzare un settore particolarmente affascinante. Con il laboratorio di costruzione di strumenti tradizionali calabresi, invece, sono stati realizzati alcuni pezzi di lira calabrese e di pipita, strumenti tipici che rappresentano le tradizioni popolari della regione e che danno la possibilità di meglio approfondire la nostra storia rivalutando, nel contempo, il nostro patrimonio artistico e culturale”. A conclusione delle attività di laboratorio, è stato organizzato un incontro tra i corsisti ed il personale direttivo ed educativo dell’Istituto. Un momento di socializzazione al quale hanno partecipato il direttore della Casa Circondariale Angela Paravati, il comandante della Polizia Penitenziaria, commissario Aldo Scalzo e l’educatrice Vincenza De Filippo. “Nell’ambito delle iniziative offerte alla popolazione detenuta - ha commentato la Paravati - merita senz’altro di essere menzionata quella gestita dall’associazione Promocultura del professore Tommaso Rotella. Il laboratorio di falegnameria attivato da diverso tempo rappresenta oltre ad una importante opportunità trattamentale anche un’occasione per acquisire delle abilità specifiche. Il momento non è dei migliori per il mondo penitenziario ma la collaborazione con la società civile può aiutare gli operatori penitenziari a fare in modo che il tempo della pena non trascorra inutilmente. Al fine di far conoscere l’impegno profuso, si programmerà una mostra in cui poter esporre le lire, gli strumenti musicali e tutti i piccoli oggetti in legno realizzati”. Inoltre l’associazione Promocultura ha organizzato, nella mattinata di lunedì 15 luglio prossimo, nel teatro dell’Istituto carcerario, un concerto di musica popolare a cura del gruppo “I Deliriu”. Uno spettacolo musicale rivolto ai detenuti della struttura e a tutto il personale. In quella occasione saranno consegnati gli attestati di partecipazione ai due seminari. Padova: “Agricoltura sociale”, lunedì un convegno alla Casa Circondariale “Due Palazzi Il Mattino di Padova, 10 luglio 2013 Sono un centinaio in Veneto le imprese agricole che coniugano produzione e welfare, profitto e solidarietà. Fattorie didattiche, orti sociali, agrinidi, centri per anziani o per disabili tra frutteti da coltivare e animali da cortile da accudire sono esperienze consolidate di una “economia di solidarietà” che trovano ora riconoscimento e agevolazioni grazie alle legge regionale, appena approvata dal Consiglio, in materia di “agricoltura sociale”. Se ne parla lunedì 15 luglio, nella casa circondariale “Due Palazzi” di Padova, nel confronto promosso dal Consiglio regionale tra rappresentanti dell’impresa sociale, del volontariato, dell’agricoltura e delle istituzioni, nell’inedita cornice della più grande casa circondariale del Veneto. A discutere le nuove opportunità create dalla legge veneta sono il direttore del dipartimento di Sociologia e diritto dell’economia dell’Università di Bologna Giovanni Pieretti, il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia Giovanni Maria Pavarin, il responsabile della Pastorale del Lavoro della Diocesi di Vicenza Don Matteo Pasinato, sindaci, rappresentanti di cooperative sociali, responsabili di Ulss. “Le nuove norme a sostegno dell’agricoltura sociale - spiega Ruffato - danno forza a realtà ed esperienze imprenditoriali che impegnano soggetti svantaggiati come disabili, ex tossicodipendenti, detenuti in semilibertà in attività tradizionali di coltivazione e allevamento: offrono lavoro, creano reddito, ma soprattutto danno dignità e obiettivi a persone che rischiano di rimanere ai margini della società”. La legge veneta prevede, infatti, agevolazioni e accesso ai fondi comunitari per quelle imprese sociali che praticano attività agricole impegnando minori, anziani, tossicodipendenti, ex detenuti, persone con problemi psichici. In Veneto le esperienze “sul campo” non mancano: dal primo “agriasilo” sorto a Pescantina (Verona) al nuovo percorso di riscoperta del cibo e dell’alimentazione che l’azienda agricola “Menego” di Fabiano Simonatto ha attivato a Summaga di Portogruaro, in convenzione con il servizio per la cura dei disturbi alimentari dell’Ulss 10 del Veneto Orientale. Torino: detenuto tenta di impiccarsi, salvato in extremis da agenti Polizia penitenziaria Agi, 10 luglio 2013 Un detenuto