Quei permessi che aiutano a ricostruirsi vita e affetti Il Mattino di Padova, 24 giugno 2013 Quanto contano i permessi premio nella vita delle persone detenute è facile capirlo dai loro racconti, dalle emozioni che esprimono nel rivedere dopo anni per la prima volta i figli fuori dalle sale colloqui, in una situazione di “quasi libertà”. Quello che sarebbe importante capire è che questi permessi hanno un grande valore anche per la società: perché una persona che comincia a uscire gradualmente dal carcere, e a ritrovare così la sua famiglia, nella stragrande maggioranza dei casi riuscirà a ricostruirsi una vita decente, e a non tornare a commettere reati. Primo permesso premio, prime ore con mio figlio fuori dal carcere Quando mi è stato comunicato ufficialmente che la mia richiesta di permesso premio era stata accolta favorevolmente dal magistrato di Sorveglianza, tenere quel foglio tra le mani mi ha dato una sensazione diversa, di colpo mi sono sentito riconsiderato, rivalutato come persona che può provare a rimettere piede al di là di quelle alte mura, attraversando i cancelli in uscita, non per una visita in ospedale, o per un’udienza in Tribunale, ma per riassaporare il contatto con la società esterna, e prima di tutto per poter rimanere otto ore, continuative, con mio figlio e la sua ragazza. Sembra un sogno, ma si è verificato, è stato meraviglioso, carico di emozioni, che non sono state solo le mie, ma anche di chi mi ha accompagnato in quella “scalata” fatta di primi passi per un rientro lento, graduale, faticoso nella società Prima di essere “preso in carico” da una volontaria, in carcere mi hanno consegnato un documento di riconoscimento e un secondo foglio con le prescrizioni dettate dal magistrato, da osservare scrupolosamente. Una prima difficoltà fisica l’ho percepita a vedere che gli occhi hanno fatto fatica a riabituarsi ad una visione della realtà che sembrava “infinita”, dopo anni in cui l’orizzonte era rappresentato solo dalle sbarre. Riaffrontare il traffico sulle strade, incroci, semafori, non conoscere dove esattamente ti trovi e saperti orientare come facevi tanti anni addietro, anche questo un pò di disagio te lo fa sentire, ma non importa: sei fuori dal carcere e la giornata sarà piena di tante cose nuove. Prima tappa è l’arrivo alla scuola dove devo, assieme ad altri, partecipare a un incontro del Progetto di confronto tra le scuole e il carcere. Mi sento spaesato, inciampo nel primo marciapiedi perché non sono più abituato a questi “diversi livelli” del terreno, in carcere percorri lunghi corridoi e scale, sempre gli stessi, senza sorprese. Non nego che le emozioni iniziano a farsi percepire e devo “lavorare” per camuffarle: il classico stupido comportamento del far vedere che un uomo non piange mai. Ma non è vero. Entriamo in un bar e mi offrono un caffè: quanto è diverso il sapore e il gusto, soprattutto se puoi usare una tazzina di ceramica e un cucchiaino metallico invece della solita plastica del carcere! Ci avviciniamo poi all’ingresso della scuola, dove dobbiamo incontrarci con alcune classi e affrontare i temi che da anni ci vedono proporre la nostra testimonianza agli studenti che entrano nella redazione interna al carcere. Prendiamo posto in un’aula e la responsabile del progetto ci presenta uno ad uno e quando arriva a me, oltre a ricordare il mio nome, aggiunge: “Oggi per Ulderico è il suo primo permesso, più tardi incontrerà suo figlio…”. Quelle parole mi hanno turbato, le emozioni risalivano in gola, stringevano il cuore ed a livello della fronte sentivo una pressione che era causata dal mio sforzo per non far cadere quelle lacrime, che in ogni caso hanno iniziato a scendere, ed il mio volto ha assunto quelle smorfie per cui chi mi stava osservando avrà percepito la situazione emotiva che stavo vivendo. Finito l’incontro aspetto che arrivi mio figlio, quando intravedo lui e Alessia, la sua ragazza, il cuore si allarga. Bellissimo, non sembra vero, li vedo sorridenti, vedo i loro occhi e sorrisi che si incrociano, io ne gioisco. Poi Andrea ha pensato bene di pormi in mano il cellulare per fare una sorpresa a mia sorella e farle sentire la mia voce, far capire che eravamo già assieme. Ho sentito dalla voce di lei altrettanta felicità. Mentre eravamo seduti a un bar, Andrea mi ha mostrato, con il suo cellulare, molte fotografie, delle loro feste con amici e anche delle vacanze dell’estate scorsa al Conero. Lui e la sua ragazza mi hanno parlato dei loro progetti, li ho visti molto complici nei loro atteggiamenti; più di una volta, timoroso di rubargli troppo tempo, ho suggerito a loro che nel caso avessero altri impegni potevano decidere di andare via prima, non volevo costringerli a restare fino alla fine del permesso. Ogni volta mi hanno espresso la loro intenzione di rimanere con me, e di fatto ci sono rimasti fino alle 19,30, accompagnandomi all’ingresso nel carcere, ed io sono rientrato in quella che per alcuni anni devo considerare la mia residenza, ma con una carica talmente positiva che mi dà e mi darà ulteriore forza per affrontare questo cammino. Ulderico G. Ho maledetto me stesso e tutte quelle scelte che mi hanno portato lontano da mia figlia Dopo sei anni e mezzo di carcere, undici ore di “libertà”. Ho sperato e lavorato per questo momento, e finalmente è arrivato. Ho saputo dieci giorni prima che il magistrato mi avrebbe concesso questo permesso premio, e dopo la felicità e l’incredulità, è subentrata l’angoscia. I giorni non passavano più. Il mio primo pensiero quando ho avuto in mano la risposta del magistrato è stato per mia figlia, che non vedevo da sei anni. In tutto questo tempo che ho passato qui dentro ho cercato di immaginare il giorno che l’avrei incontrata. Nelle telefonate mi ha sempre fatto tantissime domande, la più frequente era perché non poteva venire a trovarmi. Io ho sempre trovato una scusa per non risponderle, per non dirle che non volevo mi incontrasse in carcere, e quando nell’ultima telefonata che ho avuto con lei, le ho detto che il giorno 8 giugno sarei andato a trovarla, c’è stato un urlo di felicità da parte sua che mi ha commosso. Per tutti i dieci minuti della telefonata, mi ha soltanto detto: papà è vero che mi vieni a trovare? Lei era più incredula di me. La sera del 7 giugno l’assistente penitenziario prima di chiudere la porta blindata della cella mi ha detto: domani sei in permesso giornaliero. L’ho ringraziato pensando che è stata la prima volta che ho avuto uno scambio così gentile con un agente. E chi ha dormito poi quella notte? Il pensiero che avrei incontrato mia figlia mi ha tenuto sveglio. Anche se nelle telefonate ridevamo e scherzavamo spesso, avevo paura di come avrebbe reagito. Il mattino è finalmente arrivato, e alle 7.45 scendo dalla sezione per uscire. Dopo aver ritirato le carte che mi servivano per uscire mi avvio all’esterno, all’ultimo cancello che mi separa dall’uscita vedo Lucia, la volontaria della Redazione di Ristretti Orizzonti che mi avrebbe accompagnato. Ci siamo salutati e siamo saliti in macchina, lei era molto gentile, mi parlava per far diminuire la mia tensione, ma io ero in un altro mondo. Nel viaggio che abbiamo fatto in treno mi chiedeva della bambina, continuava a dirmi che nascondevo bene le mie emozioni, ma dentro di me io stavo scoppiando. Arrivato alla stazione, ad aspettarci c’era mia moglie emozionata quanto me. Ci avviamo verso casa e all’entrata ad aspettarci c’è mia figlia, inizia a correre verso di me, io resto fermo e la osservo. L’ultima volta che l’ho vista era un bambina di quattro anni, ora ne ha dieci e corre verso di me. È cresciuta vedendomi solo nelle fotografie, e adesso corre verso di me. L’ho abbracciata forte per un lungo tempo e in quel momento ho maledetto me stesso e tutte quelle scelte che mi hanno portato a stare lontano da lei. Klajdi S. Giustizia: cancellate