Giustizia: Napolitano; nelle carceri carenze inammissibili, governo e Parlamento agiscano subito Il Messaggero, 7 giugno 2013 Il monito del Capo dello Stato in occasione del 196esimo anniversario della fondazione del corpo di polizia penitenziaria Le “carenze del sistema” carcerario “hanno raggiunto soglie di criticità non più ammissibili”: lo afferma il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, sottolineando che le scelte per superare l’attuale “situazione degradante” non sono “più procrastinabili” e sollecitando “rapide decisioni” di Governo e Parlamento. Il messaggio. Il Presidente della Repubblica ha inviato un messaggio al Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Giovanni Tamburino, in occasione del 196esimo anniversario della fondazione del Corpo, esprimendo “alle donne e agli uomini della Polizia Penitenziaria il più sentito apprezzamento per l’impegno generoso e la sempre maggiore professionalità con cui adempiono alle loro funzioni”. “Nell’esercizio dell’attività di vigilanza loro affidata - prosegue Napolitano - essi fronteggiano quotidianamente le situazioni di disagio, di sofferenza e di rischio che la pesante realtà carceraria comporta consentendo di far fronte, con spirito di abnegazione e profondo senso dell’istituzione, alle carenze del sistema, che hanno raggiunto soglie di criticità non più ammissibili”. “Come ho avuto occasione di ricordare - sottolinea il presidente della Repubblica - è da considerare importante il “comune riconoscimento obbiettivo della gravità e estrema urgenza della questione carceraria”, che rientra tra le priorità di azione del nuovo governo. Si richiedono ora decisioni non più procrastinabili per il superamento di una realtà degradante per i detenuti e per la stessa polizia penitenziaria che in essa opera, al fine di assicurare l’effettivo rispetto del dettato costituzionale sulla funzione rieducativa della pena e sul senso di umanità cui debbono corrispondere i trattamenti relativi all’espiazione delle condanne penali”. “Agire subito”. “Auspico pertanto che il parlamento e il governo - anche riprendendo il disegno di legge sulla modifica del sistema sanzionatorio non giunto a definitiva approvazione nella precedente legislatura a causa della sua fine anticipata - assumano rapide decisioni che conducano a dei primi risultati concreti”. “In questo giorno di solenne celebrazione, nel rendere omaggio alla memoria dei caduti nell’esercizio del loro dovere, esprimo ai loro familiari - conclude Napolitano - la vicinanza del Paese e rinnovo a nome dell’intera nazione a tutti voi, ai colleghi non più in servizio e alle vostre famiglie sentite espressioni di apprezzamento ed augurio”. Il testo del messaggio è stato reso noto dal Quirinale. Cancellieri. “È un problema che conosciamo bene: daremo una risposta adeguata all’Europa. Siamo in grado di dare tutti i dati, posto per posto, letto per letto. Entro breve li trasmetteremo”, ha detto il ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, in merito alle richieste del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa che ha sollecitato i dati sul sovraffollamento nelle carceri. “Li abbiamo già pronti, ci stiamo lavorando anche se non mi risulta sia ufficialmente pervenuta una richiesta” dall’Europa, ha precisato il ministro. La richiesta da parte di Strasburgo risale al settembre 2012 e ora i dati sono stati sollecitati. “Ci stiamo lavorando - ha assicurato il ministro - sarebbe tragico se non avessimo i dati”. Cancellieri ha parlato a margine di un incontro organizzato dall’Associazione stampa romana per presentare il progetto “Donne dentro e fuori” dedicato al reinserimento nella società delle detenute della casa circondariale femminile di Rebibbia. Sul problema delle carceri, ha detto il Guardasigilli, daremo risposte “adeguate all’Europa mettendo a punto una strategia che riguarda tutto, dalla deflazione delle pene alle nuove strutture, alla riorganizzazione di quelle che ci sono. È un cammino abbastanza complicato, ma faremo quello che dobbiamo fare: ogni giorno lavoriamo sulle carceri”. Di Salvo (Sel): sovraffollamento indice inciviltà paese “Il sovraffollamento delle carceri è uno degli indici d’inciviltà di un paese come ricorda oggi il Presidente della Repubblica e va affrontato di petto cominciando dalle revisioni di quelle leggi che hanno contribuito ad affollarle come la Fini-Giovanardi e la Bossi-Fini”. Lo afferma Titti Di Salvo, vicepresidente dei deputati di Sel al termine della visita al carcere di Busto Arsizio, tra i più sovraffollati d’Italia. “Per noi - prosegue - di Sel che da anni lottiamo sul tema dei diritti umani e civili nelle carceri e che da inizio legislatura abbiamo intrapreso un viaggio all’interno degli istituti di pena, continua l’esponente di Sel, quanto riaffermato oggi dal Presidente Napolitano è un ulteriore stimolo a portare in Parlamento queste priorità. Si tratta di dare una risposta immediata: decongestionando le carceri; modificando strutturalmente e radicalmente due pessime leggi “riempicarceri”, la Fini-Giovanardi e la Bossi-Fini, su cui abbiamo già presentato un progetto di legge per abrogare il reato di clandestinità”. “Dopo la recente sentenza sul caso Cucchi è necessario, inoltre, introdurre al più presto il reato di tortura, come prevede la convenzione delle Nazioni Unite già dal novembre 1988. Per rispondere al grido di allarme lanciato oggi dal Capo dello Stato - conclude l’on. Titti Di Salvo - occorre rinforzare gli strumenti di prevenzione e controllo, incentivare la celerità dei processi, nonché le misure alternative alla detenzione. Solo in questo modo si potrà finalmente risolvere il sovraffollamento degli istituti di pena, vera piaga del nostro sistema carcerario”. Sappe: grati a Giorgio Napolitano per suo ennesimo appello su criticità carcere “Ringrazio il Capo dello Stato Giorgio Napolitano per avere denunciato, una volta di più, l’urgenza di provvedimenti finalizzati a superare l’indecente situazione delle sovraffollate carceri italiane. Già durante tutto il suo primo mandato, il Presidente della Repubblica in più occasioni denunciò l’insostenibile situazione delle carceri italiane. Ha sottolineato le colpe di oscillanti e incerte scelte politiche e legislative sull’emergenza carceri, criticando la mancata volontà politica di risolvere concretamente questa emergenza che ricade in prima persona sulle gravi criticità operative con le quali quotidianamente si confrontano le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria. Ci auguriamo che le sue sacrosante parole di oggi possano dare una “scossa salutare” alla classe politica del Paese ed al Governo Letta”. Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione di Categoria. Capece sottolinea che “il primo Sindacato dei poliziotti, il Sappe, non parteciperà oggi a Roma all’Annuale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria per protestare contro la decisione di promuovere al grado superiore un impiegato archivista del Dipartimento che ha gestito carte e fascicoli nel suo ufficio. È scandaloso perché nessuna promozione è stata data ai poliziotti che in prima linea hanno fatto cose ben più importanti e pericolose come sventare evasioni e rapine, salvare detenuti dal suicidio e financo infiltrarsi nelle cosche mafiose per debellare il cancro del crimine organizzato”. “Quel che non serve per risolvere l’umiliante situazione del sovraffollamento degli istituti di pena” conclude il Sappe “è la delegittimazione del ruolo di sicurezza affidato alla Polizia Penitenziaria, come invece previsto da una disposizione del Capo Dap Giovanni Tamburino e del Vice capo Luigi Pagano che vorrebbe consegnare le carceri all’autogestione dei detenuti attraverso fantomatici patti di responsabilità favorendo un depotenziamento del ruolo di vigilanza della Polizia Penitenziaria mantenendo però in capo ai Baschi Azzurri il reato penale della “colpa del custode” (articolo 387 del Codice penale). Di fatto, da quando è operativa questa disposizione del Dap, abbiamo constatato un aumento di aggressioni, di suicidi, dei tentati suicidi sventati per fortuna sventati dai poliziotti penitenziari, delle evasioni e di quelle tentate, delle risse e degli atti di autolesionismo”. Osapp: polizia penitenziaria da sempre abbandonata a se stessa dalla politica “La celebrazione di questo pomeriggio a Roma del 196° anniversario della fondazione della Polizia Penitenziaria, presenti le più alte cariche dello Stato, a meno di una totale inversione di tendenza, costituirà l’ennesimo e del tutto inutile evento di facciata, in quanto, come dimostrano anche le reazioni all’esito del processo per la morte di Stefano Cucchi, in cui, quasi per forza, dovevano risultare colpevoli i poliziotti penitenziari invece assolti, i 39mila donne e uomini del Corpo sono da sempre privi di qualsiasi copertura o consenso in sede politica” è quanto afferma Leo Beneduci segretario generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) che annuncia l’assenza del sindacato dalla cerimonia. “Negli anni sono state troppe le occasioni perdute e le riforme mancate dalla Polizia Penitenziaria tanto da renderla una vera e propria cenerentola tra le Forze di Polizia, con un divario di almeno 20 anni rispetto agli altri corpi per quanto riguarda le carriere, l’organizzazione interna. gli orari di lavoro e il riconoscimento dei diritti minimi lavorativi.” Moretti (Ugl): parlamento e governo intervengano per superare emergenza “Ringraziamo il presidente Napolitano per aver evidenziato ancora una volta l’inammissibilità della situazione carceraria nel nostro Paese ed aver sollecitato il Parlamento e il governo ad intervenire con urgenza per superare le numerose criticità di una realtà indegna sia per i