Giustizia: il Pdl pronto ad appoggiare i referendum dei Radicali di Amedeo La Mattina La Stampa, 6 giugno 2013 Il centrodestra valuta l’appoggio ai Radicali per tenere sulle corde la maggioranza. Il 28 maggio scorso il comitato promotore dei referendum presieduto da Marco Pannella ha depositato in Cassazione 5 quesiti “per la giustizia giusta”. Cancellazione del filtro di ammissibilità nelle richieste di risarcimento per responsabilità civile dei magistrati; separazione delle carriere; eliminazione della custodia cautelare per il rischio di reiterazione nel caso di reati non gravi; misure restrittive per il lavoro dei magistrati fuori ruolo; abolizione dell’ergastolo. Ci sono ora tre mesi di tempo per raccogliere le 500 mila per sostenere i quesiti. Impresa difficile senza il sostegno e la mobilitazione di altre forze politiche. E infatti in quell’occasione il leader Radicale non è stato ottimista. “Temo che i partiti politici non appoggeranno facilmente la nostra iniziativa perché continueranno a far solo finta di sostenerci come fanno da 20 anni”. E invece qualcosa è scattato nel Pdl. Martedì sera a Palazzo Grazioli, durante il vertice dello stato maggiore convocato dal Cavaliere, si è acceso un riflettore sui referendum alla cui stesura ha collaborato anche Peppino Calderisi (ex deputato del Popolo della libertà, Radicale da sempre, collaboratore del capogruppo Renato Brunetta e ieri nominato consigliere politico del ministro per le Riforme Gaetano Quagliariello). L’iniziativa Radicale è stata sottoposta all’attenzione di Berlusconi che l’ha definita “molto interessante”, da prendere in seria considerazione al punto di aver dato il via libera a un sostegno attivo nella raccolta delle 500 mila firme necessarie. Sarebbe una mossa eclatante di una parte importante della maggioranza di governo che non ha questi temi nel suo programma. Anzi sono stati tenuti lontani dalle larghe intese essendo sempre stati divisivi e al centro delle furiose battaglie tra centrodestra e centrosinistra. Per Berlusconi e il Pdl sono state invece bandiere e proposte di governo però mai realizzate. Nel 2000 il Cavaliere disse agli italiani di non andare a votare quando si presentò l’occasione di farlo su alcuni referendum, promossi sempre dai Radicali, tra i quali la separazione delle carriere e l’abolizione della possibilità per i magistrati di assumere incarichi extragiudiziari. Non venne raggiunto il quorum e il governo della Casa della libertà, che nel 2001 vinse le elezioni, non riuscì nemmeno quella volta a fare quella riforma giustizia che aveva promesso da più di un decennio. Ora all’ex premier Cavaliere si presenta un’altra occasione ghiotta e questa volta non vuole farsela sfuggire: se quella riforma non si può fare in Parlamento, perché non ha e non mai avuto la maggioranza per farla, adesso ha intenzione di cavalcare i nuovi referendum. Intanto dando una mano a raccogliere le firme, poi si vedrà. È un modo per tenere sulla corda l’attuale maggioranza, ma anche un rischio perché potrebbe creare fibrillazioni al governo che ha di fronte molte sfide da affrontare. Potrebbe essere la dura risposta alle eventuali decisioni negative della Consulta e della Corte di Cassazione sui diritti Mediaset per i quali Berlusconi è stato condannato a cinque anni con l’interdizione dai pubblici uffici. Niente di tutto questo, spiegano in casa berlusconiana. “Siamo semplicemente d’accordo sui quesiti referendari - precisa uno dei partecipanti al vertice dell’altra sera a Palazzo Grazioli - e stiamo valutando seriamente come sostenerli”. Del resto, viene ricordato, lo stesso Cavaliere ha detto di stare calmi. “Nonostante tutto quello che gli è stato buttato addosso in ambito giudiziario, abbiamo mantenuto il timone dritto sostenendo questo governo in cui abbiamo riposto molte speranze, mettendo fine a una guerra fredda, a una guerra civile”. Giustizia: 631 detenuti morti e una sola condanna… di Riccardo Arena Il Post, 6 giugno 2013 Dal 22 ottobre del 2009, data in cui è morto Stefano Cucchi, sono state 631 le persone detenute che hanno perso la vita nelle galere italiane. Centinaia e centinaia di cadaveri ignorati dalla giustizia e dai mass media. E forse non è solo una coincidenza. 631 decessi tra suicidi (spesso indotti) e malattie (spesso non curate). 631 persone detenute morte a causa di una pena degradante e disumana. Tra loro, pochissimi sono i decessi inevitabili o imprevedibili. Se si analizzano le singole vicende, si scopre infatti che tante, troppe di quelle morti sono state causate dall’abbandono, dall’incuria, dalla negligenza e da un sistema carcerario capace solo di produrre maltrattamenti. 631 decessi, molti dei quali ben potrebbero integrare diverse ipotesi di reato. Omicidio colposo, omissione di soccorso o abbandono di persona incapace. Ipotesi di reato di cui però la cosiddetta giustizia non si è occupata e che sono rimaste impunite nell’indifferenza più assoluta. Un’indifferenza che riguarda anche i cosiddetti organi di informazione. Muore un detenuto che chiedeva da mesi e mesi di essere curato? Si uccide un ragazzo di 20 anni sbattuto in una cella di isolamento? Risultato: un trafiletto su un giornale locale. Morale. 631 persone detenute morte e una sola condanna. Quella che ha riguardato il caso del povero Cucchi. Tutt’altro che un caso isolato, che però viene trattato come tale. Ed è questa la vera vergogna di cui pochi si accorgono. Ora sia chiaro. La morte di Cucchi deve ricevere un’adeguata risposta di giustizia. Ed è sacrosanto pretenderla. Ma il punto adesso è un altro. Il caso Cucchi è la prova della stortura italiana: l’apparenza. Diventa importante un singolo caso se è mediaticamente rilevante. E tutti quei 631 detenuti che sono morti in circostanze analoghe? Pazienza. La giustizia, l’informazione, e la conseguente indignazione dei cittadini, è dedicata a uno solo. Uno su 631. Giustizia: Ferranti (Pd); bene accelerazione capigruppo su ddl messa alla prova Agenparl, 6 giugno 2013 “La decisione della capigruppo di questa mattina di calendarizzare il ddl sulle pene alternative al carcere nell’ultima settimana di giugno è una buona notizia. Adesso la commissione Giustizia della Camera lavorerà a ritmi serrati per portare in aula un testo che abbia la più ampia condivisione dei gruppi parlamentari, così da approvarlo in tempi certi”. Lo ha detto al termine della seduta della commissione Giustizia della Camera la presidente Donatella Ferranti a proposito del provvedimento di cui è relatrice che prevede misure alternative al carcere per chi commette reati con pena massima fino a 4 anni e introduce, per la prima volta nel codice penale, la possibilità della messa alla prova per gli adulti per reati di piccola entità. “Abbiamo stabilito - rende noto la democratica Ferranti - per martedì prossimo il termine per la presentazione degli emendamenti. Con questo provvedimento si prevedono norme fondamentali per la deflazione dei procedimenti penali che incideranno anche sulla situazione emergenziale delle carceri italiane dove da troppo tempo, e per colpa di politiche securitarie sbagliate, si vive in una condizione inaccettabile per uno stato democratico, in palese violazione del principio costituzionale che garantisce la finalità rieducativa della pena”. Giustizia: Cucchi ha fatto tutto da solo; assolti agenti e infermieri, condannati solo i medici di Silvia D’Onghia Il Fatto Quotidiano, 6 giugno 2013 E così alla fine aveva ragione Giovanardi: Stefano Cucchi ha fatto tutto da solo. Non sono state le botte ricevute dagli agenti penitenziari a costringerlo in quel letto d’ospedale in cui è morto, sei giorni dopo il suo arresto per droga. Non sono stati i vari “sono caduto dalle scale”, o i commenti di altri detenuti, “hai fatto un frontale con un treno” a provocare quell’incredibile percorso che ha portato poi alla sua morte. Stefano Cucchi in quel letto d’ospedale ci è finito da solo. E poco importa se quello era il reparto detentivo del Sandro Pertini, inaccessibile ai genitori che invano hanno bussato ogni giorno a quelle porte. Poco importa se quel ragazzo di 31 anni col sogno della boxe aveva la faccia martoriata dai lividi, aveva lesioni vertebrali, tracce di sangue sui jeans. Stefano Cucchi è morto di malasanità. A ucciderlo, secondo la terza Corte d’assise di Roma che ieri ha pronunciato il suo verdetto di primo grado, in un’aula bunker blindata per paura di chissà cosa e dopo sette ore e mezza di camera di consiglio, sono stati i medici negligenti che non gli hanno somministrato le terapie giuste e necessarie, che non si sono accorti del suo deperimento, che non hanno arrestato con semplici mosse quel processo che ne ha determinato la morte. Nicola Menichini, Corrado Santantonio e Antonio Dominici, gli agenti penitenziari imputati di lesioni, coloro che lo avrebbero pestato nelle celle di sicurezza del Tribunale, sono stati assolti. Insufficienza di prove, avrebbe recitato la vecchia formula. Evidentemente non sono bastate le decine di perizie prodotte da accusa e parte civile, spesso così in conflitto tra loro, a rendere evidenti le responsabilità anche ai giudici. E sono stati dichiarati innocenti i tre infermieri a processo, Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe. Pene lievi, molto di più di quanto chiesto dall’accusa, per i sei medici coinvolti: due anni di reclusione al primario Aldo Fierro, un anno e quattro mesi per Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi Preide De Marchis, Silvia Di Carlo, otto mesi per la responsabile del reparto, Rosaria Caponetti, condannata per falso. Per tutti gli altri il reato è stato derubricato da abbandono di incapace a omicidio colposo. Dovranno pagare alla famiglia Cucchi una provvisionale di 320 mila euro in attesa del giudizio civile, ma per tutti la pena è sospesa. Per i giudici tanto vale la morte di un ragazzo, arrestato con indosso pochi grammi di hashish la notte tra il 15 e il 16 ottobre 2009. Bisognerà attendere 90 giorni per le motivazioni della sentenza, ma intanto il primo punto fermo in tre anni e mezzo è stato messo. In aula c’erano tutti. Giovanni, Rita e Ilaria, genitori e sorella di Stefano, accompagnati dai loro avvocati, gli instancabili Fabio Anselmo e Alessandra Pisa. C’era il senatore Luigi Manconi, che con l’associazione “A buon diritto” ha seguito il caso dal primo giorno. C’erano gli agenti e gli infermieri imputati e molti loro parenti. C’erano decine di giornalisti, costretti ad accreditarsi per la prima volta dall’inizio del processo. C’erano carabinieri e poliziotti, in divisa e in borghese, quasi come se in aula ci fosse un processo a pericolosissimi criminali. C’era il pubblico nel loggione e c’erano anche Lucia Uva e Domenica Ferulli, sorella e figlia di altri due morti ammazzati nelle mani dello Stato. Ed è stato proprio da lassù in alto che è partito quel grido, “assassini, vergogna”, mentre di sotto i parenti degli imputati assolti si abbracciavano e festeggiavano. Pochi banchi più avanti le lacrime di Ilaria, il volto rosso dalla rabbia e dalla commozione, la consapevolezza che la verità, la sua verità, non è ancora emersa. L’abbraccio, interminabile, con l’avvocato Anselmo e poi con Manconi, e subito le parole, calme e misurate come sempre, a favore di telecamera. Stavolta anche la piccola mamma Rita ha il coraggio di parlare: “Me l’hanno ucciso una seconda volta”. Lo sapevano, Rita e Giovanni, che sarebbe stata durissima. “Abbiamo dormito poco - avevano detto prima di entrare in aula, ma abbiamo la consapevolezza di aver fatto tutto il possibile”. Già la mattina, alle 9,30, poco prima che i giudici entrassero in camera di consiglio, il piazzale antistante l’aula bunker era stato teatro di tensioni. Un gruppo di ragazzi aveva provato ad attaccare adesivi e a srotolare uno striscione con la scritta “Ilaria non sei sola. Giustizia per Stefano”, subito rimosso dagli agenti. E a lungo giornalisti e pubblico erano rimasti fermi ai cancelli, in attesa di accrediti che non arrivavano e di autorizzazioni alla spicciolata. “La Corte non deve vedere quanta gente c’è”, aveva commentato qualcuno alzando la voce con la polizia, giunta in massa a blindare se stessa. Minuti di tensione che si sono ripetuti al termine dell’udienza, quando gli imputati sono usciti dall’aula scortati dalle forze dell’ordine. Per loro ieri è finito un incubo, per la famiglia Cucchi l’incubo non finirà mai. “Suo fratello si è spento”, avevano detto a Ilaria il giorno della morte di Stefano. Ieri la Corte lo ha confermato. Giustizia: morte di Stefano Cucchi, gli agenti non pagano di Arianna Giunti L’Espresso, 6 giugno 2013 Secondo i giudici non c’è stato alcun nesso tra le botte prese dal ragazzo e la sua morte. Condannati solo i medici. L’ultimo caso di una storia infinita: quella dei poliziotti che, in Italia, non vengono mai sanzionati Il 15 ottobre 2009 Stefano Cucchi, geometra romano, viene sorpreso con alcuni grammi di hashish, cocaina e antiepilettici e recluso a Regina Coeli. Quel giorno, hanno detto i suoi familiari, non aveva alcun trauma fisico e pesava solo 43 chili. Già durante il processo ha difficoltà a camminare, gli occhi sono cerchiati da lividi neri e ha lesioni ovunque. Dopo la condanna per direttissima torna in carcere, le sue condizioni peggiorano e viene ricoverato. Il 22 ottobre 2009 muore in ospedale. Da allora comincia una sfida a colpi di referti, perizie, ipotesi investigative che si è provvisoriamente conclusa con la sentenza di primo grado: condannati per omicidio colposo i medici, assolti i tre agenti di custodia. “Ci devono ancora spiegare chi ha provocato a Stefano quelle lesioni alle vertebre, al torace, alla schiena, alla mandibola. Vogliono farci credere che se l’è fatte da solo, cadendo. E quante volte sarebbe caduto?”, tuona l’avvocato della famiglia Cucchi, Fabio Anselmo, lo stesso che assiste anche la mamma di Federico Aldrovandi. La sentenza è stata accolta con urla e lacrime. Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, ha detto piangendo: “Io non mi arrendo. Questa è una giustizia ingiusta. I medici dovranno fare i conti con la loro coscienza, ma mio fratello non sarebbe morto senza quel pestaggio. Sapevamo che nessuna sentenza ci avrebbe dato soddisfazione e restituito Stefano ma calpestare mio fratello e la verità così non me l’aspettavo”. Ha aggiunto la madre, Rita Calore: “Me l’hanno ucciso un’altra volta. Andremo avanti fino in fondo, troveremo la verità, chi è stato un fantasma a farlo morire?” Per gli agenti di custodia appena assolti non risultano esserci mai state sospensioni e sono attualmente in servizio. “Ma non più a diretto contatto con i detenuti”, precisa il loro avvocato Diego Perugini. Ma il caso Cucchi è solo la punta di un iceberg. “L’Espresso” ha esaminato una lunga serie di procedimenti contro uomini delle forze dell’ordine che non sono stati radiati, nonostante fossero imputati o condannati per episodi gravissimi: vicende da prima pagina, come il G8 di Genova, o storie dimenticate, come la persona con problemi psichici picchiata a morte a Trieste. Mancano statistiche ufficiali, ma gli unici dati disponibili permettono di capire l’importanza della questione: solo negli ultimi dieci mesi 228 tra agenti, carabinieri, finanzieri e guardie penitenziarie sono finiti sotto inchiesta. Per l’esattezza 105 sono stati indagati, 73 arrestati e 42 a giudizio nei tribunali. Sul loro destino pesa la lentezza dei processi, che spesso determina la prescrizione dei reati senza che le commissioni interne dei corpi intervengano per punire i fatti comunque accertati. E, d’altro canto, brucia vita e carriere di chi attende la sentenza per anni e anni. Ma in tantissime situazioni, i protagonisti vengono sospesi per periodi minimi oppure sono i tribunali amministrativi a revocare i provvedimenti. Certo, la legge è uguale per tutti e la presunzione di innocenza non è in discussione. Proprio l’importanza dei compiti affidati alle forze dell’ordine però richiede norme più chiare di quelle attuali per tutelare la fiducia nelle istituzioni e il lavoro di chi mette a repentaglio la propria vita per difendere la legge. E rischia invece di trovarsi schierato al fianco di chi l’ha violata. G8 senza conseguenze Il blitz nella scuola Diaz durante il G8 di Genova nel luglio del 2001 resta una pagina nera nella storia della Repubblica. Il verdetto della Cassazione per il massacro di oltre sessanta manifestanti inermi è arrivato dopo 12 anni. Venticinque condanne hanno decapitato i vertici della polizia, prevedendo però l’interdizione dai pubblici uffici solo per i prossimi cinque anni. Altri nove dirigenti sono stati riconosciuti responsabili di lesioni personali continuate ma il reato è stato dichiarato prescritto. E restano in servizio. Sono quelli che nella notte della Diaz comandavano i celerini del primo reparto mobile di Roma. Il vicequestore aggiunto Michelangelo Fournier, che definì il blitz nella scuola una “macelleria messicana”, oggi lavora al vertice della Direzione centrale antidroga: la condanna a due anni in primo grado nel suo caso si è prescritta già in appello. Gli altri otto sono stati trasferiti in uffici o commissariati di zona: a nove mesi dalla sentenza definitiva, la commissione interna non ha ancora valutato le loro responsabilità disciplinari. Pestaggio cancellato Nel marzo 2001 gli scontri del Global Forum di Napoli si sono trasformati nella prova generale delle violenze genovesi. Dieci poliziotti sono stati accusati di avere selvaggiamente picchiato e sequestrato 85 manifestanti, rinchiusi nella caserma Raniero. Quando la magistratura ordinò di arrestare gli agenti accusati per le brutalità, una catena umana formata dai loro colleghi sbarrò l’accesso alla questura. Oggi c’è una sola certezza: nessuno è stato punito. Merito della lentezza della giustizia e dell’inerzia delle commissioni disciplinari. I reati di violenza privata, lesioni, falso e abuso d’ufficio sono stati prescritti in primo grado. Il tempo ha cancellato anche l’imputazione più grave di sequestro: lo ha stabilito la Corte d’appello, che si è pronunciata solo nello scorso gennaio dopo ben dodici anni. Un pessimo esempio per tutte le istituzioni Morte a Trieste Ci sono agenti che però restano in servizio anche quando condannati in via definitiva per omicidio. Lo dimostra il caso di Riccardo Rasman, 34 anni. Figlio di istriani di lingua slava, l’uomo aveva subito feroci atti di nonnismo durante la leva militare, che avevano acuito la sua sindrome schizofrenica paranoide: era terrorizzato dalle divise. In una sera dell’ottobre 2006 Rasman ha festeggiato l’assunzione come netturbino lanciando petardi sul pianerottolo del condominio. Quando ha visto arrivare gli agenti si è rannicchiato sul letto, senza aprirgli. I poliziotti hanno sfondato la porta e si sono lanciati su di lui, un colosso pesante 120 chili e alto un metro e 85. I paramedici del 118 lo troveranno con le manette ai polsi, le mani dietro la schiena, fil di ferro alle caviglie, ferite e segni di “imbavagliamento con blocco totale o parziale della bocca”. Proprio questo imbavagliamento, unito alla pressione con la quale gli agenti, per immobilizzarlo, gli premono con le ginocchia sul tronco, gli provoca una veloce asfissia e la morte. “Era martoriato di botte sul viso, gli avevano rotto lo zigomo, aveva sangue che usciva dalle orecchie, dal naso, dalla bocca”, ricorda oggi la sorella Giuliana Rasman. Ci sono voluti sei anni per accertare la verità. La Cassazione ha condannato a sei mesi per omicidio colposo tre agenti della volante. Secondo i giudici, i poliziotti sapevano che Rasman era in cura in un centro psichiatrico e per questo avrebbero dovuto chiamare subito un’ambulanza. Oggi, liberi con la condizionale, vestono ancora la divisa. “Sono tutti in servizio, ci mancherebbe altro”, conferma a “l’Espresso” il loro avvocato, Paolo Pacileo. La famiglia Rasman, attraverso il legale Claudio Defilippi, ha chiesto le scuse ufficiali del ministero dell’Interno. Mai arrivate. Arresto letale Ci sono decessi drammatici che si assomigliano. E fanno emergere tutta l’inadeguatezza delle forze dell’ordine nel gestire l’arresto di persone in stato di alterazione mentale: una situazione frequente quando bisogna avere a che fare con ubriachi, drogati o disabili psichici. Lo sottolinea la sentenza d’Appello che condanna per omicidio colposo nove agenti di Napoli che nel 2003 hanno provocato la morte per asfissia di Sandro Esposito, 26 anni. Esposito era un parà della Folgore, veterano delle missioni all’estero: durante una licenza, sotto l’effetto della cocaina sale su un capannone e urla. Intervengono diverse volanti e i poliziotti lo immobilizzano. Ma mentre tentano di caricarlo in auto, il parà scappa. Così lo colpiscono con calci e pugni alla testa, utilizzando anche un oggetto contundente, e lo stendono a terra sull’asfalto premendogli le ginocchia contro il petto fino a farlo morire asfissiato. In primo grado i poliziotti vengono condannati per omicidio preterintenzionale. In appello il reato si trasforma in omicidio colposo, e le parole dei giudici, pur riconoscendo la volontà di non uccidere, sono impietose verso l’intero corpo di polizia: “Ci troviamo di fronte a un difetto di addestramento, non risulta infatti che il ministero dell’Interno abbia mai compilato, come invece è avvenuto con il Dipartimento della Giustizia negli Stati Uniti, un protocollo per il trattamento dei soggetti in stato di delirio cocainico”. Due dei nove agenti sono stati espulsi dalla polizia, gli altri non hanno avuto conseguenze. Per sei di loro, la pena a 4 anni di carcere è stata ridotta dalla Cassazione a un anno e sei mesi, con immediata libertà condizionale. Per un altro è scattata la prescrizione. All’epoca dei fatti vennero sospesi per un solo mese, poi sono tornati in servizio e ancora oggi indossano l’uniforme. I genitori del ragazzo, assistiti dall’avvocato Monica Mandico, continuano ad aspettare il risarcimento stabilito dai giudici. Finora dal ministero dell’Interno hanno ricevuto solo il conto da pagare per la rottura del finestrino di una delle volanti su cui fu caricato a forza loro figlio. Torturatori ad Asti Un verdetto paradossale nel gennaio 2012 ha salvato dalla condanna quattro guardie carcerarie del penitenziario di Asti. Erano accusate di aver trattato quattro detenuti come prigionieri di un lager, picchiandoli, privandoli di cibo e acqua, lasciandoli nudi per giorni interi in pieno inverno in celle senza vetri e finestre, arrivando persino a strappare di netto il codino di capelli a uno di loro. I fatti risalgono al 2004, ma sono emersi solo sette anni dopo. Una “piccola Abu Ghraib italiana”, come è stata definita durante il processo: “Entravano nelle nostre celle dopo le dieci di sera”, raccontano a verbale i detenuti “ci prendevano a botte continuamente per non farci addormentare. Io mi chiudevo come un riccio, ma loro continuavano, puntuali, ogni notte”. I giudici del Tribunale di Asti ritengono che si tratti di tortura, un reato che non esiste nel nostro codice penale. E quindi sono state inflitte solo pene esigue, per abuso di autorità e lesioni personali: oggi sono già prescritte. Due degli agenti, responsabili dei fatti più gravi, sono stati radiati lo scorso gennaio. Per gli altri due sono arrivate sospensioni di 4 e 6 mesi. Dopodiché torneranno in servizio. Giustizia: Cucchi; nessuno responsabile delle lesioni, condanne sono per il mancato soccorso Il Post, 6 giugno 2013 Si è concluso il processo di primo grado presso la III Corte d’Assise di Roma per la morte di Stefano Cucchi, avvenuta il 22 ottobre 2009 a Roma. Gli agenti penitenziari e gli infermieri coinvolti nel caso sono stati assolti, mentre i medici dell’ospedale “Pertini”, in cui era ricoverato il ragazzo al momento della morte, sono stati condannati. Nessuno è stato considerato responsabile delle lesioni subite da Cucchi: le condanne ai medici si riferiscono al mancato soccorso, una volta che questo fu portato in ospedale. Gli imputati nel processo di primo grado erano dodici: sei medici, tre infermieri e tre agenti penitenziari. Le accuse erano, a seconda dei casi, abbandono di incapace - il reato più grave, per cui è prevista una pena massima di otto anni - abuso d’ufficio, favoreggiamento, falsità ideologica, lesioni e abuso di autorità. Un altro imputato, il direttore dell’ufficio detenuti e del trattamento del provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria (Prap), Claudio Marchiandi, ha chiesto il rito abbreviato ed è stato condannato nel 2011 a due anni per favoreggiamento, falso e abuso in atti d’ufficio. L’accusa, rappresentata dai sostituti procuratori Vincenzo Barba e Maria Francesca Loy, aveva chiesto la pena più alta, sei anni e otto mesi, per Aldo Fierro, il primario del reparto di medicina protetta dove Cucchi era ricoverato e dove è morto. La pena più bassa tra gli imputati (due anni) è stata chiesta invece per tre guardie carcerarie, accusate di lesioni personali aggravate. Il processo, iniziato nel gennaio 2011, è stato molto lungo e complesso, con oltre 40 udienze e molte decine di testimoni. Stefano Cucchi, 31 anni, lavorava come ragioniere nello studio di famiglia, nel quartiere romano del Casilino. Intorno alle 23.30 del 15 ottobre 2009 venne arrestato dai carabinieri nel parco degli Acquedotti perché trovato in possesso di droga. Il giorno successivo, dopo una perquisizione notturna nella casa dove viveva con i genitori - che lo trovarono in buona salute - e l’udienza di convalida dell’arresto, venne portato nel carcere romano di Regina Coeli (Cucchi aveva alcuni precedenti penali, ma non per reati connessi alla droga). Successivamente, Cucchi passò sei giorni in diverse strutture e con il coinvolgimento di decine di operatori sanitari e della giustizia, in una catena di abusi e illegalità solo parzialmente ricostruita. Cucchi morì il 22 ottobre nel reparto protetto dell’ospedale “Sandro Pertini” di Roma intorno alle tre di mattina, come stabilì l’autopsia, i cui risultati vennero resi pubblici solo alcuni mesi più tardi. La sua morte venne scoperta dal personale dell’ospedale solo tre ore più tardi. Una commissione d’inchiesta del Senato, presieduta da Ignazio Marino, stabilì che al momento dell’ingresso in carcere Cucchi presentava già lesioni gravi al volto, lesioni vertebrali e un sospetto di trauma cranico addominale. Secondo l’accusa, infatti, Cucchi venne picchiato violentemente prima ancora dell’udienza di convalida dell’arresto, la mattina del 16 ottobre. Successivamente, dopo il suo ricovero al “Pertini”, l’accusa sostiene che Cucchi non venne curato né nutrito, lasciandolo morire di fame e di sete, nonostante le sue pessime condizioni cliniche. Cucchi, che era tossicodipendente