del carcere “Lo Russo e Cutugno” di Torino ha tentato di impiccarsi ed è stato salvato in extremis dagli agenti della polizia penitenziaria. L’uomo, in forte stato di agitazione, si è poi ferito con una caffettiera e ha sporcato con il sangue uno dei poliziotti, che ha dovuto farsi curare al pronto soccorso per la profilassi di malattie infettive, in quanto il detenuto è affetto da epatite C. È successo ieri intorno alle 15,30 nel blocco A della casa circondariale. A tentare il suicidio è stato un italiano di 43 anni, condannato per reati di rapina e furto. “Vivere e soprattutto lavorare in questo tipo di carcere non è più possibile - dichiara Leo Beneduci, segretario generale del sindacato Osapp - perché quello che i poliziotti penitenziari in tutta Italia stanno subendo va ben oltre le conseguenze dei rischi professionali e deriva dall’incuria, dal silenzio e dalla incapacità della classe politica e dei vertici che si sono succeduti nel tempo nella guida dell’amministrazione penitenziaria e del dicastero della giustizia”. Agente investito da sangue detenuto con epatite C (Ansa) Paura per un agente di polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Torino, che ieri pomeriggio è stato investito da schizzi di sangue di un detenuto affetto da epatite C. Il carcerato prima ha tentato di impiccarsi, poi, quando i poliziotti glielo hanno impedito, si è colpito con una caffettiera procurandosi ferite. Ora l’agente è in ospedale, sottoposto a profilassi per malattie infettive. “Vivere e soprattutto lavorare in questo tipo di carcere - commenta Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp che ha diffuso la notizia - non è più possibile perché quello che i poliziotti penitenziari di tutta Italia stanno subendo va ben oltre le conseguenze dei rischi professionali e deriva dall’incuria, dal silenzio e dall’incapacità della classe politica e dei vertici che si sono succeduti nel tempo nella guida dell’amministrazione penitenziaria e del dicastero della giustizia”. Vercelli: Sappe; agente aggredito da un detenuto marocchino, espellere gli stranieri Agi, 10 luglio 2013 Un agente di polizia penitenziaria è stato aggredito, ieri pomeriggio, nel carcere di Vercelli, da un detenuto marocchino di circa 50 anni che poco prima, dopo aver tentato di aggredire un altro detenuto suo connazionale, era stato accompagnato in cella dallo stesso poliziotto. Quando l’agente ha aperto la cella per fare entrare un altro detenuto, il marocchino lo ha aggredito stringendogli forte le mani al collo e procurandogli un forte trauma. “Di fronte a questa ingiustificata violenza - scrive in una nota Donato Capece, segretario generale del Sappe - servono risposte forti, come quella di espellere tutti gli stranieri detenuti in Italia, oltre 23.200 sui 66mila presenti, per far scontare loro la pena nelle carceri dei loro Paesi”. Nel carcere di Vercelli, spiega Capece, lavorano oltre 60 agenti in meno rispetto all’organico previsto, “e il costante sovraffollamento della struttura (erano 349 i detenuti presenti il 30 giugno scorso, il 50% dei quali stranieri, rispetto ai 220 posti letto regolamentari) sono temi che si dibattono da tempo, senza soluzione, e sono concause di questi tragici episodi”. “L’auspicio - conclude Capece - è che la classe politica ed istituzionale del Paese faccia proprie le importanti e pesanti parole dette dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sulle nostre carceri terribilmente sovraffollate e si dia dunque da fare, concretamente e urgentemente, per una nuova politica della pena, necessaria e non più differibile, che ripensi organicamente il carcere e l’istituzione penitenziaria, che preveda circuiti penitenziari differenziati a seconda del tipo di reato commesso e un maggiore ricorso alle misure alternative per quei reati di minor allarme sociale, oltre alla non più rinviabile espulsione dei detenuti stranieri condannati per fare scontare loro la pena nelle prigioni del Paese di provenienza”. Viterbo: Ugl; detenuto ferisce due agenti, situazione critica a causa carenza di personale Ansa, 10 luglio 2013 “Ieri sera, presso l’istituto penitenziario di Viterbo, un detenuto in terapia farmacologica, si è barricato in cella ferendosi sul corpo e nella bocca con delle lamette e cominciando a sputare verso gli