Messaggio del Presidente Napolitano per 196° fondazione Corpo di Polizia Penitenziaria Ristretti Orizzonti, 8 giugno 2013 Il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha inviato al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Giovanni Tamburino, il seguente messaggio: “Nella ricorrenza del 196° anniversario della fondazione del Corpo, desidero esprimere alle donne e agli uomini della Polizia Penitenziaria il più sentito apprezzamento per l’impegno generoso e la sempre maggiore professionalità con cui adempiono alle loro funzioni. Nell’esercizio dell’attività di vigilanza loro affidata, essi fronteggiano quotidianamente le situazioni di disagio, di sofferenza e di rischio che la pesante realtà carceraria comporta consentendo di far fronte, con spirito di abnegazione e profondo senso dell’istituzione, alle carenze del sistema, che hanno raggiunto soglie di criticità non più ammissibili. Come ho avuto occasione di ricordare è da considerare importante il comune riconoscimento obbiettivo della gravità e estrema urgenza della questione carceraria, che rientra tra le priorità di azione del nuovo governo. Si richiedono ora decisioni non più procrastinabili per il superamento di una realtà degradante per i detenuti e per la stessa Polizia Penitenziaria che in essa opera, al fine di assicurare l’effettivo rispetto del dettato costituzionale sulla funzione rieducativa della pena e sul senso di umanità cui debbono corrispondere i trattamenti relativi all’espiazione delle condanne penali. Auspico pertanto che il parlamento e il governo - anche riprendendo il disegno di legge sulla modifica del sistema sanzionatorio non giunto a definitiva approvazione nella precedente legislatura a causa della sua fine anticipata - assumano rapide decisioni che conducano a dei primi risultati concreti. In questo giorno di solenne celebrazione, nel rendere omaggio alla memoria dei caduti nell’esercizio del loro dovere, esprimo ai loro familiari la vicinanza del Paese e rinnovo a nome dell’intera nazione a tutti voi, ai colleghi non più in servizio e alle vostre famiglie sentite espressioni di apprezzamento ed augurio”. Roma, 7 giugno 2013 Intervento del Ministro Cancellieri per il 196° fondazione Corpo di Polizia Penitenziaria Ristretti Orizzonti, 8 giugno 2013 Autorità, Signore, Signori, è per me un privilegio celebrare insieme a Voi la ricorrenza del 196° Annuale di Fondazione del Corpo della Polizia Penitenziaria. In linea con le indicazioni del Presidente del Consiglio del 3 maggio scorso, come in occasione della Festa della Repubblica, anche la cerimonia di oggi si svolge in un clima di sobrietà. La situazione sociale ed economica in cui versa il Paese impone, nella forma e nella sostanza, senso di responsabilità da parte di chi rappresenta le Istituzioni a fronte delle difficoltà e delle sofferenze di tanti nostri concittadini. Sotto tale aspetto sono certa di poter contare sulla Vostra piena ed assoluta comprensione. Le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria sono tra gli operatori dello Stato più attrezzati sul piano professionale e più predisposti sul piano umano a confrontarsi ogni giorno con i temi della povertà, dell’emarginazione, della sofferenza e del disagio sociale. Pochi possono contare su una preparazione come la vostra nel campo della sicurezza, in quello “trattamentale”, nella gestione degli eventi critici, come pure nel campo dell’ascolto, della comunicazione e dell’etica del servizio. La sobrietà peraltro non sminuisce il significato della ricorrenza odierna, che richiama la Vostra ormai quasi bi-centenaria storia e la sostanza del Vostro impegno, fondato sulla condivisione dei valori della democrazia e sulla fedeltà alla Repubblica. Serve piuttosto a ribadire che il Paese e le sue Istituzioni sono chiamati insieme ad attraversare una stagione tanto difficile ed insieme si impegneranno per uscirne. Importante è anche il valore simbolico della scelta di celebrare questa ricorrenza, come nel 2012, nella sede della Vostra scuola intitolata a Giovanni Falcone. È qui che si realizza il passaggio di consegne tra chi, dopo l’apprendimento, ha maturato la propria esperienza sul campo e chi ne raccoglie il testimone per garantire continuità nell’innovazione al Corpo di Polizia Penitenziaria di domani. Giovani donne e uomini che saranno chiamati a compiti di altissima responsabilità. Penso ad esempio al personale impegnato nell’attuazione del regime di custodia speciale previsto dall’art. 41 bis dell’Ordinamento Penitenziario. Uno strumento essenziale per interrompere i flussi di collegamento e di scambio di informazioni tra i leader delle organizzazioni di criminalità organizzata ed i loro sottoposti. Ma per attribuire al servizio della Polizia Penitenziaria il valore che gli è proprio occorre avere anche piena consapevolezza delle criticità del nostro sistema carcerario e delle condizioni difficili, spesso improbe, nelle quali vi trovate ad operare. È noto il sovraffollamento degli istituti di detenzione del nostro Paese, a fronte di pesanti carenze nei Vostri organici. Una situazione che mortifica il raggiungimento di ognuna delle finalità su cui dovrebbe essere basato il regime detentivo: le esigenze di sicurezza, le finalità di vigilanza e la funzione rieducativa della pena. Criticità che arrivano ad intaccare i diritti di dignità della persona sanciti dalla nostra Costituzione. Una realtà che, come ha più volte sottolineato il Presidente Napolitano, non può più essere sottovalutata e che anche di recente ha provocato umilianti censure nei confronti dell’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Solo fornendo le risposte che la nostra tradizione giuridica ci impone e l’Europa attende potremo restituire al personale della Polizia Penitenziaria - cui va tutta la mia personale gratitudine ed apprezzamento - il suo ruolo di rappresentanza dello Stato, sgravandolo dall’ingiusto ed improprio compito di supplenza dello Stato medesimo. Sono però convinta che per superare i problemi strutturali del sistema occorre riuscire a dare piena concretezza al principio secondo cui la pena detentiva deve costituire l’extrema ratio. Il rimedio cui ricorrere quando si rivela impraticabile ogni altra sanzione. Se assumiamo questo principio come punto di riferimento, ci accorgiamo che gli spazi di intervento davanti a noi si ampliano notevolmente. La reclusione potrebbe essere limitata ai reati più gravi, mentre per gli altri si dovrebbe fare più ampio ricorso alla detenzione domiciliare e al lavoro di pubblica utilità. Sempre nell’ottica delle finalità rieducative, all’interno delle strutture carcerarie si dovrebbero gradualmente ridurre i periodi di permanenza in cella - di segregazione in senso stretto -per lasciare il campo ad una maggiore socializzazione, ad una apertura alle attività culturali e lavorative con l’imprescindibile apporto degli operatori del settore. Tutto questo, ovviamente, mantenendo inalterata la indispensabile cornice di sicurezza. Voglio qui ricordare, solo accennandolo, il tema della vigilanza dinamica, oggetto degli ultimi interventi del Dipartimento sull’attuazione dei circuiti regionali, già previsti dal Regolamento di esecuzione del 2000. Parallelamente diventa possibile l’adozione di forme alternative di definizione del procedimento penale. E la strada di un’imponente opera di depenalizzazione diventa finalmente praticabile. Riguardo ognuno di questi temi è in corso un lavoro di approfondimento che in tempi brevi dovrà condurre ad iniziative. Riguardo ognuno di questi temi è in corso un lavoro di approfondimento che in tempi brevi dovrà condurre ad iniziative conseguenti. Un analogo lavoro di approfondimento è già iniziato per mettere a fuoco i problemi e le possibili soluzioni circa le aspettative di tutele economiche e di garanzie professionali avanzate dal Corpo di Polizia Penitenziaria, con l’impegno di percorrere insieme il cammino che abbiamo davanti, sia pur consapevoli della congiuntura difficile per il Paese. L’incontro dello scorso 28 maggio con le organizzazioni sindacali, che ringrazio per il senso di responsabilità mostrato, si è tradotto nell’avvio di un dialogo improntato al leale confronto ed alla condivisione di obiettivi e priorità. Tra queste ricordo il riallineamento delle carriere che, a tutt’oggi, si sviluppano in condizione di disparità rispetto al corrispondente ordinamento del personale della Polizia di Stato. Una disparità non giustificata, posto che la Polizia Penitenziaria appartiene a pieno titolo alle cinque forze di polizia con una specializzazione che rende insostituibile il suo ruolo a garanzia della sicurezza e della legalità del Paese. Sicurezza e legalità, custodia e vigilanza, umanità e rieducazione, dunque, sono le parole chiave che declinano gli ambiti delle funzioni e della missione del Vostro Corpo, chiamato ad operare in un contesto emergenziale drammatico come testimoniano ancor più delle cifre del sovraffollamento i dati sui suicidi e sui tentati suicidi. Ogni atto di autolesionismo rappresenta la spia di un disagio ambientale e personale che le istituzioni non possono mai trascurare. Anche se spesso di fronte a questi gesti di disperazione non resta altro che la vostra determinazione, la vostra tempestività ed il vostro coraggio. A Voi tutti, donne e uomini della Polizia Penitenziaria giunga il mio plauso e la mia ammirata gratitudine per l’enorme numero di vite salvate nel corso degli anni. Le vostre gesta, anche se non occuperanno le prime pagine dei giornali, siano comunque d’esempio per i colleghi più giovani e costituiscano motivo d’orgoglio della Vostra appartenenza al Corpo. Ma compito delle istituzioni è non lasciarvi soli a fronteggiare questa situazione. È noto che sulla drammatica situazione che ho appena delineato incidono notevolmente anche le condizioni critiche, l’inadeguatezza e l’obsolescenza delle infrastrutture penitenziarie. Ed è per queste ragioni che diventa ancora più ineludibile il completamento del piano di edilizia carceraria, come pure il ricorso a possibili permute tra edifici. Non meno meritevoli di attenzione sono le condizioni degli ambienti e degli strumenti di lavoro come caserme e mezzi delle traduzioni, spesso al di sotto degli standard di sicurezza richiesti. Le cattive condizioni detentive, peraltro, possono essere annoverate anche tra le principali cause di aggressione di cui viene fatto oggetto il personale della Polizia Penitenziaria, sottoposto a forme di stress tipico delle professioni di aiuto. Questioni che non possono essere trascurate ma che al contrario intendo inserire tra le priorità della mia agenda, al fine di individuare forme di intervento concreto per la predisposizione di strumenti idonei a contrastare lo stress da lavoro e le sindromi correlate. Per esperienza conosco bene le pressioni a cui sono sottoposte le donne e gli uomini delle forze di polizia quando devono fronteggiare complesse situazioni di ordine pubblico. Ma è proprio questa la sfida più grande davanti a noi: avviare insieme un mutamento culturale che puntando ad innalzare la qualità di vita dei detenuti migliori anche la vostra qualità di vita professionale. È un percorso che altri Paesi europei hanno già intrapreso con successo, attraverso un ampliamento degli spazi di socialità, di lavoro, di aggregazione e ricreazione dei detenuti ed un potenziamento dei servizi alla persona, a tutte le persone che vivono la realtà degli istituti di pena. Proprio in tale ottica va l’accordo stipulato tra il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e l’azienda sanitaria Sant’Andrea di Roma, che ospita il centro di prevenzione dei suicidi: una struttura ad elevato grado di specializzazione, che ha attivato una linea telefonica di ascolto gratuita a disposizione del personale penitenziario, con il supporto di specialisti che offrono sostegno e assistenza, garantendo la protezione della privacy delle persone che ricorrono al servizio. Mentre