e soffriva di epilessia, aveva infatti, già dal 19 ottobre, una grave ipoglicemia (mancanza di zuccheri), oltre ai traumi alla testa e alla schiena. Per questo motivo, il reato contestato ai medici dell’ospedale è quello di abbandono di persona incapace, e non di omicidio colposo: il primo reato prevede pene massime più alte (otto anni invece di cinque). Le accuse di omicidio colposo e di omicidio preterintenzionale (di cui erano inizialmente accusati gli agenti della polizia penitenziaria) sono cadute dopo una prima perizia medica. Giustizia: l’incontro tragico di Stefano con questo Stato… un calvario senza fine di Mauro Palma (Ex presidente del Comitato europeo contro la tortura) Il Manifesto, 6 giugno 2013 Assolti agenti e infermieri perché il fatto non sussiste; qualche condanna ai medici per omicidio colposo: si chiude il processo di primo grado per la morte di Stefano Cucchi. Dunque un caso di malasanità, uno come tanti, con la sola specificità dell’essersi verificato in un luogo di detenzione. Tutto qui: una vicenda “normale” come appare “normale”, anche se colpevole, l’incuria rispetto ai soggetti difficili da trattare perché refrattari alle cure mediche. Questa verità ci consegna la terza Corte d’Assise di Roma, derubricando la realtà di un giovane che dopo poche ore di detenzione muore, senza aver avuto accesso a familiari e avvocati, in un ambiente che dovrebbe contenerlo, ma proteggerlo in quanto responsabile della sua persona, della sua sicurezza, della sua vita; di un giovane che muore in condizioni fisiche pietose caratterizzate da evidenti segni sul corpo, lesioni, di cui nessuno ha saputo dare ragione. Sono segni che parlano di giornate dure prima di arrivare in quel luogo dell’incuria accertata. Segni della cui origine non si è voluta dare una ragione e che acquistano una capacità descrittiva quando, attraverso le testimonianze, si ricostruisce il loro manifestarsi e il loro evolversi fino a darci l’immagine di una persona che non riusciva più a tenersi in piedi (leggo da una dichiarazione ufficiale: “Presenta ecchimosi sacro-coggicea, tumefazione del volto bilateralmente periorbitaria, algie alla deambulazione e arti inferiori, che gettano una sinistra e plastica luce su quelle ore, se si li associa alle dichiarazioni rese da lui stesso circa una caduta per le scale - tipica causa con cui si giustificano i segni di botte nei luoghi di privazione della libertà - e alle sue confidenze a coloro con cui è entrato in un contatto “alla pari” nelle ore successive all’arresto. Questi segni negati da un dispositivo che parla di fatti che non sussistono e di semplice negligenza colposa, restano come pietre a interrogare tutti noi sulla capacità effettiva di ridare giustizia a chi è stato vittima. Non si tratta di contestare una sentenza, di cui leggeremo in futuro le motivazioni. Si tratta di riscontrare l’incapacità di un sistema di cogliere la globalità di un evento, limitandosi a sminuzzarlo in piccoli passi che finiscono col negarne il senso complessivo. Perché una sentenza è il punto finale - a volte quasi ineludibile - dell’impianto di un’indagine che, in questo caso, ha seguito una via che andava dritta verso questo esito. Non è quasi mai possibile, infatti, se non in casi eccezionali, stabilire un nesso di stretta causalità tra le lesioni riscontrate e la morte perché queste sono sempre una concausa, sebbene fondamentale, che agisce insieme ad altri elementi, inclusa la negligenza. Ma il punto vero di un’indagine che possa definirsi effettiva, quando si tratta di presunti maltrattamenti di indagati o arrestati, è rispondere alla domanda sul perché di quelle lesioni: come si siano prodotte, da parte di chi, quale ipotetica giustificazione possano avere. Questa è la domanda iniziale - che non ha avuto risposta - a cui segue l’altra: su come esse siano state un elemento aggiuntivo o determinante per provocare la morte. Se, al contrario, si derubricano a inessenziali quei segni solo perché non in grado di produrre da soli un esito fatale, si opera un’inversione logica che finisce coll’oscurare il fatto incontrovertibile che se Stefano Cucchi non avesse trascorso quelle ore in quei luoghi, non avrebbe avuto neppure bisogno di ricovero e oggi sarebbe vivo. Ha percorso invece varie tappe di un calvario istituzionale in cui è venuto in contatto con quasi tutti gli organi a cui noi affidiamo la tutela collettiva: dai carabinieri, alla polizia penitenziaria, ai direttori di carcere, ai medici penitenziari, agli operatori del 118. Ora, da morto, è venuto anche in contatto con il sistema di giustizia. Da nessuno ha avuto attenzione; da molti ha ottenuto il girarsi dall’altra parte per non voler vedere, dai peggiori i segni visibili sul suo corpo. Forse l’unica attenzione potrà venirgli da un’opinione pubblica che recuperi la volontà di vedere cosa può accadere nei luoghi “opachi” e che rivendichi come diritto di tutti e di ciascuno la tutela fisica e psichica di qualunque persona privata della libertà e la capacità effettiva di individuare e punire chi tale diritto non rispetta. Oppure potrà venirgli da una completa ricostruzione di quei suoi ultimi giorni che la giustizia saprà dare nelle sue prossime fasi. Giustizia: Manconi sul caso Cucchi; in cella si perde ogni diritto, ecco i risultati di Vladimiro Polchi La Repubblica, 6 giugno 2013 Il senatore che si batte per migliori condizioni di vita dei detenuti. “Quella di Stefano fu una via crucis”. “La morte di un giovane passato attraverso 11 istituzioni dello Stato, tra caserme e celle, viene ridotta a un ordinario caso di malasanità”. Luigi Manconi, fondatore dell’associazione “A Buon Diritto”, presiede oggi la commissione diritti umani del Senato. Cosa ha pensato alla lettura della sentenza? “La sentenza è grave perché riduce tutto a una vicenda di incuria medica e tace sul resto, sull’intera via crucis”. Via crucis? “Sì perché sono almeno 11 gli istituti pubblici attraversati da Stefano Cucchi e lì decine di persone non gli hanno teso una mano”. Insomma i magistrati hanno sbagliato? “Penso che all’origine di questa sentenza e di processi che neppure si aprono, come per la morte di Giuseppe Uva, c’è un senso comune, secondo il quale quando qualcuno viene chiuso in una cella perde i suoi diritti, compreso quello alla tutela dell’integrità fisica”. Per il senatore Giovanardi la sentenza nega il pestaggio. “In Giovanardi la virtù cristiana della misericordia si è fatta odio sordo verso Stefano Cucchi e tante altre vittime. Il tribunale ha detto che Cucchi è stato picchiato, ma la procura non è stata in grado di esibire prove sufficienti per individuare i responsabili”. Giustizia: Stefano è entrato sano ed è uscito morto ammazzato… ha fatto tutto da solo? di Federica Angeli La Repubblica, 6 giugno 2013 C’è una grande speranza negli occhi di Giovanni Cucchi e della moglie mentre i magistrati, che di lì a qualche ora emetteranno la sentenza, sono riuniti in camera di consiglio. Girano sorridenti, un riso amaro ovviamente, nell’aula bunker di Rebibbia e parlano con serenità prima che il verdetto di primo grado li sommerga come una valanga. “Ho solo timore che le responsabilità delle guardie giurate vengano un po’ attenuate”, confida il signor Giovanni. “Sono fiducioso nei confronti della Corte e sono sicuro che nessuno uscirà di qui con un’assoluzione. Sono troppe le prove che sono state fornite e che hanno ben chiarito i contorni della vicenda”. Ma le sue “certezze”, che sin dall’inizio suonavano come speranze, naufragano qualche ora dopo, alle 17.34, non appena il presidente della III Corte d’Assise, finisce di leggere il verdetto. “È una sentenza vergognosa e inaccettabile - grida a quel punto Giovanni Cucchi. Tutti hanno visto come hanno ridotto Stefano e questo Stato non è stato in grado di fare indagini per trovare i colpevoli di questo assurdo delitto. Al professor Fierro (il direttore del reparto per detenuti del Sandro Pertini, ndr) hanno dato due anni che è la persona che ha la maggior responsabilità. Questo dice tutto. Noi non ci arrendiamo perché dobbiamo restituire dignità a Stefano”. “Me lo hanno ammazzato due volte - grida la madre di Stefano, tesa come una corda di violino per tutta la mattinata che esplode dopo la lettura del dispositivo. La verità è là dentro. Stefano è entrato sano ed è uscito morto ammazzato. Noi andremo avanti perché i colpevoli sono là dentro e devono uscire per forza. Fino a poco fa avevo fiducia nella giustizia, adesso non ce l’ho più”. “Abbiamo sentito che si è esultato tra le forze dell’ordine - prende di nuovo la parola il marito - È inaccettabile, dobbiamo fare autocritica e riflettere. Noi non siamo cittadini di serie b, la legge è uguale per tutti. Abbiamo aspettato tanto per arrivare a questa sentenza e ancora nessuno ci ha spiegato chi è stato a uccidere Stefano. È morto da solo? Questo dice la sentenza. Come si può sostenere tutto ciò? Come?”. Affranta ma battagliera come sempre Ilaria Cucchi, abbracciando i genitori, reagisce, ancora una volta, alle parole dei giudici. “Noi non ci arrendiamo, la nostra battaglia continua. Mio fratello è morto di ingiustizia - dice amaramente - I medici dovranno fare i conti con la loro coscienza, ma mio fratello non sarebbe morto senza quel pestaggio. La verità non è la giustizia, la verità la sappiamo noi” sostiene rivolgendosi ai tanti che per otto lunghe ore hanno atteso la sentenza sugli spalti dell’aula bunker stringendosi idealmente attorno a lei e ai suoi genitori. “Grazie mille di essere qui, continueremo la nostra battaglia, non ci arrendiamo”, sottolinea mentre in quattro sollevano un grande striscione di solidarietà: “Ilaria non sei sola, giustizia per Stefano”. Giustizia: Stefano Cucchi. L’essenza della questione…. entra vivo, esce morto Valter Vecellio Notizie Radicali, 6 giugno 2013 Per quel che riguarda la vicenda di Stefano Cucchi, le chiacchiere stanno a zero, e non c’è alcuna necessità di attendere le motivazioni della sentenza che ha mandato assolti agenti e infermieri, limitandosi a condannare (per “colpa” e non per dolo), alcuni medici dell’ospedale Sandro Pertini. La questione, al di là dei funambolismi giuridici, ridotta all’osso, è questa: un cittadino entra vivo in una istituzione dello Stato; ne esce morto. Il resto è il “di più” diabolico che non ci interessa sapere, che non vogliamo sapere. Non siamo disposti a transigere su una questione “elementare”: se lo Stato, attraverso una sua articolazione, priva un cittadino della sua libertà, automaticamente diventa garante e responsabile della sua incolumità, della sua integrità fisica e psichica. Senza se e senza ma.. Stefano Cucchi, privato della sua libertà - ripetiamo: poco importa il motivo per cui lo si è fatto - è entrato vivo; è uscito morto. È da qui che occorre partire, questi sono i termini della questione, questo è lo scandalo. E nello scandalo la sconcertante vicenda processuale, che si è trascinata per ben quattro anni, e siamo solo al primo grado. Quella di Stefano è la storia di un ragazzo morto mentre si trovava nelle mani dello Stato. Un ragazzo arrivato a pesare 37 chili, con il volto tumefatto, l’occhio destro rientrato nell’orbita, gonfio, con i segni evidenti del pestaggio patito. Prima di arrivare al Pertini, Cucchi ha avuto a che fare con carabinieri, agenti di custodia, magistrati. Nessuno si è reso conto delle condizioni di Cucchi, in quel lungo periodo di detenzione che precede il ricovero in ospedale? Sostenerlo è un’offesa alla nostra intelligenza, come un oltraggio è non aver individuato (non aver voluto individuare?) i responsabili di tale scempio. Responsabili che sono più d’uno: gli autori materiali del pestaggio, e chi l’ha coperto, chi ha visto e girato lo sguardo altrove, chi ha sentito e non ascoltato, chi ha taciuto, chi non ha fatto, potendo e anzi, dovendo, fare. Cucchi per tutti quei giorni ha disperatamente chiesto di poter parlare con il suo avvocato. Un diritto, tuttavia gli è stato negato. Questa grave violazione non la si può imputare ai medici. Stefano Cucchi ha subito un brutale pestaggio; questo pestaggio non può essere imputato ai medici. Non mancherà ora qualcuno che ci esorterà a non abbandonarci in frettolosi e superficiali giudizi, ci ricorderà che occorre conoscere le motivazioni che hanno portato i giudici della terza sezione della Corte d’Assise di Roma. In linea di principio e in generale, si tratta di “regole” sensate, che è bene osservare. In questo caso, però è tutto chiaro e “semplice”: Cucchi entra vivo, esce morto. Si può discutere, dibattere, chiarire, smentire, l’accaduto lo si può declinare in tanti modi. Ma il punto di partenza, incontrovertibile, indiscutibile, è sempre uno, lo stesso: Cucchi entra vivo, esce morto. Non è accettabile, non è giustificabile; non va accettato o giustificato. Cucchi siamo noi. Agenti assolti, pm verso l’appello “Aspettiamo le motivazioni non siamo stati sconfessati” La Repubblica, 6 giugno 2013 “Capiremo attraverso la lettura delle motivazioni la decisione della Corte e faremo le valutazioni di competenza del nostro ufficio”. È una sentenza che ha destato perplessità anche nella pubblica accusa quella della III Corte d’Assise. Per questo i pubblici ministeri Vincenzo Barba e Francesca Loy si riservano di ricorrere in appello contro l’assoluzione dei tre agenti della penitenziaria che, stando all’originaria