detenuti sia per gli agenti”. Lo dichiara il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, commentando il messaggio inviato dal presidente alla Repubblica al capo del Dap nella ricorrenza del 196° anniversario della fondazione del Corpo ed aggiungendo che “non è più possibile tollerare lo stato in cui sono costretti a vivere e lavorare reclusi e agenti, perché nella maggior parte degli istituti non viene effettuata correttamente nemmeno la manutenzione ordinaria, le norme di sicurezza vengono costantemente disattese e le condizioni detentive, come purtroppo ci ha più volte pesantemente ricordato anche la Corte Europea, sono al limite della dignità umana”. “Ci uniamo perciò all’appello del presidente Napolitano - conclude il sindacalista - rivendicando maggiore attenzione per un problema che, causato da anni di tagli lineari e mancati adeguamenti degli organici, va affrontato con finanziamenti adeguati, non solo con piani strategici che promettono di ridefinire l’intero sistema per poi non approdare ad alcun risultato apprezzabile”. Giustizia: Consiglio d’Europa; dati sovraffollamento richiesti a settembre 2012 e non ancora forniti Ansa, 7 giugno 2013 Le autorità italiane devono fornire nel più breve tempo possibile i dati sul sovraffollamento nelle carceri richiesti sin dal settembre del 2012 dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa. Lo ha ingiunto lo stesso Comitato, che questa settimana ha preso in esame la prima condanna pronunciata nel 2009 contro l’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per la violazione dei diritti dei detenuti a causa del sovraffollamento nei penitenziari italiani. In particolare, il Comitato dei ministri chiede di essere informato su l’esatto numero di posti letto addizionali previsto con il piano carceri oltre che sull’effettiva capacità addizionale delle prigioni. Inoltre viene chiesto al governo italiano ragguagli sul significato e lo status degli standard del ministero della Sanità per quanto attiene allo spazio minimo per ogni detenuto, e come viene calcolata la capacità totale delle carceri. Infine Roma deve fornire informazioni sul monitoraggio condotto sulle condizioni detentive e statistiche aggiornate sulla riduzione del sovraffollamento e dettagli sull’impatto che hanno avuto le misure adottate sino ad ora. Nella stessa decisione il Comitato dei ministri ricorda poi che, in seguito all’ultima sentenza emessa dalla Corte di Strasburgo divenuta definitiva lo scorso 27 maggio, l’Italia ha un anno di tempo per presentare un piano d’azione contenente le misure per rimediare al sovraffollamento carcerario e un calendario per la messa in atto delle misure per assicurare il risarcimento di quanti ne sono, o ne sono stati, vittime. Cancellieri: pronti dati su sovraffollamento richiesti da Ue “Siamo in grado di dare tutti i dati, posto per posto e letto per letto. Li abbiamo già pronti e ci stiamo lavorando”. Lo dice il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, a margine di un incontro alla Federazione nazionale della stampa, per la presentazione del progetto formativo ‘Donne dentro e fuori’, dedicato al reinserimento nella società delle detenute della casa circondariale femminile di Rebibbia. Ieri il comitato dei ministri del Consiglio d’Europa ha sollecitato i dati sul sovraffollamento nelle carceri italiane chiesti a settembre 2012. Giustizia: Pdl; tutti a firmare i referendum dei Radicali… di Marco Gorra Libero, 7 giugno 2013 È sacrosanto appoggiare i sei quesiti già depositati dai Radicali. Separazione delle camere o responsabilità civile: misure di buon senso. L’intuizione berlusconiana di schierare la macchina organizzativa del Popolo della libertà a favore dei referendum sulla “giustizia giusta” promossi dai Radicali è assai felice, nel merito ma soprattutto nel metodo. Lo è nel merito perché le proposte referendarie - dalla responsabilità civile per i magistrati alla separazione delle carriere passando per il no all’abuso della carcerazione preventiva - sono misure di totale buon senso che solo in un Paese giudiziariamente disastrato come l’Italia possono passare per rivoluzioni copernicane ed essere fomite di psicodrammi e anatemi come è assolutamente prevedibile le idee pannelliane saranno anche stavolta. E poi perché si tratta di fare giustizia della volontà popolare che, nell’ormai lontano 1987, su una delle domande in questione (quella sulla responsabilità civile delle toghe) si era già espressa favorevolmente, raggiungendo il quorum e tutto il resto. Alla volontà popolare, come spesso accade, sarebbe poi stato dato peso pressoché nullo (la legge Vassalli realizzata all’uopo già partiva bella snaturata prevedendo la possibilità di rivalsa sullo Stato e non già sul magistrato. Ad ogni buon conto, detta legge vanta ad oggi zero condanne pronunciate in proprio nome, un record galattico). Ma è nel metodo che l’intuizione del Cavaliere funziona meglio. Perché la mossa di sposare l’iniziativa dei Radicali è, da un punto di vista squisitamente politico, un piccolo capolavoro di tattica. Preso dolentemente atto del fatto che - dato il delicato quadro gran coalizionista nel quale si è costretti a barcamenarsi - qualsiasi idea riformatrice in ambito di giustizia proveniente dal Pdl diventa automaticamente in quanto tale una mina sotto Palazzo Chigi, il Cavaliere sceglie lo spariglio più intelligente: se il problema è il nome di chi fa le proposte e non il merito delle proposte medesime, si rimuove l’incomodo cambiando nome. E cambiandolo bene: i Radicali, infatti, rappresentano non solo un movimento che - quanto a teoria e pratica della democrazia diretta - gode di universale e meritato rispetto specie a sinistra ma soprattutto un partito che, seppure per vie vagamente extraparlamentari, è parte integrante della maggioranza che sostiene il governo. Per sinistra e partito trasversale dei giudici, a questo punto, crocifiggere il Cavaliere sul consueto Golgota delle leggi ad personam e dei provvedimenti vergogna si fa così difficile su ogni livello. L’operazione comporterebbe infatti la sconfessione del metodo referendario (che i summenzionati ambienti tengono anzi in gran conto ogniqualvolta ne ravvisino l’utilità) ed il passaggio nel tritacarne di uno come Pannella e di tutta la retorica circa le di lui “grandi battaglie civili” che, con repentina veronica, bisognerebbe iniziare a dipingere come quinta colonna del berlusconismo strisciante. Decisamente troppo, persino per i manettari in servizio permanente ed effettivo. C’è, infine, un terzo motivo per cui l’intuizione dell’ex premier ha le carte in regola per rivelarsi felice. Ed è la partecipazione popolare. Se, sulla spinta della mobilitazione pidiellina e del traino garantito da Berlusconi, la risposta popolare ai banchetti dove i pannelliani raccolgono le firme sarà sensibile, cadrà finalmente il grande alibi: quello del popolo del centrodestra che se si attiva per la giustizia lo fa solo in difesa dei guai del Grande Capo. In questo caso si tratterebbe di mobilitazione trasversale, di fatto a-berlusconiana e scevra di qualsiasi accenno a persecuzioni, toghe rosse e così via. Ricapitolando. Si può firmare perché questi referendum sono sacrosanti; si può firmare perché questi referendum sono allo stato l’unico strumento a disposizione per dare una sistemata alla giustizia senza incorrere negli strali e nei veti dei Forza Toghe; si può firmare per fargli venire anche un piccolo ma meritato travaso di bile, ai Forza Toghe. Si può, da ultimo, firmare per un combinato disposto delle ragioni di cui sopra. Una sola cosa non si può: stare a casa e non andare a firmare. Perché una congiuntura astrale favorevole come questa non ricapita più. Giustizia: la questione diritti umani nelle carceri di D. Alessandro De Rossi (Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo) L’Opinione, 7 giugno 2013 Presso la Casa Circondariale del Carcere di Saluzzo (Torino) la scorsa settimana si è tenuto un importante convegno relativo alle esperienze compiute in Francia e in parte in Italia, all’interno di programmi di collaborazione e “partenariato tra sistema pubblico e privato” nell’ambito del sistema complesso di gestione del carcere. Al convegno hanno partecipato, per il Ministero della Giustizia, il consigliere Alfonso Sabella, magistrato, Direttore generale del “Dipartimento delle Risorse materiali dei Beni e Servizi” (Dap) e il dr. Enrico Sbriglia, Provveditore della regione Piemonte e Val D’Aosta del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, ospite il direttore del carcere dr. Giorgio Leggieri. Per la parte privata erano presenti il dr. Dino Tessa della Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri (www.casadicarita.org), il dr. Giacomo Sarti del Consorzio Open Offenders Pathways to Employment National Network (www.openconsorzio.org), il dr. Giovanni Pescatori di Cofely Italia (www.cofely-gdfsuez.it), Bertrand Amelot direttore dello sviluppo di GEPSA, operatore francese di servizi pubblici controllata Cofely. L’intera giornata è stata dedicata ad esaminare le forme di collaborazione già in atto in Francia e parzialmente anche in Italia tra sistema pubblico e sistema privato alla luce delle complesse esigenze che vedono comunque lo Stato spesso incapace, nonostante la buona volontà degli operatori penitenziari, impossibilitato a gestire le tante attività che sono presenti dentro la realtà carceraria. Specialmente, ma non solo, per quanto riguarda la formazione culturale e lavorativa dei detenuti in vista del termine della pena per un nuovo inserimento civile nella società. Chi scrive ha partecipato al convegno come esponente della Lidu, la Lega Italiana dei Diritti dell’Uomo, membro della Aeddh “Association Européenne pour la Défence