rimane aperta, in conclusione, l’annosa questione della “colpa del custode”, tema giuridico che incide sulla tutela dei diritti, ma anche sulla sfera personale dell’agente penitenziario che si sente esposto a responsabilità derivanti in primo luogo da un’organizzazione del lavoro che sconta ognuna delle criticità che ho appena esposto. Con questo spirito ho avviato fin dai primi giorni del mio mandato una serie di visite negli istituti di pena di tutta Italia che intendo proseguire con assiduità anche nel futuro. Nel corso di questi incontri voglio sollecitare il più ampio coinvolgimento del personale che opera nelle strutture carcerarie per discutere, confrontarci, individuare insieme e da vicino un percorso di cambiamento in cui credo fortemente. So che potrò contare sulla vostra partecipazione professionale ed umana, così come voglio che sappiate che io sarò sempre al Vostro fianco. Tributare alla Polizia Penitenziaria l’elogio e la gratitudine delle Istituzioni, dei cittadini, del Paese è un atto doveroso, ma ancor più doveroso è assicurare diritti e riconoscimenti tangibili, ed è questo il mio impegno e l’impegno del Governo. Nella mia prima visita nella sede del Dipartimento ho voluto rendere onore alla lapide che ricorda i caduti del Corpo e dell’Amministrazione Penitenziaria. Un gesto a cui attribuisco un significato tanto simbolico quanto solenne, perché nella memoria del sacrificio di chi ha immolato la propria vita avendo giurato fedeltà alla Repubblica e alla democrazia, risiede la ragione più profonda del Vostro come del nostro impegno. Viva la Polizia Penitenziaria. Viva l’Italia. Roma, 7 giugno 2013 Giustizia: per carceri l’unica soluzione è il lavoro, bisogna puntare sulla detenzione umana di Michele Brambilla La Stampa, 8 giugno 2013 Vediamo quanto dura l’emozione per le parole che Napolitano ha pronunciato sulla situazione carceraria italiana. Il presidente ha detto che siamo in emergenza e che la questione-carceri deve rientrare “tra le priorità” di questo governo. Quante volte abbiamo sentito appelli di questo tono. Ma quasi sempre ce ne siamo dimenticati rapidamente. Prova ne sia il fatto che continuiamo a detenere il primato europeo per il sovraffollamento: 66 mila detenuti contro una capienza di 45 mila. Ma il problema non è certo solo il sovraffollamento. Se si pensasse che è solo quello, il governo potrebbe risolverlo rapidamente con un indulto e/o un’amnistia; e, in un tempo più lungo, con la costruzione di nuove carceri. Servirebbe a qualcosa? No, a nulla. Il primo provvedimento avrebbe un effetto di pochi mesi, oltre che altre ripercussioni che si possono facilmente immaginare.; il secondo sarebbe un’illusione, perché se non cambia il modo di concepire il carcere, quando avremo carceri per 66mila posti, finiremmo con il riempirle con 90mila detenuti. Urgente è invece che si metta chi è in carcere nelle condizioni di fare davvero un percorso che lo porti a cambiare vita. Migliorando le sue condizioni di detenzione, ma soprattutto facendolo lavorare. E lavorare davvero: non con i cosiddetti “lavori domestici” (pulizie interne eccetera) che attualmente occupano, e molto saltuariamente, 11.700 detenuti. No, parliamo di lavoro vero. Lavoro che le aziende portano all’interno del carcere. Lavoro pagato con uno stipendio: parte del quale - a proposito di rieducazione - viene impiegato per pagare vitto e alloggio al carcere. Solo un lavoro così, un lavoro che non sia semplice occupazione del tempo, può restituire una dignità e una prospettiva al detenuto. Un lavoro che gli evita di stare a marcire in cella tutto il giorno accumulando rancore e sentendosi vittima anziché colpevole; sentendosi destinatario di diritti, e non del dovere di riparare, per quanto possibile, al male commesso. Ma sapete, su 66 mila detenuti, quanti hanno la possibilità di lavorare all’interno del carcere? Ottocento. Solo ottocento. Eppure non ci vorrebbe molto per far crescere questo numero. Ma la burocrazia, anche qui, sta strangolando uomini e imprese. Il lavoro ai detenuti non toglierebbe il posto ai disoccupati italiani, perché farebbe rientrare in Italia molte produzioni che le nostre aziende hanno delocalizzato all’estero. E chi pensa che i detenuti non meritino un’opportunità del genere, pensi almeno a questo: al fatto che chi non lavora - o fa solo “lavori domestici” - ha una recidiva, quando esce a fine pena, del 68 per cento (dato ufficiale e quindi sbagliato per difetto, perché calcolato solo sui reati scoperti, che sono solo il 21 per cento di quelli commessi). Chi invece ha lavorato in carcere, per la maggioranza una volta uscito non ricade più nella vita del passato. Ecco perché una detenzione umana è utile a tutti, anche a migliorare la sicurezza “fuori”; e quindi anche a noi che appunto “stiamo fuori”, e pensiamo di non essere parte del problema. Giustizia: carcere di Padova, 400 posti e il doppio di persone… “non fateci sentire vittime” di Michele Brambilla La Stampa, 8 giugno 2013 A Padova le celle erano state concepite per essere tutte singole; poi sono diventate doppie, adesso triple. Ciascuno può contare su 2,85 metri quadrati di spazio. La prima tappa del viaggio nelle carceri italiane. Padova, 400 posti e il doppio di persone. “Se stiamo dentro a marcire, non diventeremo mai persone responsabili”. La vita in galera ha una colonna sonora, specie al mattino: deng, deng, deng... La chiamano “la battitura”: gli agenti picchiano sulle sbarre per capire se qualcuno, di notte, le ha segate. Entro nel carcere di Padova con Ornella Favero: è la direttrice di “Ristretti Orizzonti”, una rivista fatta con i detenuti, e insieme con Silvia Giralucci organizza incontri fra i carcerati e gli studenti. C’è con noi un ragazzo albanese che si chiama Elton Kalica. Era uno di quelli che stavano dentro. Adesso che è libero, e fa il volontario, è uno di quelli che fa credere nella possibilità di cambiare. All’ingresso ci sono uomini ma soprattutto donne e bambini. Sono i parenti. Aspettano di entrare per il colloquio. Gli agenti perquisiscono tutti, anche i passeggini vengono passati per i raggi x. Questo carcere si chiama Due Palazzi ed è una casa di reclusione: vuol dire che chi c’è dentro non è in attesa di giudizio: ha condanne definitive superiori ai cinque anni. Ci sono molti ergastolani. Assassini, mafiosi, uxoricidi, spacciatori. È il mondo che crediamo tanto lontano da noi. “Lavoriamo per annullare quella finta distanza che hanno creato tra chi è in carcere e chi è fuori”, mi dice entrando Ornella Favero: “Si pensa che sia un problema che non ci riguarda, invece riguarda tutti. Sa una cosa? È quasi paradossale, ma oggi i genitori sono più preparati all’idea che un figlio possa morire in un incidente stradale che non che possa finire in prigione. Invece, basta un attimo”. Questo carcere, per tanti aspetti, è considerato uno dei migliori: qui dentro un po’ di detenuti possono lavorare, ad esempio. Per il resto, il Due Palazzi è l’immagine della situazione generale. Ha una capienza di 400 posti, ma dentro ci sono 920 persone. Le celle erano state concepite per essere tutte singole; poi sono diventate doppie, adesso triple. Ciascuno può contare su 2,85 metri quadrati di spazio. Quaranta detenuti su cento sono stranieri. Ci sono varie sezioni: i comuni, l’AS1 e l’AS3 che sono l’alta sicurezza, i protetti che sono quelli che hanno commesso reati che la legge della galera non ammette (roba di sesso, e collaboratori di giustizia) e che pertanto non devono entrare in contatto con gli altri. È un carcere che ha avuto le sue disavventure: il 14 giugno 1994 Felice Maniero evase da qui uscendo tranquillamente, a piedi, per il corridoio principale. In cortile si vedono, per terra, bottiglie di plastica, giornali, lattine: è la spazzatura che i detenuti buttano dalle finestre per protestare. Contro che cosa? In carcere si protesta per tante cose. “Il sovraffollamento”, mi dice Lorenzo Sciacca, un detenuto, “è il problema più grave”. Li incontro nella sala che “Ristretti Orizzonti” ha allestito come redazione. Sono una ventina. Italiani e stranieri. La maggior parte ha pene molto alte, qualcuno l’ergastolo. Ecco le loro voci dalla galera. Bruno Turci, genovese: “Quando incontriamo gli studenti, ci rendiamo conto che sono condizionati da un’informazione che ci descrive come mostri. Poi cominciano a conoscerci e capiscono che non esistono i mostri: esistono persone che hanno commesso cose che non vanno bene”. Gli chiedo se pensa mai- ed è una domanda idiota, perché è chiaro che ci pensa sempre - a che cosa farebbe “fuori”. Mi spiega che uscire è un miraggio che fa anche paura: “Quando esci sei solo. Non sei riconosciuto come persona. Sei un ex detenuto. Se non hai una famiglia che ti accoglie e ti accompagna, che cosa fai? Vai a cercare un lavoro. E allora ti chiedono la fedina penale. E dunque cosa fai? Torni a fare quello che facevi prima”. Per questo “il lavoro in carcere è importantissimo”. Racconta: “Ho lavorato cinque anni in una cooperativa a Opera. Facevamo assistenza a varie aziende per la componentistica elettronica. Avevo imparato un lavoro. Ma poi mi hanno trasferito”. Clirim Bitri, albanese: “Sono in carcere da quasi cinque anni, in redazione di “Ristretti Orizzonti” da uno. Per quattro anni, ho cercato solo di stare il meglio possibile in sezione. In quella condizione, chiuso in cella a far niente, non pensi a quello che hai fatto. Pensi: quando esco, faccio un colpo che mi sistema per tutta la vita. Perché vedi la detenzione come un debito da pagare: pagato quello, puoi fare quello che vuoi. È stato incontrando i ragazzi, e le altre persone che stanno fuori, che ho potuto capire che scontare la pena non basta: il male che hai fatto continua”. Non chiede sconti per sé, ma pietà per la sua famiglia: “Io devo scontare la pena. Ma perché la devono scontare anche i miei genitori? Loro vorrebbero incontrarmi, anche se non sono il figlio che avrebbero desiderato: perché negare loro questa possibilità? La famiglia viene messa in condizione di abbandonare il detenuto, e questo è pericolosissimo, perché quando esci, se non hai la famiglia, è più facile ricadere”. Anche lui teme la vita fuori: “Il picco dei suicidi in carcere è concentrato in due periodi: appena entrati e poco prima di uscire. Perché quando stai per uscire ti chiedi: e adesso che cosa farò?”