preclusioni della “ex Cirielli” per i recidivi, ma nessun automatismo di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 24 giugno 2013 È un decreto legge snello, di 4 articoli, che fa cadere le preclusioni della ex Cirielli per i recidivi, ma non prevede alcun automatismo. Tutto viene affidato alla valutazione del magistrato di sorveglianza: detenzione domiciliare, lavoro di pubblica utilità, lavoro all’esterno. Questo è il testo messo a punto al ministero della Giustizia dopo rinvii e trattative con il ministero dell’Interno, che intende intervenire sul fronte sicurezza con misure di prevenzione antimafia e anti stalking. Grazie alle modifiche strutturali che il decreto-carceri prevede, si calcola che a regime - tra un anno e mezzo circa - si tornerà alla situazione precedente alla legge ex Cirielli: all’epoca (era il 2005), si contavano almeno 6mila affidamenti in prova di persone (libere) condannate, che quindi, invece di andare in carcere beneficiavano della misura alternativa; con il decreto che il governo dovrebbe approvare mercoledì al Consiglio dei ministri, sarebbero circa 5mila le ulteriori misure alternative alla detenzione operative. Insomma, nulla di rivoluzionario e tanto meno di inedito, e soprattutto nessun “colpo mortale alla sicurezza” come sostiene la Lega, visto che prima del 2005 non c’era alcuna emergenza-sicurezza, se non quella cavalcata dalle forze politiche dell’allora maggioranza per “bilanciare” la legge “taglia-prescrizione”. Non si sa ancora se mercoledì sarà varato un provvedimento unico o se i decreti saranno due. In ogni caso, per quanto riguarda il carcere, non c’è nulla che assomigli a un indulto, visto che le misure alternative non sono “libertà” ma solo una diversa modalità di scontare la pena (ai domiciliari o con lavori di pubblica utilità o lavoro esterno), in tutto o in parte, mentre l’indulto comporta uno “sconto” secco che anticipa il ritorno in libertà. E questo vale anche per il ddl sulla messa alla prova che andrà in aula alla Camera domani (ma sarà votato, con tempi contingentati, da luglio) e che fra l’altro, prevede la “possibilità” che il giudice applichi direttamente la detenzione domiciliare se la condanna riguarda reati per i quali è prevista una pena superiore a 6 anni. Anche qui nessun automatismo: in tutti i casi in cui si riapre la strada alle misure alternative, è sempre il giudice (della cognizione o della sorveglianza) che valuta caso per caso e sceglie tra carcere e misura alternativa. C’è un monitoraggio continuo. Anche perché, fanno notare in via Arenula, la Corte costituzionale ha sbarrato la strada, in più occasioni, a preclusioni e automatismi. In sintesi, queste le misure del decreto: per i tossicodipendenti è prevista la “possibilità” di avere il lavoro di pubblica utilità non solo nei casi di piccolo spaccio, ma anche per altri reati come piccole truffe o ricettazioni, rapine non aggravate. Sempre previa valutazione del giudice. Per la detenzione domiciliare cade la preclusione per i recidivi prevista dalla ex Cirielli, per cui rimane invariata quella ordinaria di 2 anni per tutti, mentre è di 4 anni per donne incinte, sessantenni inabili, ultrasettantenni, anche come pena residua (prima per questi soggetti non era previsto alcun limite di pena). Si interviene anche sull’articolo 656 cpp, per cui cade la presunzione di pericolosità per i recidivi (ma non per mafiosi e terroristi) e l’esecuzione della condanna è sospesa in attesa della decisione del magistrato di sorveglianza. Anche qui niente di nuovo, perché questo era il sistema con la legge Simeoni-Saraceni del 1994. L’affidamento in prova non viene toccato. Il lavoro all’esterno (il cosiddetto articolo 21) “può” invece essere concesso anche se non è retribuito, quindi come lavoro socialmente utile o volontariato. Non viene toccata la “svuota-carceri” voluta prima da Angelino Alfano e poi prorogata da Paola Severino (arresti domiciliari per i detenuti che hanno un residuo pena fino a 18 mesi), che scade a dicembre, ma che verrebbe assorbita dalle nuove misure. Se non saranno introdotte altre modifiche, il testo sarà approvato mercoledì ed entrerà in vigore subito, poi passerà al Parlamento per la conversione in legge. E lì il governo dovrà vigilare che il decreto non venga svuotato o stravolto con misure incoerenti rispetto alla sua filosofia, che è poi la stessa del ddl sulla messa alla prova, cioè puntare sulle misure alternative al carcere, anche come pene principali, comprese le sanzioni interdittive, ben più efficaci e deterrenti di quelle detentive. Giustizia: Berlusconi… e i detenuti, una storia di garantismo all’italiana di Giulia Bongiorno www.linkiesta.it, 24 giugno 2013 Il Cavaliere ha distorto il concetto, con il decreto “svuota carceri”, il governo l’ha dimenticato. I verdetti dei processi a carico di Silvio Berlusconi (caso Ruby e, più ancora, quello della Cassazione sui diritti Mediaset) già si profilano come una specie di sfida all’Ok Corral tra due tifoserie che, da quasi quattro lustri (1994-2013), si scontrano sul piano politico e sul piano giudiziario: berlusconiani e antiberlusconiani. Non tifo per le sentenze, figuriamoci per le condanne, e non mi identifico con nessuna delle due fazioni contrapposte. Tifo invece perché, almeno dopo questa sfida finale, sia fatta chiarezza sul concetto di garantismo. Con la solita straordinaria capacità comunicativa, Berlusconi è infatti riuscito a trasformare le sue battaglie processuali in contese tra garantisti e giustizialisti: secondo questo punto di vista parziale, solo chi auspica verdetti favorevoli meriterebbe l’appellativo di garantista. E invece non è così: il garantismo non prevede che ogni processo debba concludersi con un’assoluzione, né può coincidere con il riconoscimento del diritto di eludere le leggi. Il garantismo è tutt’altro: è la rigorosa osservanza delle garanzie giuridiche a tutela dell’individuo sottoposto ad azione penale, l’arte della ricerca della verità mediante confutazione. Perché, come diceva Leonardo Sciascia, in assenza di dubbio “anche le cose vere gridate e diffuse dagli altoparlanti assumono apparenza d’inganno”. Ma se Berlusconi, assorto nei suoi processi, del garantismo ha distorto il concetto, con questi primi provvedimenti contro il sovraffollamento delle carceri l’attuale maggioranza il garantismo sembra averlo del tutto dimenticato. Se è vero che è impossibile creare nuove strutture in poco tempo e che il governo si ritrova quasi costretto ad adottare in tempi rapidi provvedimenti per ridurre la popolazione carceraria, è vero anche che i detenuti meno “meritevoli” di stare in carcere sono quelli in attesa di giudizio, non certo quelli che hanno subìto un regolare processo concluso con una sentenza definitiva. Il carcere prima del processo dev’essere extrema ratio, ma nei fatti non sempre è così: è innegabile che le attuali norme del codice di procedura penale si prestano ad applicazioni non rigorose. Un coraggioso intervento diretto a rendere più stringente la disciplina delle misure cautelari raggiungerebbe il duplice obiettivo di ridurre tanto le applicazioni approssimative quanto il sovraffollamento. Invece si è scelto di limitare drasticamente l’ingresso in carcere a valle del processo penale, favorendo l’accesso in massa alle misure alternative, e contemporaneamente si sta confezionando un ulteriore “svuota carceri” che prevede l’uscita anticipata dal carcere per i detenuti (inclusi i recidivi) che devono scontare gli ultimi quattro anni di pena (e non tre, come attualmente previsto). Non sfugge l’irragionevolezza del sistema: il condannato in via definitiva al quale, a conclusione di un lunghissimo processo penale, dev’essere applicata la pena della reclusione in carcere lo si manda ai domiciliari o gli si concede la liberazione anticipata anche se recidivo, mentre il