ipotesi accusatoria, furono protagonisti del pestaggio di Cucchi. Per anni sono stati accusati dalla famiglia di Cucchi di aver avuto un atteggiamento blando nei confronti dei poliziotti, ma alla luce della decisione della Corte, sembrano essere stati fin troppo severi. I punti fondamentali dell’accusa erano due: la causa della morte legata all’incuria dei medici e le lesioni. “Noi abbiamo sempre ritenuto, ed è stato confermato dalla Corte d’Assise, che la causa della morte di Stefano Cucchi fosse legata all’incuria dei medici. Questa nostra tesi è stata confermata, perché al di là della qualificazione giuridica, in punto di fatto tutte quelle gravi carenze e omissioni avvenute nella degenza al Pertini sono state riconosciute con la sentenza di condanna seppur per omicidio colposo”. Quanto all’assoluzione dall’accusa di lesioni personali aggravate degli agenti? “Intanto è stato riconosciuto il secondo comma dell’articolo 530 del codice penale. Ovvero, l’equivalente della vecchia formula dell’insufficienza di prove. Ma il comma 2 significa che la prova è insufficiente a dimostrare il reato, non che non esista. E quando leggeremo le motivazioni della sentenza, avremo modo di capire meglio”. Capire perché è stata mandata al macero la testimonianza del detenuto Samura Yaya. Ingiusta la pena maggiore al responsabile del reparto: doveva andare a chi lo ha curato La Repubblica, 6 giugno 2013 Due anni e otto mesi per omicidio colposo. È questa la condanna più alta inflitta ieri dai giudici alla fine del processo di primo grado nei confronti di uno dei 12 imputati del caso Cucchi. Si tratta di Aldo Fierro, il direttore del reparto speciale per detenuti dell’ospedale Pertini in cui Stefano fu ricoverato il 17 ottobre 2009 e dove morì cinque giorni dopo. Avvocato Gaetano Scalise, i pm avevano chiesto 6 anni e 8 mesi per il suo assistito per abbandono di incapace. I giudici della III Corte d’Assise hanno ridotto sia la pena che il reato, derubricato in omicidio colposo. Eppure non mi sembra soddisfatto, è così? “Soddisfatto francamente non lo sono. Ma la decisione di derubricare il reato è sicuramente un primo passo. La sospensione condizionale della pena è un fatto positivo, ma certo non si capisce come mai sia stato condannato alla pena più alta il responsabile di un reparto e non chi, materialmente, si è occupato delle cure del paziente. Questo proprio mi sfugge”. La posizione del suo assistito si dice essere stata la più discussa nelle otto ore di camera di consiglio, è così? “Ritengo che l’allungamento dei tempi della camera di consiglio sia legata proprio alla spaccatura che c’è stata tra i giurati in merito al dottor Aldo Fierro. Questo ha fatto sì, a mio avviso, che la previsione del verdetto dalle 15 sia avvenuta due ore e trenta dopo”. Ricorrerà in Appello? “Attendiamo di leggere le motivazioni della sentenza, sono curioso di vedere il percorso argomentativo dei giudici e poi la impugnerò di sicuro”. Le lacrime di Ilaria: lo Stato si autoassolve, io non mi arrendo di Maria Novella De Luca La Repubblica, 6 giugno 2013 “Un massacro annunciato, questa è una giustizia ingiusta”, dice. E poi: “Scusa Stefano, per quello che hanno detto di te, per come hanno infangato la tua memoria”. Ilaria Cucchi piange, mentre la folla grida ai giudici: “Assassini”. Stringe i genitori in un lungo abbraccio, sono una cosa sola, stringe le mani di Lucia Uva, Domenica Ferulli, Claudia Budroni, madri, figlie, mogli, sorelle di altre “vittime di tortura, vittime dello Stato”. L’aula bunker di Rebibbia è un’arena di rabbia e dolore. Poi Ilaria torna se stessa, apparentemente fragile, assolutamente tenace. “Noi non ci arrendiamo, mio fratello Stefano è stato ucciso per la seconda volta, ma la battaglia continua”. Ilaria perché un massacro annunciato? “Perché invece di cercare la verità su chi ha ucciso mio fratello, chi doveva indagare in questi anni ha invece fatto un processo alla sua vita, ai suoi errori di ragazzo fragile. Con il risultato paradossale che da questa sentenza sembra che Stefano sia morto di malattia, di malasanità. E il suo corpo devastato dalle botte, seviziato, se lo sono già dimenticato tutti?”. La sentenza parla di colpe dei medici, assolve invece infermieri e agenti penitenziari. Lo “Stato” dunque è innocente. “In questi anni terribili, dopo la morte di Stefano, ho sentito sulla mia pelle con quale disprezzo noi, i parenti delle vittime, familiari di persone morte mentre erano in “custodia” dello Stato, veniamo trattati dalla Giustizia. Diventiamo noi gli imputati, la memoria dei nostri cari fatta a pezzi, questi processi sono un massacro, oggi capisco tutte quelle famiglie che non ce la fanno e si fermano, senza riuscire mai ad arrivare alla verità”. Lei però si aspettava un verdetto diverso? “Sì, certo, perché questo è il clima, lo Stato protegge se stesso, ma come si fa a negare la verità di fronte al corpo torturato di mio fratello? Stefano è morto in ospedale, è vero, ma è morto perché era stato picchiato senza pietà prima di arrivare in quel reparto del Pertini, dove l’hanno lasciato spegnere nella sofferenza, senza curarsi di lui, come se non fosse un essere umano. Credevo fosse evidente, invece i giudici hanno negato l’evidenza”. Sua madre ha detto che Stefano è stato ucciso per la seconda volta. Perché non vi credono? “Vorrei saperlo anch’io. Me lo domando ogni giorno e ogni notte, visto che voglio ancora sperare che si possa dimostrare la verità. Quella sera di quasi quattro anni fa, quando è uscito di casa, Stefano era sano e stava bene. Chi l’ha pestato allora? Chi l’ha ridotto nelle condizioni in cui è arrivato all’ospedale? Cosa è successo nelle celle di sicurezza? Ci sono perizie che dimostrano con chiarezza quello che ha subito Stefano. Ma evidentemente non sono bastate”. Ilaria, lei vuol dire che non c’è stata volontà di cercare fino in fondo i colpevoli? “Certo da questa sentenza sembra che Stefano sia morto per cause naturali... Il punto è che nelle aule dei tribunali, per Stefano, ma come già per Federico Aldrovandi, o per Giuseppe Uva, viene fatto il processo ai morti e non a chi li ha uccisi. È un meccanismo che si ripete, bugie, infamie, fango verso chi non c’è più e non può difendersi”. Cosa farete adesso? Per arrivare fin qui ci sono voluti tre anni, decine e decine di udienze, perizie, controperizie. I suoi genitori sembrano esausti. “Andiamo avanti, per Stefano. È naturale piangere di fronte ad un verdetto così assurdo, molti dovranno adesso guardarsi dentro, interrogare la propria coscienza. Dicono che è morto di malasanità, no, questa è malagiustizia. Sì sono stanca, i miei genitori sono stanchi, ma non siamo soli, le vittime di Stato sono tante, ci siamo uniti, erano tutti con me, in aula, questo mi dà la forza”. E Stefano? “Oggi sento che devo chiedere scusa a mio fratello. Perché l’ho trascinato in tutto questo, per quanto è stata offesa la sua persona e la sua memoria. L’hanno processato, da morto, senza chiedersi chi fosse, senza poterlo guardare negli occhi perché non c’era più, e invece di cercare i colpevoli l’hanno fatto diventare un imputato. Funziona così, chiedetelo agli altri familiari di vittime dello Stato. Traditi due volte. Ma avremo giustizia. Prima o poi”. Processo Cucchi: assolti gli agenti, in tribunale esplode la rabbia di Valentina Errante Il Messaggero, 6 giugno 2013 È stata una colpa medica. A uccidere Stefano Cucchi non sono state le botte e neppure la fame e la sete. A uccidere quel detenuto, a sei giorni dall’arresto, sono state la negligenza e l’imperizia del primario dell’Ospedale Sandro Pertini, Aldo Fierro, e del suo staff: Stefania Corbi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchis Preite e Silvia Di Carlo. Così ha stabilito ieri la terza Corte d’assise di Roma. Piange Ilaria Cucchi mentre il presidente, Evelina Canale, legge il dispositivo. Singhiozza, quando sente che i tre agenti della penitenziaria, accusati di avere picchiato suo fratello, sono stati assolti “per non avere commesso il fatto” e che persino il quadro delineato dalla procura, contro il quale si è battuta per oltre due anni, è alleggerito. Per i medici, accusati dal pm di abbandono di incapace, la condanna, invece, arriva per omicidio colposo. Rosita Caponnetti, la prima dottoressa che visitò Cucchi al suo ingresso in ospedale, imputata per le bugie riportate sulla cartella clinica di quel paziente dimagrito dieci chili in sei giorni, è condannata per falso. Assolti anche gli infermieri del Pertini. E così dopo quasi otto ore di camera di consiglio il verdetto è quello temuto dalle parti civili e auspicato dalle difese. Le parole dei familiari di Stefano e l’urlo “assassini” di alcuni giovani di Rifondazione, in aula per assistere all’ultima udienza, raccontano la fine di una lunga battaglia, che la famiglia di Stefano porta avanti per quasi quattro anni. Grida anche Lucia Uva, sorella di Giuseppe, morto nel 2008 dopo l’arresto. È arrivata da Varese. Fanno da controcanto i sorrisi soddisfatti degli imputati assolti. La più alta è di due anni, per il primario Fierro. Mentre Corbi, Bruno, De Marchis Preite e Di Carlo sono stati condannati a un anno e quattro mesi di reclusione. Otto mesi per Rosita Caponetti, accusata di falso, per le annotazioni sulla cartella clinica di Stefano. Concesse a tutti le attenuanti generiche e la sospensione della pena. I cinque medici condannati per omicidio colposo dovranno risarcire il papà e la mamma di Stefano con 100 mila euro a testa, Ilaria con 80mila, mentre 20 mila euro ciascuno è la provvisionale stabilita per i due nipotini di Stefano, oltre alle spese legali. Assolti gli agenti penitenziari, Nicola Menichini, Corrado Santantonio e Antonio Domenici e gli infermieri, Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe. Aspetteranno le motivazioni, ma è chiaro che i pm Vincenzo Barba e Francesca Loy faranno appello contro l’assoluzione degli agenti: “Non ci soddisfa”, dice Barba. Poi aggiunge: “La Corte d’assise ha confermato, come ha sempre sostenuto la procura, che la morte di Cucchi è stata determinata dall’incuria dei medici. E poco importa che sia cambiato il reato. Quanto all’assoluzione dei tre agenti della penitenziaria, cui avevamo attribuito le lesioni personali aggravate, va detto che è stata fatta ai sensi del secondo comma dell’articolo 530 del Codice di procedura penale, l’equivalente della vecchia formula dell’ insufficienza di prove. Questo punto, che non ci lascia soddisfatti, sarà oggetto di nostra valutazione, quando avremo modo di leggere le motivazioni”. Per la procura, non si può non considerare la testimonianza del detenuto Samura Ben Yaya, il detenuto che aveva udito le “botte”, corroborata da altri elementi di prova, come il sangue sui pantaloni di Cucchi. Io, agente penitenziario non ho picchiato nessuno di Valentina Errante Il Messaggero, 6 giugno 2013 L’angoscia di questi tre anni non la scioglie neppure dopo l’assoluzione. E ora si sfoga Corrado Santantonio, uno degli agenti della penitenziaria finito sotto processo per il “pestaggio” di Stefano Cucchi, difeso dall’avvocato Corrado Oliviero. Ieri è stato assolto ma la sua vita - dice - è stata distrutta. E non basta il verdetto della Corte d’assise a restituirgli serenità. È soddisfatto? “Non sono contento. Se è questa la domanda. Io e la mia famiglia siamo solo sollevati da un’angoscia terribile, da un attacco mediatico che non auguro neppure al mio peggior nemico. Perché nessuno di voi giornalisti si è mai preoccupato di sentire la nostra voce. Noi, gli agenti della penitenziaria, siamo persone perbene. Faccio da 35 anni questo lavoro. Ho avuto anche un’onorificenza dal presidente della Repubblica e non mi sono mai sognato di picchiare nessuno. Ho sempre aiutato le persone più deboli di me e sono stato indicato da voi come un delinquente”. Lei è uno degli agenti che ha portato Cucchi al processo, no? “Ogni anno da piazzale Clodio passano migliaia di detenuti. Cucchi io neppure me lo ricordo, non era neanche sotto la mia custodia. Se fosse successo a un detenuto sarebbe stato di mia competenza, ma gli arrestati, che devono essere processati per direttissima sono sotto la custodia di carabinieri e polizia, di quelli che li arrestano. Leggetevi le perizie. È morto per malnutrizione, così dicono gli esperti, e da noi non ha subito nulla, perché nelle celle di piazzale Clodio vengono trattati tutti come dei signori, non c’è mai stato un caso così eclatante. Credo che qualcuno abbia speculato su questa morte”. Il carabiniere che aveva arrestato Cucchi ha dichiarato che stava bene, cosa è successo dopo? “Io non lo so. Ma non è vero che stava bene, i segni sono le conseguenze della morte. Andrebbero letti bene gli atti del processo. Comunque quello che posso dichiarare è che nelle celle del Tribunale una cosa del genere non è mai accaduta e voi ci avete rovinato la vita”. Si aspettava l’assoluzione? “Ci speravo, certo, ci ho pensato in tutti questi anni. Cercavo di immaginare come sarebbe andata a finire. Ma ero quasi sicuro, perché passa il tempo ma alla fine la giustizia prevale. La verità viene a galla sempre”. I genitori di Stefano: “Ci sentiamo cittadini di serie B, traditi dalla giustizia” Il Messaggero, 6 giugno 2013 Il pianto di Ilaria Cucchi investe l’aula bunker. Il suo avvocato, Fabio Anselmo, l’aveva avvertita. La sorella di Stefano conosceva l’articolo del