. Gianluca Capuzzo, medico, padovano: “L’aspetto importante degli incontri che facciamo in carcere è la prevenzione. Raccontare le nostre storie, che spesso sono molto simili alle storie di tutti, fa capire che il confine tra noi e chi è fuori è molto esile. Quindi aiuta tutti: chi è fuori a rendersi conto che può succedere anche a loro; e noi a renderci conto delle nostre responsabilità”. Avendo davanti un giornalista, richiama il nostro mestiere ai rischi della superficialità: “Quando uno commette un reato, i media raccontano solo la parte finale di quello che è successo. E così semplifica, distacca dalla realtà”. Lorenzo Sciacca si autodefinisce “un delinquente”: “Prima di entrare io, pur essendo un delinquente, avevo pregiudizi su chi commette certi tipi di reato. Perché non conoscevo le persone. Adesso lavoro con detenuti che hanno commesso proprio quel tipo di reati e capisco che hanno avuto molto coraggio nel mettersi in gioco, nel parlare delle loro storie. Capisco che dietro, a volte, ci sono situazioni drammatiche. Soprattutto capisco che dietro a quei reati c’è una persona”. Ulderico Galassini, di Rovigo, era un direttore di banca: su “Ristretti Orizzonti” ha raccontato quella che chiama “l’esplosione di follia” che lo portò a rovinare la sua famiglia. Oggi ha un dolore nel dolore: “Non abbiamo contatti con le famiglie. Sei ore al mese di colloquio, una telefonata a settimana di dieci minuti. E per gli stranieri tutto è più difficile”. Victor Mora, cileno, conferma: “Per noi stranieri è molto complicato anche telefonare, perché chiedono la bolletta del destinatario, ed è difficile recuperare una bolletta dal Cile. Io ho fatto il delinquente fin da bambino e ho girato carceri in tutto il mondo. Non ho mai trovato la burocrazia che c’è in Italia. In Sudamerica c’è una cabina telefonica dove infili una tua scheda e telefoni quando vuoi e quanto vuoi. Dieci minuti non bastano a niente. Ieri parlavo con mia mamma, mi stava raccontando della sua malattia e sono finiti i dieci minuti”. Bruno Monzoni, varesino: “La stragrande maggioranza dei detenuti è dentro per tossicodipendenza. Qui a Padova trecento sono registrati come tossicodipendenti. Che cosa si fa per recuperarli? Due incontri la settimana con gli psicologi per una decina di detenuti. Gli altri vengono imbottiti di psicofarmaci”. Sandro Calderoni, mantovano: “La maggior parte di chi finisce qui dentro c’è finita perché nella vita ascoltava solo se stessa. Per questo per me è stato importante far parte del progetto di incontri con le scuole. Se in carcere stai sempre isolato, non capisci quello che hai fatto. Confrontarsi con gli altri ti fa prendere coscienza che hai delle responsabilità”. Il “dopo” è un chiodo fisso per tutti: “Quando esci hai un marchio”. È lui, Calderoni, che alla fine dell’incontro ha quasi uno scrupolo, comunque una preoccupazione: “Non vorrei che tu pensassi che il nostro è un lamento. Noi cerchiamo di far capire che se stiamo dentro a marcire in cella, ci sentiamo vittime anziché responsabili di qualcosa. Così diventa difficile cambiare, e quando usciamo siamo anche peggio prima. Ecco perché dare un senso alla nostra detenzione non è meglio solo per noi, è meglio per tutta la società, è meglio per la sicurezza “fuori”. Star dentro come si sta dentro adesso non rieduca nessuno”. Il tempo è scaduto, la guardia viene a dire che è ora di uscire. Uno dei carcerati mi chiede: “Qual è la cosa che ti ha colpito di più fra tutto quello che ti abbiamo detto?”. Rispondo d’istinto: “Quel che mi ha colpito di più è stato potervi guardare in faccia”. È difficile spiegare, ma sono sguardi che restano, e che hanno a che fare con il mistero che è ciascuno di noi. Giustizia: Napolitano avvisa; sistema penitenziario carente, bisogna decidere in fretta di Francesco Grignetti La Stampa, 8 giugno 2013 Un’altra estate si avvicina, con il suo carico di docce che non funzionano, letti fino al soffitto nelle celle, sudore, caldo, coabitazione forzata. Il carcere italiano è sempre lì, alle prese con un sovraffollamento inverosimile. I numeri sono impietosi e c’è l’Unione europea che sta per mazzolarci. Quindi il Capo dello Stato torna sul tema. Anche ieri, che era la festa del corpo della polizia penitenziaria: “Come ho avuto occasione di ricordare - scrive Napolitano - è da considerare importante il “comune riconoscimento obbiettivo della gravità e estrema urgenza della questione carceraria” che rientra tra le priorità di azione del nuovo governo. Si richiedono ora decisioni non più procrastinabili. Auspico pertanto che il Parlamento e il governo - anche riprendendo il disegno di legge sulla modifica del sistema sanziona-torio non giunto a definitiva approvazione nella precedente legislatura a causa della sua fine anticipata - assumano rapide decisioni che conducano a dei primi risultati concreti”. Il solco insomma è segnato, e il Capo dello Stato ne è ben al corrente: c’è da riprendere un ddl di Paola Severino che cadde in extremis al Senato, quello che prevede la “messa in prova” per i detenuti, la sospensione dei processi quando l’imputato sia irreperibile e un uso più estensivo delle pena alternative tra cui i domiciliari. La presidente della commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti, si è impegnata a farlo votare entro la fine di giugno. Nel frattempo al ministero della Giustizia si è insediata una commissione di studio per incrementare il numero dei posti letto nelle carceri (c’è il paradosso di avere carceri con reparti chiusi e altri che scoppiano). E poi, strategico, il disegno di depenalizzazione. Questo il piano del governo, dunque. Non un’amnistia con indulto, né una singola misura, ma un mix. Al piano fa cenno anche la ministra della Giustizia, Annamaria Cancellieri: “Ci stiamo lavorando e daremo risposte adeguate all’Europa - garantisce la Guardasigilli - tenendo conto di una strategia che riguarda tutto: dalla deflazione delle pene alle nuove strutture, alla riorganizzazione di quelle che ci sono. È un cammino impegnativo ma faremo quello che dobbiamo, ci lavoriamo ogni giorno”. Nel frattempo i numeri fanno paura. In carcere ci sono 65.886 detenuti e i posti sarebbero 46.995. E già non ci siamo. Come dice Stefano Gonella, dell’associazione Antigone: “Le parole del Capo dello Stato speriamo sferzino il governo e il Parlamento. Entro un anno devono essere scarcerate 30 mila persone, tante sono quelle in più rispetto ai posti letto regolamentari in cella”. Ma poi anche quel numero sui posti regolamentari andrebbero lette meglio. Denuncia Donato Capece, segretario del sindacato autonomo Sappe della polizia penitenziaria: “Qui fanno i furbi anche con gli spazi. Da regolamento, il detenuto ha diritto a quattro metri quadri di cella. Per far sembrare la situazione meno drammatica, invece, mettono nel conto anche i corridoi”. Giustizia: Referendum Radicali, una firma per cambiare… finalmente di Vittorio Feltri Il Giornale, 8 giugno 2013 Qui si tratta di raccogliere 500mila firme, il minimo indispensabile per indire un referendum. Nel caso specifico, mirante a riformare la giustizia. Non una rivoluzione. Alcuni ritocchi alla legge, visto che riscriverla di sana pianta, come sarebbe opportuno, non è alla portata del Parlamento, diviso in partiti inclini ad azzuffarsi, perennemente in disaccordo su tutto, figuriamoci sulla delicata materia di cui ragioniamo. Mi corre l’obbligo di precisare che personalmente ho aderito all’iniziativa dei radicali, i soli che in questo Paese, piaccia o non piaccia, siano stati in grado di combinare qualcosa di concreto in politica. Le altre forze, pur manifestando in alcune circostanze buona volontà, non sono mai riuscite a trovare un’intesa per rinnovare la legislazione. Non mi nascondo quindi dietro a un dito: sto con Marco Pannella e mi auguro che anche stavolta egli piazzi un colpo decisivo per costringere l’Italia a darsi una mossa. Invito i lettori a non perdere questa occasione se vogliono contribuire a rendere civili le nostre istituzioni: basta che si rechino a firmare. Sarà poi il popolo a decidere al seggio ciò che preferisce: mantenere lo statu quo oppure svoltare e scrollarsi di dosso il vecchiume che impedisce alla macchina della giustizia di funzionare meglio. Entriamo nello specifico e tentiamo di spiegare. I punti sono 6. I primi due riguardano la responsabilità civile dei magistrati, i quali oggi, di fatto, non pagano per i propri errori, neppure i più gravi. Qui si pretende di agevolare i cittadini nell’esercizio dell’azione risarcitoria qualora siano stati danneggiati da un’interpretazione errata delle norme di diritto o dalla valutazione delle prove. Insomma, lo spirito del referendum non è quello di vendetta nei confronti delle toghe che sbagliano: capita, e spesso, anche a loro di andare fuori pista. Semplicemente, responsabilizzando chi amministra la giustizia anche a livello economico (se i giudici rischiano in solido diventano più prudenti e quindi più attenti), si tende a ottenere sentenze eque o almeno equilibrate. D’altronde il problema è noto: tutti i lavoratori pagano per le loro topiche tranne i giudici. Per i quali, male che vada, paga lo Stato. Un incentivo alla faciloneria. Perfino i medici, nelle cui mani affidiamo la salute (la vita), se mettono il piede su una buccia di banana non sfuggono al rigore della legge: sono obbligati a sborsare fior di quattrini. Molti di essi si sono ridotti, onde evitare di finire in bolletta o, peggio, di indebitarsi, a sottoscrivere polizze assicurative dal premio salato. Ora non si comprende per quale motivo i camici bianchi rispondano delle loro cantonate, mentre le toghe abbiano licenza di toppare, lasciando le vittime in brache di tela. Assurdo. Se tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge, non vi è ragione di considerare i giudici una categoria speciale da proteggere. Ci rendiamo conto: la professione del magistrato ha delle caratteristiche tali da renderla unica, ma non vi è alcun motivo per esentarla da castighi qualora chi la svolga si sia comportato male. Tutti qui. Pagano i tranvieri maldestri, ovvio che paghino pure coloro che, steccando, mandano in galera un povero innocente. Veniamo al punto 3. Col plebiscito in questione si aspira altresì a separare le carriere dei magistrati: il giudice giudicante è terzo per definizione, di conseguenza il Pm (ossia la pubblica accusa) non può essere un suo collega; venga piuttosto parificato al difensore, in maniera che accusa e difesa si scontrino ad armi pari e che il giudice sia al di sopra delle parti. Che c’è di strano in questa divisione di compiti? Nulla. Il desiderio è quello di offrire maggiori garanzie agli imputati, che non sono carne da macello bensì uomini e donne meritevoli di rispetto. Quarto punto. La giustizia finora ha abusato della carcerazione preventiva, serve una regolamentazione più rigida. Non si sbatta in prigione chi non sia ancora stato condannato definitivamente. Salvo rare eccezioni. Ma che siano eccezioni, e non la norma come accade ora con la minaccia del carcere utilizzata per spaventare e indurre a confessare, a mo’ di tortura, chi è nelle grane giudiziarie. Quinto punto. L’ergastolo contrasta con l’articolo 27 della Costituzione, secondo il quale la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Bisogna abolirlo oppure si deve cambiare la Carta. Siamo favorevoli alla prima opzione. Occhio anche alle pene accessorie. Infliggere a un condannato l’isolamento per tre anni è una crudeltà indegna di una democrazia decente. Infine. Una nuova disciplina per i magistrati fuori ruolo. Abbiano un lavoro utile, chiaro, preferibilmente soggetto a restrizioni. Chiediamo troppo? No. Semmai lo chiediamo troppo tardi. Quindi spicciamoci a ottenerlo. Giustizia: Tamburino (Dap); intervento normativo per rispondere agli obblighi europei Ansa, 8 giugno 2013 “La realizzazione in corso di nuove strutture carcerarie consentirà una volta ultimata di avere circa 10mila nuovi posti”, ma “se alcuni nuovi istituti sono già stati consegnati, questo non significa che nel giro di un anno sarà ultimata la consegna”. Quindi, questa strada “da sola non basta” per rispondere alle richieste di misure strutturali per superare l’emergenza sovraffollamento che la sentenza sulle carceri della Corte di Strasburgo ci impone entro il 27 maggio 2014. “Penso quindi che per rispondere a quest’obbligo serva anche un intervento normativo”. Lo sottolinea il capo del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino, inviando un suggerimento al legislatore: “La mia idea è che bisognerebbe introdurre una norma di flessibilità che funzioni da valvola di sicurezza. Nell’ordinamento penitenziario abbiamo il 41 bis” sul carcere duro - spiega Tamburino - “che consente una deroga a una serie di regole primarie per ragioni di sicurezza. Con la stessa logica potremmo introdurre uno strumento di protezione del detenuto che scatti quando si verifichino violazioni di una norma di rango costituzionale o super primario, come la Convenzione europea dei diritti umani”. Tamburino è intervenuto all’assemblea nazionale del volontariato della giustizia, che ha affrontato i tanti problemi delle carceri, a partire da 4 scadenze elencate dal presidente onorario dell’associazione Antigone, Stefano Anastasia: “La revisione del sistema di misure alternative al carcere, la ratifica del protocollo opzionale alla convenzione Onu contro la tortura, il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari entro il maggio 2014 dopo la proroga varata quest’anno, che speriamo sia l’ultima, e la sentenza