semplice indagato, che non essendo ancora iniziato il processo non ha avuto modo nemmeno di cominciare a difendersi, continua a essere sottoposto al regime delle misure cautelari con il solito percorso preferenziale della custodia in carcere. Insomma, liberi tutti (o quasi) i colpevoli accertati e ristretti in carcere quanti potrebbero essere assolti in un futuro processo. Come dire, né sicurezza né garantismo. Giustizia: decreto “svuota carceri”, siamo tornati nel 1996… di Silvia Truzzi Il Fatto Quotidiano, 24 giugno 2013 È un déjà-vu. Nel 2006 c’era un Presidente del consiglio di centrosinistra, proprio come oggi. E oggi come allora spunta un decreto svuota carceri, invocato con urgenza dal Capo dello Stato. All’epoca del governo Prodi, fu presa l’inspiegabile decisione di allargare l’indulto ai reati dei colletti bianchi, in favore di alcuni imputati eccellenti. Tipo chi? Il solito Previti, il solito B (già ai tempi era alle prese con il procedimento che ora lo terrorizza, cioè i diritti Mediaset, di cui si attende la sentenza definitiva della Cassazione). Allora i vertici del centrosinistra si difesero sostenendo che, siccome per i provvedimenti di clemenza la Costituzione prevede l’approvazione da parte di una vasta maggioranza (2/3 del Parlamento), dovettero cedere alle insistenze di Forza Italia. C’era e continua a esserci (questo la dice lunga sull’efficacia di amnistie e indulti), un’emergenza: perciò, dissero, non c’era altra possibilità. Le alternative naturalmente esistevano. Per esempio si poteva mettere mano alle leggi riempi-carcere, come la Bossi-Fini. La legge ha introdotto il geniale reato di clandestinità a carico degli immigrati extracomunitari che non abbiano adempiuto all’obbligo di lasciare l’Italia dopo il decreto d’espulsione (anche se non hanno commesso alcun reato). Norma concepita per rassicurare l’elettorato destro-leghista e che da anni intasa le carceri certamente più di reati che interessano poche decine di condannati. Amnistie, indulti e indultini alleviano l’intollerabile situazione di sovraffollamento nei penitenziari. Ma è un effetto temporaneo. Il dato politico è che allora come ora centrodestra e centrosinistra vanno d’amore e d’accordo, con la differenza che oggi le “larghe intese” sono alla luce del sole. Tanto che i berlusconiani - scrive Repubblica - sono al lavoro per alzare i tetti dell’interdizione dai pubblici uffici nel tentativo di salvare il solito B. Letta smentisce, forse conscio che il suo elettorato proprio tutto non può digerire. In bozza c’è anche l’aumento dei tetti di sospensione della pena di cui potranno usufruire, in caso, anche i bunga anziani imputati a Milano. Al di là delle miserie ad personam, resta la circostanza più grave. Che è quella sulle misure strutturali - di edilizia carceraria e politica criminale - ignorate da tutti i governi, anche se ogni ministro della Giustizia ha blaterato di piani carceri mai realizzati (da ultimo quello dell’attuale vice-premier Alfano, con proclami di misure per 80mila posti). E questo nonostante una sentenza della Corte europea dei diritti umani in gennaio abbia condannato l’Italia per il trattamento riservato ad alcuni detenuti, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (“Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”). Nel provvedimento la Corte precisa che non ci si può limitare a misure compensatorie e che bisognerà formulare anche rimedi di natura preventiva. Esattamente quello che non succederà. Giustizia: si discute di amnistia, Governo e Parlamento si occupano di misure alternative Ristretti Orizzonti, 24 giugno 2013 Mario Mauro (Sc): necessario un provvedimento di amnistia, poi le riforme Alla vigilia della settimana più difficile per Silvio Berlusconi, con la sentenza Ruby in arrivo lunedì e le fasi finali in Cassazione del maxi risarcimento alla Cir per il Lodo Mondadori, due strade, di direzione opposta, sembrano aprirsi per il Cavaliere. Da un lato c’è chi, nella maggioranza, parla già di un possibile salava condotto giudiziario. È Mario Mauro, ex Pdl approdato in Scelta Civica, secondo cui sarebbe necessario un “provvedimento di amnistia”. “Non prima la riforma e poi l’amnistia, ma il contrario”, dice il ministro della Difesa al Corriere della Sera. “Una stagione di riconciliazione comincia rimuovendo tutte le cause che fanno pensare alla politica come a una dimensione di scontro, senza esclusione di colpi”. Dall’altro è in arrivo una brutta sorpresa per l’ex presidente del Consiglio. Nel decreto Cancellieri sulle carceri - scrive Repubblica - sarebbe prevista una modifica alla norma - introdotta proprio dallo stesso Silvio Berlusconi - che evita il carcere ai condannati ultra settantenni. Una modifica al codice che allora permise a Cesare Previti, condannato in via definitiva, di evitare di finire dietro le sbarre e che ora - in caso di condanna in autunno del Cavaliere nel processo Mediaset - potrebbe tornare più che mai utile. Potrebbe, appunto, perché proprio su quella norma il neo ministro della Giustizia avrebbe in programma di intervenire. Rendendo possibile la detenzione domiciliare solo nel caso in cui “la pena della reclusione” sia “non superiore a quattro anni”. Un nuovo limite che, in caso di cumulo di pene nei diversi processi che vedono coinvolto il Cav, potrebbe inaspettatamente aprire le porte del carcere anche per lui. Duro il giudizio dell’avvocato di Berlusconi, secondo cui si tratterebbe di una “norma contra personam”. Costa (Pdl): su amnistia compente è Parlamento ma serve pacificazione “Le considerazioni del ministro Mauro sulla necessità di una pacificazione come premessa per una riforma della giustizia sono condivisibili. Per quanto riguarda eventuali provvedimenti di clemenza, competente a valutarli sarà il Parlamento e ho visto che in questo senso vi è anche una proposta che viene da un deputato del Partito democratico, che è l’onorevole Gozi, oltre la storica battaglia dei Radicali, e anche il percorso indicato dal ministro Cancellieri non deve essere trascurato”. Lo dice Enrico Costa, capogruppo del Pdl in commissione Giustizia della Camera. “Così come non condividevo l’affermazione secondo la quale il governo non dovesse occuparsi di giustizia - aggiunge - è altrettanto vero che si tratta di questione difficile rispetto alla quale l’esecutivo può affrontare soltanto problemi pratici, ad esempio per quanto riguarda la giustizia civile. La riforma relativa ad aspetti di sistema va trattata in Parlamento, ed occorre intervenire su molti problemi: sistema delle pene da rivedere non fondandolo soltanto sulla detenzione carceraria; situazione degli istituti penitenziari; custodia cautelare, visto che quasi la metà dei detenuti sono in questa situazione e la metà di questi in attesa del giudizio di primo grado”. “Non bastano quindi provvedimenti tampone, ma servono riforme organiche con forti radici, che per attecchire hanno bisogno di un terreno fertile, che si può creare - conclude Costa - passando per una fase di pacificazione che noi abbiamo sempre cercato, estirpando tutte le polemiche e le situazioni di grande conflitto, e soprattutto accantonando la tentazione di usare la giustizia per combattere ed eliminare l’avversario politico”. Ferranti (Pd): riforme di sistema e strutturali ma non colpi di spugna Riforme strutturali per superare il problema del sovraffollamento carcerario e riforma della giustizia per cittadini e imprese senza colpi di spugna, lasciando che politicamente si valuti l’opportunità di provvedimenti di clemenza. Così Donatella Ferranti, del Pd, presidente della commissione Giustizia della Camera, commenta l’ipotesi avanzata dal ministro della Difesa, Mario Mauro, di un’amnistia come premessa da cui partire per arrivare ad una riforma della giustizia. “Occorre fare chiarezza ed evitare di confondere le idee. Non c’è nessuna