agenti che stavano intervenendo per farlo desistere e che sono rimasti feriti. Dopo essere stato trasportato in infermeria, il detenuto ha aggredito un altro assistente capo mordendolo sul braccio”. Lo rende noto il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, spiegando che “a farne le spese sono stati un ispettore e due assistenti capo che sono stati accompagnati in ospedale per accertamenti. Secondo quanto riferito la Direzione, pur essendo a conoscenza che il detenuto fosse in possesso di lamette, non ha autorizzato il ricorso ai mezzi di coercizione fisica, facendo intervenire il personale senza l’ausilio di camici, guanti anti taglio, mascherine e occhiali protettivi perché non erano immediatamente reperibili”. “Questo è l’ennesimo caso di violenza avvenuto negli istituti penitenziari del Lazio dove - spiega il sindacalista -, in poco meno della settimana, sette agenti di Polizia Penitenziaria hanno subito aggressioni da parte della popolazione detenuta”. “Si tratta di una situazione che ormai, a causa anche della grave carenza di organico, rischia di esplodere. Ecco perché chiediamo al Governo di intervenire rapidamente affinché il personale sia messo nelle condizioni di poter operare in sicurezza, a partire dall’applicazione dell’articolo 14 bis sulla sorveglianza particolare che, ad oggi, non viene correttamente attuata. Esprimendo vicinanza agli agenti rimasti vittime di questa aggressione - conclude -, auspichiamo che il provveditorato del Lazio dia avvio ad un’inchiesta che possa accertare le responsabilità di quanto accaduto”. Roma: Associazione “A Roma, Insieme-Leda Colombini” in mostra con “Donne in luce” Ristretti Orizzonti, 10 luglio 2013 Nell’ambito della mostra fotografica di Riccardo Ghilardi, “Donne in luce”, a cura di Laura Carolina Arioli presso La Casa del Cinema dall’11 luglio al 12 settembre sarà ospitata l’Associazione A Roma, Insieme - Leda Colombini, impegnata da vent’anni con le donne del carcere romano di Rebibbia Femminile e con i loro figli, che fino all’età dei tre anni condividono con le madri la dura esperienza della detenzione. Lo scopo è quello di portare a conoscenza delle numerose persone che visiteranno la mostra l’impegno dei volontari dell’Associazione il cui obiettivo è che “nessun bambino varchi più la soglia di un carcere”. Per realizzarlo, l’Associazione lavora su due fronti. Da un lato, promuove e realizza una serie di attività concrete, volte ad eliminare i danni del carcere sui bambini ed aiutare le donne a gestire il rapporto con i propri figli durante la detenzione. Dall’altro, l’Associazione si muove per sensibilizzare l’opinione pubblica e per attivare risposte adeguate da parte delle Istituzioni, sia locali che nazionali. Dal 1994 le volontarie e i volontari di A Roma, Insieme - Leda Colombini trascorrono tutti i sabato un’intera giornata fuori dal carcere con le bambine e i bambini della Sezione Nido di Rebibbia, per offrire loro momenti di gioco e di scoperta. Uno sguardo particolare è rivolto anche ai bambini più grandi, che possono visitare in carcere le madri una volta al mese per l’intera giornata. Per favorire questo incontro, A Roma, Insieme - Leda Colombini, in collaborazione con altre associazioni di volontariato, organizza l’Area Verde, un momento di gioco e di condivisione che consente alle madri e ai bambini di trascorrere al meglio il tempo insieme. A Roma, Insieme, infine, collabora con le Istituzioni ed è fortemente impegnata nel favorire il dialogo tra il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, la Direzione del Carcere, la Consulta cittadina e le Amministrazioni locali. Associazione “A Roma, Insieme - Leda Colombini” Onlus. Via Sant’Angelo in Pescheria 35 - 00186 Roma. Tel/Fax 06.68136052 -email: aromainsieme@libero.it -www.aromainsieme.it C.F. 96219460589. Cinema: Valeria Golino nei panni di Armida Miserere, prima direttrice di un carcere di Valerio Cappelli Corriere della Sera, 10 luglio 2013 “Ho fatto questo lavoro un po’ per curiosità e un po’ perché volevo servire lo Stato nella lotta al crimine. Ho sempre voluto lavorare in carcere”, scrisse di suo pugno Armida Miserere in un articolo che Io Donna dedicò alle direttrici di carcere. Quanto si arrabbiava, Armida, quando la chiamavano direttrice. “Io sono direttore - diceva - ma so che mi hanno dato come soprannome Il Colonnello”. Armida Miserere si è suicidata nel 2003, nella sua casa di Sulmona, a pochi metri dal carcere che dirigeva. Valeria Golino la riporta in vita nel film Come il vento di Marco Simon Puccioni: “Sapevo di andare incontro a un ruolo doloroso, difficile. Mi incuriosiva che questa donna avesse un grande potere in una dimensione puramente, completamente maschile, avendo la responsabilità di carceri maschili, sola tra 700 uomini, guardie e detenuti. Come conformare la propria personalità femminile, come adattarsi, come sopravvivere?”