codice che trasformava l’accusa pesantissima di abbandono di incapace in omicidio colposo. Un cambiamento che dalla Corte d’Assise sposta il processo a un tribunale monocratico. Abbraccia Anselmo singhiozza, piangono anche la mamma di Stefano, Rita Calore, e il papà, Giovanni: “Oggi noi siamo cittadini di serie B”, dice. Per Ilaria dura un attimo, poi torna quella di sempre, sicura, agguerrita, nasconde le lacrime alle telecamere: “Oggi siamo stati traditi dalla giustizia, ma la mia battaglia non è stata inutile. Andremo ancora avanti. Anche se questa sentenza è un oltraggio. Vogliono dirmi che mio fratello sarebbe morto allo stesso modo a casa sua? In questi anni è stato fatto un processo a Stefano e alla nostra famiglia. Hanno tirato fuori anche il cane, sostenendo che noi l’avessimo abbandonato. Stanno affermando che è morto per droga? Allora diciamo che aveva ragione l’onorevole Giovanardi, che era solo un tossicodipendente”. Anche Giovanni e Rita piangono, anche loro erano stati avvisati che il rischio era alto. Ripetono le stesse frasi come un mantra. Rita Calore lo dice tra le lacrime: “Chi è stato allora a ridurre mio figlio in quelle condizioni? È morto tra le quattro mura dello Stato, io ho avuto fiducia nella giustizia. Ma oggi Stefano è stato ucciso per la seconda volta. Io aspetto, mi devono dire chi è il responsabile. Adesso andremo avanti”. Poi Rita aggiunge: “Noi siamo partiti, con l’intenzione di conoscere la verità e ce la metteremo tutta. Oggi è stata raccontata un’altra cosa. Un ragazzo non può essere massacrato mentre è sotto tutela dello Stato, senza un vero responsabile. Ho dato mio figlio in perfetta salute, me l’hanno restituito morto. Stefano al Pertini non sarebbe arrivato, se prima non fosse stato picchiato. Io voglio sapere. Abbiamo il sacrosanto diritto di conoscere la verità: rifacessero le indagini, facciano quello che vogliono. Continuo ad avere fiducia nella giustizia. Lo Stato che non ha saputo tutelarlo faccia ammenda, perché loro sanno cosa è successo”. A ripetere con parole diverse lo stesso dolore è il papà: “Non abbiamo desiderio di vendetta. Stefano ha fatto tanti errori e ha sempre pagato il conto. Questo non è riuscito a pagarlo. L’ultima volta che l’ho visto in Tribunale, con il volto tumefatto, mi ha abbracciato con le manette ai polsi, mi ha detto: papà mi hanno incastrato. Gli ho risposto che non era così. Invece aveva ragione. Ci sono cittadini di serie A e altri di serie B”. Giustizia: la famiglia Cucchi “Sentenza ingiusta, ma andiamo avanti” di Marina Della Croce Il Manifesto, 6 giugno 2013 Sei imputati su dodici assolti, chi per insufficienza di prove, come gli agenti della penitenziaria, chi per non aver commesso il fatto, come gli infermieri dell’ospedale Pertini di Roma. Altri sei, i medici dello stesso ospedale, si vedono invece derubricare il reato da abbandono di incapace al meno grave omicidio colposo, con conseguente riduzione della pena (per altro sospesa). Sono le sei del pomeriggio e nell’aula bunker di Rebibbia, dove la III corte d’Assise ha appena chiuso il processo per la morte di Stefano Cucchi, esplode la rabbia. Ilaria, la sorella di Stefano, non riesce a trattenere le lacrime e la stessa cosa succede a Giovanni e Rita, il papa e la mamma del giovane geometra morto nell’ottobre del 2009 una settimana dopo essere stato arrestato per possesso di droga. “Mio fratello è morto di ingiustizia”, si sfoga Ilaria abbracciata all’avvocato Fabio Anselmo, il legale che da tre anni le è accanto in questa battaglia alla ricerca della verità. “Si tratta di una pena ridicola rispetto alla vita umana. Sapevamo che nessuna sentenza ci avrebbe dato soddisfazione e restituito Stefano, ma calpestare mio fratello e la verità cosi... non me l’aspettavo. Oggi capisco quelle famiglie che non affrontano questi processi perché sono dei massacri”. Intorno a lei, nell’aula, il pubblico urla contro i giudici: “Assassini siete voi”. “Massacro”. Le stesse parole di Ilaria le aveva usate l’avvocato Anselmo all’inizio di questa brutta storia. I legale è a dir poco furioso mentre lo ricorda parlando con i cronisti. Avevo detto: “Andiamo al massacro e al massacro siamo andati”. Questo è un fallimento dello Stato, perché considerare che Stefano Cucchi è morto per colpa medica è un insulto alla sua memoria e a questa famiglia che ha sopportato tanto. In questo processo lo Stato non ha risposto. Ad esempio non sono stati identificati gli autori del pestaggio. Neanche lui, però, poteva forse immaginare una sentenza così mite. I cinque medici che devono rispondere di omicidio colposo sono Aldo Fierro, condannato a 2 anni, Stefania Cordi, Flaminia Bruno, Luigi De Marchi e Silvia Di Carlo condannati a 1 anno e 4 mesi. Il sesto medico, Rosita Caponetti, è invece accusata di falso ideologico e per questo è stata condannata a 8 mesi. Pena sospesa per tutti. I primi cinque inoltre dovranno risarcire con 100 mila euro ciascuno i genitori del giovane romano, e con 80 mila euro Ilaria, più 20mila euro ciascuno ai due nipoti. Sette ore di camera di consiglio non hanno solo distrutto gli sforzi fatti dalla parte civile per dimostrare che la vera causa della morte di Stefano fu il pestaggio subito nei sotterranei del tribunale, dove aspettava l’udienza per la convalida del suo arresto. Ma ridotto, addirittura di due terzi, le richieste avanzate dalla stessa procura, convinta invece che il giovane geometra sia morto per non essere stato curato adeguatamente nel reparto detentivo del Pertini dove era ricoverato. “L’assoluzione dei tre agenti penitenziari non ci lascia soddisfatti e sarà oggetto di nostra valutazione”, ha commentato ieri il Pm Vincenzo Barba che ha espresso invece soddisfazione per le condanne. “La Corte ha confermato che la morte di Stefano Cucchi è dovuta all’incuria dei medici; poco importa che sia cambiato il reato”, ha detto il magistrato. Bisognerà aspettare le motivazioni della sentenza per capire il perché delle condanne, ma è chiaro che i giudici hanno ignorato, o giudicato non convincenti, i referti che attestavano come le lesioni ritrovate sul corpo di Stefano fossero una conseguenza del pestaggio. E creduto, invece, alla perizia del tribunale secondo la quale il giovane sarebbe morto per denutrizione in ospedale. È probabile adesso che la procura farà appello. Di sicuro lo farà la famiglia Cucchi, intenzionata a non cedere. “Andremo avanti”, dice infatti Ilaria. “Me l’hanno ucciso un’altra volta. Andremo avanti fino in fondo, troveremo la verità, chi è stato un fantasma a farlo morire?” conferma la madre, Rita Calore mentre Giovanni, il padre, ha accusato la procura di non “aver fatto indagini adeguate”. All’uscita dall’aula Ilaria viene accolta da un applauso dei manifestanti: “Non ti lasciamo sola” le dicono. “Noi la verità la sappiamo” è la risposta. “Stefano è morto di ingiustizia Un caso di violenza, tortura e morte giudicato come una vicenda di malasanità. Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, non ha pace quando pensa alla sentenza di primo grado sull’omicidio di Stefano Cucchi: “Fin da subito l’inchiesta è apparsa debole - dice - senza alcuna identificazione certa di chi si è macchiato del pestaggio di Cucchi”. Per il segretario dei radicali italiani Mario Staderini “la Repubblica italiana è responsabile della morte di Stefano Cucchi. Bisogna individuare le responsabilità a cominciare dagli autori del pestaggio”. Sandro Medici, di Repubblica Romana, parla di “omicidio di Stato” e denuncia “la reticenza di Stato che protegge con l’impunità dell’assoluzione la ferocia di chi ha infierito sul corpo di Stefano”. Amnesty International Italia attende di conoscere le motivazioni della sentenza: “Auspichiamo che eventuali altre responsabilità per la morte di Stefano Cucchi possano essere accertate in successivi gradi di giudizio”. Tra le reazioni alla sentenza si è particolarmente distinto il senatore Pdl Carlo Giovanardi secondo il quale “il tempo è galantuomo e fa giustizia del linciaggio mediatico a cui sono stati sottoposti gli agenti di custodia sulla base di pregiudiziali ideologiche”. “Giovanardi ha perso, per l’ennesima volta, una buona occasione per stare zitto - ha risposto Luigi Manconi (Pd) - la sentenza è grave perché riduce una tragica vicenda di un giovane uomo passato attraverso undici istituzioni dello Stato, tra caserme e celle, ad un ordinario caso di malasanità”. Testa (Radicali): introdurre reato tortura “Nel Paese del caso Cucchi e di tutti gli altri casi di persone che sono cadute e cadono ogni giorno vittima di un sistema che nella sua illegalità diffusa si dimostra spesso violento, nonostante siano passati 25 anni da quando il nostro Paese ha ratificato la Convenzione Onu contro la tortura e altre pene e trattamenti inumani e degradanti, ancora nell’ordinamento italiano non è stato introdotto un reato specifico, come richiesto dalla Convenzione, che la sanzioni”. Così Irene Testa, segretario dell’associazione radicale Detenuto Ignoto: “È un fronte che ci vede impegnati da anni, per cui, come Radicali, abbiamo tentato con tutti gli strumenti legislativi e non, di sanare questo vuoto normativo, questa ennesima offesa della Repubblica nei confronti del diritto internazionale e, dunque, dello stesso diritto nazionale. Ritengo importante ricordare ai nostri legislatori, alla politica e all’informazione, che una norma di civiltà giuridica e sociale aspetta da 25 anni di essere infine promulgata, mentre il resto del mondo civile e le Nazioni Unite ci osservano”. Sappe: agenti assolti per la vicenda Cucchi, Amministrazione penitenziaria silente... “Prendo atto che l’Amministrazione Penitenziaria non ha inteso assumere alcuna pubblica posizione sugli esiti giudiziari della triste vicenda di Stefano Cucchi. Il Capo del Dap Giovanni Tamburino, lautamente pagato come Capo della Polizia Penitenziaria pur non avendone mai indossato la divisa, non ha ritenuto di dover dire alcunché ai tre poliziotti assolti dopo 3 anni e mezzo di gogna mediatica. Agenti assolti nell’indifferenza dei piani alti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, affollati da dirigenti che trascurano chi affronta e combatte ogni giorno - nella prima linea delle sezioni detentive delle carceri, a bordo dei mezzi che trasportano i detenuti, nelle sale degli Ospedali in cui piantonano i detenuti ricoverati - le gravi criticità penitenziarie che si caratterizzano per il pesante sovraffollamento e la consistente carenza dei nostri organici. Uomini e donne che sono obbligati ad effettuare turni di lavoro straordinario senza vedersi corrisposti i relativi emolumenti economici ed a anticipare le spese nei servizi di traduzione, compiuti spesso su mezzi fatiscenti ed inadeguati. Evidentemente al Dipartimento l’unico pensiero predominante è quello, sbagliato, della vigilanza dinamica delle carcere (e cioè meno agenti per più posti di servizio) e dei patti di responsabilità dei detenuti (ossia, carceri autogestite dai ristretti)”. Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa Organizzazione di Categoria. Capece sottolinea infine che il Sappe chiederà al Ministro Guardasigilli Annamaria Cancellieri di “commissariare il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, visto che il Capo Dipartimento Tamburino ed il vice Pagano sembrano preoccuparsi solo della propria poltrona. Basta con i burocrati che hanno boicottato e boicottano subdolamente e costantemente una non più rinviabile, adeguata e funzionale organizzazione del Corpo di Polizia penitenziaria con l’istituzione della Direzione generale del Corpo, in seno al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, indispensabile e necessaria per raggruppare tutte le attività ed i servizi demandati alla quarta Forza di Polizia del Paese”. Osapp: sentenza Cucchi, la politica dell’odio non paga “Come sindacato della Polizia Penitenziaria abbiamo sempre sostenuto che nella morte di Stefano Cucchi gli appartenenti al Corpo non hanno alcuna responsabilità e che la Giustizia vera si debba affermare nella aule del Tribunale e non altrove, meno che mai nelle piazze ed è per questo che la sentenza di ieri della Corte di Assise di Roma ci rende per la gran parte soddisfatti.” ad affermarlo è Leo Beneduci segretario generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria”. “Non ci rende per niente soddisfatti, invece, viste anche le grida e le invettive in aula - prosegue il leader dell’Osapp - il fatto che gli anni di sereno confronto e di dibattito democratico sul “caso” Cucchi, a cui anche noi abbiamo partecipato, non siano serviti a far comprendere che, nella gravissima emergenza del carcere in Itala e nel degrado penitenziario che l’inerzia politica mantiene tale, la Polizia Penitenziaria costituisca l’unica reale risorsa al servizio dei Cittadini.” “Pur volendo ulteriormente comprendere la rabbia di chi legittimamente cerca cause e responsabilità nella morte di un proprio caro - conclude Beneduci - non possiamo esimerci dallo stigmatizzare totalmente quelle politiche di parte che fanno dell’odio indiscriminato nei confronti dei fedeli servitori dello Stato e della Collettività la propria unica ragione di esistenza.” Ordine Medici Roma: responsabilità è del sistema “Sono stati trovati capri espiatori per la morte di Stefano Cucchi, ma la responsabilità è del sistema”. Lo sostiene Roberto Lala, presidente