guerra in corso e quindi nessuna esigenza di pacificazione. La riforma della giustizia per cittadini e imprese non passa attraverso colpi di spugna. Per quanto riguarda invece la necessità di superare il sovraffollamento carcerario e quindi di rispondere alla sentenza Cedu del gennaio 2013, che dà all’Italia un anno di tempo per adottare misure strutturali e generali, bisogna partire da riforme di sistema come quelle che stanno mettendo in atto Parlamento e governo”. “Amnistia e indulto - conclude Ferranti - sono provvedimenti di emergenza e di clemenza rispetto ai quali occorre una valutazione di altro tipo che è innanzi tutto politica”. Gozi (Pd): un’amnistia per andare oltre, non per risolvere problemi Berlusconi “Parlare di amnistia non deve essere vietato dalla presenza dei problemi giudiziari di Berlusconi. Quindi, se l’ipotesi avanzata dal ministro Mauro serve per andare oltre, per affrontare la riforma della giustizia a prescindere dalle vicende di Berlusconi, la condivido. Se invece la proposta di amnistia serve per risolvere le questioni di Berlusconi, non va bene e se questo fosse il senso della proposta, mi sorprende che ad avanzarla sia un ministro”. Lo dice il deputato del Pd Sandro Gozi, che ha presentato una proposta di amnistia e indulto. “Ma -puntualizza Gozi - essa riguarda i reati punibili fino a quattro anni ed esclude quelli particolarmente gravi dal punto di vista sociale, come quelli a sfondo sessuale, compresa la prostituzione minorile, mafia, terrorismo, corruzione e concussione. Quindi non si applica e non serve a Berlusconi, ma agli italiani, è concepita pensando ai cittadini ma anche all’illegalità, ricordandoci che l’Italia è pluricondannata, che è stata messa in mora dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per risolvere entro dieci mesi il problema del sovraffollamento delle carceri”. “Perciò l’amnistia deve essere un pezzo di una riforma più ampia della giustizia, che comprenda l’ordinamento penale e civile, garantisca processi più veloci, preveda interventi per la depenalizzazione, a cominciare da modifiche alle leggi Bossi-Fini sull’immigrazione e Fini-Giovanardi sulla tossicodipendenza. Dopo 20 anni -conclude Gozi- la riforma della giustizia va liberata e non può più essere ostaggio di berlusconiani e antiberlusconiani”. Marazziti (Sc): amnistia non è una brutta parola “Amnistia non è una brutta parola o una scorciatoia: è una necessità”. Così nell’Aula della Camera il deputato di Scelta civica Mario Marazziti, durante la discussione della proposta di legge sulle pene alternative al carcere e la messa alla prova. “Questo ddl è un primo passo per far ritornare il nostro Paese normale e civile”, afferma Marazziti, che sottolinea: “Occorre trovare in Parlamento un consenso largo per approvare un provvedimento di clemenza che permetta, assieme a interventi organici, di cui questo è il primo, di trasformare la patologia italiana in fisiologia”. “La messa alla prova, l’audizione anticipata del reo da parte del giudice può riassorbire il patetico fenomeno conosciuto come porte girevoli – prosegue. Ma occorre anche rimuovere quegli ostacoli che non permettono alle donne-madri di scontare la pena con i propri figli fino al decimo anno di età fuori dal carcere in case famiglia gestite dagli enti locali”. “L’Italia - sottolinea Marazziti - è un Paese leader nella lotta alla pena di morte, ma c’è una pena capitale all’italiana, reale e terribile, testimoniata dal numero di suicidi in carcere che, in un sistema orientato al recupero, dovrebbe essere solo l’extrema ratio dell’intervento punitivo. Non è dunque sovversivo, ma ragionevole - conclude - il fatto che lo Stato abbandoni una fallimentare politica meramente segregativa-assistenzialistica del detenuto, lasciando agli enti locali e al privato-sociale, in piena attuazione del principio di sussidiarietà, il compito di un intervento più capillare che possa investire in modo costruttivo nel rapporto con i detenuti”. Dambruoso (Sc): amnistia senza riforme sistema non risolve problema carceri “All’interno di Scelta civica Mario Mauro è uno dei rappresentanti con più esperienza politica e in chiave politica l’amnistia può essere una concausa per raggiungere quella stabilità a cui Mauro fa riferimento. Da operatore del diritto dico che le esperienze pregresse di amnistia dimostrano che risolvono il problema del sovraffollamento carcerario solo se inserite in una riforma di sistema dell’intero codice penale e di procedura penale, così come si sta tentando di fare con i primi provvedimenti di questo governo, vedi la messa alla prova e soprattutto le detenzioni domiciliari”. Lo dice Stefano Dambruoso, magistrato e deputato di Scelta civica. “Mauro sottolinea prevalentemente l’aspetto politico della vicenda: oggi il Paese ha bisogno di stabilità politica e quindi è condivisibile il suo approccio. Ma tecnicamente -ribadisce Dambruoso - rammento che è importante non pensare all’amnistia come strumento risolutore del problema dell’affollamento carcerario”. Cicchitto (Pdl): approvare misure senza indugio, situazione delle carceri incivile “Fatto in modo equilibrato e con il senso di responsabilità che caratterizza la Cancellieri, i provvedimenti che si misurino con l’insostenibilità della situazione carceraria vanno presi senza indugio perché siamo in una situazione del tutto incivile”. Lo afferma il presidente della commissione Esteri della Camera Fabrizio Cicchitto (Pdl). “Non si capisce perché - sottolinea - dobbiamo seguire i richiami sul rigore economico e non anche quelli che ci possono portare ad un maggior livello di civiltà giuridica, come dalle nostre migliori tradizioni”. Vietti (Csm): rivedere tutto il sistema della pena, bene primi interventi Governo Letta “È necessario rivedere tutto il sistema, a partire dalle leggi, dalla carcerazione preventiva e dalla possibilità di dare ai disperati che sono all’interno delle carceri un’alternativa”. Lo afferma il vice presidente del Consiglio Superiore della Magistratura Michele Vietti, intervenendo a Radio Anch’io sull’emergenza carceri. “Il nostro sistema - sostiene - sconta una pericolosa sfasatura tra la pena prevista nei codici o nelle leggi speciali, la pena comminata e la pena scontata. Questi tre aspetti non coincidono e questo finisce di dare una dimostrazione di inaffidabilità del nostro sistema penale”, quindi, “bene le misure che deflazionino il sovra eccesso di popolazione carceraria, ma se non ripensiamo radicalmente il nostro sistema della pena, nel giro di qualche mese il sovraffollamento si ripresenterà. Questo vale anche per gli eventuali provvedimenti di clemenza di carattere generale”. “Occorre ripensare a tutto il sistema delle sanzioni - prosegue - Se riuscissimo a fare ricorso a sanzioni alternative alle misure interdittive, a sanzioni pecuniarie e amministrative che in qualche modo sanino il vulnus che il reato ha prodotto ma non necessariamente attraverso il carcere”, questo avrebbe risvolti positivi in materia di “certezza della pena, uno dei capisaldi per cui un sistema giuridico sia credibile”. Sui primi interventi del governo Letta in tema di giustizia, il vice presidente del Csm afferma: “Serve una politica giudiziaria, ciò che patiamo oggi è un periodo molto lungo in cui sono stati fatti interventi spot, interventi tampone senza una visione coerente di che giustizia vogliamo. I primi interventi del governo Letta vanno in una direzione positiva. Poi però servono provvedimenti strutturali. Come ad esempio l’incentivazione delle misure alternative e un rito più flessibile che si adatti alle necessità delle singole controversie, oltre a un intervento serio sulle impugnazioni. Non possiamo più permetterci tre gradi di giudizio per ogni causa indipendentemente dal suo valore e dalla sua natura”, conclude. Serracchiani (Pd): su giustizia no spot ma