. Armida era considerata una dura, vestiva in tuta mimetica, (“ma fuori dal carcere ci teneva a essere una bella signora, i bei vestiti, i gioielli...”), non aveva paura, diceva che il carcere non è un hotel, deve essere punitivo e non solo rieducativo, definiva “boiate” i trattamenti risocializzanti. Che poi era il lavoro di Umberto Mormile (interpretato da Filippo Timi), educatore del carcere di Opera. Fu freddato da due sicari. Dopo tre anni, nemmeno un indizio. Armida, una servitrice dello Stato, cercava la verità ma si sentì tradita dallo Stato. Valeria si è messa le lentine nere per togliersi l’etereo dei suoi occhi, ha parlato con i secondini che hanno conosciuto Armida, con gli amici, il fratello le ha dato delle lettere. Ad Armida, come l’incantatrice al servizio del principe delle tenebre nell’opera di Haydn, ha donato la sua umanità, l’ha resa più morbida. “Non c’è un tentativo di imitazione, è la nostra versione, ho portato il mio sguardo su di lei, era una donna forte e fragile allo stesso tempo. Debole no, fragile. Ha sofferto al punto da indebolirsi”. Che spiegazione si è data del suicidio? “La morte del compagno non è l’unica motivazione, quel dolore l’ha trafitta, certo c’è anche la solitudine della sua vita, il non aver più trovato un affetto vero, ma non si può trovare una spiegazione a tutto. Io con Miele ho fatto un film sul suicidio assistito, pensi a quanto ci ho sbattuto la testa su questo tema. È in parte la stessa parabola di Falcone, di Ambrosoli... Il servitore dello Stato abbandonato”. Il film è stato girato nelle carceri dove lei lavorò, l’Ucciardone, dove alcuni detenuti scontano il 41 bis: “Sembra un luogo fatato e sconvolgente con i suoi ficus millenari e le radici che si espandono in tutto il cortile. È come entrare nel film Il Signore degli anelli”; Pianosa: “Lì capisci che la felicità è prevista da qualche parte, certo non per i detenuti, un’isola incantata di punizione, e comprendi che lei avrebbe potuto innamorarsi”; Sulmona, dove fischia forte il vento: “Tutto quello che vedi sono montagne e sbarre, capisci perché si è uccisa lì”. Armida Miserere lasciò una lettera terrificante: “Mi resta un ultimo atto di coraggio che peserà come un macigno per chi mi ha tradita, offesa, venduta, rinnegata. Auguro morte e infamia, dolore e sofferenza a chi mi ha dato morte e dolore e sofferenza. Auguro la stessa angoscia che mi ha uccisa, auguro tutto il male del mondo...”. “Suona come un anatema, noi in parte la utilizziamo, la parte finale spiega il titolo del film, quando è scritto: “voglio essere cremata e buttata al vento, perché vento sono stata”“. L’attrice conobbe la Miserere nel 2002, quando a Sulmona partecipò con Respiro a una rassegna di cinema per ergastolani: “Abbiamo una foto insieme, fisicamente la sovrastavo, era minuta, non si faceva fotografare con gli attori, ma disse che mi stimava. Aveva una sua vulnerabilità, pensare che la chiamavano la femmina bestia. La abbracciai senza sapere che avrei fatto la sua vita”. Valeria ha un desiderio: “Vorrei portare questo film a un festival, che sia Venezia o Roma, non necessariamente in concorso, ci sono tante sezioni”. Un settimanale patinato ha scritto che lei è incinta di Riccardo Scamarcio: “Era una foto che mi ritraeva in una strana posizione. Beh, non è vero, è da anni che dicono che sono incinta, dovrei avere un sacco di figli in giro... Non mi ha fatto piacere, mi ferisce sempre un po’ quando lo scrivono, non è bello”. Parliamo di cose belle, allora. In Miele , il suo autorevole esordio da regista che sta per uscire in Francia, mostra uno sguardo molto personale... “Lo sguardo di chi fa cinema da 25 anni, di chi capisce quello che le piace. Più che il