della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo sul sovraffollamento delle carceri italiane”. In alcune fasi politiche difficile indulto “Esigenze come quelle di un indulto, che potrebbero anche essere oggettive” per affrontare il problema del sovraffollamento delle carceri, “sono considerate non trattabili in certe fasi sensibili sul piano politico: dobbiamo esserne consapevoli”. Lo ha detto il capo del Dap, Giovanni Tamburino, intervenendo all’assemblea del volontariato della giustizia. “Il Dap è un organo di servizio e a cui non spettano decisioni politiche”, ricorda Tamburino, sottolineando però che negli ultimi mesi l’attenzione della politica rispetto all’emergenza carceri è cresciuta. Uno dei piani su cui lavorare, secondo Tamburino è quello della custodia attenuata, che “se non è per tutti i detenuti, può però essere estesa: ora interessa circa 5mila detenuti che vorremmo portare a 10mila e poi a 15mila”. Quanto al ddl sulla messa alla prova che dopo un’ampia maggioranza alla Camera fu stoppato al Senato a pochi giorni dalla scadenza della scorsa legislatura e che ora si è rimesso in moto in commissione Giustizia alla Camera, Tamburino confida in un “iter in tempi brevi e in un rapido approdo in Aula. Non produrrà grandi effetti deflattivi, ma prevede anche interventi sul sistema delle pene e questa è una direzione sulla quale insistere, ossia prevedere anche una sistema di sanzioni alternative, né pecuniario né detentivo”. Giustizia: Bernardini: da Napolitano monito importante, ma situazione italiana è illegale di Monica Gasbarri www.clandestinoweb.com, 8 giugno 2013 “Caro Presidente, la situazione delle carceri non è critica, inammissibile, etc. etc. È illegale, da Stato criminale”. La radicale Rita Bernardini commenta così la nuova esortazione del Capo dello Stato Giorgio Napolitano che nella ricorrenza del 196° anniversario della fondazione del Corpo della Polizia Penitenziaria ha ribadito come la carenza del nostro sistema carcerario tocchi soglie non più ammissibili. Esortazioni che però nei fatti rimangono lettera morta, perché, lo stesso Napolitano non si rivolge al Parlamento come ha spiegato in una intervista la stessa Bernardini, che da sempre assieme ai Radicali denuncia la condizione delle carceri italiane e, a monte, della giustizia. Giorgio Napolitano ha di nuovo denunciato la situazione inammissibile delle carceri italiane. Lei invece è stata ancora più categorica ribadendo che si tratta di una condizione di illegalità… Il primo solenne e clamoroso appello di Napolitano risale a fine luglio 2011 quando il Capo dello stato parlò di prepotente urgenza riferendosi alla situazione umiliante e all’orrore degli OPG. Quello inviato in occasione della ricorrenza del 196° anniversario della fondazione della Polizia Penitenziaria è l’ennesimo richiamo, ma Napolitano continua a non rivolgersi a chi lo ha eletto, e cioè al Parlamento. Quindi fino ad ora nulla di concreto… I moniti del Presidente della Repubblica sono sicuramente importanti, ma la nostra è una situazione che si attesta ormai al di fuori della legalità e che è stata sanzionata più volte dall’Europa. È evidente che fino ad ora gli interventi fatti sul fronte carcerario non hanno assolutamente eliminato il problema strutturale che vive il nostro paese. Napolitano si richiama a un disegno di legge in particolare sul quale il Governo era già al lavoro. Potrebbe essere risolutivo qualora proseguisse l’iter come da lui auspicato? L’intervento di oggi fa riferimento a misure sulle pene alternative che erano già in discussione verso la fine della precedente legislatura e che poi rimasero lettera morta per la fine anticipata del governo. Queste misure erano tuttavia già di per sé assolutamente inadeguate, così come l’intervento sul fronte delle depenalizzazioni, tanto che la stessa Severino lo ritirò perché ininfluente. Entrambi non possono affrontare l’emergenza umanitaria nelle nostre carceri. Voi Radicali avete però le idee molto chiare al riguardo. Una ricetta per risolvere con urgenza l’emergenza esiste… Nessuno si rende conto che per un paese democratico la condizione che stiamo vivendo noi nelle nostre strutture carcerarie non è neanche lontanamente contemplabile. Per interrompere questa gravità l’unico provvedimento attuabile è proprio quello dell’amnistia. Giustizia: amnistia e ipocrisia… la politica a un bivio dopo il monito di Napolitano di Dimitri Buffa www.clandestinoweb.com, 8 giugno 2013 Forse, alla fine, Napolitano, seguendo il consiglio di Marco Pannella, un bel messaggio alle Camere sulla questione carceri, giustizia e legalità finirà per mandarlo. Oggi, con la sua ultima esternazione, ha intanto dato un segnale che milita verso una sola direzione: l’amnistia. Da contrapporre all’ “ipocrisia” con cui la questione viene trattata da due o tre esecutivi a questa parte. Già la ricorrenza usata è emblematica: il 196 esimo anniversario della fondazione della polizia penitenziaria. Poi le parole: “soglie di capacità non più ammissibili”. Si intende della capienza delle prigioni. Ma Napolitano tra le righe manda anche un segnale all’ipocrisia di quei politici che si trincerano, quando loro pare e conviene, dietro i sondaggi e l’opinione pubblica. Per cui quando si tratta di rinunciare ai soldi dei partiti allora “chissenefrega” delle cifre e dell’impopolarità e quando invece si deve evitare che degli esseri umani siano detenuti in condizioni di “tortura permanente” allora no. È lo stesso doppio standard che oggi impedisce alle forze politiche di prendere il coraggio a due mani e di decidere di ritornare indietro sulla demagogica modifica costituzionale nata in quattro e quattr’otto ai tempi di “mani pulite” con cui si è alzato a due terzi il quorum parlamentare per votare provvedimenti di amnistia e indulto. Un quorum che non si usa per modificare neanche la stessa Costituzione secondo i dettami dell’articolo 138. Anche qui l’ipocrisia della classe politica italiana è palese e merita tutte le strigliate di Napolitano e anche qualcuna di più: “la Costituzione più bella del mondo” che non si può mutare per dare un governo che governi e magari un presidente della repubblica eletto dal popolo, si è potuta invece snaturare nell’articolo che prevedeva le amnistie e gli indulti come strumenti costituzionali periodici e fisiologici per fare ritornare l’inferno delle carceri alla legalità. Giustizia: Ferranti (Pd); pene alternative subito, ma serve anche una riforma del sistema Asca, 8 giugno 2013 “Dobbiamo approvare entro l’estate delle misure urgenti per alleviare l’indegno disagio in cui versa la popolazione carceraria, sapendo che più ampie riforme di sistema interverranno nel medio e lungo periodo. C’è il massimo impegno da parte del Parlamento a lavorare sinergicamente con il Governo per risolvere il gravissimo problema del sovraffollamento carcerario, evitando un’ottica meramente emergenziale”. Lo ha detto Donatella Ferranti, Pd, presidente della Commissione giustizia della Camera cogliendo il richiamo del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. “Occorre -spiega- mettere in campo riforme che prevedano: un sistema di depenalizzazione, le pene alternative alla detenzione carceraria per reati di non particolare allarme sociale, la revisione della custodia cautelare in carcere, l’abolizione della ex Cirielli che attraverso i limiti imposti all’accesso ai benefici penitenziari per i recidivi reiterati è una delle cause del sovraffollamento, l’introduzione dell’istituto della messa alla prova degli adulti per reati di piccola entità, la revisione della legge Fini-Giovanardi, nuove modalità di trattamento come la custodia attenuata e l’attuazione del piano carceri”. “La Commissione giustizia della Camera - sottolinea la Ferranti - si è fatta carico sin dall’inizio dei suoi lavori di portare avanti alcuni di questi provvedimenti che sono stati calendarizzati in aula per fine giugno. Si tratta dell’atto Camera n.331, delega al governo in materia di pene detentive non carcerarie e disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili, che porterà in tempi rapidi a dei risultati concreti sia sul fronte del sovraffollamento carcerario che della ragionevole durata dei processi”. Pes (Pd): parola d’ordine è “pene alternative” “Le parole del Presidente Napolitano sulle condizioni in cui versano le nostre carceri devono avere l’effetto di una scossa. La Corte di Strasburgo ci ha dato un anno di tempo per prendere provvedimenti affinché i penitenziari italiani non siano più dei luoghi di tortura, indegni di uno Stato democratico”. Lo dichiara Caterina Pes, segretario di presidenza della Camera commentando il monito del Capo dello Stato in occasione dell’anniversario della fondazione della Polizia Penitenziaria. “Napolitano ci chiede risposte immediate, il Parlamento sta lavorando in questa direzione con una tempistica tale da prevedere che entro l’estate siano approvate tre misure molto importanti che vanno in direzione dello sfoltimento delle carceri e dell’alleggerimento dei processi sul sistema. In questo contesto, con un sistema carcerario al collasso, ci ritroviamo nella surreale situazione di non avere a disposizione strutture adeguate per i detenuti che devono scontare il 41 bis. E la soluzione non è certo quella di deportare boss mafiosi come Riina e Provenzano in Sardegna: sono certa - conclude l’esponente Pd - che il ministro Cancellieri farà in modo che vengano individuate altre soluzioni per la custodia di questi detenuti”. Giustizia: Testa (Radicali); Ministro Cancellieri renda noti dati su spesa per le carceri Ansa, 8 giugno 2013 “Se il Ministero è in grado di fornire finalmente, si spera, i dati davvero reali dei posti letto di ogni istituto carcerario all’Unione Europea, è già qualcosa. Tuttavia non è sufficiente, ma è necessario dare la possibilità a tutti di conoscere i dati che riguardano il sistema carcerario, a partire da come vengono spesi i soldi, nella gestione e negli appalti, e come vengono definite le gare”. Lo dice la radicale Irene Testa, presidente dell’associazione “Il Detenuto Ignoto”. “A fronte di una spesa quantificabile in più di 6 miliardi e mezzo di euro all’anno da parte dello Stato, infatti, al cittadino non sono al giorno d’oggi dati i mezzi fruibili di conoscenza che gli garantiscano un rapporto dettagliato dell’utilizzo di questo denaro. Una condizione chiaramente non democratica e non più accettabile, dato che ovviamente né il Ministero, né tanto meno il suo Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, possono anche loro godere di un regime di autodichia. Avere informazioni dettagliate sugli istituti di pena presenti sul territorio italiano - dice ancora - continua a risultare un’impresa tutt’altro che semplice, per la società civile e per l’informazione. Nonostante la legge contempli la possibilità che il cittadino possa accedere ai documenti amministrativi allo scopo di garantire la trasparenza dell’attività amministrativa, reperire i bilanci delle amministrazioni penitenziarie allo stato attuale non rientra in questa possibilità, se non attraverso lunghe e incerte procedure burocratiche. Nella passata legislatura l’associazione Il Detenuto Ignoto ha elaborato una proposta di legge in materia presentata dalla deputata Rita Bernardini, che ha avuto modo di farla depositare per la legislatura in corso. Auspico che la Ministra ne tenga conto e faccia predisporre nel sito del ministero della Giustizia la possibilità di conoscere il pianeta carcere nella sua interezza. Un passo importante per un’evoluzione di questo sistema, oggi fallimentare, verso la piena attuazione del dettato costituzionale e la realizzazione degli scopi che si prefigge”. Giustizia: spot Ascanio Celestini a sostegno delle 3 leggi di iniziativa popolare per i Diritti www.3leggi.it, 8 giugno 2013 Dall’attore un appello a firmare le leggi di iniziativa popolare per l’introduzione del reato di tortura, le legalità nelle carceri