strategia Secondo la presidente della Regione, Debora Serracchiani, “il tema della giustizia è complesso e non si può affrontare a spot o a piccoli pezzi, ma con una strategia che li metta tutti insieme”. Lo ha dichiarato oggi a Udine, soffermandosi sul decreto carceri presto al vaglio del Consiglio dei ministri, e ha ricordato che sulla questione “anche in Friuli Venezia Giulia abbiamo valutazioni da fare su Pordenone e San Vito al Tagliamento, perché c’erano impegni ereditati dalla precedente amministrazione regionale che non aveva trovato la quadra finale”. Serracchiani ha riferito di “aver chiesto informazioni al ministro della Giustizia; le ho scritto per conoscere quali sono le intenzioni del governo rispetto alla locazione di un carcere nella provincia di Pordenone. Su tutte le carceri abbiamo un problema di sovraffollamento; anche su Trieste, Udine, senza parlare di Gorizia, sono necessari degli interventi che sono di umanità prima ancora che di edilizia carceraria”. Sull’ipotesi amnistia, Serracchiani ha ribadito che “sulla giustizia bisognerebbe sempre tentare di evitare le scorciatoie, ci vorrebbe una strategia che ci traguardasse mettendo insieme edilizia carceraria, revisione del codice di procedura penale e dei sistemi alternativi alle pene, la capacità di fare sorveglianza sul territorio, per arrivare - ha concluso - a quella che è la cosiddetta certezza delle pene”. Ferri (Governo): con messa alla prova no impunità ma passo avanti “Non si può parlare di impunità”, riguardo alla conseguenze della legge sulla messa alla prova e le pene alternative al carcere. Lo afferma in Aula alla Camera il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri, che replica così alle dure critiche della Lega al testo. Ferri ribatte alle accuse e parla al contrario di una svolta storica: “Con questa legge di delega il nostro Paese può fare un passo avanti e trovare il giusto equilibrio tra rieducazione, riparazione, certezza della pena e sicurezza”. Molteni (Lega): ddl è resa incondizionata stato a criminalità “Il dilettantismo giuridico di questo governo lascia esterrefatti. Questo provvedimento è la resa incondizionata dello Stato nei confronti della criminalità. Mortificare il principio della certezza della pena mettendo a repentaglio l’incolumità dei cittadini non è accettabile ecco perché annunciamo fin d’ora la nostra opposizione più dura e ferma”. Lo dichiara Nicola Molteni, capogruppo in Commissione Giustizia a Montecitorio, intervenendo in qualità di relatore di minoranza alla discussione generale del testo sulle proposte di legge in materia di pene detentive non carcerarie e disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova nei confronti degli irreperibili. “Più che di salva carceri parlerei di svuota carceri. Definire reati minori il furto in abitazione, lo stalking o la ricettazione è ipocrita e totalmente inaccettabile. Il passato indulto - rimarca l’esponente del Carroccio - non ha certamente risolto il problema del sovraffollamento dei penitenziari e questo provvedimento ne è la prova provata. Esercitare sorveglianza capillare sui detenuti ai domiciliari richiederà un impegno importante da parte delle forze dell’ordine che, per ovvi motivi, saranno costrette a trascurare il controllo dei territori con conseguenze a cascata sulla sicurezza dei cittadini”. Giustizia: “Sigillo” sul lavoro di donne recluse, primo marchio “registrato” dal ministero Il Sole 24 Ore, 24 giugno 2013 È il primo marchio “registrato” dal ministero della Giustizia. Che si mette alla prova, in questa prima assoluta, con un progetto che mette in rete un panorama molto composito: sei cooperative sociali, una banca, un ateneo. Convivenza complicata? Ancora più complesso l’obiettivo, un esperimento interessante di social economy: valorizzare il lavoro delle donne recluse in 12 carceri che impegnano il loro tempo dietro le sbarre lavorando. Il nome scelto dall’Agenzia nazionale di coordinamento dell’imprenditorialità delle detenute per questa formula di intervento ibrido, prima nel suo genere non solo in Italia ma addirittura in Europa, è “Sigillo”, e lo scopo è quello di curare le strategie di prodotto, comunicazione e posizionamento sul mercato di quanto realizzato dalle donne detenute nei laboratori sartoriali avviati in alcuni dei più affollati istituti penitenziari italiani. Una sorta di “Camera della moda” delle eccellenze produttive delle recluse. “Il nostro primo obiettivo - spiega Luisa Della Morte, direttore dell’agenzìa Sigillo - è quello di aumentare l’offerta occupazionale per le donne detenute, in modo che possano intraprendere percorsi dì riabilitazione”. Il progetto, che ha come capofila la cooperativa sociale Alice in partnership con Uno di due, Camelot, Officina Creativa, 2nd Change, Consorzio Sir, più l’appoggio di Banca Prossima e dell’Università Bocconi di Milano, è destinato a 64 detenute de-gli istituti penitenziari femminili di Milano San Vittore e Bollate, Torino, Lecce, Tranì, Roma Rebibbia, Enna, Como, Monza, Venezia, Castrovillari, Bologna e Pisa. Durerà un anno ed è stato reso possibile grazie al finanziamento della Cassa delle ammende per un importo di 413mila euro, con un cofinanziamento del- la cooperativa Alice di 214mila euro. Le donne detenute al 31 marzo scorso erano poco meno di 2.900, più della metà sa cucire, ma solo il 5% può contare su opportunità di lavoro offerte da aziende e imprese sociali. L’agenzia Sigillo si occuperà della promozione delle attività delle cooperative sociali che lavorano con detenute nelle strutture penitenziarie italiane, promuovendo la cooperazione sociale, il partenariato tra enti locali, imprese profit e non profit, e realizzando azioni di accompagnamento, consulenze e sviluppo di piani di impresa. Le detenute perfezioneranno le loro abilità seguendo dei percorsi formativi in ambito sartoriale. Oltre al consolidamento delle 50 occupate già in forza alle cooperative sociali che partecipano al progetto, è prevista la creazione dì almeno altri 14 posti di lavoro. Giustizia: dall’antiterrorismo a Bolzaneto, così lo Stato (di polizia) ha usato la violenza di Paolo Persichetti Gli Altri, 24 giugno 2013 “Ciò che qualifica la tortura - scrive Patrizio Gonnella in, La tortura in Italia. Parole, luoghi e pratiche della violenza pubblica, DeriveApprodi 2012 - non è la crudeltà oggettiva del torturatore, ma lo scopo della violenza”. Una violenza che può avere due obiettivi: uno giudiziario ed uno politico-simbolico. Nel primo caso si tratta di estorcere informazioni da utilizzare per lo sviluppo successivo delle indagini o da impiegare in sede processuale come dichiarazioni accusatorie; nel secondo il fine è quello di esaltare il potere punitivo dello Stato. I due scopi spesso si sovrappongono: la tortura giudiziaria contiene sempre quella punitiva, mentre la tortura punitiva non sempre contiene la ricerca d’informazioni. Le torture praticate contro i militanti rivoluzionari accusati di appartenere a gruppi armati tra la fine degli anni 70 e i primi anni 80 erano un classico modello di tortura investigativa. Operate dalle forze di polizia, contenevano entrambi gli obiettivi: estorcere informazioni e disintegrare l’identità politico-personale del militante. La deprivazione sensoriale assoluta, introdotta negli anni 90 attraverso l’isolamento detentivo previsto con il regime carcerario del 41 bis, è invece la forma più avanzata di tortura giudiziaria. Congeniata per sostituire la tortura investigativa, ha rappresentato una ulteriore tappa del processo di maturazione dell’emergenza italiana che ha visto la progressiva giudiziarizzazione delle forme di stato di eccezione, non più controllate dall’esecutivo ma dalla magistratura. I pestaggi che avvengono nelle carceri o nelle camere di sicurezza delle forze di polizia appartengono invece al genere della tortura