contenuto, che come attrice riesco a gestire, da regista mi interessa la forma del cinema. Un’esperienza che ripeterò, se trovo una storia emozionante”. Mondo: Farnesina; sono oltre 3mila i cittadini italiani detenuti all’estero 1 anche in Siria Asca, 10 luglio 2013 Sono 3.103 gli italiani detenuti all’estero, di cui 2.323 nell’Unione europea, 129 nei paesi extra-Ue, 494 nelle Americhe, 64 nella regione Mediterranea e in medio oriente, 17 nell’Africa sub-sahariana e 76 in Asia e Oceania. Lo rivela la Farnesina nel suo annuario statistico. Di questi, 33 sono in attesa di essere estradati in Italia, 2.393 in attesa di giudizio e 677 già condannati. Tra i Ventotto Stati membri è la Germania ad ospitare il maggior numero di detenuti italiani nelle sue carceri (1.115). Segue la Spagna con 524. Nelle Americhe è invece il Venezuela con 81 italiani nelle carceri amministrate dal governo di Caracas. Ventisette, infine, sono detenuti in Marocco, per quanto riguarda la regione Mediterranea, mentre un solo italiano è detenuto in Siria, paese da oltre 2 anni teatro di una profonda e sanguinosa guerra civile contro il governo di Bashar al-Assad. Gran Bretagna: Cedu; è “trattamento inumano” ergastolo senza possibilità di revisione Agi, 10 luglio 2013 La Corte europea dei Diritti Umani ha sanzionato la Gran Bretagna per la legislazione sul carcere a vita, definito “inumano e degradante”, sostenendo che la condanna ergastolo dovrebbe essere rivedibile dopo un certo periodo di tempo, normalmente 25 anni. Il caso era stato portato dinanzi al tribunale da tre ergastolani britannici, tutti autori di efferati omicidi: Jeremy Bamber, che nel 1985 sterminò 5 membri della sua famiglia, il serial killer Peter Moore e un pluri-omicida, Douglas Vinter. Per tutti, ha sentenziato la Corte, ci dovrebbe essere la possibilità di revisione della pena. Stati Uniti: carcere di Guantánamo, spetta ad Obama decidere su alimentazione forzata di Michele Paris www.altrenotizie.org, 10 luglio 2013 La drammatica situazione nel lager statunitense di Guantánamo è tornata in questi giorni ad occupare le prime pagine dei giornali in seguito all’invito fatto da un giudice federale americano al presidente Obama per fermare il sistematico abuso dei diritti umani dei detenuti che da mesi stanno attuando uno sciopero della fame. Il parere del giudice distrettuale del District of Columbia, Gladys Kessler, è stato espresso nell’ambito di un procedimento avviato dal detenuto Jihad Ahmed Mujstafa Diyab, un 41enne di nazionalità siriana “ospite” del carcere sull’isola di Cuba da quasi 11 anni. I legali di Diyab avevano chiesto al tribunale americano di ordinare l’interruzione dell’alimentazione forzata, praticata al loro cliente con una modalità pressoché universalmente considerata come tortura. Il giudice Kessler ha fatto notare come la pratica dell’alimentazione forzata sia considerata una violazione dell’etica medica e, appunto, una forma di tortura anche dall’Associazione dei Medici Americani. “È perfettamente chiaro”, ha scritto il giudice Kessler in una sentenza di quattro pagine, “che l’alimentazione forzata risulta essere un procedimento doloroso, umiliante e degradante”. Ciononostante, la richiesta del detenuto siriano è stata respinta e nessuna ingiunzione all’autorità militare di Guantánamo è stata emessa dal tribunale. Infatti, il giudice del District of Columbia ha affermato che le leggi federali non le consentono di intervenire per decidere delle condizioni dei detenuti definiti come “nemici in armi”. Con una mossa decisamente insolita, tuttavia, il giudice Kessler ha concluso che il presidente Obama “ha l’autorità per decidere sulla questione”, citando un discorso dello scorso mese di maggio nel quale l’inquilino della Casa Bianca aveva espresso i propri dubbi sulla pratica dell’alimentazione forzata. La posizione di Obama appare però molto più sfumata, dal momento che in un altro intervento pubblico aveva affermato di “non voler vedere morire questi individui”. Se il dilagare dello sciopero della fame a Guantánamo è infatti già un motivo di grave imbarazzo per il governo americano, l’eventuale morte di decine di detenuti che protestano contro il trattamento a loro riservato appare come un vero e proprio incubo da evitare a tutti i costi per le autorità militari