des Droits de l’Homme”, invitato in quanto già consulente del ministero della Giustizia per il “Piano carceri”. Dall’esposizione fatta dai rappresentanti delle diverse associazioni e consorzi intervenuti, di fronte ad una folta e qualificata platea di pubblico che gremiva il teatro interno del carcere, è emerso un quadro estremamente positivo circa i risultati reali ottenuti da anni in Francia ed ora parzialmente anche in Italia in merito alla stretta ed efficiente collaborazione tra apparato pubblico, responsabile del controllo e della sicurezza, e il programma gestionale affidato alla efficienza tipica del management privato e di impresa. L’intelligente forma di collaborazione tra apparato statale e realtà privata, se gestita con adeguate tecniche di management di formazione con sperimentate metodologie di controllo retroattivo, offre grandi opportunità per il rilancio del sistema penitenziario in termini di maggiore efficienza e ad effettiva misura umana. Sistema che va inteso, anche nell’interesse della società, come momento ristrutturante la personalità del detenuto in funzione dei diritti della persona che sconta la privazione della libertà a seguito di una condanna penale. In questo settore in Europa e nel mondo si è già molto avanti. L’Italia, anche se a piccoli passi, si sta avviando ancora troppo lentamente su logiche in cui la buona collaborazione tra sistema pubblico e sistema privato possa dare in taluni casi risultati molto favorevoli. In Francia, tale collaborazione è sostanzialmente basata su varie forme e modalità di applicazione, dalla costruzione degli edifici penitenziari in project financing, fino alla gestione di alcuni servizi complementari all’interno del penitenziario (scuola, formazione professionale, autogestione per la manutenzione tecnica di parti dell’edificio, lavoro interno ed esterno, inserimento all’interno della filiera produttiva e commerciale). L’ascoltare i preoccupati interventi dei responsabili del ministero della Giustizia, a cominciare da quello del consigliere Sabella che, lamentando oltre alla scarsezza delle risorse economiche a disposizione per il Dap, sollecitava l’accelerazione di misure più flessibili destinate ad una più attenta revisione del sistema penale, non più rigidamente vincolato all’applicazione delle pene detentive tradizionali, oltre che il necessario riconoscimento delle professionalità tecniche interne all’amministrazione; o il sentire le preoccupazioni del provveditore Enrico Sbriglia che, in una visione più concreta e diretta della drammatica realtà carceraria, lamentava con esempi tangibili la farraginosità degli aspetti gestionali, amministrativi e umani a carico di chi dirige la complessa realtà dell’universo penitenziario, questi, insieme a tanti altri problemi sollevati nel dibattito hanno dato un quadro della situazione italiana in cui non è più rinviabile un disegno strategico ed interdisciplinare in cui la collaborazione attiva tra sistema pubblico e sistema privato possa diventare a breve una delle chiavi risolutive del tanto promesso piano carceri. I soli provvedimenti tampone del giorno per giorno, del continuo rinvio e del bla bla quotidiano, in una situazione carceraria quale è quella italiana, in cui sussistono problemi amministrativi, di gestione del personale, del sovraffollamento, della carenza di risorse, dell’assurda applicazione di pene sproporzionate per taluni reati di modesta entità, unitamente al problema del sovraffollamento e della mera gestione tecnica di ordinaria manutenzione (dal cambio della lampadina alla riparazione dell’impianto idrico o fognario intasato), molti di questi problemi, rendono il lavoro direzionale del carcere una terribile matassa di complicazioni che inceppano il normale funzionamento dell’amministrazione penitenziaria, vanificando tutte le migliori buone intenzioni destinate al recupero del detenuto nel rispetto sacrosanto dei diritti umani di chi sconta la pena in carcere. Si spera che questa lunga giornata di lavori piemontese abbia avuto la capacità di scuotere talune resistenze e che possa rappresentare finalmente l’avvio di una riflessione più sistemica e articolata in cui la logica di una collaborazione efficiente tra amministrazione pubblica e realtà d’impresa privata possano rappresentare per il futuro una chiave risolutiva del tanto atteso e promesso piano carceri. Piano, va sottolineato, che deve essere correttamente inteso come miglioramento e riqualificazione dell’esistente, anche con nuove realizzazioni e con la doverosa attenzione ai temi dell’architettura dei luoghi, ma non nella licenza incondizionata alla moltiplicazione delle carceri, rappresentando la pena detentiva l’estrema e non ordinaria ratio dell’agire della Giustizia. Giustizia: Caso Cucchi, la solidarietà della Cancellieri ai familiari di Andrea Gagliardi Il Sole 24 Ore, 7 giugno 2013 Il giorno dopo la sentenza sulla morte di Stefano Cucchi le ferite restano aperte. E le polemiche accese. Ieri ha parlato anche il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri. Senza entrare nel merito dell’operato dei giudici, ma per esprimere solidarietà alla sorella di Stefano Cucchi, Ilaria, in prima linea per l’accertamento della verità sul fratello, arrestato per droga il 15 ottobre 2009. E morto all’ospedale Pertini di Roma dopo una settimana di ricovero e isolamento. “Sono donna di istituzioni e non mi appartiene dare giudizi sull’operato della magistratura - ha detto il Guardasigilli. Alla sorella di Stefano Cucchi posso solo esprimere solidarietà, una grandissima partecipazione perché sono consapevole che quello è un dolore che nessuno ha lenito”. Due giorni fa la corte d’Assise di Roma ha assolto con formula dubitativa gli agenti di polizia penitenziaria (che l’accusa riteneva responsabili del pestaggio del 31enne) e gli infermieri (con formula ampia) dell’ospedale Pertini, condannando solo i medici, per omicidio colposo. “È stato un processo alla vita di mio fratello, alla sua magrezza, ai suoi rapporti familiari - ha detto Ilaria Cucchi in una conferenza stampa al Senato, ricordando alcune conversazioni telefoniche tra gli imputati che additavano Stefano Cucchi come “un tossico” - lo hanno lasciato morire perché era drogato”. Parole di rabbia ma non di resa quelle di Ilaria: “Andremo avanti nonostante tutto, vogliamo continuare a crederci, a illuderci”. E il legale della famiglia, Fabio Anselmo, ha confermato: “Faremo appello”. Un appello verso il quale sembra orientata anche la Procura. Mentre Luigi Manconi, presidente Pd della Commissione sui diritti umani, ha auspicato ieri “una mobilitazione a vari livelli, e iniziative che incidano sulle condizioni strutturali che hanno reso possibile vicende come quella di Stefano Cucchi e che si ripetono con una scandalosa frequenza”. A partire “dall’introduzione nel nostro ordinamento del reato di tortura”. Intanto gli unici ad essere condannati per la morte di Stefano Cucchi, i medici del reparto speciale del Sandro Pertini di Roma, non ci stanno ad essere messi alla gogna dopo il primo verdetto che condanna solo loro. Su tutti il primario Aldo Fierro, a cui è stata inflitta una pena di due anni per omicidio colposo, che dice: “Non ho mai visto Cucchi e non capisco come è possibile che possa essere coinvolto in questa storia”. A lui fa eco il sindacato dei dirigenti medici, Anaao Assomed che ha proclamato lo stato di agitazione della categoria contro la sentenza, perché “i medici sono il capro espiatorio e le loro condanne sono l’alibi per lo Stato”. Ilaria Cucchi, che martedì prossimo sarà ricevuta dalla presidente della Camera Laura Boldrini, rifiuta la tesi della morte per malasanità, ma non assolve i medici. Per lei “avrebbero potuto salvare la vita” a suo fratello, ma “non hanno fatto nulla, ora dovranno fare i conti con la loro coscienza, perché hanno comunque una responsabilità gravissima. Lo hanno lasciato morire. Non sono più degni di indossare un camice”. Giustizia: Cucchi ucciso dai dottori.. ma chi lo mandò all’ospedale? di S. M. Righi L’Unità, 7 giugno 2013 La colpa è dei medici, Stefano Cucchi è morto perchè non hanno saputo curarlo come si doveva. Il resto, tutto il resto, per la Terza Corte d’Assise non conta nulla. Anzi, di più: non c’è nulla, perché il fatto non sussiste. Omicidio colposo, non più volontario, come si ipotizzava prima che la corte derubricasse l’ipotesi di reato dall’abbandono terapeutico alla colpa medica, categoria dello spirito, prima che del codice penale, dove rientra tutto e il contrario di tutto, ed è in fondo l’unico motivo per cui finisce a volte nei guai chi porta un camice. Questo c’è scritto sulla sentenza che ha condannato un primario e cinque dottori e ha lavato tutte le accuse di tutti gli altri. Assolti gli infermieri, assolte le tre guardie carcerarie che secondo i testimoni, altri detenuti, picchiavano Stefano come fosse un pupazzo di pezza. Stefano che ai funerali lo avevano portato via con un cartoncino distribuito ai presenti: “Non mi uccise la morte ma due guardie bigotte, mi cercarono l’anima a forza di botte”. Di botte, però, non parla la sentenza. Delle botte che hanno annerito di ematomi, lividi ed ecchimosi il corpo di Stefano non c’è traccia nel ragionamento dei giudici e nelle loro conclusioni. Le botte, quelle botte silenziose, tra grida soffocate e porte sbattute, lasciano la loro scia dolorosa nelle lacrime della famiglia. Nelle parole della mamma, Rita Calore: “Me l’hanno ucciso un’altra volta”. O in quelle della sorella Ilaria: “Pene ridicole”. Nell’aula bunker di Rebibbia, a metà pomeriggio, la gente è inferocita e urla “assassini”. “Dov’è la giustizia, mi fate schifo” urlano altri. La tensione per un processo maratona di 45 udienze, 120 testimoni, un plotone di