e la modifica della legge sulle droghe. L’attore Ascanio Celestini si schiera a sostegno delle tre leggi di iniziativa popolare sulla tortura, le carceri e la droga con uno spot lanciato oggi sul sito www.3leggi.it e sui profili Facebook e Twitter della campagna “Tre leggi per la giustizia e i diritti”. Nel suo inconfondibile stile da menestrello, Celestini racconta le drammatiche condizioni di vita nelle nostre carceri sovraffollate, dove i detenuti hanno a disposizione meno spazio di quello previsto dalle normative europee per i maiali negli allevamenti, e dove spesso “non possono scendere contemporaneamente dai loro letti a castello su quattro livelli, perché tutti in piedi non c’entrerebbero”. Dove oltre il 40 per cento dei reclusi è in attesa di giudizio, e quindi “sconta una pena senza aver ricevuto una condanna”, e un terzo è tossicodipendente e quindi continua ad andare in cerca di droga o, in alternativa, di psicofarmaci, perché “la finalità di questa tipologia di carcere è tenere buoni i detenuti e stordirli”. “Per questo - spiega Celestini - stiamo raccogliendo le firme su tre proposte di legge di iniziativa popolare” per l’introduzione del reato di tortura nell’ordinamento italiano, il rispetto dei diritti e della legalità nelle carceri attraverso misure come il numero chiuso e l’istituzione del Garante nazionale dei detenuti, e per la modifica della legge sulle droghe responsabile di tanta inutile carcerazione. “Dateci un mano!”, è l’appello finale di Ascanio Celestini per raggiungere il traguardo delle 50 mila firme. La campagna “Tre leggi per la giustizia e i diritti” è promossa da un ampio cartello di associazioni e organizzazioni impegnate sul fronte dei diritti umani, tra cui: A Buon diritto, Acat Italia, L’Altro Diritto, Associazione 21 luglio, Associazione difensori di Ufficio, A Roma, insieme - Leda Colombini, Antigone, Arci, Associazione Federico Aldrovandi, Associazione nazionale giuristi democratici, Associazione Saman, Bin Italia, Consiglio italiano per i rifugiati - Cir, Cgil, Cgil - Fp, Conferenza nazionale volontariato giustizia, Cnca, Coordinamento dei Garanti dei diritti dei detenuti, Fondazione Giovanni Michelucci, Forum Droghe, Forum per il diritto alla salute in carcere, Giustizia per i Diritti di Cittadinanzattiva Onlus, Gruppo Abele, Gruppo Calamandrana, Il Detenuto Ignoto, Itaca, Libertà e Giustizia, Medici contro la tortura, Naga, Progetto Diritti, Ristretti Orizzonti, Rete della Conoscenza, Società della Ragione, Società italiana di Psicologia penitenziaria, Unione Camere penali italiane, Vic - Volontari in carcere. Il prossimo 1° giugno il coordinamento nazionale dei garanti dei detenuti organizzerà una raccolta firme dentro e fuori le carceri, mentre l’8 e il 26 giugno sarà possibile firmare le tre proposte di legge in tutte le piazze d’Italia. Tutte le informazioni sulla campagna, i punti di raccolta firme e le iniziative in programma sono disponibili al sito: www.3leggi.it. Lettere: il caso di Stefano Cucchi e le garanzie al cittadino di Marcello Fois La Nuova Sardegna, 8 giugno 2013 Nei giorni scorsi la Corte d’Assise di Roma ha condannato per omicidio colposo i sei medici implicati nel caso di Stefano Cucchi, il geometra arrestato il 15 ottobre 2009 per droga e morto una settimana dopo nel Reparto di medicina protetta dell’ospedale Sandro Pertini dove gli imputati lavoravano. Sono stati invece assolti gli infermieri dello stesso ospedale e gli agenti penitenziari che erano di turno durante la sua custodia. Ora risulta difficile non definire questa sentenza una soluzione perlomeno parziale. Perché se i giudici romani hanno ragione dovremmo intendere che nella catena alimentare che ha divorato il corpo del povero Stefano Cucchi si ritiene colpevole solo chi, a torto o a ragione, non è stato in grado di salvargli la vita e non chi l’avrebbe messo nelle condizioni di rischiare la propria vita. Sarebbe come dire che si debba condannare, giustamente, un cattivo medico che per incuria non salvi la vittima di un incidente stradale, ma si debba assolvere l’investitore. Procedo per metafore naturalmente, ma le metafore servono, perché quando la logica viene meno, allora si deve ricorrere all’immaginazione. Non c’è oltraggio peggiore che si possa fare ad un cittadino di quello di non garantire la sua incolumità quando è affidato alla giustizia. E non c’è immaginazione che conti quando si tende a far passare per normalità un torto madornale. Le guardie carcerarie assolte tirano un sospiro di sollievo, questa sentenza gli ha dato ragione, ha cioè asserito che un uomo di trentun anni, alto e magrissimo, entrato in carcere in buona salute, arriva alla prima udienza in tribunale con ecchimosi agli occhi e quasi incapace di camminare. Ha cioè asserito che un uomo può entrare in un territorio istituzionale e non avere garanzie di incolumità, da chiunque o comunque gli siano provenute le lesioni. È stato pestato da qualcuno? Occorrerà capire da chi. O siamo di fronte ad un altro caso di autolesionismo come nella tremenda vicenda Aldrovandi? Il Reparto protetto di un carcere è un territorio istituzionalmente sacrale, un posto cioè dove lo Stato certifica la sua altezza morale. Corre il sospetto che il problema di Stefano Cucchi sia stato il pregiudizio che si esercita su quei cittadini ritenuti di serie B, colpevoli di avere avuto pregressi con la giustizia. Questa vicenda ci dice che le sentenze incomprensibili, seppure indiscutibili, come questa non risolvono il problema fondamentale di spiegarci in che modo possiamo fidarci di un sistema in cui conta esclusivamente la colpa e non l’espiazione. Senza considerare il fatto che il sospetto che si sia voluto glissare sulle responsabilità degli agenti di Polizia Penitenziaria non fa affatto bene a quella gloriosa e degnissima istituzione. Questa sentenza allibisce per la sua qualità di merletto, di ricamo, di capacità di glissare. Ma dà la misura di quanto si possa criminalizzare un uomo per essere stato “tossicodipendente” e per sembrare “anoressico, larva, zombie”. C’è una cosa tuttavia che questa sentenza non dice, non dice che un pestaggio nei confronti di Stefano Cucchi non c’è stato. Afferma che le indagini non hanno prodotto prove sufficienti su un fatto incontrovertibile e cioè che un imputato ex tossicodipendente, di 40 chili, in custodia cautelare è stato malmenato fino a causargli la necessità di un ricovero dove, questo per i giudici sarebbe certo, medici inadeguati hanno lasciato che morisse o non hanno fatto abbastanza perché sopravvivesse. La morte stessa di Stefano Cucchi, sarebbe la prova definitiva a carico dei medici che non l’hanno salvato, ma le sue lesioni non sarebbero sufficienti a stabilire che qualcosa d’ingiustificabile e inaccettabile è accaduto nella zona morta della carcerazione cautelare. Nel momento cioè in cui l’incolumità di Stefano Cucchi, qualunque fosse la sua colpa, doveva essere totalmente salvaguardata. Lettere: chi ha picchiato Stefano Cucchi? sarà stato il diavolo… di Carmelo Dini Il Manifesto, 8 giugno 2013 Gli uomini delle forze dell’ordine, si sa, sono tutte brave persone. Non capita mai che prendano un giovane e lo riempiano di botte senza motivo. Che gusto ci sarebbe? Così, è da escludere che qualche guardia mise le mani addosso a Stefano Cucchi. E del resto, se i giudici hanno condannato solo i medici dell’ospedale e hanno assolto le guardie carcerarie, significa che queste sono innocenti. Però il povero Stefano aveva sul corpo evidenti segni di percosse che non poteva essersi procurate da solo. E allora chi lo picchiò selvaggiamente se non il diavolo? Erano forse i buoni frati del convento a recarsi di notte nella cella del frate di Pietrelcina per suonargliene di santa ragione? Era il diavolo. Il demonio ce l’ha a morte con le persone buone, e quando non riesce a farle diventare cattive, gli assesta botte da orbi. E se il diavolo picchia i santi, perché non dovrebbe picchiare persone arrestate, che magari sono anche buone ma non proprio sante sante? Lascia solo un po’ perplessi il fatto che Chiappino (così chiamava il diavolo, santa Gemma Galgani) se la prende solo con i poveri cristi; difficilmente, infatti, picchia una persona arrestata vestita elegantemente, giacca e cravatta, e magari con una macchina di lusso. Sardegna: il Dap smentisce, il deputato Pdl Mauro Pili conferma “i boss presto a Bancali” di Elena Laudante La Nuova Sardegna, 8 giugno 2013 Le loro celle non sono ancora pronte, ma seppur da convitati di pietra i boss col 41-bis fanno paura. Dopo l’annuncio di un possibile trasferimento a Bancali di Totò Riina, il Dap non fa in tempo a smentire che il deputato Pdl Mauro Pili rincara: “Da Parma filtrano notizie sull’arrivo di Bernardo Provenzano”, attualmente ricoverato. Altra smentita del Dap e del provveditore regionale Gianfranco De Gesu, “sebbene tardiva”, nota il deputato, che la spiega come una “retromarcia”. Con un sopralluogo nel nuovo carcere, Pili riaccende il dibattito sulle sezioni di massima sicurezza di Bancali e Uta. “È improponibile la concentrazione nell’isola di 600 capimafia”, protesta riferendosi alle sezioni per il 41bis e a quelle riservate a detenuti in Alta sicurezza, a Tempio-Nuchis e Oristano-Massama. Una concentrazione che allarma anche il sociologo Pino Arlacchi, un tempo sostenitore dell’immunità del tessuto sociale sardo dalle infiltrazioni mafiose nel suo libro “Perché non c’è la Mafia in Sardegna”. Da Bruxelles l’eurodeputato del Pd ha lanciato un vero e proprio allarme: “Occorre fermare l’arrivo di Riina e dei mafiosi a Sassari. È una decisione dissennata che rischia di provocare un danno gravissimo all’isola”. Alle 9.30 di ieri, come annunciato la sera precedente, Pili si presenta davanti al cancello del nuovo istituto di Bancali, completato nella parte dedicata ai reclusi ordinari. Ma non gli consentono di entrare. “Dal provveditorato regionale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria fanno ostruzionismo”, denuncia tra una telefonata e l’altra. “È una violazione delle prerogative dei parlamentari, che in ogni momento possono visitare carceri e opere pubbliche”. Bancali è a metà, perché il cantiere è stato consegnato al Dap ma i detenuti arriveranno solo a fine giugno. Pili chiama al telefono il guardasigilli Annamaria Cancellieri e la presidenza della Camera. E dopo un’ora di attesa e l’intervento di due uomini della Digos, mandati dal prefetto, la direttrice Patrizia Incollu gli apre i cancelli su disposizione del Dap. Incidente diplomatico chiuso. Passano venti minuti e l’esponente Pdl esce dall’istituto per descrivere le celle per i boss. “Sono come suite con quattro celle singole, con cortile per l’aria in comune e tre sale di socializzazione, dove potranno comunicare tranquillamente tra loro. Ma non sono ancora pronte -conferma -. Sono state completate solo 16 celle per le videoconferenze”, che servono ai mafiosi per i collegamenti con gli avvocati o durante i processi. Poi rivela l’esistenza di “una sala operatoria progettata per boss malati proprio come Provenzano, ma che non è risultata idonea per l’Asl”. A chi obietta che la Sardegna non può essere terra di conquista per organizzazioni criminali perché povera, lui ricorda: “Arlacchi ha detto che c’è il rischio di una estorsione a tappeto, e non dimentichiamoci che qui sono in ballo un miliardo di euro per la Sassari-Olbia, 500 milioni per le bonifiche a Porto Torres e gli affari attorno all’eolico. Bisogna bloccare i trasferimenti di boss”. In serata il Dap smentirà l’arrivo dei 41 bis. Ma prima o poi qualcuno, ad occupare le 184 celle di massima sicurezza a Uta e Bancali, dovrà arrivare. Le reazioni. L’apertura delle nuove carceri (dopo Nuchis, Massa-ma e Bancali; Uta entro fine 2013) è tema legato alla pena sofferta dai detenuti stipati nelle galere italiane. Come ha ricordato Caterina Pes, esponente Pd e segretaria di presidenza della Camera. Sulle barricate anche l’Idv. Imperia: tunisino