e per l’amministrazione Obama. Per questa ragione, appare estremamente improbabile che il presidente democratico possa dar seguito all’esortazione del giudice Kessler, preferendo piuttosto continuare ad autorizzare il nutrimento forzato dei detenuti e, viste anche le restrizioni imposte ai giornalisti, attendere che lo sciopero della fame venga sostanzialmente dimenticato dai media. Che la pratica non verrà abbandonata risulta poi evidente anche dall’annuncio fatto recentemente dal colonnello Gregory Julian del Comando Meridionale degli Stati Uniti in occasione dell’inizio del Ramadan nella giornata di lunedì. Il responsabile della struttura di Guantánamo ha infatti reso noto che il personale del carcere è perfettamente attrezzato per somministrare l’alimentazione forzata ai detenuti nel rispetto del digiuno dall’alba al tramonto. L’iniziativa è stata presa anche in risposta ad un secondo procedimento avviato dai legali del detenuto siriano Jihad Ahmed Mujstafa Diyab, il quale chiedeva allo stesso tribunale distrettuale di Washington di interrompere quanto meno l’alimentazione forzata nelle ore diurne durante il Ramadan. Lo sciopero della fame in corso da parecchi mesi nel carcere di Guantánamo era scaturito da una protesta contro l’applicazione di regole detentive più dure e, in particolare, contro la profanazione da parte delle guardie americane delle copie del Corano a diposizione dei prigionieri nelle loro celle. Più in generale, la forma di protesta già messa in atto varie volte negli anni scorsi è la diretta conseguenza del limbo legale in cui si trovano i detenuti, quasi tutti rinchiusi in condizioni estreme da un decennio senza essere mai stati accusati formalmente di alcun crimine e senza avere affrontato un qualsiasi procedimento penale. Oltre 80 dei 166 detenuti sarebbero poi già stati autorizzati dallo stesso governo americano a lasciare il carcere ma il via libera definitivo continua ad essere negato, sia a causa dei disaccordi politici a Washington sia perché i loro paesi d’origine dove dovrebbero essere trasferiti - come ad esempio lo Yemen - vengono giudicati troppo instabili o tuttora interessati da una minacciosa presenza di gruppi terroristici. A causa delle scarse informazioni che vengono dal lager, non è chiaro quale sia il numero di detenuti che stia prendendo parte allo sciopero della fame, anche se alcune testimonianze dei loro legali indicano la partecipazione di virtualmente tutta l’attuale popolazione carceraria di Guantánamo. Secondo le informazioni fornite dai militari americani, i prigionieri per i quali è stata approvata la pratica dell’alimentazione forzata sono invece 45, anche se in realtà verrebbe eseguita su circa la metà di essi, poiché gli altri avrebbero deciso di nutrirsi in privato o di assumere volontariamente le sostanze nutrizionali somministrate per evitare una pratica al limite della tollerabilità. Le modalità brutali con cui le autorità militari di Guantánamo praticano l’alimentazione forzata sui detenuti che rifiutano il cibo erano state rivelate da un documento ottenuto e pubblicato da Al-Jazeera lo scorso mese di maggio. Secondo quanto stabilito dalla procedura, un detenuto risulta ufficialmente in sciopero della fame quando rifiuta almeno nove pasti consecutivi oppure scende a meno dell’85% del suo peso ideale. Quando le autorità mediche stabiliscono la necessità di procedere con l’alimentazione forzata, il detenuto viene immobilizzato ad una sedia con una maschera assicurata sulla bocca “per evitare che sputi o morda”. Successivamente viene inserito un tubo attraverso le narici per far passare gli elementi nutritivi direttamente nello stomaco. La procedura richiede in media dai 20 ai 30 minuti ma il detenuto può rimanere legato anche fino a due ore, in attesa che una lastra confermi che le sostanze abbiano raggiunto effettivamente lo stomaco. Il detenuto viene poi trasferito in un’apposita cella dove è tenuto sotto osservazione da una guardia per un’altra ora, nel caso ci siano segnali di vomito o cerchi di provocarsi volontariamente il vomito. In questo caso, la procedura viene ripetuta per intero. Il ricorso all’alimentazione forzata con metodi che causano sofferenze indicibili ha quindi come obiettivo quello di piegare la resistenza residua dei prigionieri, così