esperti e consulenti. Una rappresentazione imponente e dolorosa per un’altra delle morti bianche che hanno insanguinato gli ultimi anni. Un altro processo che lo Stato doveva celebrare a se stesso, e invece ha spostato su altri: “Non ha dato risposte”, ha detto l’avvocato Fabio Anselmo che da otto anni ormai, dal delitto di Federico Aldrovandi, vive la guerra di un avvocato contro un apparato, e forse un intero sistema. Il dispositivo è lapidario: due anni di reclusione per il primario dell’Ospedale “Pertini”, Aldo Fierro. Un anno e quattro mesi ai suoi colleghi, Stefania Corbi, Silvia Di Carlo, Flaminia Bruno e Luigi Preite De Marchis. Condanna a 8 mesi per il medico Rosita Caponetti. Per tutti, naturalmente, c’è la sospensione condizionale della pena, ma anche la condanna (tolta la Caponetti) al risarcimento in solido delle parti civili. Assolti gli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli, Domenico Pepe e gli agenti della polizia penitenziaria Nicola Menichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici, accusati a vario titolo di abbandono di incapace, abuso d’ufficio, favoreggiamento, falsità ideologica, lesioni e abuso di autorità. “La fine di un incubo” sospira Minichini a nome dei colleghi, mentre gli infermieri appena prosciolti ribadiscono che hanno fatto tutto il possibile per salvare la pelle di Stefano. Che pesava 37 chili, quando è morto, e che secondo i periti della Corte è deceduto per “inazione”, cioè sostanzialmente per denutrizione: “Sarebbe bastato acqua e zucchero”, disse uno degli esperti in una delle udienze. Stefano che era un cadavere violaceo di botte, sotto al lenzuolo dell’obitorio, ma non l’avremmo mai potuto vedere e sapere, se un generoso addetto del servizio non avesse rubato qualche immagine. La sentenza che getta nella disperazione la famiglia e fa inferocire la gente, però, piace alla pubblica accusa. “La Corte d’Assise ha confermato, come ha sempre sostenuto la Procura sin dall’inizio, che la morte di Stefano Cucchi è dovuta all’incuria dei medici del Pertini. E poco importa che sia cambiato il reato. Quanto all’assoluzione dei tre agenti della polizia penitenziaria, cui avevamo attribuito le lesioni personali aggravate, va detto che è stata fatta ai sensi del secondo comma dell’articolo 530 del codice di procedura penale, l’equivalente della vecchia formula dell’insufficienza di prove” dichiara Vincenzo Barba, pm insieme a Francesca Loy. La sentenza, però, non dice chi ha picchiato Stefano. E come nel caso Uva, arrestato dai carabinieri a Varese e morto la mattina dopo all’ospedale, cancella tutto quello che è successo tra l’arresto e il ricovero. Nel caso di Giuseppe come in quello di Stefano, a Varese come a Roma, in una caserma dell’Arma come nei sotterranei di un tribunale o in un carcere. E se spariscono dall’indagine o dall’accusa tutti quelli che c’erano, carabinieri o agenti penitenziari, sparisce lo Stato. E restano solo i medici. Se non fosse una coincidenza, sembrerebbe uno schema. Giustizia: Cucchi; un agente assolto giustifica i gestacci “quel dito alzato soltanto sfogo” di Fulvio Fiano Corriere della Sera, 7 giugno 2013 La polemica sul dito alzato dopo la lettura della sentenza da qualcuno dei parenti e amici degli imputati. Ilaria Cucchi vuole partire da quelli che definisce “gesti terribili”. Le due dita medie alzate al cielo che spuntano da uno degli abbracci tra i banchi dove erano raccolti gli imputati appena terminato quel lunghissimo minuto e 10 secondi della lettura della sentenza. “Sentivo le urla, noi piangevamo. E ci sono stati quei gesti terribili, un segno di non rispetto assoluto verso di noi”, racconta e sottolinea in apertura della conferenza stampa del day after. Se le polemiche erano attese (comunque si fosse concluso il processo) quei gesti offensivi - rivolti contro la tribuna del pubblico che inveiva contro la decisione dei giudici - le hanno ulteriormente accese, immortalati da video e foto, raccontati e ripresi, diffusi sul web. Pochi attimi poi censurati da chi forse ne ha intuito al volo le conseguenze e ha spinto l’autrice a tirare giù le braccia. “Quel gesto era la risposta e il comprensibile sfogo di un momento dopo tre anni di attacchi e insulti. Non so chi sia stato, ma non credo che le dita alzate siano più gravi delle urla “Assassini” che ci piovevano addosso”, dice Nicola Menichini, uno dei tre agenti assolti, che in quegli attimi era stretto alla moglie in lacrime. A sostegno delle parole dell’agente penitenziario arrivano le parole del suo difensore, l’avvocato Diego Perugini: “Da ieri sera c’è una sentenza che solleva Menichini, i suoi due colleghi e gli infermieri da ogni responsabilità. Non siamo più disposti ad accettare accuse e passeremo alle querele ogni qual volta arriveranno insinuazioni a mezzo stampa. Chi vuole contestare una sentenza ha le aule del processo d’appello per farlo”. Nessun dubbio sui destinatari del messaggio. “Voglio evitare qualsiasi contro polemica”, dice invece Aldo Fierro primario del reparto “protetto” dell’ospedale Sandro Pertini, dove Stefano Cucchi morì al termine di una settimana di ricovero e, come afferma la sentenza, mancate cure. “So solo che la colpa è soltanto nostra, dei medici - afferma sarcastico -. E meno male che non siamo delinquenti”. Fierro è stato condannato a due anni, la pena più severa tra quelle decise dalla Terza Corte D’Assise per i sei medici che erano a processo. Di questi, tre hanno già lasciato la struttura diversi mesi fa per andare altrove. Flaminia Bruno adesso lavora in Inghilterra, Silvia Di Carlo in Abruzzo e Luigi Marchise a Ostia. Nessuno di loro finora è stato rimpiazzato. Assieme a Fierro, nel reparto del Pertini, sono rimasti Stefania Corbi e Rosita Capponnetti, che ieri erano regolarmente al lavoro. Così come al lavoro era Elvira Martelli, l’infermiera assolta assieme ai due colleghi Giuseppe Flauto e Domenico Pepe. “Voglio esprimere la mia vicinanza alla famiglia Cucchi - dice la 35enne - e prendo le distanze da quelle dita alzate, un gesto che stigmatizzo. Posso dire che non sono stata io, che in quei momenti neanche mi sono resa conto, tanta era l’emozione della sentenza. Ma voglio anche dire - aggiunge la Martelli rispondendo a Ilaria Cucchi - che non mi sento affatto indegna di indossare il camice bianco, che ho sempre portato con dignità e con grandi sacrifici in questi tre anni e mezzo di processo”. Giustizia: comunicato stampa di Lucia Castellano* in merito alla sentenza sul caso Cucchi Ristretti Orizzonti, 7 giugno 2013 La vicenda tragica della morte di Stefano Cucchi, all’indomani della sentenza di primo grado e proprio nella ricorrenza del 196° anniversario della fondazione del Corpo di Polizia penitenziaria, mi fa riflettere sul mio lavoro di sempre e sulla sua complessità. Stefano Cucchi è morto perché non adeguatamente curato all’interno dell’ospedale Sandro Pertini di Roma. La Corte d’Assise condanna i medici e gli infermieri per omicidio colposo. Le condizioni in cui versava quel ragazzo esigevano ben altre attenzioni, ben altre cure, che non sono state prestate. Questi i fatti, questo il verdetto, che nessuno mette in discussione. Quello che la sentenza non dice, forse perché è un quesito ultra petitum, è di chi sia la responsabilità per averlo ridotto nello stato in cui tutta l’Italia l’ha visto (ormai, purtroppo, da morto). A questa domanda non c’è risposta. E la mancanza di una risposta getta un’ombra su quell’Amministrazione della Giustizia a cui la Costituzione chiede non solo di prendere in carico le persone private della libertà e di tutelarne i diritti fondamentali, ma addirittura di restituirle migliori, una volta libere. Quest’ombra si estende su tutte le forze dell’ordine e gli operatori penitenziari che ogni giorno lavorano con dedizione per compiere, forse, il più delicato dei servizi alla persona. Questo è inaccettabile. Io spero che si faccia strada, nella cultura istituzionale dell’amministrazione penitenziaria, la consapevolezza che la violenza, la mancanza di trasparenza nella comunicazione agli utenti e ai familiari non sono solo penalmente e amministrativamente rilevanti. Sono anche un fenomenale boomerang per la crescita dell’istituzione e dei suoi operatori. Questa cultura non paga. Il presidente del Dap Nicolò Amato, qualche decennio fa, diceva che il carcere deve diventare una casa di vetro. Così che tutti possano guardare alla fatica, alla delicatezza e alla preziosità del nostro quotidiano lavoro all’interno di quelle mura. Nel 2013 ancora non è così, e questo ci mortifica. I miei venti anni all’interno del carcere mi hanno insegnato che i detenuti, i loro familiari si affidano a noi, alle risposte che siamo capaci di dare loro. Non possono fare altro. Se qualcuno (e si tratta di una minoranza) queste risposte non è capace di darle, se non con la violenza e con l’omertà, deve, semplicemente, cambiare lavoro. Prima che sia troppo tardi. Non è un lavoro per tutti. E quel terribile gesto di alzare il dito medio contro una famiglia che ha perso un figlio affidato alle cure dell’amministrazione, purtroppo, lo dimostra. L’amministrazione penitenziaria, nonostante le assoluzioni, di cui ho il massimo rispetto, rischia di perdere la partita della credibilità, di fronte al Paese. Oggi ci resta un ragazzo morto che qualcuno ha ridotto in fin di vita e qualcun altro non ha curato. Una sentenza che ci dice parte della verità. E un dito medio alzato in Tribunale, bandiera della legge del più forte che, ancora una volta, ha trionfato. Non è questo che vogliamo, credo. * Vicepresidente della Commissione Carceri in Regione Lombardia e ex-direttrice del carcere di Bollate Giustizia: Caso Uva; Polizia e Carabinieri contro film “Nei secoli fedeli” chiedono sequestro di