punitiva, ispirata dal sopravanzare di visioni etico-morali dello Stato: correggere comportamenti ritenuti fuori norma riaffermando la gerarchia del comando. Così è avvenuto nel carcere di Asti tra il 2004 e il 2005, dove una sentenza della magistratura ha registrato le violenze imposte ai detenuti per ribadire e legittimare i rapporti di potere all’interno dell’istituto di pena. Una situazione analoga si è verificata nella tragica vicenda che ha portato alla morte di Stefano Cucchi, anche se in questo caso sussistono fondati sospetti che la violenza punitiva ricevuta nelle camere di sicurezza del tribunale, gestite dalla polizia penitenziaria, sia stata preceduta da violenze subite nella fase investigativa prima dell’ingresso in carcere. In linea generale le violenze poliziesche hanno un carattere “informe”, non a caso Walter Benjamin ne coglieva l’aspetto “spettrale, inafferrabile e diffuso in ogni dove nella vita degli Stati civilizzati”, al punto da costituire una delle tipicità proprie dell’antropologia statuale. Queste violenze variano d’intensità, d’episodicità ed estensione con il mutare dei rapporti sociali e il modificarsi della costituzione materiale di un Paese. Ci sono poi momenti storici in cui questa violenza si condensa, assumendo una forma sistematica che si avvale dell’azione d’apparati specializzati. Quella che è una caratteristica permanente degli Stati dittatoriali denota anche il funzionamento delle cosiddette democrazie quando entrano in situazioni d’eccezione. Nell’Italia repubblicana è avvenuto almeno due volte: nel 1982, quando il governo presieduto dal repubblicano Spadolini diede il via libera all’impiego della tortura per contrastare l’azione delle formazioni della sinistra armata e nel 2001, durante le giornate del G8 genovese. Se nel primo caso si è fatto ampio ricorso alla tortura investigativa e ad un inasprimento del regime carcerario speciale, già in corso da tempo, con una estensione dell’articolo 90 e la sperimentazione di quel che sarà poi il regime del 41 bis, con i pestaggi dei manifestanti, il massacro all’interno della scuola Diaz e le sevizie praticate nella caserma di Bolzaneto durante il G8 genovese si è dato vita ad una gigantesca operazione di tortura punitiva e intimidatoria nei confronti di una intera generazione. In entrambe le circostanze vi è stato un input centrale dell’esecutivo, la presenza di una decisione politica, la creazione di un apparato preposto alle torture e l’individuazione di luoghi appositi, di fatto extra jure, oltre all’atteggiamento connivente delle procure. Se nel 1982 - fatta eccezione per un solo caso - queste insabbiarono tutte le denunce, nel 2001 hanno facilitato la riuscita del dispositivo Bolzaneto, come dimostra il provvedimento fotocopia predisposto prima dei fermi in vista delle retate di massa. Adottato per ciascuna delle persone arrestate, prevedeva in palese contrasto con la legge il divieto di incontrare gli avvocati. Un modo per garantire l’impenetrabilità dei luoghi dove avvenivano le sevizie che restarono così protetti da occhi e orecchie indiscrete per diversi giorni. Nonostante tanta familiarità con la storia del nostro Paese, la tortura non è un reato previsto dal codice penale e ciò in aperta violazione degli impegni internazionali assunti dall’Italia, l’ultimo nel 1984. Se la giuridicità ha un senso, il suo divieto andrebbe integrato nella costituzione al pari del rifiuto della pena di morte. La sua condanna, infatti, attiene alla sfera delle norme fondatrici, alla concezione dei rapporti sociali, ai limiti da imporre alla sfera statale. Non è una semplice questione di legalità, la cui asticella può essere innalzata o abbassata a seconda delle circostanze storiche. In ogni caso introdurre questo capo d’imputazione ha senso solo se prefigurato come “reato proprio”. “La tortura - spiega Eligio Resta - è crimine di Stato, perpetrato odiosamente da funzionari pubblici: vive all’ombra dello Stato”, come ha sancito la Convenzione Onu del 1984. Nella scorsa legislatura, invece, il Parlamento italiano aveva elaborato una bozza che qualificava la tortura come reato semplice, un espediente che lungi dal limitare l’uso abusivo della forza statale ne potenziava ulteriormente l’arsenale repressivo alimentando il senso d’impunità profondo dei suoi funzionari. Ancora nel marzo del 2012, l’allora sottosegretario agli Interni, prefetto Carlo De Stefano, rispondendo ad una interpellanza parlamentare della deputata radicale Rita Bernardini era riuscito ad affermare che almeno fino al 1984 in alcuni trattati internazionali sottoscritti anche dall’Italia erano presenti “limitazioni” di “non di poco conto, (morale e in caso di ordine pubblico e di tutela del benessere generale di una società democratica)”, al divieto di fare ricorso all’uso della tortura. Un modo per mettere le mani avanti e richiamare una inesistente protezione giuridica alle torture praticate in Italia fino a quel momento. D’altronde fu lo stesso Presidente della Repubblica Sandro Pertini che nel 1982, per rimarcare la distanza che avrebbe separato l’Italia dalla feroce repressione che i generali golpisti stavano praticando in Argentina, affermò: “In Italia abbiamo sconfitto il terrorismo nelle aule di giustizia e non negli stadi”. Di lui, ebbe a dire una volta lo storico dirigente della sinistra socialista Riccardo Lombardi, “ha un coraggio da leone e un cervello da gallina”. In Italia le torture c’erano, anche se in quei primi mesi del 1982 non vennero inferte negli spogliatoi degli stadi ma in un villino, un residence tra Cisano e Bardolino, vicino al lago di Garda, di proprietà del parente di un poliziotto (lo ha rivelato al quotidiano L’Arena l’ex ispettore capo della Digos di Verona, Giordano Fainelli e lo ha confermato anche Salvatore Genova, allora commissario Digos). Si torturava anche all’ultimo piano della questura di Verona, requisita dalla struttura speciale coordinata da Umberto Improta, diretta dall’allora capo dell’Ucigos Gaspare De Francisci su mandato del capo della Polizia Giovanni Coronas che rispondeva al ministro dell’Interno Virginio Rognoni. Sulle gesta realizzate da questo apparato parallelo sono emersi negli ultimi tempi fatti nuovi, circostanze, testimonianze, ammissioni. Lo scorso 18 giugno la corte d’appello di Perugia ha deciso di riaprire uno dei pochi processi in cui l’imputato denunciò di avere subito torture. Il seviziatore di Enrico Triaca, conosciuto con lo pseudonimo di professor De Tormentis, aveva ammesso in un libro di avergli praticato il water boarding nel maggio del 1978, in quello che fu un assaggio di quanto avvenne quattro anni dopo. Il suo nome è Nicola Ciocia, oggi ex questore in pensione, ieri funzionario dell’Ucigos. La prima udienza si terrà il prossimo 15 ottobre. Giustizia: l’ideologia della “repressione emancipatrice”, 50 anni di superpotere giudiziario di Paolo Persichetti Gli Altri, 24 giugno 2013 È con il referendum del 1987 sulla responsabilità civile dei magistrati che l’azione della magistratura si impone come uno dei temi centrali della lotta politica. Dopo un decennio di consenso pressoché unanime attorno alla gestione della “emergenza giudiziaria” contro i movimenti sociali e i gruppi della sinistra rivoluzionaria armata, il protagonismo raggiunto dal sistema giudiziario comincia ad essere messo in discussione. Il “caso Tortora” incrina l’unanimità del sistema politico di fronte ad un’azione penale che era andata oltre la delega ricevuta oltrepassando i binari della sola repressione dei gruppi antisistema. Tuttavia questi tentativi di contrasto non indeboliscono la magistratura che, trovando una solida sponda in una parte del sistema politico (il Pci), può accrescere il proprio bagaglio di legittimità sociale erigendosi ad unica istituzione integra del Paese, dopo il rovinoso effetto domino provocato dalla