da farli desistere da un’imbarazzante forma di protesta estrema contro una situazione ormai disperata e senza via d’uscita. Stati Uniti: attore sperimenta la tortura: “Così i detenuti sono costretti a mangiare” Asca, 10 luglio 2013 Mos Def (noto in Italia per il film The Italian Job) si è sottoposto volontariamente alla pratica dell’alimentazione forzata, la tecnica utilizzata sui prigionieri che rifiutano il cibo nel carcere cubano 06:40 - Il detenuto legato alla sedia con lacci e catene. Una cannula infilata a forza nel naso. Una procedura normale nelle prigione di Guantánamo per nutrire i detenuti in sciopero della fame. Ma le telecamere che riprendono questa forma di tortura non sono quelle di Cuba ma di “Reprieve” un’organizzazione no profit. Che per denunciare la tragedia ha filmato Mos Def, un noto attore e rapper americano (conosciuto in Italia per The italian Job, Solo 2 ore insieme a Bruce Willis) che si è sottoposto volontariamente alla pratica dell’alimentazione forzata. Tutta la procedura è stata filmata ma è stata interrotta a causa del fortissimo dolore sperimentato da Mos Def che, terminato l’esperimento, è scoppiato in lacrime. Stati Uniti: California, oltre 30mila detenuti in sciopero fame, contro regime isolamento Ansa, 10 luglio 2013 Oltre 30 mila detenuti in California hanno dato il via a quello che potrebbe essere l’inizio del più grande sciopero della fame nella storia delle carceri americane. Perché sia dichiarato ufficialmente tale dalle autorità bisogna che duri almeno tre giorni. Ma gli ospiti di 20 delle 33 prigioni dello Stato Usa sembrano fare sul serio. La protesta è stata organizzata da un gruppo di detenuti del Pelican Bay State Prison, vicino al confine con l’Oregon, contro le politiche di isolamento: si lamentano del fatto che la detenzione in isolamento sia a tempo indeterminato e in alcuni casi duri decenni, mentre per loro è necessario porre un limite di cinque anni. Inoltre, sostengono la necessità di programmi di istruzione e riabilitazione, e il diritto di effettuare telefonate mensili. Intanto a partire dall’anno scorso le autorità carcerarie hanno studiato circa 400 casi di individui in isolamento, la metà dei quali sono stati reinseriti nella popolazione carcerarie normale. Siria: sciopero della fame di attiviste incarcerate e torturate di E. Intra e S. Gliedman La Stampa, 10 luglio 2013 È in corso da oltre una settimana lo sciopero della fame delle detenute nel carcere di Adra, a Damasco. Si tratta di una protesta a oltranza contro le condizioni in cui sono costrette a vivere queste attiviste auto-definitesi “prigioniere di coscienza” e in attesa di giudizio. Sembra che gran parte di loro siano state arrestate senza aver commesso alcun reato. Precise le loro richieste: processo equo, possibilità di comunicare con le famiglie e cure mediche, visto che per molte la salute va deteriorandosi in modo pericoloso. Al di là di palesi violazioni degli standard internazionali riguardanti le carceri, le detenute non sanno di cosa sono accusate e durante la carcerazione preventiva, che per tante si protrae già da lungo tempo, parecchie di loro hanno subito abusi e torture. Il carcere di Adra, tristemente noto per aver ospitato negli anni numerosi prigionieri politici, è una delle peggiori del Paese. Originariamente costruita per una capacità di 2.000 detenuti, oggi ne ospita oltre 9.000, in prevalenza uomini (le donne sono circa 200). Sin dagli anni novanta le organizzazioni per i diritti civili richiedono il trasferimento della popolazione femminile a causa dei ripetuti abusi ai loro danni. Secondo la dichiarazione rilasciata dalla Coalizione nazionale siriana, che riunisce gran parte delle forze dell’opposizione, le prigioniere politiche di Adra e di altre carceri, “vivono in condizioni terribili e disumane. Molte sono anziane, malate o incinta, e hanno bisogno urgente di cure mediche adeguate, che spesso vengono loro negate”. Gli stessi attivisti sostengono che membri delle forze armate avrebbero picchiato e insultato le donne di Adra, nel tentativo di impedire la diffusione della notizia dello sciopero della fame. La dichiarazione prosegue: “Le nostre eroine non si piegano, ribadendo con fermezza che per loro si tratta di una questione di vita o di morte.” Anche l’Associazione