Mario Di Vito Il Manifesto, 7 giugno 2013 Meglio non sapere, meglio girarsi dall’altra parte, meglio che tutti si girino dall’altra parte. Dopo la querela agli autori, arriva anche la richiesta di sequestro per il documentario Nei secoli fedele di Adriano Chiarelli e Francesco Menghini sulla storia di Giuseppe Uva, morto a Varese nella notte tra il 13 e il 14 giugno del 2008, dopo aver passato tre misteriose ore in caserma con militari dell’arma e agenti di polizia. Le querele arrivate in procura, a Varese, sono tre: la prima risale al 18 dicembre 2012, sporta dai carabinieri Paolo Righetto e Stefano Dal Bosco; la seconda è datata 18 aprile, e firmata dai poliziotti Gioacchino Rubino, Pierfrancesco Colucci e Luigi Empirio; la terza è del 3maggio, a nome di Francesco Focarelli Barone, agente di polizia anche lui. Tutti in servizio nella cittadina lombarda. Tutti, quella notte d’inizio estate, ebbero a che fare con Giuseppe, tutti assistiti dall’avvocato Luca Marsico, consigliere regionale del Pdl in Lombardia, tra l’altro. I tre documenti sono uguali tra loro: “Nel filmato - si legge - sono arbitrariamente ricostruiti, alla luce della documentazione acquisita dagli autori del documentario e di talune deposizioni testimoniali, le fasi della vicenda riguardante l’arresto di Uva, la sua immediata traduzione nella caserma dei carabinieri di Varese per gli accertamenti di rito, il successivo Tso disposto dal sindaco di Varese, il trasferimento dello stesso presso l’ospedale di Circolo per le necessarie cure sanitarie, seguito da morte intervenuta per cause ancora in corso di accertamenti”. Cause che, stando alla sentenza dell’aprile di un anno fa, non sono da attribuire a un errore medico. Il giudice Orazio Muscato, infatti, ha assolto il dottor Fraticelli dall’accusa di omicidio colposo perché “il fatto non sussiste”, con tanto di atti rimandati in procura per fare ulteriore chiarezza su quanto accaduto prima dell’arrivo di Uva all’ospedale, cioè tra l’arresto in strada e le tre ore di fermo dentro la caserma di via Saffi. Momenti durante i quali un testimone, Alberto Biggiogero, sentì urla e lamenti provenienti dalla stanza vicina e decise di chiamare il 118: “Stanno massacrando un ragazzo”, disse all’operatore con voce di terrore. Il caso, adesso, corre a gran velocità verso la prescrizione e così, salvo clamorose svolte, la morte di Giuseppe Uva rimarrà un mistero insoluto, almeno agli occhi della giustizia. “A me - dice la sorella, Lucia - basta sapere che lui non è morto di farmaci. E questo è un fatto”. Adesso, però, non è in gioco la verità giudiziaria, ma un lavoro d’inchiesta giornalistica, un documentario nel quale tutta la vicenda viene ricostruita attraverso documenti, perizie e interviste alle persone coinvolte. “È una cosa vergognosa - attacca Lucia Uva -, questi signori vogliono decidere cosa far vedere e cosa no. Fosse dipeso da loro, di questa storia non si sarebbe saputo niente: se riusciamo a parlarne è solo grazie alla nostra, come dire, prepotenza nel coinvolgere tutti e spiegare come stanno le cose. Adesso vogliono impedirci di fare pure questo”. La sorella di Giuseppe Uva, però, non si dà per vinta, anche se l’inchiesta della procura è incanalata in un binario morto: “Non importa, davvero. Io continuo per la mia strada, a lottare insieme alle altre madri e sorelle di vittime dello Stato. Lo abbiamo visto ieri (mercoledì, ndr) al processo per Stefano Cucchi: c’è un muro di omertà enorme, ma dobbiamo andare avanti e continuare a farci sentire, ogni goccia di verità in più sarà una goccia di giustizia per Giuseppe, Stefano e tutti gli altri”. Adriano Chiarelli, autore oltre che del documentario anche del saggio Malapolizia che raccoglie tutti i casi di chi, dal G8 di Genova in poi, ha trovato la morte dopo essersi imbattuto in una divisa, non si scompone troppo: “Se i querelanti hanno ravvisato delle allusioni ai loro comportamenti in un’opera documentaristica che si limita a ricostruire la storia in base agli atti prodotti durante il processo, il problema rimane esclusivamente loro, non certo nostro”. La risposta, comunque, non si ferma qui: il centro sociale Auroemarco di Roma ha organizzato per questa sera una proiezione proprio di Nei secoli fedele. Lettere: Cucchi, una brutta pagina di Tiziana, da Roma Il Manifesto, 7 giugno 2013 È sconcertante leggere la sentenza del processo di Stefano Cucchi. Uno Stato che non sa difendere i propri cittadini, soprattutto quando sono più fragili, quando sono all’interno di strutture che dovrebbero garantire protezione e cura, quando Stefano nelle mani dello Stato viene massacrato invece di essere aiutato, allora mi domando: ma è ancora vero che lo Stato siamo noi? Perché se è ancora vera questa affermazione oggi io, come facente parte di questo Stato, mi sento sconfitta e amareggiata. Se è ancora vero che noi cittadini rappresentiamo lo Stato, dobbiamo sentirci tutti quanti responsabili di quello che è accaduto, perché ogni figlio strappato così ignobilmente dalle braccia della sua famiglia e della sua comunità è un dolore che appartiene a tutti. Perché quello che è accaduto a Stefano, è già accaduto e potrebbe accadere di nuovo a ognuno di noi. Sentirsi parte attiva di uno Stato significa anche questo: sentire sulla propria pelle le ingiustizie altrui come fossero nostre. Sardegna: in arrivo boss Totò Riina, allarme bipartisan di Arlacchi (Pd) e Pili (Pdl) di Pier Luigi Piredda La Nuova Sardegna, 7 giugno 2013 Totò Riina dovrebbe continuar a scontare la sua condanna senza fine in Sardegna. Con molta probabilità a Sassari, nel nuovo carcere di Bancali, che potrà ospitare 94 detenuti con il regime 41bis, la carcerazione più dura prevista dall’ordinamento penitenziario. Così avrebbero deciso il ministero della Giustizia e il Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria). Una notizia nell’aria da tempo che è stata rilanciata con forza, in maniera bipartisan dal deputato del Pdl, Mauro Pili, che da tempo porta avanti una battaglia quasi solitaria per evitare che la Sardegna diventa la nuova Cayenna del Mediterraneo, e dal deputato europeo del Pd, il sociologo Pino Arlacchi, profondo conoscitore del fenomeno mafioso su cui ha scritto numerosi libri e saggi, presidente dell’Associazione per lo studio della criminalità organizzata, amico dei giudici Falcone e Borsellino, tra gli strateghi dell’antimafia negli Anni Novanta e consigliere del ministro degli Interni. Dal Parlamento europeo, durante una trasmissione radiofonica insieme a Mauro Pili, il delegato dell’Orni per la lotta alla mafia ha “sparato ad alzo zero” contro il ministero della Giustizia e il Dap. “Trasferire Riina e i mafiosi nell’isola è una decisione dissennata, fatta da qualche burocrate del ministero che non si è reso conto a quale rischio sta esponendo la Sardegna. Occorre fermare immediatamente l’arrivo del boss e di metà di Cosa Nostra nell’isola e a Sassari. Bisogna opporsi con tutte le forze a una decisione inconcepibile che rischia di provocare un danno gravissimo alla Sardegna sia sul piano sociale, sia su quello economico e anche su quello dell’immagine. Un errore tecnico e politico inaudito. Anziché sparpagliare i boss e i fiancheggiatori nelle carceri di tutta Italia per tenerli il più lontani possibile tra loro - ha continuato il sociologo, docente dell’Università di Sassari attualmente in distacco politico -, li stanno accorpando. Addirittura in due o tre carceri. L’accorpamento di tanti mafiosi - ha concluso Pino Arlacchi - potrebbe incidere fortemente in un tessuto sociale che ha sempre respinto tutti i tentativi di infiltrazione, ma che adesso è particolarmente provato dalla crisi e quindi con le difese immunitarie molto più carenti che in passato”. Le reazioni al probabile arrivo del “boss dei boss” e di qualche altro centinaio di mafiosi non si sono fatte attendere. “Uno sbarco che rappresenterebbe una gravissima ingiustizia nei confronti dell’isola e che deve essere scongiurata - ha scritto il presidente della Giunta regionale, Ugo Cappellacci, nella lettera al ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri. La Sardegna non può subire un’azione che le metterebbe sopra il marchio indelebile di Cayenna d’Italia, già affibbiato in passato ad alcuni dei nostri angoli più incantevoli. Per questo occorre assolutamente evitare l’inquinamento sociale: chiediamo una radicale inversione di rotta. Auspichiamo un cambio immediato da parte dello Stato, che diventi finalmente portatore di una visione nuova e guardi con occhi diversi la nostra terra”. “L’allarme di un esperto autorevole come Pino Arlacchi, per l’imminente arrivo nel nuovo carcere di Bancali di boss mafiosi e camorristi, ci rammarica perché è l’ennesimo schiaffo che subiamo da Roma”, queste la parole della presidente della Provincia di Sassari, Alessandra Giudici. “Un fatto sconcertante - ha sostenuto il consigliere regionale sassarese del Partito Democratico, Valerio Meloni. E non è solo un grave sgarbo alle istituzioni locali, ma anche un grossissimo rischio per un territorio che sinora è rimasto estraneo a qualsiasi tipo di infiltrazione mafiosa e non sentiva certo la necessità di un provvedimento così miope. Occorre reagire con forza e determinazione affinché il ministero della Giustizia riveda le proprie decisioni”. A scatenare la bufera è stato il deputato del Pdl Mauro Pili, da tempo in prima linea nel contrastare le decisioni del ministero e del Dap sui trasferimenti in Sardegna dei detenuti più pericoli d’Italia. “Questo è un ulteriore schiaffo alla Sardegna considerata sempre più una colonia dove tutto è consentito”, ha sostenuto Pili, che oggi sarà a Sassari per visitare il carcere di Bancali in fase di apertura. E Pino Arlacchi ha ribadito che “l’isola