muore dopo arresto, non è stato omicidio… ma le cause sono da chiarire Agi, 8 giugno 2013 Non è stato ucciso Bohli Kaies, l’immigrato tunisino di 36 anni, morto mercoledì sera, poco dopo l’arresto da parte dei carabinieri di Santo Stefano al mare (Imperia), che lo hanno fermato nei pressi di un supermercato di Riva Ligure, con un etto di eroina in dosso. Questo è quanto risulta dai primi esiti dell’autopsia, svoltasi questo pomeriggio, a Sanremo. I medici Francesco Traditi e Simona Del Vecchio, infatti, non hanno trovato tracce di violenza compatibili con la morte. Solo qualche graffio e un’ecchimosi sullo zigomo destro, che si è procurato nella colluttazione con i carabinieri, dai quali cercava di scappare. Gli stessi militari hanno riportato lievi escoriazioni. Dunque, la verità si trova negli esami istologici e tossicologici, per il cui esito ci vorranno rispettivamente: 60 e 30 giorni. L’ipotesi che abbia ingerito per sbaglio una dose di eroina, magari già pronta la vendita, resta per ora l’ipotesi più accreditata. Roma: la Polizia penitenziaria; benvenuti ad Alcatraz... detenuti ammassati come bestie di Samantha De Martin www.cinquequotidiano.it, 8 giugno 2013 La rivolta delle guardie capitoline contro il sovraffollamento: ogni giorno è una lotta per la sopravvivenza. Servono nuovi istituti e fondi per il personale. Incatenati davanti all’ingresso del carcere di Rebibbia. Sono scesi in piazza così, ieri pomeriggio, brandendo striscioni e bandierine, i dipendenti della polizia penitenziaria. Stretti in un sit-in di protesta, organizzato dalla Fp Cgil di Roma e Lazio, hanno denunciato la situazione “vergognosa” in cui versano le carceri della regione, caratterizzate da un inaccettabile sovraffollamento di detenuti e da pesanti carenze di organico degli agenti, invocando a gran voce un programma di assunzioni in grado di colmare l’inammissibile vuoto di personale. Sono infatti circa 7.100 i detenuti accolti nei penitenziari regionali, a fronte dei 4.834 posti di capienza regolamentare, mentre gli agenti sono il 25% in meno rispetto a quelli effettivamente presenti negli istituti di pena. “Riteniamo necessario utilizzare tutto il personale, anche quello in servizio presso gli uffici amministrativi per rinforzare gli organici degli istituti e, successivamente prevedere, in tempi brevissimi, un programma di assunzioni che possa colmare il vuoto di organico” dicono i sindacalisti in sit-in accanto agli agenti di Polizia penitenziaria. “Non ce la facciamo più, siamo troppo pochi per controllare tutti i carcerati offrendo loro condizioni il più possibili dignitose. Siamo sottoposti a sedici ore ininterrotte di lavoro, dalle 15 alle 7, e dal 2011 non percepiamo stipendio, per non parlare degli straordinari”. Si sfoga così un agente, interrotto dai cori dei colleghi che invocano “dignità” denunciando “l’inferno” che consuma le vite dei dipendenti ma soprattutto della spropositata schiera di detenuti letteralmente accatastata al di qua degli enormi cancelli di ferro rosso del carcere di Rebibbia. Qualcuno, nel corso della protesta, accenna al caso Cucchi. “Lo Stato non potrà restituire un figlio ad una madre, ma noi non abbiamo colpa. La dignità di un detenuto non si offende soltanto con la violenza fisica, ma anche attraverso le pessime condizioni cui un uomo è sottoposto in luoghi inadeguati come le nostre celle”. Manifestano la loro rabbia anche contro il sovraffollamento, i poliziotti, invocando la costruzione di nuovi istituti, ma soprattutto strutture più idonee per arginare un problema urgente che qualcuno dei presenti ieri ha definito “una vera bomba a orologeria”. “Siamo costretti a confinare anche 25 detenuti in una stessa cella - continua un altro agente - con gravi rischi per l’incolumità di tutti. Litigi, aggressioni continue infuriano perché ognuno rivendica il proprio spazio. Le condizioni dei detenuti dipendono fortemente dalla disponibilità numerica delle unità di polizia penitenziaria, al momento troppo poche per gestire al meglio un così alto afflusso nelle carceri”. Tanti sono stati i tentativi di impiccagione, in cella, scongiurati dalla polizia, ma tanti, troppi sono i detenuti che, ogni anno, sacrificano la vita ad una dignità troppe volte violata da condizioni disumane e dall’abuso di potere. Solidarietà agli agenti di Polizia in protesta è stata espressa, ieri, anche da Massimiliano Valeriani, vicepresidente del consiglio regionale del Lazio. “Continuare ad attuare una politica di soli tagli e di riduzione del personale - ha dichiarato Valeriani - ha come unico effetto quello di aggravare la già compromessa situazione delle carceri della nostra Regione. Occorre attuare una profonda revisione dei modelli operativi intra carcerari. Esistono infatti possibilità diverse, ad esempio i percorsi di detenzione alternativa, metodo che andrebbe favorito per far scontare la reclusione ai detenuti che hanno compiuto reati legati alla patologia della tossicodipendenza nelle case terapeutiche presenti nella nostra Regione”. Sull’argomento interviene, con una nota, anche la candidata della Lista Civica Marino Sindaco Daniela de Robert che da anni svolge attività di volontariato nel carcere di Rebibbia. “Dignità e sicurezza non sono più di casa nelle carceri di Rebibbia - dichiara la De Robert. Le celle con i letti a castello anche a 3 piani, gli spazi di socialità trasformati in celle, l’aumento dei detenuti e la carenza di operatori penitenziari allontanano il carcere dalla sua finalità di favorire il reinserimento delle persone detenute e lo rendono un luogo a rischio per chi ci vive e per chi ci lavora. Il reinserimento è la vera sfida della sicurezza cui Roma Capitale è chiamata a rispondere”. “Non è l’intensione della pena che fa il maggior effetto sull’animo umano, ma l’estensione di essa; perché la nostra sensibilità è più facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate impressioni che da un forte ma passeggero movimento” diceva qualcuno. Rimini: dossier carcere… riprendere contatto col mondo, la vita oltre le sbarre di Stefano Rossini www.newsrimini.it, 8 giugno 2013 Lo sportello carcere centro d’ascolto, gestito dall’associazione di volontariato Madonna della Carità si occupa di mantenere intatto il filo che lega i detenuti al resto della società, per farli sentire ancora parte del mondo. È un’attività importante, ma non è l’unica. All’interno della casa circondariale di Rimini si svolgono numerosi laboratori, tra cui quello di informatica e quello di giornalismo, con la redazione di un piccolo giornale mensile che racconta la quotidianità del carcere e la voglia di partecipare al dibattito sulla realtà. Per la maggior parte dei cittadini il carcere è una scatola nera, un luogo, anzi un non-luogo di cui non si conosce nulla. Si sa, in linea di massima, perché è lì e a cosa serve, ma le modalità, e la vita quotidiana delle celle sfugge ai pensieri di tutti. Anche quando la casa circondariale, come nel caso di Rimini, è a ridosso della città, poco se ne sa e se ne vuole sapere, come se non fosse più affare dei cittadini. Una volta che i detenuti sono rinchiusi, è un problema dello stato. Questa cesura è forse l’immagine più forte e profonda del carcere. Il taglio col mondo di prima, quello fuori le sbarre, è drammatico. Chi vive in carcere perde, da un momento all’altro, il contatto col proprio mondo - magari, come migrante, già precario - coi figli, i parenti, e anche, da un punto di vista burocratico, con tutte le pratiche che spesso si seguono per poter ottenere uno status maggiormente tutelato. Con l’intento di seguire e aiutare i detenuti stranieri nel 2006 nasce lo sportello carcere - Centro d’Ascolto nella casa circondariale di Rimini, gestito dall’associazione di volontariato Madonna della Carità. “È partito con l’obiettivo di fornire supporto, aiuto e sostegno per quanto riguarda il diritto all’immigrazione, il permesso di soggiorno, e per mantenere i rapporti con la famiglia e il consolato del carcerato - racconta una delle operatrici dello sportello - quindi un servizio rivolto principalmente agli immigrati, che sono soggetti deboli privi di rete parentale e con una scarsa conoscenza della lingua. Poi, col tempo, il centro si è aperto a tutta la popolazione carceraria”. Lo sportello “apre” in carcere ogni martedì mattina, con cadenza settimanale. I detenuti possono accedere attraverso una domandina, grazie ai manifesti presenti in bacheca, oppure, se c’è un’urgenza, con una chiamata. “Cerchiamo soprattutto di dare sostegno - continua l’operatrice - di ascoltare le persone e di accompagnarle in un percorso di reinserimento. C’è chi ha perso il permesso di soggiorno e vorrebbe riottenerlo, chi non ha più contatti con la propria famiglia e chi ha bisogno di riprendere le fila di quanto interrotto. “Dopo un pò di tempo ci si conosce. Si seguono i casi nella speranza di poter fare qualcosa, ma non è facile. Le trafile burocratiche sono infinite, e più di una volta accade che quando abbiamo finito di raccogliere tutte le informazioni il detenuto è stato trasferito o se n’è andato. In questo caso, però, cerchiamo di rintracciarlo e fargli avere ciò che gli serve, grazie anche ai buoni rapporti che abbiamo instaurato con tutto il personale del carcere”. Lo sportello rientra tra le attività a sostegno dell’area educativa. Gli operatori e i volontari entrano con il permesso del magistrato. “Oltre allo sportello, la nostra associazione gestisce anche alcune attività ricreative - laboratoriali tra cui lo spazio Emeroteca (un luogo, all’interno della biblioteca d’istituto fornito di giornali e testi in lingua, adibita agli stranieri) , un corso di informatica di base, aperto a 16 persone, e uno di giornalismo”. È interessante quest’ultimo corso perché nasce dal desiderio di molti detenuti di confrontarsi con l’attualità, con quello che succede nel mondo. “Una volta a settimana ci incontriamo nella biblioteca del carcere e cominciamo il corso con una rassegna stampa - ci racconta una delle tre operatrici del corso di giornalismo - ognuno dei partecipanti, al momento sono 12, cerca la notizia più importante e gli argomenti di maggiore interesse su cui ragionare nel resto della settimana. Poi si leggono le notizie scritte dai detenuti la settimana precedente”. Gli articoli, quasi tutti in italiano, sono redatti in generi diversi. La maggior parte è prosa, ma non manca la poesia, la lettera e anche il sondaggio agli altri compagni di cella e del carcere. In modo speculare, i temi trattano tanto di ciò che accade fuori dalle sbarre e su cui i detenuti vogliono intervenire, quanto della vita all’interno del carcere, dei bisogni, delle necessità, di ciò che accade”. “Per molti di loro - continua l’operatrice - è importante sapere che c’è qualcuno che li ascolta e che legge i loro pensieri. Per questo abbiamo deciso di raccogliere gli articoli e fare una piccola pubblicazione mensile”. È un lavoro che si definirebbe amatoriale, eppure è uno scorcio vivo e importante di una realtà che non è separata dalla città e dal mondo che la circonda. È un modo per avere delle antenne e delle mappe all’interno del carcere. “Alcuni scritti sono stati inviati anche a rinomati premi letterari come il Carlo Castelli per la solidarietà e prossimamente si parteciperà ad uno dedicato alle più belle lettere d’amore dal carcere”. All’interno delle mura dei Casetti per fortuna c’è molto fermento. Oltre a questi corsi se ne svolgono altri, non meno interessanti: è presente la scuola media Bertola e diversi corsi di alfabetizzazione. Poi ci sono, o ci sono stati, i corsi di fotografia, di pittura, di ceramica, il cineforum, oltre al lavoro di gestione della biblioteca. “I corsi sono aperti a tutti e liberi - continua l’operatrice - e le iscrizioni seguono l’ordine delle domande. Non è facile però interessare i detenuti. Non è sufficiente dar loro uno svago. Per molti è importante fare qualcosa di utile. Per questo i corsi con più richieste sono