dell’Ordine provinciale di Roma dei medici-chirurghi e degli odontoiatri, commentando la sentenza del processo sul caso Cucchi. Una decisione, quella dei giudici, “che lascia più che perplessi”, dice Lala che - pur non volendo entrare nel merito dei fatti e senza prima avere “esaminato compiutamente le motivazioni della sentenza” - sottolinea come “il capro espiatorio sia solo il medico, cioè l’anello più debole di tutta la catena di responsabilità in questo drammatico caso”. L’Ordine dei camici bianchi capitolini più di una volta ha rimarcato le carenze e i rischi dell’attuale sistema carcerario, per un detenuto che si trovi anche nella condizione di paziente. “L’abbiamo detto ripetutamente durante questo lungo processo: un paziente recluso non può essere assistito come il nostro dovere e la nostra coscienza ci impongono. Possiamo assumerci ogni responsabilità quando siamo nella condizione di esercitare senza ostacoli o limitazioni il nostro ruolo, non quando ciò non è pienamente possibile. E nel caso di Cucchi non lo era”, sottolinea con forza Lala. “Parlare di abbandono del paziente è quindi veramente fuori luogo, ingiusto e fuorviante”. Alla luce di questa sentenza, l’Ordine di Roma torna a proporre un dibattito nazionale sul sistema di detenzione nei casi in cui un recluso abbia necessità di assistenza medica: “Scaricare oggi tutto sulle spalle della nostra categoria e dei colleghi condannati con questa sentenza, oltre a lasciare veramente perplessi circa la catena di responsabilità che è stata saltata, non fa altro che mettere la polvere sotto il tappeto: il problema rimane e si potrà riproporre in casi analoghi. Noi non ci stiamo e vogliamo dare un contributo affinchè il sistema sia cambiato e possa tutelare i pazienti detenuti”, è la richiesta di Lala. “Mi trovo d’accordo con quanto dichiarato dall’avvocato della famiglia Cucchi - conclude il presidente dei medici di Roma - cioè che considerare che Stefano Cucchi è morto per colpa medica è un insulto alla sua memoria e a questa famiglia che ha sopportato tanto. È un insulto alla stessa giustizia”. Lettere: invisibili dietro le sbarre di Ruggero Botto, carcere di Terni Il Manifesto, 6 giugno 2013 Sono un “vecchio” compagno di Roma, attualmente detenuto, dopo vari trasferimenti, presso il carcere di Terni. Il vostro giornale mi arriva gratuitamente, anche se non sempre lo ricevo e non so se questo dipende dalle Poste o dallo stesso carcere. Non è la prima volta che vi scrivo, spesso senza riscontro, ma torno a farlo per invitarvi a parlare di più della situazione nelle carceri, dei suicidi dei detenuti o presunti tali, delle indicibili condizioni carcerarie, della malasanità, della non applicazione delle misure alternative alla detenzione, ecc. Situazioni che conoscete e che proprio per questo vi esorto a parlarne con più attenzione. Gli altri quotidiani hanno costruito un muro di silenzio e di indifferenza rispetto a tutto quello che rappresenta il carcere e a chi è costretto a viverci. Almeno voi, da sempre al fianco dei più deboli, dei meno garantiti e dei senza voce, potreste mettere in evidenza una situazione drammatica che produce disperazione e morte? Perché di carcere ci si ammala. Perché di carcere si muore! Spero prendiate in considerazione queste parole, me lo auguro anche a nome dei circa 60.000 detenuti costretti a vivere in condizioni disumane. Piemonte: scende la notte sul Garante dei detenuti (e in Consiglio) www.lospiffero.com, 6 giugno 2013 La maggioranza forza i tempi e impone la seduta serale per abrogare la figura di tutela dei carcerati. Protestano le opposizioni: “Decisione insensata, hanno perso la bussola”. Competenze al difensore civico. Radicali: “Manco fosse superman”. Tappe forzate in Consiglio Regionale per approvare la legge che abroga il garante dei detenuti, affidando le competenze al Difensore Civico, che assumerebbe anche quelle attualmente assegnate al garante dell’infanzia e a quello degli animali. L’intenzione del centrodestra, promotore dell’iniziativa legislativa, è quello di approvare il testo entro la prossima settimana e a tal fine ha chiesto e ottenuto la convocazione di una seduta serale dell’assemblea. Una decisione contestata dalle opposizioni, che la giudicano fuorviante rispetto alle vere emergenze che dovrebbero guidare i lavori d’Aula. “Non ci siamo mai opposti, di fronte a problemi e provvedimenti urgenti, a svolgere sedute serali e notturne del Consiglio regionale - spiega il capogruppo Pd Aldo Reschigna. Ma la decisione della maggioranza di prevedere la seduta serale, martedì prossimo, per discutere della legge che vuole abrogare il garante dei detenuti ci pare una cosa insensata, che dà la misura di come il centrodestra abbia perso la bussola”. Per l’esponente democratico “di fronte a un Piemonte in così profonda sofferenza e a uno stato della Regione che evidentemente ha bisogno di profondi correttivi, la maggioranza non trova altro di meglio che intestardirsi sul garante dei detenuti. Una figura utile, a un costo molto basso, meno di trentamila euro all’anno, e che peraltro, non essendo stato ancora nominato per il veto del centrodestra, non pesa per un solo euro sulle casse regionali”. Eppure il centrodestra vuole discuterne fino a mezzanotte. “Si rinvia il riordino delle partecipate, aspettiamo un assestamento di bilancio che sicuramente sarà in ritardo di mesi, ma sul garante che non c’è no, non si può transigere. Occorre eliminarlo prima ancora di nominarlo - prosegue Reschigna. Se questo ha un senso, non riusciamo a trovarlo. Se non il segno di un governo regionale che non sa più da che parte girarsi, e si muove scompostamente per far vedere che esiste”. La posizione della maggioranza pare irrevocabile: con questi chiari di luna e le casse in sofferenza, meglio riunire tutte le competenze sotto un unico cappello, quello dell’ombudsman regionale. Una scusa “meschina e falsa” a giudizio dei Radicali, da sempre in prima linea nel difendere l’utilità del garante delle carceri, ruolo per il quale hanno avanzato la candidatura di un loro compagno di partito, l’ex consigliere regionale Bruno Mellano. “Vogliamo smascherare la grande ipocrisia che si nasconde dietro il tentativo di affibbiare al difensore civico regionale le funzioni di garante dei carcerati, dell’infanzia e degli animali - attaccano Igor Boni, presidente dell’associazione Aglietta, e Giulio Manfredi, del Comitato nazionale. È risaputo che già ora il difensore civico regionale non riesce a stare dietro a tutte le istanze e proteste che arrivano al suo ufficio: la sola materia sanitaria richiederebbe il lavoro non di uno ma di almeno due difensori civici. E ora gli si vogliono dare le competenze anche di tre garanti? Poi gli daranno anche il mantello di Superman con i super poteri?”. Strumentale è anche la questione relativa ai compensi: “I recenti aumenti concessi al difensore civico regionale e ai membri del Corecom sarebbero sufficienti a pagare uno stipendio dignitoso, senza strafare, al garante regionale delle carceri. Una prova in più che la grande ragione addotta per fare fuori il garante (“c’è la crisi, dobbiamo risparmiare”) è una scusa meschina e falsa”. Gli esponenti radicali rivolgono un appello alle possibili voci discordanti interne al centrodestra: “Cari consiglieri Leo e Burzi, è il momento di uscire fuori dal coro, come avevate fatto quando avevate ritirato la firma dalla proposta “ammazzagaranti”. La Regione Piemonte non può dare un segnale così negativo nei confronti del mondo carcerario a pochi giorni di distanza dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo che ha confermato la condanna dell’Italia per la situazione vergognosa delle sue carceri, dando alle istituzioni italiane un anno di tempo per il rientro nella legalità”. Sanremo (Im): immigrato muore dopo l’arresto, giallo su cause decesso Tm News, 6 giugno 2013 È giallo sulle cause del decesso di Bohli Kaies, l’immigrato tunisino di 36 anni morto ieri sera all’ospedale di Sanremo poco dopo essere stato arrestato dai carabinieri. Secondo quanto ricostruito dalla Procura di Sanremo, che ha aperto un’indagine sull’accaduto, il giovane nordafricano sarebbe stato fermato in un supermercato della zona con 100 grammi di eroina e avrebbe ingaggiato una colluttazione con i militari nel tentativo di sottrarsi all’arresto. Il 36enne sarebbe poi stato caricato su un’auto di servizio per essere portato in caserma ma durante il tragitto avrebbe accusato un malore. I carabinieri hanno subito chiesto l’intervento dei sanitari della Croce Verde, che lo hanno trasferito al pronto soccorso dell’ospedale di Sanremo, dove il suo cuore ha cessato di battere. Sul corpo dell’immigrato non sarebbero state riscontrate fratture ma soltanto una piccola ecchimosi sullo zigomo destro e dei graffi e delle piccole contusioni su entrambe le mani, compatibili con la colluttazione avvenuta durante l’arresto. I valori ematici e i risultati delle analisi di routine effettuate all’arrivo in ospedale porterebbero ad escludere anche un problema cardiaco. Per sapere le cause del decesso bisognerà dunque attendere l’esito dell’autopsia. Firenze: dall’Asl di Empoli progetto sulla prevenzione del disagio psichico nelle donne detenute Adnkronos, 6 giugno 2013 “Penelope” è il nome del progetto proposto dalla Asl 11 di Empoli e finanziato dalla Regione Toscana per dare assistenza alle detenute femminili della Casa circondariale di Empoli riguardo alla prevenzione del disagio psichico. Progetto e relativo finanziamento (poco più di 25mila euro) sono stati approvati durante l’ultima seduta delle giunta regionale. Le finalità di “Penelope” rientrano negli obiettivi contenuti nel Piano Sanitario e Sociale Integrato Regionale 2012-2015 che, tra le sfide per la salute in carcere, prevede la condivisione con l’Amministrazione Penitenziaria l’adozione di scelte politiche che pongano attenzione particolare all’ambiente, ai luoghi di vita, alla formazione, al lavoro, alle relazioni ed in generale a tutti i fattori che possono migliorare le condizioni di vita della popolazione detenuta e prevenire il disagio psichico. Le azioni consistono anzitutto nel favorire nelle donne la crescita di una consapevolezza critica riguardo alle condotte antigiuridiche che ne hanno determinato la detenzione, stimolarne una volontà di cambiamento ed acquisire capacità e competenze specifiche che potranno essere utilizzate in un futuro reinserimento sociale e lavorativo. Quest’ultima, in particolare, verrà realizzata attraverso corsi di formazione e alfabetizzazione informatica che prevedono, al termine della frequenza, il rilascio dell’Ecdl, nota anche come Patente europea per l’uso del computer. Le detenute, una volta ottenuto il riconoscimento, potranno svolgere alcune mansioni amministrative individuate dalla Asl attraverso l’utilizzo di 5 postazioni pc allestite all’interno della Casa circondariale. La Casa circondariale ospita di norma tra le 15 e le 25 donne con una condanna o residuo di pena non superiore ai 5 anni. In genere sono donne con età media di 35 anni, metà italiane e metà straniere. L’istituto si caratterizza per un regime di trattamento avanzato, le persone ammesse devono avere un buon grado di autonomia e autogestione. Sotto il profilo giuridico molte delle detenute sarebbero in grado di accadere ai vari benefici (alcune di loro ad esempio usufruiscono di permessi) e quasi la metà anche di svolgere attività all’esterno. Secondo gli ultimi dati in possesso, al 1 gennaio 2013 ci sono 24 detenute. In quest’ottica “Penelope” punta principalmente a realizzare alcune azioni che permettano alle detenute di tenere stili di vita tali da non rendere necessario l’accesso ai servizi di salute mentale. Alessandria: i detenuti del carcere di San Michele diventano panificatori La Stampa, 6 giugno 2013 “Pane libero”, “pane quotidiano”: questi i nomi, non a caso, delle fragranti pagnotte che vengono sfornate ogni giorno nella Casa di Reclusione di Alessandria San Michele. Da alcuni mesi il forno a legna rotante di cinque metri di diametro (uno dei più grandi del Piemonte) lavora a pieno ritmo nella Casa di Reclusione. Furgoncini partono per la consegna del pane biologico, lievitato naturalmente con lievito madre da farine macinate a pietra, nei 24 supermercati Coop di Piemonte, Liguria e Lombardia che hanno già aderito al progetto. In un prossimo futuro la produzione si moltiplicherà per appassionare i buongustai delle tre regioni. L’ambizioso progetto, ideato e realizzato con la Casa di Reclusione dalla Cooperativa Sociale Pausa Café in collaborazione con Eataly e Coop Consorzio Nord Ovest e finanziato dalla Compagnia di San Paolo di Torino, ha coinvolto tutto il personale dell’Istituto. La Dottoressa Elena Lombardi Vallauri, direttore della Casa Circondariale di San Michele, evidenzia il fatto che la realizzazione del progetto ha animato positivamente i detenuti, sia quelli coinvolti personalmente nel lavoro sia quelli che semplicemente ne sono a conoscenza, perché da sempre il pane è il segno della condivisione sotto molti punti di vista, che all’interno di una struttura penitenziaria non può che sollevare gli animi con proficui effetti educativi. L’organizzazione prevede il lavoro, anche notturno, per 5 detenuti assunti dalla Cooperativa, che appresa l’arte, sono adesso in grado, autonomamente, di produrre, secondo le istruzioni