non può essere trattata in questo modo e a Roma non possono pensare che i sardi strilleranno e poi si adatteranno. Ma dovrà essere immediatamente eretto un muro”. Tempio Pausania: detenuti in sciopero della fame contro l’aumento di posti da 150 a 204 di Giampiero Cocco La Nuova Sardegna, 7 giugno 2013 I tempi delle proteste rumorose, con le gavette battute contro le inferriate che richiamavano l’attenzione dei cittadini, sono tramontati. Oggi nel modernissimo, asettico e isolatissimo supercarcere As3 di Nuchis il “disappunto” dei 148 boss della Camorra, ‘ndrangheta e Cosa Nostra contro le decisioni dell’amministrazione penitenziaria - che intende portare da 150 a 204 posti letto la struttura appena inaugurata - lo stanno attuando facendo (e imponendolo all’intera popolazione carceraria) lo sciopero bianco della fame. Ovvero rifiutandosi di ritirare, da ormai tre giorni, quanto passa loro il “convento”: abbondante colazione, pranzo e cena preparate, con tanto di variazione giornaliera del menù, nelle cucine del penitenziario gallurese da cuochi professionisti e detenuti. Tanto costoso ben di Dio, per evitare che vada a finire nel tritatutto dei rifiuti urbani, viene consegnato alla Caritas diocesana, che distribuisce il cibo nelle sue mense. Ma il problema, sollevato e amplificato dalla “silenziosa” protesta che ha però varcato le triple e spesse soglie del supercarcere più protetto dell’isola, è esploso ieri, quando in Alta Gallura è arrivato l’ultimo “carico” di pezzi da Novanta, un gruppo di ergastolani la cui presenza potrebbe creare - per divergenze tra “famiglie” mafiose - qualche difficoltà nella gestione della sicurezza interna. Le organizzazioni sindacali - Ugl, Osap, Sappe, Sinappe, Cnpp e Fsl-Uil - hanno chiesto un incontro urgente con il provveditore regionale Gianfranco De Gesù al quale prospettare i rischi che si corono all’interno della struttura penitenziaria, che scarseggia di personale della polizia penitenziaria e manca, ancora, dell’indispensabile nucleo traduzioni. A fronte di un organico (previsto e mai ratificato) di cento cinquanta tra agenti, sottufficiali e ispettori, un direttore a mezzadria con Nuoro, al momento attuale operano, nella struttura ad alta sicurezza di Nuchis, soltanto un centinaio di poliziotti “costretti a saltare turni di riposo, dimezzare i periodi di ferie e sottoposti a turni stressanti - dicono i rappresentanti sindacali - mentre la popolazione carceraria cresce”. Nei tre blocchi di detenzione - tutti As3, alta sicurezza di livello tre - sono già stati stipati il fior fiore dei malavitosi italiani: capibastone, mammasantissima e “padrini” in odore di mafia che debbono scontare da un minimo di venti a trent’anni e passa di reclusione. Moltissimi detenuti sono cardiopatici e buona parte di essi devono essere sottoposti a costanti visite specialistiche nel vicino ospedale di Tempio, dove vengono accompagnati ad ore diverse e dopo riservatissimi appuntamenti (per motivi di sicurezza) con la struttura sanitaria. Cosa accade oltre il muro di cinta del supercarcere è un segreto impenetrabile. Le uniche indiscrezioni parlano di un aumento del 25 per cento della popolazione carceraria, che ha portato a convivere tre detenuti per cella contro i due previsti dal protocollo iniziale, eccezion fatta per quei “personaggi” per i quali è obbligatorio l’isolamento o necessitano di adeguate strutture, perché affetti da problemi fisici. Nel carcere c’è un centro medico con 15 sanitari, un direttore di reparto, diversi infermieri professionali. A breve aprirà lo studio dentistico e una sezione geriatrica, indispensabile per i detenuti anziani. Con buona pace di chi voleva intraprendere iniziative culturali e teatrali all’interno del super protetto penitenziario gallurese. Bologna: alla Dozza, è ancora emergenza sovraffollamento, troppi detenuti e pochi posti di Lorenza Pleuteri La Repubblica, 7 giugno 2013 Dopo i ridimensionamenti post-terremoto torna il problema del sovraffollamento in carcere: il limite di tollerabilità di 882 detenuti è stato superato arrivando a quota 929. E L’arrivo dell’estate peggiorerà la situazione. Torna a crescere, riportando il sovraffollamento a livelli insostenibili, il numero di detenuti rinchiusi alla Dozza. Gli “sfollamenti” periodici pianificati dopo il terremoto, per alleggerire le presenze, sono finiti. A fronte di una capienza teorica di 483 persone - con il limite “tollerabile” di 882 - è stata sfondata quota 900, superata abbondantemente: i detenuti sono 860, le detenute 69. E l’estate - è il timore di sindacalisti, operatori e persone in cella - porterà inevitabilmente all’appesantimento delle condizioni di vita. L’acqua è già un problema. Quella calda va e viene. Si fanno docce fredde sia nei reparti sia negli alloggi della polizia penitenziaria, perennemente sotto organico. La nuova caldaia, installata, non è ancora stata collaudata e non è operativa. Non solo. L’aumento dei consumi ai piani bassi, per lavarsi e per tenere in fresco frutta e verdura, provoca un abbassamento di pressione ai piani alti. Per garantire a tutti l’erogazione si dovrà fare come negli scorsi: ridurre il getto in alcune sezioni, per permettere l’arrivo dell’acqua nelle altre. Questioni quotidiane. E scelte romane che pesano. I già risicati fondi per pagare i detenuti che svolgono lavori interni, garantendo che il carcere funzioni, sono stati tagliati ulteriormente: da 620mila a 500mila euro. Così, ad esempio, non vengono più pagati i detenuti “piantoni”, quelli che assistono i compagni di detenzione con problemi di salute e di deambulazione. Vengono utilizzati “volontari” non retribuiti, “con tutto ciò che questo comporta - fanno notare dalla stessa Dozza - anche in termini di equilibri interni e di rapporti di potere”. E ancora non è stato individuato un direttore fisso. La direttrice ad interim che regge l’istituto, Claudia Clementi, è ancora costretta a pendolare tra la Dozza e il carcere di Pesaro. “Le è stato prorogato l’incarico di tre mesi - spiegano dal suo staff - poi nessuno sa che cosa succederà”. Bari: 12 detenuti in una cella, in condizioni igienico-sanitarie allarmanti www.lagazzettadelmezzogiorno.it, 7 giugno 2013 Da “otto a 12 detenuti in celle grandi quattro metri per quattro, dove la maggior parte della superficie calpestabile è occupata dai letti, in condizioni igienico-sanitarie allarmanti in cui la privacy, nell’unico bagno in comune, è garantita da un piccolo separé in compensato e che favoriscono la diffusione delle patologie tra detenuti”. È quanto accade nel carcere di Bari dove, a fronte di una capienza di circa 380 detenuti, ce ne sono al momento circa 550. A confermarlo oggi a Bari in occasione della prima giornata del 14/o congresso nazionale della Società italiana di medicina e sanità penitenziaria, sono stati alcuni operatori sanitari, psicologi, ma anche il medico Antonio Abbinante, facente funzione di direttore sanitario della Casa circondariale del capoluogo pugliese. “Noi facciamo il possibile - dice - ma mantenere la situazione sotto controllo è difficilissimo: i medici ce la mettono tutta ma siamo molto meno di quanti dovremmo essere”. Nel carcere di Bari, oltre agli specialisti che all’occorrenza vengono chiamati dall’esterno, lavorano solo cinque medici: tre di sezione e due in convezione. I primi lavorano solo tre ore al giorno e “non sono sufficienti a gestire la situazione: ne servirebbero almeno dieci - evidenzia Abbinante - il doppio di quelli attuali”. Dal canto loro, gli operatori sanitari e gli psicologi, che preferiscono rimanere anonimi, lamentano “di non lavorare in sicurezza: la polizia penitenziaria è presente solo durante le visite con i medici, mentre noi siamo lasciati soli e possiamo essere aggrediti da un momento all’altro”. Inoltre, aggiungono, “se i detenuti vivono in condizioni igienico-sanitarie allarmanti, anche noi siamo costretti a lavorare nello sporco, al freddo e in luoghi umidi: tutta la struttura - concludono - è davvero fatiscente”. Livorno: riaprire carcere sull’isola di Pianosa, più che un’ipotesi, protesta Cisl al ministero www.tenews.it, 7 giugno 2013 Il sindacato degli agenti di polizia penitenziaria scrive al Guardasigilli Cancellieri. E definisce inopportuna la riapertura dell’istituto sull’isola. “Una scelta sicuramente inopportuna”. Così la Cisl Fns boccia l’ipotesi di riapertura del carcere di Pianosa. “Le organizzazioni del personale di Polizia penitenziaria della Toscana - si legge in una nota - hanno appreso di una ipotesi dell’amministrazione, circa la probabile riapertura di una struttura penitenziaria sull’isola di Pianosa. Da subito, sia ai vari tavoli di confronto, che con specifiche note formali, abbiamo chiesto chiarimenti e contestato una scelta che - vista la generale situazione economica - è sicuramente inopportuna”. Alla luce della vertenza avviata in Toscana, la segreteria nazionale del sindacato, con il segretario generale nazionale Pompeo Mannone, ha inteso chiedere un immediato intervento sulla questione al ministro della Giustizia. “Nei giorni scorsi la nostra segreteria regionale della Toscana aveva chiesto chiarimenti al provveditore regionale di quel distretto, circa una ipotesi emersa dalle informazioni offerte al sindacato da una Direzione penitenziaria, relativamente all’apertura di un presidio penitenziario sull’isola di Pianosa, nell’arcipelago toscano. L’ex super carcere di Pianosa venne chiuso nel 1997, sia per i costi divenuti insostenibili che per le mille difficoltà gestionali che rendevano anacronistico prevedere una Struttura - con quelle caratteristiche - su un’isola molto distante dalla terra ferma e con altrettanto gravi carenze igienico sanitarie, sia per la popolazione detenuta che per il Personale ivi