quelli legati alla scuola e alla scrittura”. Nel tentativo di tenere aperti i canali con il mondo esterno, soprattutto il delicato rapporto con i figli, l’Associazione Madonna della Carità, insieme alla Ausl, al Centro Famiglie e l’area educativo-pedagogica d’istituto ha affrontato il tema della genitorialità. Sono stati organizzati, all’interno del progetto “Padri al di là delle sbarre” il babbo natale in carcere, e anche la festa del papà, momento partecipato dai detenuti, in cui si sono svolti laboratori, momenti di riflessione, di dialogo, di festa, e di svago. Alessandria: il pane prodotto nel carcere di San Michele presto in vendita alla Coop La Stampa, 8 giugno 2013 Il pane sfornato nel carcere di San Michele è realizzato con farina piemontese macinata a pietra nel Cuneese. I detenuti del carcere di San Michele sfornano 300 chili di pane al giorno, per un totale di 10 tonnellate al mese e a breve potrà essere venduto nelle Coop. Partner del progetto, ideato dalla cooperativa Pausa Caffè, sono la Coop Piemonte Liguria Lombardia e Eataly, che commercializzano il pane. Dalla fine del mese il pane si potrà acquistare anche alla Coop di Alessandria e i punti vendita raddoppieranno. Il pane viene impastato con farine piemontesi che rispettano standard di lavorazione ecosostenibile. Il risultato è un pane fatto con acqua, farina e sale certificato biologico. Il sale è francese e di tipo integrale, quindi non trattato. Il mulino si trova nel Cuneese. I panificatori sono cinque detenuti. “È un lavoro vero, sono pagati e sono stati assunti dalla nostra cooperativa”, spiega Marco Ferrero, presidente di Pausa Caffè. A fare il pane i detenuti hanno imparato dal maestro Giovanni Mineo. Roma: donne dentro e fuori, le detenute di Rebibbia “libere” grazie all’arte di Valeria Costantini Corriere della Sera, 8 giugno 2013 L’arte come fuga dalle sbarre, come stimolo ad aver fiducia in se stesse, come strada per il futuro reinserimento sociale. “Ci unisce la creatività, il desiderio di creare qualcosa di bello”, le donne raccontate nel video del registra Mimmo Calopresti sono felici di condividere la loro esperienza. La loro voce diventa amara solo quando parlano di quello che è andato storto nella loro vita. Si chiama “Donne dentro e fuori”, il progetto formativo che vede coinvolte le detenute della Casa Circondariale di Rebibbia a Roma, allieve della sezione distaccata del liceo artistico statale Enzo Rossi. Una cinquantina le donne, età media 30 anni, che possono così, anche se rinchiuse in carcere, essere protagoniste di un’opera d’arte “relazionale”, di vere produzioni made in Rebibbia come i colorati e allegri foulard, ma anche ceramiche o decorazioni. L’iniziativa è stata presentata dall’Associazione Stampa Romana, venerdì 7 giugno presso la sala Walter Tobagi della Federazione Nazionale della Stampa Italiana. Madrina d’eccezione il Ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri che ha speso parole di stima e apprezzamento per il progetto, “eccellenza del mondo delle carceri che coinvolge associazionismo ed enti locali”. La Guardasigilli non si è tirata indietro nemmeno di fronte i temi più scottanti che riguardano il mondo delle carceri. “Sul grave problema del sovraffollamento avremo molta attenzione. - ha ribadito la Cancellieri - Ci stiamo lavorando tenendo conto di una strategia che riguarda tutto: dalla deflazione delle pene alle nuove strutture e alla riorganizzazione di quelle che ci sono”. Risposte che l’Italia, ha precisato il Ministro, deve fornire anche all’Europa. “Un essere umano in tre metri quadri, è un problema prima di tutto morale - ha concluso - Per quanto concerne indulto e amnistia sono temi che devono esser discussi in Parlamento”. “Per noi questi laboratori, il nostro orto, sono boccate di ossigeno, ci permettono di mantenere un rapporto giornaliero con il mondo esterno”, raccontano le donne di Rebibbia nel video ad un emozionato Mimmo Calopresti, regista “prestato” all’iniziativa con grande entusiasmo. Il corso di decorazione pittorica è attivo da otto anni nella sezione femminile di Rebibbia e permette di apprendere tecniche artistiche, contribuendo al percorso riabilitativo per il reinserimento delle recluse. I foulard realizzati fra le mura del carcere ad esempio, sono stampati su poliestere e sono destinati alla vendita grazie ai canali di distribuzione Unicoop Tirreno; si potranno trovare il 14 e 15 giugno in tutti i super e ipermercati Coop del Lazio. “Su ogni foulard ideato dalle allieve - precisa il dirigente scolastico del liceo Mariagrazia Dardanelli - vi è impressa una storia di condivisione di diversità, di desiderio di comprendere e assimilare le regole della convivenza, nel rispetto della libertà di opinione, di valori, di culto e di tradizioni”. Catanzaro: la famiglia di Domenico Impedisano; ha 80 anni, rischia di morire in carcere www.giornaledicalabria.it, 8 giugno 2013 Il leader del Movimento Diritti Civili, Franco Corbelli, ha reso noto di aver ricevuto una lettera con una accorata richiesta di aiuto da parte della famiglia Oppedisano di Rosarno, che si dice fortemente preoccupata per le gravi condizioni di salute del capostipite Domenico Oppedisano, 80 anni, presunto boss della ‘ndrangheta, detenuto in regime 41 bis nel carcere di Parma dal 17 dicembre 2010. La famiglia, secondo quanto rende noto Corbelli, teme che Domenico Oppedisano possa morire in carcere o tentare di togliersi la vita “se non sarà curato in una adeguata struttura ospedaliera”. L’anziano uomo soffrirebbe di molte gravi patologie che renderebbero il suo stato di salute incompatibile con la detenzione carceraria, “così come - spiegano i familiari - certificato e comunicato agli organismi preposti dalla direttrice del carcere di Parma. Dal dicembre del 2012, scrivono i familiari del detenuto a Corbelli - lo stato di salute di Domenico Oppedisano è notevolmente peggiorato, tanto da giustificare il ricovero urgente in ospedale dell’anziano. Dopo 15 giorni di ricovero ospedaliero nonostante il peggioramento delle sue condizioni Domenico Oppedisano è stato riportato nella casa circondariale di Parma”. La famiglia, che lo incontra una volta al mese, teme che “possa morire in cella o compiere qualche gesto autolesionistico. I familiari ricordano nella lettera che Domenico Oppedisano “è stato condannato in primo grado a 10 anni e gli sono state riconosciute le attenuanti generiche. Oppedisano è stato arrestato - scrivono ancora i suoi familiari - a quasi 80 anni, dopo una vita dedicata al lavoro, alla famiglia, a insegnarci i valori morali e sani per poter vivere serenamente rispettando il prossimo. È un uomo umile, buono e ha fatto tanti sacrifici per portare avanti la sua famiglia con dignità. Non ha mai accettato, Oppedisano, perché la ritiene una ingiustizia, la detenzione, soprattutto da quando è recluso in regime 41 bis”. Corbelli dichiara: “Non conosco il signor Oppedisano, né la sua famiglia. Così come ignoro la storia processuale. Dopo aver ricevuto la lettera ho il dovere di renderla nota e di lanciare un appello perché venga riconosciuto e rispettato il diritto di questa persona di poter essere adeguatamente curata. Chi entra in carcere non perde certo i suoi diritti, al di là del nome che porta e delle accuse che gli vengono contestate e che saranno oggetto di regolari processi. Quello che la famiglia Oppedisano chiede - aggiunge - è solo il rispetto del diritto alla salute del loro congiunto, anziano e gravemente malato. Una richiesta legittima che chiedo che le autorità preposte esaudiscono nel rispetto della legge e della costituzione”. Reggio Calabria: il pentito scomparso Nino Lo Giudice “costretto a dire il falso dai pm” www.affaritaliani.it, 8 giugno 2013 Nino Lo Giudice, il pentito ex capo della omonima cosca di ‘ndrangheta ha deciso di ritrattare quanto affermato finora nei processi in cui è stato sentito come teste a Reggio Calabria. L’avvocato Francesco Calabrese ha informato la Corte di essere stato contattato, insieme al collega Nardo, dal figlio di Nino Lo Giudice, il quale gli ha consegnato un memoriale scritto dal padre. “Mi hanno minacciato che se non avrei raccontato quello che a loro piaceva mi avrebbero spedito indietro e al 41bis. Mi hanno intimidito”. È un passaggio del memoriale fatto recapitare da Nino Lo Giudice, il boss della cosca reggina che è scomparso dalla località protetta dove era detenuto agli arresti domiciliari dopo avere deciso di collaborare. Lo Giudice ritratta tutte le dichiarazioni fatte in precedenza e accusa i magistrati della Dda di Reggio Calabria di avere fatto pressioni “dandomi l’ultimatum”, afferma Lo Giudice. Nel memoriale, consegnato all’avvocato Giuseppe Nardo, difensore dell’ex pentito, si fa riferimento alle lotte interne alla Procura di Reggio e alle intimidazioni subite in passato dai magistrati reggini. Il memoriale è indirizzato al presidente del tribunale di Reggio Calabria, Silvana Grasso, al sostituto della Dda, Giuseppe Lombardo, al procuratore capo della Dda di Catanzaro, Vincenzo Antonio Lombardo, e al presidente dell’udienza per il processo dove Lo Giudice avrebbe dovuto testimoniare il giorno della sua scomparsa. Terni: Sappe; tre poliziotti aggrediti in carcere, ancora una violenza preoccupante Asca, 8 giugno 2013 Ai tre agenti della penitenziaria aggrediti ieri mattina nel carcere di Sabbione giunge la solidarietà di Donato Capece, segretario generale del Sappe, che si dice “preoccupato per questo nuovo atto di violenza contro i poliziotti, questa volta a Terni, dove ieri mattina un detenuto, peraltro non nuovo ad episodi del genere, ha aggredito tre agenti”. Il poliziotto più grave è un addetto alla matricola che ieri era andato in sezione per ascoltare una richiesta del detenuto. Quest’ultimo, al diniego del poliziotto lo ha aggredito e si è scagliato contro gli altri due colleghi che tentavano di fermarlo. “Ai tre colleghi va la nostra totale solidarietà - dice Capece - ma è evidente che questa ennesima aggressione ci preoccupa, anche perchè gli eventi critici nelle carceri umbre e italiane, aggressioni, atti di autolesionismo, risse, colluttazioni, sono purtroppo all’ordine del giorno e la tensione resta alta, a tutto discapito del nostro lavoro”. Capece sottolinea “il sovraffollamento e la carenza di poliziotti penitenziari. Altro che istituire il Garante dei detenuti come pensa di fare la Regione Umbria: il Garante ci vorrebbe - conclude - ma per le persone oneste e per gli agenti di polizia aggrediti”. Vallo della Lucania (Sa): i detenuti realizzano le “pigotte”, in 22 impegnati per un mese La Città di Salerno, 8 giugno 2013 Per un mese hanno lavorato con creatività alla realizzazione delle “pigotte”, le bambole di pezza con cui l’Unicef finanzia la lotta alla mortalità infantile nei paesi in via di sviluppo. Loro sono i 22 detenuti della casa circondariale di Vallo della Lucania, che hanno partecipato al progetto coordinati dalla docente Margherita Padula, del Centro territoriale permanente per gli adulti della scuola secondaria di primo grado “Torre-De Mattia” di Vallo della Lucania, guidata dalla dirigente Maria Carmen Greco. E ieri, alle 10, è avvenuta la consegna delle bambole alla referente Unicef Marcella Tosto. Presenti la direttrice della casa circondariale Maria Teresa Casaburo, la preside Greco con le sette insegnanti del corso, il sindaco Antonio Aloia, il comandante delle guardie penitenziarie Francesco Pierri. “I detenuti hanno lavorato con impegno - riferisce la docente Padula - e collaborando tra loro, mostrando attenzione all’iniziativa sociale dell’Unicef per la vaccinazione dei bambini in Africa”. È il primo anno che i detenuti della struttura di Vallo della Lucania, accusati di reati sessuali, partecipano al progetto entrando così a fare parte di quella grande rete che in tutta Italia, dalle scuole ai centri anziani, confeziona pigotte uniche perché diverse l’una dall’altra. Non è l’unica iniziativa sociale che ha coinvolto