caduta del muro di Berlino sulle fondamenta della Prima repubblica. Non a caso la centralità dell’azione penale si afferma definitivamente nel decennio successivo con l’avvio del ciclo d’inchieste denominate “Mani pulite”, per restare nel ventennio che segue il perno attorno al quale ruota l’agenda politico-istituzionale e si mobilitano i repertori ideologici delle nuove formazioni politiche populiste che si succedono nel frattempo: Lega nord, Girotondi, Idv, popolo Viola, Rivoluzione civile, M5s. Giudiziarizzazione della società Per descrivere questa nuova realtà fu coniato un neologismo, giudiziarizzazione, un fenomeno descritto da autori come Neal Tate e Torbjorn Vallinder in un volume del 1995 che ha fatto scuola, The Global Expansion of Judicial Power, poi divulgato in Europa dai lavori di Antoine Garapon e Denis Salas. Le radici italiane della giudiziarizzazione risalgono agli anni 60, quando le porte della magistratura si aprono a ceti sociali prima esclusi favorendo lo svecchiamento della cultura giuridica. Fu allora che si mise in discussione la mancata applicazione di buona parte del dettato costituzionale, congelato da una sentenza della Corte di cassazione negli anni in cui questa svolgeva il ruolo di supplenza della Consulta non ancora istituita. La suprema corte aveva suddiviso la costituzione in norme immediatamente attuabili e norme programmatiche che il legislatore avrebbe dovuto completare successivamente. Tra queste ultime si trovavano le parti a più alto contenuto innovativo in materia economico-sociale e dei diritti. Per modificare questa situazione la corrente di sinistra della magistratura cominciò ad elaborare la cosiddetta “teoria dell’interferenza”, attraverso la quale - racconta Giovanni Palombarini nel suo Giudici a sinistra, 2000 - si cerca di ripristinare la completezza del dettato costituzionale attraverso un uso dell’interpretazione e delle fonti che riconosce un carattere immediatamente normativo a tutta la Costituzione. Il reintegro del dettato costituzionale con gli strumenti della “creazione giuridica”, difronte all’inerzia o al sabotaggio legislativo della politica, fa emergere una innovativa concezione del ruolo del magistrato come “guardiano della costituzione”: non più mero organo burocratico asservito alle gerarchie dello Stato-apparato ma “soggetto istituzionale indipendente, operante come momento di raccordo fra lo Stato e la società civile”. Questa nuova funzione interventista, contrapposta alla vecchia immagine conservatrice della casta preposta a funzioni di tutela degli interessi più forti e di salvaguardia dell’ideologia dominante, raggiunge la sua maturità intorno alla metà degli anni Settanta. La repressione emancipatrice È questo il decennio in cui si afferma il singolare ossimoro ideologico della repressione emancipatrice, il magistrato si autopromuove avanguardia politica che interpreta i bisogni della società civile, demistifica valori e privilegi delle classi dominanti, tutela dagli abusi i ceti meno abbienti e lavora alla realizzazione di una via giudiziaria per la costruzione di una società più giusta. Il vecchio rivoluzionario di professione passa alla professione di magistrato, una contraddizione in termini che ripristina forme di Stato etico e di moralismo giudiziario, per giunta portando ad invertire il rapporto tra costituzione materiale e costituzione legale, tale da indurre a credere - per esempio - che lo Statuto dei lavoratori fosse il risultato dell’azione dei “pretori d’assalto” e non delle lotte operaie. Nella seconda parte degli anni Settanta, di fronte alla contraddizione introdotta dalla spinta sociale dei movimenti rivoluzionari, si esaurisce la battaglia protesa ad abolire la sopravvivenza di leggi e codici arcaici ereditati dal vecchio Statuto albertino o fascista per sostituirli con le norme inattuate della Costituzione. Si sgretola il terreno della difesa dei diritti, delle garanzie e degli obiettivi di innovazione sociale a tutto vantaggio di una rivalorizzazione e di un ulteriore inasprimento della normativa fascista, che sanziona i reati politici e sottopone ad uno Stato di polizia le libertà pubbliche. Per l’originaria concezione critica e garantista della funzione giurisprudenziale suona il de profundis, come aveva spiegato Luciano Violante, magistrato passato alla politica, sull’Unità del 27 settembre 1979: “La giurisprudenza alternativa poteva di per sé avere un significato di rottura dieci anni fa; ma oggi?”. La delega totale che il mondo politico aveva concesso alla magistratura per liquidare militarmente la dissidenza dei movimenti più radicali, porta all’affermazione del “giudice sceriffo”. Negli anni Novanta il processo di legittimazione sociale che investe una magistratura sempre più combattente, uscita dai tribunali e scesa - come i generali golpisti - nelle piazze, nei posti di lavoro, nelle scuole, fa affiorare la percezione degli enormi spazi che l’azione penale può aprire davanti a sé. Prende forma la teoria della supplenza “del potere giudiziario, in caso di assenza o di carenze del legislativo”, che rivendica per sé un ruolo politico decisivo ed una competenza illimitata che mina i parametri classici della tripartizione dei poteri. Si chiude così la parabola avviata decenni prima. Di fronte al richiamo della statualità l’originario impianto della teoria dell’interferenza escogitato con iniziali intenti progressisti si risolve nel suo contrario: un efficiente apparato concettuale impiegato per definire modelli di regolazione disciplinare della società. Giustizia: Berlusconi condannato a 7 anni di carcere e interdizione perpetua dai pubblici uffici Corriere della Sera, 24 giugno 2013 Al processo Ruby Silvio Berlusconi è stato condannato a sette anni per concussione con l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. È questa la sentenza dei giudici della quarta sezione del tribunale di Milano, presieduti da Giulia Turri. I magistrati si erano riuniti alle 9.45 in camera di consiglio per decidere il verdetto del processo Ruby, in cui Silvio Berlusconi è imputato per concussione e prostituzione minorile. In aula Berlusconi non era presente, mentre c’erano entrambi i suoi avvocati Niccolò Ghedini e Piero Longo. Poco prima della sentenza è arrivata al palazzo di giustizia l’esponente del Pdl Daniela Santanché: “Se Berlusconi viene assolto finalmente si fa un po’ di giustizia”. L’accusa è rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dal procuratore capo Edmondo Bruti Liberati. Assente il procuratore aggiunto Ilda Boccassini, che da tempo aveva programmato un periodo di ferie. Il procuratore capo, che nella prima udienza del 6 aprile 2011 era venuto in aula per esprimere la condivisione dell’ufficio con il lavoro dei due pm, aveva già previsto di essere presente il giorno del verdetto. Mancando Ilda Boccassini, anziché presentarsi in abiti civili come al solito ha messo la toga. Lo scorso 13 maggio il pm Ilda Boccassini nella sua requisitoria ha chiesto per l’ex presidente del Consiglio e leader del Pdl una condanna a 6 anni e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Processo Ruby, il giorno della sentenza Processo Ruby, il giorno della sentenza Processo Ruby, il giorno della sentenza Processo Ruby, il giorno della sentenza Processo Ruby, il giorno della sentenza Processo Ruby, il giorno della sentenza Come previsto decine di giornalisti, fotografi e troupe televisive si sono radunati, dalle prime ore della mattinata, davanti a Palazzo di Giustizia. Tra loro diversi corrispondenti e inviati di testate e televisioni straniere, come Al Jazeera e Cnn, ma anche tv danesi, tedesche e giapponesi, oltre a prestigiosi quotidiani inglesi come Guardian e Daily Mail. In corso di Porta Vittoria, dove si trova l’ingresso principale del Tribunale, sono schierati i furgoni per le dirette televisive, davanti