operante. Negli ultimi anni, più volte, sono emerse volontà non bene precisate tendenti a ipotizzare una riapertura del carcere, una ipotesi questa che la Cisl ha sempre costantemente contestata. Ma dopo la richiesta di chiarimenti, accennata in premessa, giunge adesso la risposta ufficiale del Provveditore Regionale della Toscana che dimostra come quanto ipotizzabile è invece molto di più che una semplice riflessione sul tema della riapertura. Preoccupano diversi aspetti della vicenda, sia perché dalla risposta offerta dal Prap Toscana s’intuisce che lo scopo dell’Amministrazione sarebbe quello di partecipare ad una operazione di “rivitalizzazione dell’isola”, un obiettivo questo che non può sicuramente configurarsi tra le priorità cui impegnare il ministero della Giustizia ed in particolare l’Amministrazione penitenziaria, Dipartimento che ha ben altre gravissime priorità da dover fronteggiare in questa fase di crisi economico recessiva del Paese. Ma altrettanto disdicevole è l’aspetto che in una operazione di questo tipo, che richiede obbligatoriamente un confronto con il sindacato, così come previsto dalle normative contrattuali vigenti per il Comparto sicurezza, sia stato avviato tutto in modo silente e prospettandolo ai Rappresentanti del Personale solo tramite una tardiva informazione e poco prima che siano sottoscritti accordi con istituzioni locali. Aprire una struttura a Pianosa, che dovrebbe ospitare circa 40 detenuti, significa comunque avviare la ricostituzione di un Istituto penitenziario capace di assicurare ogni conseguente previsione legislativa, sia per la popolazione detenuta che per il personale di Polizia penitenziaria e di altri profili dello stesso ministero della Giustizia. Tutto ciò mentre - nella stessa regione Toscana - ci sono istituti che “quasi crollano addosso alle persone”, con situazioni di grave degrado degli ambienti detentivi, lavorativi e del Personale, come a Pisa, a Lucca, a Pistoia, a Firenze ed anche su un’altra isola dell’arcipelago, quella di Gorgona. Non si garantiscano finanziamenti per la minima necessaria manutenzione degli Istituti, così come non si garantiscono stanziamenti per l’acquisto di carburanti e manutenzione dei mezzi impegnati per servizi ineludibili come le traduzioni detenuti, non si garantiscono i pagamenti delle prestazioni di lavoro straordinario richieste obbligatoriamente al personale e mentre accade tutto ciò c’è chi pensa di riaprire Pianosa. La Cisl Fns contesta la scelta, sia nel metodo che nel merito della stessa. Auspichiamo che il ministro vorrà intervenire sul tema e ripristinare un piano di correttezza anche nel sistema di relazioni sindacali, che in questa circostanza dimostrano quanto sia ignorata l’importanza del confronto con le rappresentanze del personale, quelle istituzionalmente previste e non quelle improvvisate così come dalla iniziale informazione della Direzione di Porto Azzurro che al Sindacato motivava la scelta di modificare anche i collegamenti con Pianosa quale ipotesi “concertata con il personale della base navale e con il provveditore”. Infine è evidente come sia impraticabile ipotizzare anche una mobilità -seppur temporanea - attingendo dal già deficitario organico di Personale della Toscana, aggravando le già pericolose difficoltà del servizio nei Reparti della regione. Per quanto detto si chiede di voler disporre l’avvio di un confronto a livello centrale, perché la materia di aperture di “nuove sedi” è senz’altro competenza contrattuale del tavolo nazionale, aspetto ignorato dall’Amministrazione penitenziaria in questa occasione”. Spoleto (Pg): penalisti di in visita al carcere, valutano condizioni vita dei detenuti di Pamela Bevilacqua www.spoletonline.com, 7 giugno 2013 Le condizioni di vita dei detenuti e i disagi degli agenti della polizia penitenziaria, sotto la lente degli avvocati spoletini. Lunedì 10 giugno, la commissione istituita dall’unione nazionale delle camere penali, per monitorare le condizioni in cui versano gli istituti penitenziari italiani, effettuerà un sopralluogo nella casa circondariale di Maiano. Un vero e proprio osservatorio nazionale, del quale fa parte anche l’avvocato spoletino Donatella Aiello. La commissione ha già visitato altri istituiti penitenziari italiani: quelli di Bologna, Palermo, Firenze, Trieste, Torino e il carcere di Rebibbia. La camera penale di Spoleto, nei mesi scorsi, aveva presentato un’istanza all’unione della camera penale nazionale, affinché, nell’elenco degli istituti detentivi da “visitare”, fosse inserito anche quello locale. Data la sua rilevanza, essendo un carcere di massima sicurezza. Una richiesta presentata dagli avvocati, anche alla luce delle vicende che stanno riguardando l’istituto, i sit-in di protesta dei sindacati, l’annoso problema del sovraffollamento, le continue aggressioni dei detenuti nei confronti dei poliziotti. “Un grande motivo di soddisfazione, essere stati inseriti in questo monitoraggio - ha detto l’avvocato Salvatore Finocchi, presidente della camera penale di Spoleto - lunedì saremo ricevuti dal direttore del carcere, verso le 10.30 e, inizieremo il giro nei diversi padiglioni”. Alla fine della giornata, gli avvocati, metteranno nero su bianco quanto visto e lo invieranno all’unione nazionale delle camere penali. Lo scopo del monitoraggio è produrre un report sulle condizioni delle carceri italiane. Non va sottovalutata l’importanza di quest’iniziativa. La camera penale, dopo aver toccato con mano le condizioni e lo stato degli istituti penitenziari, potrebbe presentare eventuali proposte e istanze. “La camera penale s’interessa della situazione del carcere - ha commentato l’avvocato Finocchi - esamineremo a fondo la situazione”. Roma: il Garante Marroni; rammaricato speculazione politica su evento coop 29 giugno Agenparl, 7 giugno 2013 Sono fortemente rammaricato che sia stata imbastita una speculazione politica su un evento organizzato dalla cooperativa sociale “29 giugno”, che associa detenuti, ex detenuti e portatori di handicap al quale è tradizione consolidata che le autorità comunali di maggioranza e opposizione vi partecipino. Lo ha dichiarato, in una nota, il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni commentando le polemiche nate sull’evento organizzato nel centro di accoglienza Baobab in occasione dell’approvazione del suo bilancio. “Per parte mia - ha aggiunto Marroni - questa cooperativa svolge un’attività straordinaria a favore dei detenuti dando loro concrete opportunità di lavoro e prospettive di vita nella legalità e, quindi, per questi motivi, non posso che esprimere la mia solidarietà a chi è stato ingiustamente tirato in ballo in una polemica strumentale di natura meramente politica ed a chi, quotidianamente e lontano dai riflettori e dalla ribalta, si adopera in favore degli ultimi”. Livorno: Conferenza dei sindacati sul carcere “un’altra idea di sicurezza è possibile…” Il Tirreno, 7 giugno 2013 “È arrivato il momento di distinguere e trattare le emergenze sociali come tali e non come emergenze di sicurezza”. Cgil, Cgil Funzione pubblica e Silp, insieme agli operatori sociali e della sicurezza che fuori e dentro gli istituti di pena lavorano con e contro il disagio organizzano un incontro per oggi a partire dalle 15,30. Nella sede livornese della Cgil (via Giotto Ciardi 8), coordinati dal segretario confederale Cgil Maurizio Brontini, interverranno alla conferenza diversi operatori del settore “sicurezza”: dalla polizia penitenziaria, agli operatori sociali, passando per gli educatori. Tutti insieme per condividere la propria esperienza, raccontare la difficoltà di tenere insieme sicurezza e sicurezza sociale, richiamare l’attenzione sulle zone d’ombra della democrazia e della giustizia. “La provincia di Livorno - affermano i sindacati coinvolti nell’iniziativa - in era di “spending review” appare un territorio diviso per opportunità sociali ma “unito” dalla diffusa presenza di istituti e servizi penitenziari. Una realtà che viene spesso ignorata dalla società, ma che rispecchia molti dei problemi che stiamo attraversando”. Dal sovraffollamento nelle carceri, alla condizione scadente in cui vivono molti detenuti e al lavoro immenso di tutti gli operatori del settore. “L’incontro affronterà tutti gli argomenti per tentare di aprire gli occhi a chi non conosce questa realtà e per dimostrare che un altro modo di fare sicurezza e intendere il carcere esistono: l’esperienza ultima di Gorgona con i Frescobaldi ne è la prova concreta. Non è possibile continuare a tagliare e poi risolvere ogni situazione con interventi “militareschi”. Bisogna smettere di rimarcare l’elemento della pena all’interno del sistema giudiziario e ricordarsi anche l’utilità e la necessità del reinserimento”. Udine: Club Alcolisti in trattamento, in carcere per dire di no ad alcol e droga di Alessandra Ceschia Messaggero Veneto, 7 giugno 2013 “Sto bene ma mi manca tutto del Friuli, la chiesa, la Caritas, la scuola, mi manca l’odore, il freddo, perfino l’umidità. Nella mia vecchia vita ho perso tutto e conosco il dolore del fallimento, ma ora so che la felicità è la pace nel cuore, lontano dalla schiavitù”. Cronache di una rinascita. A interpretare un coro di voci dal carcere di via Spalato ieri sono state le parole di Mohammed, tunisino che sta scontando gli ultimi giorni di carcere a Taranto e che a Udine ha cominciato il suo percorso di risalita, lontano dal crimine, dall’alcol e dall’analfabetismo, perché in via Spalato lui ha imparato anche a scrivere “È un piccolo miracolo nato nel silenzio che sta diventando un punto di riferimento” così la direttrice Irene Iannucci ha descritto il lavoro che l’Associazione club alcolisti in trattamento sta portando avanti nella casa circondariale, dal 