del maestro d’arte Giovanni Mineo il pane. “La Cooperativa Sociale Pausa Café promuove il lavoro intramurario come strumento di riscatto personale e sociale. In carcere si possono valorizzare competenze e formare professionalità, restituendo persone al territorio e prevenendo la recidiva” sostiene il Presidente Marco Ferrero. L’obiettivo ancora da realizzare è l’assunzione di altri tre detenuti per il lavoro al forno (preparazione, cottura e confezionamento) e aumentare le ore di lavoro e la produzione in misura adeguata a rifornire tutti i punti vendita Coop di Piemonte, Liguria e Lombardia. La notizia di questo i progetto, finalizzato a conciliare l’attività rieducativa dei detenuti con un lavoro che porta frutti evidenti con favorevoli ricadute economiche a pioggia che coinvolgono tutti i soggetti interessati, ha attirato l’attenzione di Rai 1 e della sua nota giornalista Anna Scafuri che ha realizzato, all’interno del penitenziario alessandrino, un reportage che sarà trasmesso la sera di venerdì 7 giugno alle 23.00 circa nel programma di approfondimento TV7. La Dottoressa Elena Lombardi Vallauri, ringraziando la Polizia Penitenziaria e tutti i suoi collaboratori, sottolinea che è questa una preziosa occasione per conoscere e comprendere il carcere e la molteplicità di azioni utili che, tra le sue mura, tendono alla sicurezza della società attraverso la diretta sperimentazione dei valori che sono il fondamento del vivere civile responsabile, dando vita allo slogan “lavoro serio e onesto per un carcere migliore”. Roma: detenuto morto per emorragia cerebrale a Regina Coeli, due medici a giudizio Tm News, 6 giugno 2013 Non doveva stare in carcere Domenico Stelitano, morto a Capodanno del 2008 per una emorragia cerebrale dovuta all’assunzione di una farmaco anticoagulante. Per questo il gup Fattori del tribunale di Roma, su richiesta del pm Attilio Pisani, ha mandato a giudizio i dottori Giuseppe Tizzano, medico di Regina Coeli; e Giovanni Ferri, in servizio all’assistenza sanitaria del tribunale di piazzale Clodio. La Procura aveva chiesto il giudizio anche di altri 3 camici bianchi, ma le accuse nei confronti di questi sono state lasciate cadere. Il processo a carico di Tizzano e Ferri comincerà a Maggio del 2014. Stelitano aveva 67 anni. Venne arrestato dalla polizia perché trovato in possesso di un’arma. “Da quell’accusa è stato completamente assolto. Ma purtroppo quando era già morto”, spiega l’avvocato Francesco Romeo. Stelitano in alcuni procedimenti a suo carico era ritenuto appartenente alla cosca calabrese dei Morabito di Africo e conosciuto con il soprannome di ‘u ragiuneri. Secondo il pubblico ministero Pisani “condotte colpose tra loro indipendenti” hanno concorso a determinarne la morte. La somministrazione della medicina e il mancato monitoraggio successivo sono stati fatali. La moglie ed i figli di Stelitano si sono costituiti parte civile con l’assistenza dell’avvocato Romeo. In base a diverse consulenze medico legali e perizie i medici finiti a giudizio avrebbero dovuto accorgersi dello stato in cui versava Stelitano. Gorizia: persone private della libertà, don Alberto eletto “Garante” Il Piccolo, 6 giugno 2013 Don Alberto De Nadai è il Garante provinciale dei diritti dei detenuti o, meglio, delle persone private della libertà personale. È stato eletto la scorsa notte, al termine di una lunga seduta del Consiglio provinciale. La figura era stata proposta a ottobre con un ordine del giorno da Stefano Cosma. Nei mesi scorsi il Consiglio e le commissioni avevano licenziato il regolamento, stabilito i requisiti e vagliato le due candidature giunte all’ente. Poi uno dei due aveva ritirato la propria e la scelta è andata su don Alberto (17 voti su 20, con 3 schede bianche). Sacerdote goriziano, vanta una lunga esperienza in progetti e iniziative a favore dei carcerati e di persone private della libertà. De Nadai, 82 anni, fondatore della comunità e cooperativa “Arcobaleno” per l’accoglienza di giovani con problemi di devianza, è anche responsabile dei volontari che operano nelle carceri di tutto il Friuli Venezia Giulia. Dal 2009 è anche responsabile della Conferenza regionale volontariato giustizia. Compito del garante - che lavorerà senza alcun compenso - sarà, fra gli altri, tutelare il diritto al lavoro, alla formazione, alla crescita culturale, anche mediante la pratica di attività formative, culturali e sportive. “Il garante dovrà, soprattutto, attivarsi per il rispetto della dignità delle persone ristrette in carcere - ha spiegato Cosma, per migliorare le loro condizioni di vita e sociali, anche svolgendo attività di sensibilizzazione pubblica sul tema dei diritti umani e sulla finalità rieducativa della pena. I garanti ricevono segnalazioni sul mancato rispetto della normativa penitenziaria, sui diritti dei detenuti eventualmente violati e si rivolgono all’autorità competente per chiedere chiarimenti o spiegazioni, sollecitando gli adempimenti o le azioni necessarie”. Il loro operato si differenzia pertanto da quello degli organi di ispezione amministrativa interna e della stessa Magistratura di sorveglianza. “Il garante può effettuare colloqui con i detenuti e può visitare gli istituti penitenziari senza autorizzazione e abbiamo previsto che, previa autorizzazione della Prefettura, possa visitare anche il Cie di Gradisca”, conclude Cosma. Bari: le finte crisi epilettiche del boss, si procurava le ferite per uscire dal carcere La Repubblica, 6 giugno 2013 Cosimo Fortunato, 50 anni, luogotenente del clan Parisi. Con gli altri detenuti, nel reparto del Policlinico riservato ai pazienti sottoposti a misure cautelari, arrivava persino a vantarsi. Per lui era un merito fingere davanti ai medici di essere ammalato, simulando crisi epilettiche. Le immagini delle telecamere, installate dagli uomini del Gico della guardia di finanza nel reparto del Policlinico, sono inequivocabili. Cosimo Fortunato mentiva e simulava gli attacchi che, per un periodo, lo avevano portato fuori dal carcere. Ora il luogotenente del clan Parisi, una sfilza di accuse alle spalle, l’ultima di estorsione, sfociata in un arresto nel novembre del 2012, resterà in carcere per molto tempo. Il giudice Marco Guida ha respinto l’istanza presentata dalla difesa dell’uomo che, per motivi di salute, aveva chiesto la revoca o un’attenuazione della misura cautelare. Il pm Desirèe Digeronimo aveva espresso per la seconda volta parere negativo e lo aveva fatto depositando l’informativa del Gico della guardia di finanza. È l’inizio di quest’anno quando in carcere. “evidenziando come la principale patologia fosse costituita dalle ricorrenti crisi epilettiche”. Crisi che di fatto fingeva di avere. Nell’informativa, i militari spiegano come “il Fortunato abbia dissimulato le crisi epilettiche nonché le conseguenze delle stesse (ecchimosi ed escoriazioni al volto e al corpo)”. Alla fine anche i medici legali, autori della perizia, prendono atto di come “la maggiore patologia riscontrata, le crisi epilettiche, fosse stata simulata”. Simulazione che, conclude il giudice, ha tratto in inganno anche i medici dell’ospedale. E le immagini lo provano: prima della visita Fortunato si prepara, procurandosi le piccole ferite che a suo dire erano frutto delle crisi. Spoleto: Sappe; sit-in di protesta davanti al carcere… “situazione allarmante, ora basta” Corriere dell’Umbria, 6 giugno 2013 Il Sappe durissimo dopo le aggressioni: “Tensioni all’ordine del giorno”. S’invoca un cambio ai vertici dell’istituto, bocciato il garante dei detenuti. “Basta”. È la parola urlata più volte da sindacalisti e agenti, che hanno preso parte al sit-in di protesta, ieri mattina, davanti al carcere di Maiano. Il Sappe alza la voce e il segretario generale Donato Capece, usa parole forti. “Il direttore si deve dimettere - ha detto senza mezzi termini - la situazione è divenuta insostenibile. Vogliamo direttori capaci di sostenere un’azione di cambiamento positiva intrapresa in pochi mesi di gestione del nuovo comandante del carcere”. Il bilancio della casa di reclusione di Maiano relativo a questo ultimo mese e mezzo, parla chiaro: tre tentativi di suicidio sventati dagli agenti di polizia, un suicidio e tre violente aggressioni da parte dello stesso detenuto. “Questo soggetto deve essere allontanato - ha sottolineato Capece - non è possibile che non siano stati adottati dei provvedimenti nei suoi confronti”. Matera: dal 10 giugno si avvia un corso sull’arte della cartapesta per detenuti www.basilicatanet.it, 6 giugno 2013 La maestria dell’arte della cartapesta per acquisire motivazioni e competenze utili a un possibile inserimento lavorativo, quando torneranno nella società. Con questo obiettivo una quindicina di persone detenute nella casa circondariale di Matera cominceranno lunedì 10 giugno un corso di formazione della durata di 60 ore sulla lavorazione della cartapesta. L’iniziativa è stata finanziata dalla Camera di commercio di Matera, con il supporto organizzativo della Cna e dell’Osservatorio Migranti di Basilicata. Il percorso didattico sarà tenuto da artigiani esperti del settore come Michelangelo Pentassuglia. I corsisti, che concluderanno le lezioni il 26 giugno, effettueranno 50 ore di formazione professionale con attività pratiche e lezioni frontali e 10 ore finalizzate all’auto impiego. Gli allievi produrranno dei manufatti che terranno conto dei temi della migrazione e dello scambio di culture fra i popoli, fondamentale per i processi di integrazione e di inclusione sociale che sottendono all’attività formativa. “La decisione della giunta camerale - ha detto il presidente della Camera di commercio, Angelo Tortorelli - di finanziare l’attività formativa consentirà di favorire, attraverso l’insegnamento della lavorazione della cartapesta, percorsi finalizzati al recupero e all’ autoimpiego. La collaborazione con la casa circondariale, le associazioni professionali e di volontariato rappresentano in tal senso una fase costruttiva che può avere continuità anche in altri settori. Da parte nostra vi è l’impegno a seguire e a valorizzare i risultati di questo percorso”. Bari: “Letture in libertà”, lo scrittore Nicola Lagioia ha incontrato i detenuti di Giuliano Battiston L’Unità, 6 giugno 2013 Promosso dalle associazioni “Gli Asini” e “Antigone”, il progetto “Libri in carcere” nasce dall’idea che i libri siano un ponte tra il dentro e il fuori, tra i detenuti e il resto della società. “Professore, ma lei come fa a scrivere cose che non hai mai vissuto”?. Silvana, una delle detenute nella casa circondariale di Bari, fisico asciutto e nervoso e una loquacità che la lunga reclusione non è riuscita a domare, va dritta al punto. Chiede conto, sollecita, cerca spiegazioni. Pretende di sapere come faccia uno scrittore ad immedesimarsi nelle vite degli altri, a guardare il mondo con gli occhi altrui, a restituire sulla pagina esperienze che non ha vissuto sulla propria pelle. Il “professore”, Nicola Lagioia, non si tira indietro. Ha deciso di presentare il suo ultimo libro, Riportando tutto a casa (Einaudi), proprio nel carcere di Bari, la città dove è nato e cresciuto. E dove ha ambientato un romanzo che è insieme la storia personale di tre ragazzini la cui adolescenza si dipana lungo gli anni Ottanta e la storia collettiva di un paese, l’Italia, ineluttabilmente votato a perdersi nella cultura del consumismo e dell’esibizione sfrontata, bulimica e compulsiva di merci che sostituiscono i valori. “È proprio questo il compito della scrittore: immaginarsi nella vita altrui, farla propria, renderla verosimile. C’è chi come Collodi in Pinocchio si è immedesimato in un burattino di legno e chi, come Jack London ne Il Richiamo delle foresta lo ha fatto con un cane. Io più modestamente l’ho fatto con la storia di Giuseppe e Vincenzo, i protagonisti del mio libro, attingendo alle storie che ho vissuto quando ero adolescente”, risponde Lagioia, uno degli autori che, insieme al disegnatore Gipi, a Gad Lerner, Stefano Benni e Ascanio Celestini, hanno generosamente accettato di partecipare agli incontri di “Libri in carcere: la lettura che libera”. Libri in carcere è un progetto promosso dalle associazioni “Gli Asini” - legata alle Edizioni dell’Asino, la casa editrice fondata da Goffredo Fofi e Giulio Marcon - e Antigone, l’associazione che dagli anni Ottanta si batte per introdurre e diffondere nel sistema penale italiano la cultura dei diritti e delle garanzie. Grazie al sostegno della Tavola dei Valdesi e della Fondazione Charlemagne e all’adesione di molte case editrici grandi, medie e piccole, “Libri in carcere” si propone di acquistare, raccogliere con donazioni e distribuire 6.000 libri nelle carceri del sistema penitenziario toscano, che comprende 18 diversi istituti di pena e che potrebbe diventare un modello virtuoso, da replicare in futuro in altre regioni. Alla base del progetto c’è il tentativo di attuare e rendere vivo uno degli articoli dell’Ordinamento penitenziario (legge 26 luglio 1975, n. 354), il quale prevede che tutti gli istituti di pena debbano essere “forniti di una biblioteca costituita di libri e periodici”. Ma c’è soprattutto l’idea che i libri possano essere un ponte tra l’interno e l’esterno delle carceri, che siano una finestra di comunicazione e di dialogo, e che possano spingere le carceri a rispondere alla loro vocazione originaria: favorire il reinserimento