della Siria per i diritti umani segnala di aver ricevuto informazioni sui trattamenti disumani riservati alle donne detenute, molte delle quali soffrono di problemi respiratori e dermatologici come conseguenza delle torture subite durante gli interrogatori e per mancanza di cure adeguate. Sui social network cresce intanto la solidarietà, come il video che segue, rilanciato anche da Al Jazeera, nel quale si afferma: “Tutti possiamo fare qualcosa per diffondere la loro voce. La solidarietà non si esprime solo a parole, la solidarietà è azione. Le donne detenute ad Adra così come in tutte le altre prigioni siriane, sono le nostre madri, sorelle e figlie. Sono la Siria. Noi siamo la Siria. Siamo con voi, siamo tutti con voi.” Sulla pagina Facebook Tahrir-Icn viene pubblicata un’immagine accompagnata dalla didascalia: “Siria 7 luglio 2013: le detenute nel carcere di Adra sono in sciopero della fame da sei giorni per richiedere un processo equo. Alcune di loro si trovano lì da oltre sei mesi senza sapere quali siano le accuse contro di loro e senza aver affrontato un processo, molte necessitano di cure mediche urgenti e altre sono incinta”. Una delle foto più condivise è quella dell’artista parigino Iyad Abu Alshamat e di Nijati Tiyyara, che tengono in mano un foglio in cui si legge: “In solidarietà con le detenute della prigione di Adra. Le vostre voci hanno raggiunto i nostri cuori a Parigi e ci uniamo alla vostra protesta”. Da segnalare infine il rapporto, pubblicato da Human Rights Watch il mese scorso, sui continui abusi subiti dalle donne nelle carceri siriane. L’organizzazione ha intervistato dieci donne detenute, otto delle quali si sono identificate come attiviste e hanno dichiarato di “aver subito abusi e torture da parte delle forze di sicurezza e dai membri della Shabiha. Gli abusi includevano l’uso di scosse elettriche, bastoni, corde e manganelli per picchiarle e torturale.” Israele: c’è un altro “Prigioniero X” in segreto nel carcere di Ayalon di Michele Giorgio Il Manifesto, 10 luglio 2013 C’è un altro “Prigioniero X” detenuto in segreto nel carcere israeliano di Ayalon (Ramleh) dove due anni e mezzo fa morì la spia del Mossad di origine australiana Ben Zygier (in apparenza) suicidatosi. Lo hanno scritto ieri i quotidiani Yedioth Ahronot e Haaretz facendo riferimento a una fonte anonima che avrebbe scoperto questo secondo “Prigioniero X” indagando sulla morte di Zygier. Secondo la fonte la persona detenuta in segreto sconta la condanna in una condizione di isolamento analoga a quella in cui fu tenuta la spia israelo-australiana. La notizia è clamorosa perché dopo la rivelazione ad inizio del 2013 del caso Zygier, le autorità di governo israeliane avevano assicurato l’assenza nelle prigioni di altre persone detenute in segreto. Per questo la deputata del Meretz (sinistra sionista) Zehava Gal On ha chiesto un chiarimento immediato al governo Netanyahu (nella foto reuters). Non è noto il nome né in quali circostanze sia avvenuto l’arresto di quello che in Israele già chiamano “Mister X2”, che si troverebbe nell’ala 13 della prigione di Ayalon. Invece Zygier era nella 15. L’avvocato Avigdor Feldman - che da anni segue questi, a quanto pare, non isolati “casi speciali “ - ha detto che i reati commessi da “Mister X2”, un israeliano, sono “molto più gravi, più sensazionali, più sbalorditivi e affascinanti” di quelli commessi da quello che veniva chiamato “Prigioniero X”. La vicenda di Ben Zygier era stata nascosta per due anni al pubblico israeliano e sarebbe passata sotto silenzio se non ci fosse stata l’inchiesta della rete televisiva australiana Abc trasmessa nel febbraio scorso. Il settimanale tedesco Der Spiegel scrisse che Zygier era stato arrestato e imprigionato per aver rivelato a al movimento sciita Hezbollah i nomi di due libanesi che spiavano per conto del Mossad: Ziad al Homsi e Mustafa Ali Awadeh arrestati nel 2009 nell’ondata di arresti che coinvolse numerosi civili libanesi accusati di spionaggio. Rivelazioni fatte durante viaggi all’estero e in Libano, non per tradimento ma per incapacità professionale. Zygier perciò fu fatto rientrare in Israele dove venne arrestato e condannato a una pesante pena detentiva da scontare in isolamento e, più di tutto, senza che l’opinione pubblica ne fosse informata.