il carcere di Vallo della Lucania: i detenuti hanno anche creato alcuni dei giocattoli poveri che sono in mostra al Museo di Massicelle. Roma: martedì a Rebibbia “musica dentro”, spettacolo per madri detenute e bambini Adnkronos, 8 giugno 2013 Uno spettacolo di musica che coinvolge le detenute madri e i loro bambini, da 0 a 3 anni, ospiti della sezione Nido del carcere romano di Rebibbia. “Musica dentro” conclude il ciclo di laboratori di musicoterapia e arteterapia in carcere, promossi dall’associazione “A Roma, Insieme-Leda Colombini”, che dal 1994 lavora con le donne detenute e i loro figli, e supportati dal gruppo assicurativo Axa Mps, con cui l’Associazione collabora dal 2008. Lo spettacolo si svolgerà martedì prossimo, 11 giugno, nel giardino del Nido. L’evento è riservato a 18 detenute madri e ai rispettivi figli. Il laboratorio di musicoterapia, giunto quest’anno alla sesta edizione, spiega una nota dell’Associazione, è coordinato dalla musicoterapista Silvia Riccio. A essere coinvolti nel progetto le detenute madri e i rispettivi figli, che possono restare in carcere fino al compimento del terzo anno di età. “Si tratta di una condizione particolarmente difficile, sia per le detenute che per i bambini - sottolinea la nota - Per questo, le attività in cui vengono coinvolti, il fare musica insieme, ha lo scopo di creare un clima non conflittuale e di proporre alle ospiti del penitenziario nuovi modelli relazionali e di socializzazione”. Lo spettacolo prevede canti, danze e musiche ideati dai musicoterapisti che hanno svolto il progetto in questi mesi. Insieme a loro, per l’occasione, si esibiscono diversi artisti professionisti: il percussionista Pierluigi Campa, il pianista Giuliano Valori e i chitarristi Luigi Bonelli e Fabio Caricchia. “Musiche e canti sono ormai carichi di significati ed emozioni per le donne e i bambini che li hanno vissuti per tutto l’anno - spiega Riccio - perchè l’esperienza musicoterapica si è rivelata una potente valvola di sfogo ed ha stimolato momenti di grande condivisione”. Trento: teatro-carcere; i detenuti di Spini di Gardolo mettono in scena “Ulisse e il velo” L’Adige, 8 giugno 2013 Al progetto dell’Iprase hanno collaborato il Dipartimento della Conoscenza, associazioni culturali e gli studenti del Trentino. Ulisse lascia la ninfa Calipso e riprende il mare a bordo di una zattera per tornare finalmente a casa. Dopo un viaggio tranquillo di alcuni giorni lo vede il suo nemico Poseidone, che scatena una tempesta. L’eroe omerico naufraga, ma una dea gli offre un velo che lo salva. Da questo semplice spunto - tratto dal libro quinto dell’Odissea - ha preso le mosse il laboratorio di teatro, musica e arte che da marzo a giugno ha coinvolto una ventina di detenuti della Casa Circondariale di Trento, su iniziativa dell’Iprase e dell’Associazione Il Gioco degli Specchi, con la collaborazione della Direzione della Casa Circondariale di Trento, del Dipartimento provinciale della Conoscenza, dell’associazione Quadrivium e del Liceo Da Vinci di Trento. Le storie di Fari, Aziz, Zidi, Said, Maher, Bilal, Jawad, Issam, Dahbi, Mahdi, Diop, Angelo, Mokdad, Adem, Ghanmi e Simone, quindi, si sono intrecciate con quelle di Ulisse per dare vita a un testo teatrale originale che, con musica, canti e danza, andrà in scena nel primo pomeriggio di martedì 11 giugno presso il teatro della Casa Circondariale. Gli attori della casa Circondariale sono stati aiutati nel loro lavoro da Amedeo Savoia (drammaturgia e regia), da Nicola Straffelini (musica), da Emilio Picone (scenografia), da Francesco Rubino (documentazione) e da Luigi Sansoni (assistenza tecnica). Il laboratorio ha affiancato un percorso condotto sulle carceri da Iprase dal titolo “Scuola d’autore” che ha coinvolto oltre cinquecento studenti delle scuole superiori della provincia di Trento e che è culminato, il 2 e il 3 maggio scorsi, in alcuni incontri con Fabio Cavalli, regista teatrale attivo da molti anni nel carcere di Rebibbia e coautore di Cesare deve morire, il film dei fratelli Taviani girato coi detenuti della sezione di massima sicurezza della casa di reclusione romana e vincitore dell’Orso d’Oro al Festival di Berlino. Il progetto è stato promosso dall’associazione il Gioco degli Specchi e da Iprase in collaborazione con la Direzione della Casa Circondariale di Trento, il Dipartimento della Conoscenza della Provincia autonoma di Trento, l’associazione di musica contemporanea Quadrivium e il liceo Leonardo da Vinci. Spoleto (Pg): sabato al carcere di Maiano per la rappresentazione “Affettività patetiche” di Walter Verini (Capogruppo Pd Commissione Giustizia della Camera) www.tuttoggi.info, 8 giugno 2013 Sabato 8 giugno sarò a Spoleto, presso il carcere di Maiano, per assistere ad “Affettività patetiche”. Un segnale di umanità che sia di stimolo a politica e istituzioni. Ho raccolto volentieri l’invito del Dirigente Scolastico Roberta Galassi e del Prof. Giorgio Flamini perchè si tratta di una iniziativa culturale di grande valore morale e civile. “Attività patetiche” è stato scritto - con la guida di Flamini - dagli stessi allievi detenuti delle classi dell’Istituto d’Arte sede associata casa di Reclusione, appartenenti al circuito di alta sicurezza, con pene lunghissime e molti con ergastolo ostativo. Si tratta di testi che trattano le problematiche di ogni tipo che caratterizzano la vita e la giornata di detenuti spesso con “fine pena mai”, che come orizzonte hanno solo quei pochi metri quadrati che scandiscono tempi e ritmi di giornate senza futuro. Si tratta di persone che hanno sbagliato, e che scontano pene durissime. Ma la pena, come dice la nostra Costituzione e come impongono principi di umanità, deve essere rieducazione e reinserimento, non vendetta. Non è sempre facile occuparsi di carcere, dei drammi che si vivono all’interno. Tocca spesso al Presidente Napolitano richiamare la politica e le istituzioni a questo elementare dovere, ma si tratta di richiami che troppo spesso cadono nel vuoto. E l’Unione Europea più volte ha sanzionato l’Italia per le condizioni bestiali di tante nostre carceri. Qualcosa si muove: abbiamo ridato il via alla legge per la messa alla prova; si riparla di depenalizzazione di reati minori e di pratica di pene alternative. Si riparla di lavoro per i detenuti. Ma sono piccoli passi. Insufficienti. E se la situazione qualche volta viene migliorata è grazie al lavoro del personale di custodia, dei dirigenti sensibili. Gli agenti di custodia svolgono un lavoro davvero stressante e in condizioni particolarmente difficili. Sono pochi rispetto al bisogno e le carceri sono sovraffollate. E le risorse sempre meno: a volte persino il materiale per la pulizia si ottiene solo grazie ai contributi volontari di privati e supermercati! E un ruolo importante lo svolgono le associazioni di volontariato (da Arci Ora d’Aria alla Caritas ed altre). E le esperienze di scuola in carcere, come quella che va in scena a Spoleto sono fondamentali, per politiche di recupero, reinserimento sociale, umanità. Del resto, investire su queste cose significa anche investire in sicurezza: detenuti che escono fuori una volta scontata la pena, se in carcere si sono formati, se hanno appreso un lavoro, se hanno conquistato un titolo di studio difficilmente ricadono nell’errore e nella possibilità di violare la legge e la convivenza civile. Per questo il segnale che viene da Spoleto è di umanità e di speranza. E di stimolo a tutta la politica e le istituzioni (e in questo senso tutti ci auguriamo che il Consiglio regionale possa al più presto sbloccare la questione della nomina della figura del Garante dei Detenuti). Roma: i detenuti di Rebibbia possono guardare i programmi di Rai Sport e Rai Storia Ansa, 8 giugno 2013 I detenuti di Rebibbia possono guardare i programmi di Rai Sport e Rai Storia. È questo l’effetto di una decisione della Corte Costituzionale che ha accolto il ricorso presentato dal magistrato di sorveglianza di Roma. Di fronte alla Corte Costituzionale era stato sollevato dal magistrato di sorveglianza nel novembre 2011 un conflitto d’attribuzione tra poteri dello Stato rivolto nei confronti del governo e del ministero della Giustizia. Il ministero, infatti, con provvedimento del 29 ottobre 2010, aveva disposto che venisse preclusa nella Casa circondariale Rebibbia di Roma, per tutti i detenuti sottoposti a regime di 41-bis, la visione dei programmi irradiati dalle emittenti Rai Sport e Rai Storia. Al provvedimento era stata data immediata esecuzione. Uno dei detenuti, però, aveva proposto un reclamo davanti al magistrato di sorveglianza, prospettando una lesione del proprio diritto soggettivo all’informazione. E il giudice investito del reclamo aveva stabilito con ordinanza del 9 maggio 2011, che l’oscuramento delle emissioni tv aveva leso, in effetti, un diritto soggettivo derivante dall’art. 21 della Costituzione sul diritto all’informazione. Inoltre il giudice non aveva accertato alcun nesso concreto tra l’oscuramento del segnale delle due emittenti Rai e l’esigenza di impedire che, attraverso la trasmissione in video di brevi messaggi scritti provenienti dagli spettatori, giungessero ai detenuti indebite comunicazioni. Ma nel luglio 2011 al magistrato di sorveglianza è pervenuto un ulteriore reclamo da cui emergeva che l’Amministrazione penitenziaria non aveva riattivato il segnale televisivo. La vicenda è finita quindi di fronte alla Consulta che ha accolto il ricorso del magistrato di sorveglianza. La Corte ha stabilito che non spettava al Ministro della giustizia disporre, su proposta del Dap, di non dare esecuzione all’ordinanza del magistrato di sorveglianza di Roma che consentiva ai detenuti di Rebibbia la visione di Rai Sport e Rai Storia e ha annullato il provvedimento ministeriale. Svizzera: illegali celle con materasso per terra, chiesto indennizzo di 100 franchi al giorno Ats, 8 giugno 2013 Il sovraffollamento carcerario potrebbe costare milioni di franchi al Cantone di Ginevra. Per la seconda volta in pochi giorni, il Tribunale delle misure coercitive ha giudicato che le condizioni attuali d’incarcerazione a Champ-Dollon non corrispondono alle norme legali, aprendo in questo modo la porta ad eventuali domande di risarcimento. Nella decisione di cui riferiscono oggi diversi media romandi, il Tribunale considera non regolamentare il fatto che determinati detenuti siano costretti a dormire su un materasso sistemato per terra. L’altro ieri, aveva considerato che i 3,84 mq di spazio individuale consentiti attualmente ai detenuti non corrispondono alle norme europee, che prescrivono un minimo di 4 mq. Soddisfatta, la legale all’origine di entrambe le denunce, Dina Bazarbachi, fa sapere che chiederà il versamento di un indennizzo di 100 franchi al giorno per i detenuti che rappresenta. Altri casi analoghi dovranno ancora essere esaminati dal Tribunale delle misure coercitive. Costruito per accogliere 376 detenuti, il carcere preventivo di Champ-Dollon ne ospita attualmente 800. La metà circa vive in condizioni ormai considerate non conformi. Il quotidiano “Le Matin” ha calcolato che - per una detenzione media di 89 giorni - l’indennizzo complessivo a carico del Cantone potrebbe raggiungere 3 milioni di franchi. Per il presidente dell’ordine degli avvocati François Canonica, che già in passato ha criticato le condizioni di detenzione a Champ-Dollon, le decisioni del Tribunale delle misure coercitive sono “sagge e legittime”. Almeno il 10% delle persone che vi sono incarcerate - aggiunge - è rappresentato da clandestini, “che non hanno commesso altro reato che quello di trovarsi in situazione irregolare in Svizzera”. Per allentare la pressione su Champ-Dollon, il consigliere di Stato Pierre Maudet ha annunciato mercoledì la creazione di 52 posti supplementari, ricavati essenzialmente all’unità La Brenaz, dove ogni cella ospita un solo detenuto. La richiesta è stata inoltrata al Dipartimento federale di giustizia e polizia.