dei detenuti nella società, piuttosto che escluderli. Oltre alla raccolta di libri e agli “incontri con gli autori”, il progetto prevede un centinaio di abbonamenti a periodici e riviste e la realizzazione di due laboratori di giornalismo radiofonico di inchiesta e reportage. Il primo, nel carcere di Milano Bollate, è appena partito. Affidato al giornalista Paolo Aleotti, si concluderà con la realizzazione di un audio-documentario. Ai microfoni, i detenuti possono raccontare le loro esperienze, dentro e fuori il carcere. Chiunque è “finito dentro”, prima viveva fuori. E quel fuori lo continua a sognare, a ricordare, a raccontare. Come Luigi, uomo ormai maturo e un po’ sovrappeso, che ascolta con interesse Nicola Lagioia, e dalle pagine del libro conduce l’uditorio alla realtà. Se in Riportando tutto a casa il quartiere barese di Japigia è, negli anni Ottanta, una delle principali piazze per lo spaccio dell’eroina e il luogo dove i protagonisti sono costretti a fare i conti con la fine della loro adolescenza, per Luigi invece Japigia si incarna in Toquiño, lo spacciatore una volta conosciuto in tutta Bari il quale, racconta Luigi, “oggi ha chiuso con la droga e fa il funzionario statale”. Tra il passato e il presente, tra il dentro e il fuori del carcere, tra letteratura e realtà la discussione continua, animata dall’entusiasmo contagioso dell’insegnante Mariangela Taccogna e dagli interventi dei detenuti. Giancarlo, un ragazzone in canottiera con i muscoli scolpiti e le braccia tatuate, già “tronista” e attore, aspirante scrittore, chiede perché, nonostante la crisi, Bari sia sommersa dalla droga, ieri l’eroina, oggi la cocaina; Giuseppe, sguardo obliquo e capelli neri, sottolinea i legami tra l’economia legale e quella illegale; Marzena, faccia simpatica, capelli chiari e l’accento inequivocabile dell’Europa dell’est, chiede invece quale sia il messaggio del libro secondo l’autore. “Non credo che gli scrittori abbiano messaggi da dare. Scrivere un romanzo è come raccontare una storia a un amico: non c’è un vero scopo, se non l’urgenza di raccontarla, il piacere di condividerla. Essere scrittori vuol dire trasferire le storie da un posto all’altro, da una persona all’altra”, risponde Lagioia prima che i detenuti siano riportati in cella dagli agenti della polizia penitenziaria. Firenze: l’attrice Elena Sofia Ricci dà voce ai lavori dei detenuti-scrittori Il Tirreno, 6 giugno 2013 L’attrice toscana Elena Sofia Ricci dà voce a scritti, poesie e racconti intimi di alcuni detenuti degli istituti penitenziari della Toscana che partecipano a laboratori di scrittura. È accaduto a Firenze in occasione della giornata d’incontro indetta dal Provveditorato della Regione Toscana. Sono 12 su 18 gli istituti penitenziari che in Toscana utilizzano l’esperienza dei laboratori di scrittura. L’incontro, in Biblioteca Nazionale ha riunito per la prima volta tutti i soggetti che lavorano nelle carceri della Toscana con i laboratori di scrittura con l’obiettivo “di far nascere una rete - ha spiegato Carmelo Cantone, provveditore regionale del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria della Toscana - tra tutti gli istituti che praticano i laboratori di scrittura con i detenuti”. “È un incontro - ha detto Cantone - finalizzato alla socializzazione di tutti i progetti a tema attivi negli istituti della regione”. “Ringrazio tutti - ha detto Sofia Ricci - per avermi coinvolto in questa operazione. Sono onorata e intimidita nel dare voce a persone così ferite. Ci metterò il cuore e il rispetto per le persone che possono nella vita avere una chance in più”. Presenti anche alcuni detenuti, e poi il cantante Massimo Altomare e Alessandro Fo (nipote del premio Nobel) che lavora proprio come responsabile dei laboratori di scrittura nel carcere di San Gimignano. Sanremo: Uil; detenuto aggredisce e ferisce tre agenti… c’è una irresponsabile gestione www.sanremonews.it, 6 giugno 2013 Ieri a mezzogiorno un detenuto di origine magrebina ha aggredito tre poliziotti penitenziari di Valle Armea che, condotti all’Ospedale hanno riportato una prognosi rispettivamente di 5, 8 e 10 giorni. La notizia è stata divulgata da Fabio Pagani, Segretario Regionale della Uil Penitenziari. “Quella delle aggressioni al personale in servizio nell’istituto penitenziario di Sanremo costituisce una delle problematiche più importanti della difficile quotidianità penitenziaria del corpo di Polizia Penitenziaria della Liguria che, a Sanremo purtroppo, continua a pagare un tributo salatissimo. Ai nostri colleghi la nostra più viva solidarietà e la nostra sincera vicinanza nell’auspicio che possano riprendere presto e bene la propria attività lavorativa. Il vile attacco - aggiunge Pagani - si connota all’interno di un piano di insostenibilità della struttura che non può più far fronte al continuo aumento della popolazione detenuta. Allo stato attuale sono presenti oltre 361 detenuti per una capienza tollerabile di 209”. Da tempo la UIL denuncia le gravi condizioni di difficoltà lavorativa del personale di Polizia Penitenziaria all’interno dell’istituto di Sanremo, che ha raggiunto i livelli massimi di insostenibilità: “Ad oggi le cause vanno cercate altrove - termina Pagani - si è cercato invano di riportare quel dialogo tra Direttore e rappresentanti del personale di Polizia Penitenziaria, oramai messo da parte dal Dirigente di Sanremo e forse, sarebbe il caso, conclude il sindacalista, che l’Amministrazione valuti seriamente di avvicendare Direttore e Comandante”. Napoli: “Le voci da dentro”, la nuova rubrica de “L’Espresso Napoletano” Ristretti Orizzonti, 6 giugno 2013 Da un accordo tra il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria della Campania, la Rogiosi Editore e “Il Carcere Possibile”, onlus della Camera Penale di Napoli, la possibilità per i detenuti di vedere pubblicate le loro lettere. L’iniziativa, grazie all’ospitalità dell’Università Telematica Pegaso che ne ha apprezzato contenuti e scopi, sarà presentata a Napoli, mercoledì 12 giugno 2013, alle ore 11.00, presso il Palazzo Zapala, in Piazza Trieste e Trento, 48. Dopo l’indirizzo di saluto di Danilo Iervolino, Presidente dell’Università Telematica Pegaso, ci saranno gli interventi di Rosario Bianco, L’Espresso Napoletano, Rogiosi Editore, Tommaso Contestabile, Provveditore Regionale Amministrazione Penitenziaria della Campania, Carmine Antonio Esposito, Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli, Alessandro Marino, Consigliere “Il Carcere Possibile Onlus” - Camera Penale di Napoli, Adriana Tocco, Garante dei Diritti dei Detenuti - Consiglio Regionale della Campania. L’incontro sarà moderato da Claudio Flores, Direttore Ufficio Detenuti e Trattamento Prap Campania. Libri: “I terroristi sono miei fratelli. Don Bussu, cappellano che piegò lo stato”, di L. Piras La Nuova Sardegna, 6 giugno 2013 Sarà presentato domani pomeriggio, alle 18.30, nel museo Nivola, il libro “I terroristi sono miei fratelli. Don Bussu, il cappellano che piegò lo stato”, scritto dal giornalista Luciano Piras. All’evento, promosso dalla Fondazione Nivola e dall’amministrazione comunale e coordinato dall’assessore alla cultura Paola Silvas, accanto all’autore parteciperanno il sindaco Franco Pinna, il presidente della Fondazione Nivola, Ugo Collu, e don Francesco Mariani, direttore di Radio Barbagia. Durante la presentazione, inoltre, l’attore Giovanni Carroni leggerà alcuni brani tratti dal libro, imperniato sulla figura di don Salvatore Bussu, che nei primi anni 80 era cappellano del carcere di Badu ‘e Carros. Nel dicembre del 1983 il prete si “autosospese” dal mandato sacerdotale e si schierò con i brigatisti, che in quel momento stavano facendo lo sciopero della fame per protestare contro le condizioni disumane in cui versavano i detenuti. Un gesto che segnerà una svolta nella storia delle carceri italiane e porterà alla legge Gozzini. Il libro racconta, quindi, come in questi trent’anni il sacerdote abbia sempre difeso questa legge e si chiude con una lunga intervista al protagonista della vicenda. Immigrazione: Cie, lo scandalo italiano; un’inchiesta del quotidiano Herald Tribune di Lara Crinò L’Espresso, 6 giugno 2013 Il quotidiano Herald Tribune dedica la sua prima pagina ai centri di detenzione per migranti nel nostro Paese. Carceri di massima sicurezza, con guardie in tenuta antisommossa e detenuti allo stremo che non hanno mai commesso alcun reato: “Strutture inumane, inefficaci e costose”. “Il Cie alla periferia di Roma, dove gli immigrati illegali possono passare mesi in attesa di essere rimpatriati, non è una prigione. Ma la differenza è solo una questione di semantica”. Si apre così l’articolo con cui l’International Herald Tribune apre oggi la sua edizione europea: un durissimo atto d’accusa all’Italia per il modo in cui, negli 11 centri di Identificazione ed Espulsione presenti sul nostro territorio, vengono trattati gli stranieri sprovvisti di permesso di soggiorno o asilo politico in attesa di essere espulsi dal nostro paese. Il pezzo, dal titolo “L’Italia sotto accusa per la detenzione degli immigrati illegali” (“Italy faulted on detention of illegal immigrants”) è firmato dalla della corrispondente Elisabetta Povoledo ed è corredato di immagini del centro romano di Ponte Galeria e di quello di Bari. Si tratta di una lunga requisitoria sul fallimento del sistema dei Cie. Riportando le voci critiche che da più parti, negli ultimi anni, si sono alzate contro la gestione di queste strutture, il quotidiano li descrive come “inumani, inefficaci e costosi”, riflesso di una “politica che identifica l’immigrazione con la criminalità, senza tener conto né del beneficio economico dell’emigrazione né della natura multiculturale della società”. A sostegno di queste affermazioni, si descrivono nel dettaglio le condizioni di vita del Cie romano di Ponte Galeria, teatro nel corso degli ultimi anni di varie rivolte degli immigrati reclusi, le cui condizioni di vita al limite della disperazione sono state più volte denunciate dal nostro giornale. La descrizione che la giornalista dell’Herald Tribune fa del centro di detenzione è, volutamente, a metà tra il campo di concentramento e il carcere di massima sicurezza. Parla infatti di “alte cancellate di metallo che separano le file di basse costruzioni in singole unità che vengono chiuse durante la notte, mentre i cortili in cemento restano illuminati a giorno”, mentre alcune guardie indossano “tenute antisommossa”. I detenuti, spiega ancora, “possono indossare solo ciabatte o scarpe senza lacci”, per non far male a se stessi o agli altri e nella sezione maschile, dopo una rivolta, “gli oggetti appuntiti, tra i quali penne, matite e pettini, sono stati vietati”. Sottolineando come le autorità italiane non smettano di precisare che il sistema di detenzione dei Cie è in linea con le linee guida dell’Unione Europea, l’articolo prosegue citando la denuncia dell’ associazione LasciateCiEntrare, che fa campagna per la loro chiusura, secondo la quale “questi sono non-luoghi che non hanno alcun interazione con la società italiana, che è a malapena a conoscenza della loro esistenza”, luoghi di sofferenza e “discariche politiche e sociali di cui si accorge a livello nazionale soltanto quando scoppia una rivolta”. Il quotidiano ha raccolto anche i dati di Medici per i Diritti Umani relativi alle pessime condizioni di salute dei detenuti: dagli atti di autolesionismo al massiccio consumo di anti-depressivi. Ma soprattutto sottolinea come, oltre che crudele, il meccanismo dei centri di detenzione ed espulsione sia anche inefficace. Solo la metà dei detenuti, circa 400 persone, sono effettivamente state espulse lo scorso anno, “una porzione ridottissima dei circa 440 mila irregolari che si stima vivano in Italia”. Citando infine un rapporto del ministero degli interni del 2013 che definisce “indispensabili” i centri, l’autrice del reportage dà la parola a chi vi è o vi è stato rinchiuso. Dall’egiziano Karim, la cui storia ad aprile è finita sui media nazionali, a un tunisino di 40 anni, ex muratore, che è finito in un Cie dopo aver scontato un periodo in carcere per spaccio di droga. E che di questa nuova condanna senza un termine stabilito dice: “La galera era meglio che stare qui”. Svizzera: cella piccola, a Champ-Dollon legale di un carcerato chiede 100 franchi al giorno www.cdt.ch, 6 giugno 2013 I detenuti attualmente alle strette nel carcere preventivo di Champ-Dollon (Ge) potrebbero ricevere un indennizzo a causa delle condizioni di carcerazione. Il Tribunale delle misure coercitive di Ginevra, giudicando il caso di un detenuto, ha constatato che egli non dispone di sufficiente spazio nella cella in cui è stato sistemato. Mentre il minimo legale prevede un minimo di 4 m2 a persona, il prigioniero dispone di soli 3,84 m2 (mobili compresi), hanno rilevato i giudici. La legale del detenuto si appresta ora a chiedere al Cantone un indennizzo di 100 franchi al giorno, per una somma totale di 17.000 franchi. Dopo aver chiesto invano la scarcerazione del suo assistito - sospettato di furto - a causa di trattamenti degradanti, Dina Bazarbachi ha ottenuto dal Tribunale lo svolgimento di un’inchiesta sulle condizioni di detenzione. La legale indica peraltro di aver chiesto la scarcerazione di un altro suo assistito, costretto a dormire su un materasso sistemato per terra.