2000 con la creazione di due club. Ieri le porte del carcere si sono aperte per l’Interclub intitolato “Il valore civile della legalità”. Doveva essere un pomeriggio di festa per i detenuti, da trascorrere con i familiari, ma ci si è messo il maltempo così l’incontro previsto in cortile si è tenuto in sezione, fra le celle, e i familiari non hanno potuto partecipare. Eppure, l’atmosfera e l’emozione non mancavano come ha evidenziato la presidente dell’Acat Emanuela Piva che si è detta orgogliosa dei risultati. “Questo è un luogo di transizione- ha sottolineato il sindaco Furio Honsell intervenuto all’incontro - ed è importante che voi che avete vissuto storie di sofferenza, utilizziate questo percorso, mettendolo a frutto, per impostare un progetto di vita”. Posizioni condivise dal neoassessore ai diritti Antonella Nonino. Alle 9 di ogni mercoledì 20 detenuti del carcere si riuniscono in un’aula per lavorare a un progetto che comincia dietro le inferriate, ma prosegue una volta in libertà o in comunità con l’obiettivo di segnare una svolta nella loro vita. Ad aiutarli ci sono i medici Doriana Grillo e Francesco Piani e Claria Calabria e volontari dell’Acat, Carlo Disnan e Luigi Leita. Si parla, ci si mette a nudo, si progetta un cammino in cui l’astinenza e l’affrancamento dalle schiavitù dell’alcol o della droga vanno di pari passo con una riappropriazione della propria vita. È impressionante come reati minori, si avvitino su una persona fino a cumulare carichi di pene che arrivano al decennio e come spesso questo destino si trasmetta di padre in figlio, ha fatto notare il direttore del Dipartimento dipendenze dell’Ass 4 Francesco Piani. “Ed è un fallimento complessivo del sistema sociale, una spirale da interrompere cambiando i comportamenti”. Va in questo senso il corso di educazione alla legalità progettato nell’istituto di pena. Ed è in carcere dando seguito all’intuizione di Vladimir Hudolin, come fu per i manicomi l’azione di Franco Basaglia, come ha sottolineato don Pierluigi Di Piazza che la dignità dell’uomo va salvaguardata. “Non c’è legalità senza giustizia e non c’è giustizia senza dignità” ha chiarito Di Piazza. Ed era piena di dignità la testimonianza da Khalid, 24 anni marocchino. “Quando bevo mi trasformo - ha detto - litigo con le persone care, per motivi futili, ho cominciato a bere a 17 anni” ha ammesso ringraziando chi lo sta aiutando a voltare pagina, prima di aggiungere “spero di non deludervi”. Così come le parole di Loris, che ha cominciato a guardare la vita dal fondo di un bicchiere quando aveva 18 anni, una moglie e un figlio piccolo e che per loro ha deciso di cambiare, così da oltre quattro anni è astinente. E Matteo, che si è fatto risucchiare dal vortice dell’alcol e che proprio in carcere ha deciso di rompere quella schiavitù per tornare a studiare, frequentando la scuola media. Perché gli esami non finiscono mai, e nemmeno la speranza. Sovraffollamento e sanità da risolvere Percorsi scolastici e di recupero, il progetto di far decollare il biennio delle scuole superiori e quello di ricavare una palestra, aule e laboratori. C’è questo, e altro fra i progetti annunciati dalla direttrice del carcere Irene Iannucci. Ma ci sono anche molti nei che il garante per i detenuti Maurizio Battistutta ha elencato. “La Corte europea ha condannato il nostro Paese per il problema del sovraffollamento delle carceri - ha ricordato - e non dimentichiamo che siamo l’ultima Regione che ancora deve effettuare il passaggio di competenze in materia sanitaria dalla giustizia penitenziaria alle aziende sanitarie territoriali”. un tema, questo sul quale il direttore generale dell’Azienda per i servizi sanitari 4 Giorgio Ros, che da sempre segue l’attività dell’Acat in carcere, ha voluto soffermarsi. “C’è ancora tanta strada da fare - ha ammesso Ros - per ora potenziamo il vero e proprio “tesoretto” rappresentato dal Ser.T. e dall’Acat, ma abbiamo allertato gli operatori e siamo pronti a metterci a disposizione” ha assicurato. Terni: squadra rugby regala maglie e attrezzature sportive ai detenuti www.sporterni.it, 7 giugno 2013 Una promessa da rugbysti va onorata. E così domattina il Terni Rugby entrerà di nuovo nel carcere di Sabbione per festeggiare insieme ai detenuti la serie B conquistata domenica nella finale con il Paganica. “Dobbiamo ringraziarli - dice l’allenatore dei Draghi Mauro Antonini - per le motivazioni che ci hanno dato, da quando abbiamo iniziato a frequentarli e a fare rugby con loro”. Sarà una festa speciale, con i rugbysti che assisteranno ad uno spettacolo teatrale e poi resteranno a pranzo con i detenuti. Alessio Battisti, il capitano, protagonista di queste ultime stagioni in rossoverde, ricambierà con un regalo particolare. Per lui quella di domenica scorsa è stata l’ultima partita di una carriera importante che lo ha visto vestire la maglia di tutte le nazionali giovanili, fino ad arrivare alla nazionale maggiore nel 2007 e restare purtroppo coinvolto in un incidente stradale, che non gli ha comunque impedito, grazie a una straordinaria forza di volontà, di tornare sui campi da rugby. “Bimbo” Battisti si presenterà in carcere con alcuni borsoni, perché ha deciso di regalare tutte le sue maglie e tutte le sue attrezzature da rugby ai detenuti. E poi, già sabato scorso, si è preso un impegno importante: “Non starò più nel mondo del rugby - ha detto ai detenuti e alla sua squadra - perché per come lo intendo io il rugby va vissuto al 100% e non intendo scendere sotto questa percentuale. Però prometto che prenderò in mano il pallone ovale solo qui dentro, continuando a giocare e ad allenare la squadra di Sabbione”. Una squadra che si sta formando con molta volontà e con straordinario impegno, grazie alla disponibilità della direttrice della casa circondariale e del comandante, e alla dedizione con la quale gli allenatori del Terni Rugby Valerio Guidarelli, Marta Corazzi e Jacopo Borghetti, da più di un anno seguono il progetto di recupero dei detenuti attraverso il rugby. “L’obiettivo che ci siamo dati è duplice - dice il presidente del Terni Rugby Alessandro Betti - il primo è quello di creare una vera e propria squadra dei detenuti (che si chiamerà Liberi per Meta/à), così come è stato fatto in altre strutture. Il secondo, ancor più impegnativo, è di riattivare insieme ai responsabili della casa circondariale, il campo sportivo interno per consentire ai detenuti di allenarsi su un vero terreno di gioco. Obiettivi ambiziosi dei quali si parlerà anche domani durante i festeggiamenti”. Droghe: Rita Bernardini pianta canapa a Montecitorio… e intervengono forze dell’ordine Notizie Radicali, 7 giugno 2013 Radicali e associazioni sono scesi di nuovo in piazza giovedì pomeriggio davanti a Montecitorio, per una manifestazione antiproibizionista per l’accesso alla cannabis terapeutica e la depenalizzazione per uso personale della coltivazione della marijuana. Ad organizzare la manifestazione il Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito, l’Associazione Luca Coscioni, Radicali Italiani e l’Associazione Lapiantiamo. Rita Bernardini, già protagonista di una coltivazione e distribuzione ad uso terapeutico quando era deputata, ha piantato semi di canapa: “Sono migliaia i malati che lo Stato costringe ad approvvigionarsi al mercato criminale. È un proibizionismo irragionevole” ha detto, auspicando che i ‘tempi di approvazione della proposta di legge coincidano con i tempi di maturazione delle piantè, piantate oggi a Montecitorio. Quando la polizia ha tentato di sequestrale, Bernadini ha incalzato” perché quando l’ho fatto in Parlamento non avete operato sequestri?”. Durante la conferenza stampa è stata richiamata la proposta di legge per l’istituzione dei “Cannabis social club” in tutta Italia dove si possa piantare e coltivare canapa per la cura della sclerosi multipla e altre patologie. Un primo club si è costituito a Racale, in provincia di Lecce, grazie a Lucia Spiri e Andrea Trisciuoglio (Presidente e segretario dell’associazione Lapiantiamo) presenti alla manifestazione insieme al sindaco di Racale Donato Metallo. “Questa proposta andrebbe spalmata in tutta Italia, la ricerca scientifica si adoperi per fare vera ricerca”, ha osservato Mina Welby, co-presidente dell’Associazione Luca Coscioni. La Pdl per i “Cannabis social club” è stata affidata dai Radicali a due parlamentari bipartisan, Sandro Gozi del Pd e Luca Barani di Grandi autonomie e Libertà che l’hanno depositata. Momenti di tensione perché le forze dell’ordine che presidiano la piazza hanno sequestrato anche un farmaco a base di canapa, previsto dal Servizio Sanitario Nazionale, che i malati di sclerosi multipla presenti alla manifestazione avevano portato con se. “La polizia ha sbagliato a sequestrare il farmaco e questo fa capire il livello di disinformazione che esiste sul tema. Alla fine li abbiamo convinti a restituirlo, avevano visto marijuana e gli sembrava impossibile fosse legale” ha sottolineato il segretario di Radicali Italiani Mario Staderini, che ha ricordato l’imminente avvio della raccolta firme sul referendum che elimina il carcere per i fatti di lieve entità. Svizzera: il sovraffollamento carcerario potrebbe costare milioni al Canton Ginevra www.info.rsi.ch, 7 giugno 2013 Per la seconda volta in pochi giorni, infatti, il Tribunale delle misure coercitive ha indicato che le condizioni attuali nel penitenziario di Champ-Dollon non rispettano le norme legali. Si apre così la porta ad eventuali domande di risarcimento. In particolare, la corte considera non regolamentare il fatto che alcuni detenuti siano costretti a dormire su materassi sistemati per terra. Nel precedente verdetto aveva giudicato insufficienti i 3,84 m2 per prigioniero a disposizione nelle celle.