agli sguardi incuriositi dei passanti. E’ apparso anche un gruppetto di dimostranti pro-Boccassini, con cartelli “Giustizia, legalità e dignità” e “Ilda non te ne andare” (riferiti alla possibilità di un trasferimento a Firenze). Due sostenitrici di Silvio Berlusconi si sono presentate per manifestare il loro sostegno all’’ex premier: una di loro si è avvolta in una bandiera di Forza Italia. “Si tratta di un processo fasullo - ha spiegato - ed è giusto che Berlusconi non sia perseguitato dalla giustizia”. Una manifestante in bicicletta ha esposto un cartello con la scritta: “Berlusconi è ineleggibile, insostenibile, impresentabile, innominabile e infrequentabile”. Luigi Dossena, autore satirico di Roma, ha esposto un suo lavoro intitolato “La Bibbia di Arcore”, con ritagli di foto di Berlusconi e di Nicole Minetti vestita da suora. All’inizio dell’udienza, durata pochi minuti, il presidente del collegio Giulia Turri ha consegnato al pm e alla difesa di Berlusconi un esposto presentato ai carabinieri di Montagnana, in provincia di Padova. A quanto si è appreso, nella missiva un cittadino del paese dice di aver conosciuto Ruby nella primavera del 2010 e che la ragazza gli disse, in quell’occasione, che il 14 febbraio dello stesso anno aveva incontrato Silvio Berlusconi. Subito dopo l’avvocato Niccolò Ghedini ha preso la parola, e ha depositato un breve documento per commentare “la poderosa memoria” depositata dai pm, un commento di poche pagine sulla deposizione del 17 maggio scorso di Karima El Mahorug al processo parallelo a carico di Emilio Fede, Lele Mora e Nicole Minetti, di cui sono stati acquisiti i verbali. La ragazza marocchina aveva sostenuto di non essere mai stata una prostituta e aveva definito “cavolate” i suoi precedenti racconti sui milioni che avrebbe dovuto ricevere da Berlusconi. “Visto che il tribunale ha deciso - ha spiegato Ghedini - di annettere i verbali resi da Karima, abbiamo deciso per una breve memoria di commento alle sue dichiarazioni”. Ghedini ha consegnato anche la “documentazione che riguarda la sentenza di Trani e la giurisprudenza di cui abbiamo parlato la scorsa volta”. Tutti questi documenti erano già stati fatti pervenire al procuratore Edmondo Bruti Liberati, che oggi in aula sostituisce il procuratore aggiunto Ilda Boccassini, e al sostituto Antonio Sangermano. Il pm Sangermano, per l’accusa, ha rinunciato alle repliche e i giudici hanno dichiarato chiuso il dibattimento. Il collegio presieduto da Giulia Turri si è quindi ritirato in camera di consiglio per emettere la sentenza. Giustizia: cella Provenzano priva videosorveglianza per 8 mesi, indaga Procura di Palermo di Umberto Lucentini L’Espresso, 24 giugno 2013 Sul boss di Cosa Nostra, detenuto nel carcere di Parma, dev’esserci massima attenzione. Ma nonostante nel 2012 sia stato segnalato un suo tentativo di suicidio, la cella rimasta priva di videosorveglianza per 8 mesi. La Procura di Palermo vuole fare luce sui “buchi neri” della detenzione di Bernardo Provenzano nel carcere di Parma. Un’indagine stata aperta sui giorni trascorsi senza che sul capo di Cosa Nostra, sottoposto al regime del “carcere duro”, vi fosse una vigilanza continua come avrebbe imposto il suo lignaggio criminale e come accade per tanti altri mafiosi finiti al “41 bis”. Un caso, quello della mancata sorveglianza costante sul boss mafioso, scoppiato dopo l’episodio avvenuto il 10 maggio del 2012. Quella sera Provenzano venne scoperto dagli agenti penitenziari del carcere parmense mentre armeggiava con un sacchetto che conteneva un frutto, e fin dal primo momento si parlò di tentato suicidio. Da allora, la Procura di Palermo, con i sostituti Nino Di Matteo e Roberto Tartaglia, ha avviato un’indagine per capire cosa sia accaduto a Provenzano, che pareva fosse disposto ad “aprirsi” con la magistratura e a raccontare i suoi segreti che fanno paura a tanti. E così anche il giudice per le indagini preliminari, Piergiorgio Morosini (il gip che ha disposto il rinvio a giudizio degli imputati del “processo sulla trattativa Stato-mafia”, tra i quali c’è anche Provenzano) ha iniziato a porre domande alla direzione del carcere di Parma. Scoprendo che dal tentato suicidio di Provenzano (appunto il 10 maggio 2012) all’inizio dei lavori per installare una videosorveglianza costante dentro la cella del super boss, di tempo ne passato. Per l’esattezza i lavori risultano iniziati il 18 febbraio 2013, cioè otto mesi e qualche giorno dopo. Una lettera spedita dal carcere di Parma agli uffici giudiziari di Palermo ha infatti fissato i tempi che sono stati necessari perché la sorveglianza sul capomafia diventasse continua. Procura e gip di Palermo hanno scoperto che solo il 5 marzo 2013 sono iniziate le videoriprese all’interno della cella. Tra l’altro, anche su input dei legali di Provenzano (i familiari temono per le condizioni di salute del boss, il video in cui egli accenna al fatto di aver preso botte stato trasmesso giorni fa dal programma tv di Michele Santoro, “Servizio pubblico”), si scoperto che per un lungo periodo le registrazioni video venivano cancellate ogni mese per asseriti motivi di spending review, perché gli stessi supporti venivano utilizzati più volte per memorizzare ulteriori riprese. I pm di Palermo, Di Matteo e Tartaglia, hanno invece disposto che le registrazioni debbano restare conservate negli archivi del carcere di Parma per almeno sei mesi. Cos da rendere costante la videosorveglianza su Provenzano, che pochi giorni fa stato di nuovo ricoverato in un reparto sanitario per detenuti per l’aggravarsi delle condizioni di salute. Lettere: il suicidio degli operatori penitenziari di Luigi Cancrini (psichiatra e psicoterapeuta) L’Unità, 24 giugno 2013 Un agente di 32 anni, in servizio al dipartimento della Giustizia minorile, si è ucciso lanciandosi dal balcone di casa della nonna a Roma. È il quinto caso, nel 2013. Benché indotti dalle ragioni più varie e comunque strettamente personali, questi suicidi sono tanti, troppi: circa 100 dal 2000 ad oggi. Roberto Martinelli Sappe - Sindacato autonomo polizia penitenziaria Risponde Luigi Cancrini Scriveva Freud tanti anni fa (Analisi terminabile e interminabile, 1937) che l’esposizione continuata, quotidiana alle manifestazioni del dolore umano può determinare squilibri importanti. Di psicoanalisti parlava Freud e della durezza del loro lavoro riflettendo sul modo in cui il disagio psichico interferiva sulla qualità delle loro terapie e il suo discorso può (deve) essere esteso, tuttavia, a molte altre categorie professionali. Agli psichiatri, per esempio, che si suicidano con una frequenza significativamente maggiore di tutti gli altri professionisti e agli operatori della polizia penitenziaria: esposti per anni e anni non solo alla consuetudine con il dolore dei detenuti, alla desolante inattualità del sistema in cui prestano servizio ed alla carenza grave di una formazione che non prevede la necessità di difendersi da questo tipo di rischio. Allargare il campo delle malattie professionali ad una valutazione di tossicità di esperienze particolarmente dure dal punto di vista psicologico sarebbe importante, a mio avviso, per la tutela dell’equilibrio psichico e della salute degli operatori e potrebbe dare un contributo importante alla umanizzazione complessiva del sistema carcerario. Prendendo come spunto il caso del trentaduenne che si è suicidato in questi giorni per una riconsiderazione attenta del concetto degli infortuni collegati alla nocività psichica di un ambiente di lavoro. Emilia Romagna: Giornata internazionale contro la tortura, raccolta firme in tre carceri Ansa, 24 giugno 2013 Nella Giornata internazionale contro la tortura, mercoledì 26 giugno, è prevista una raccolta di firme a sostegno della sottoscrizione di tre proposte di legge d’iniziativa popolare per la giustizia e i diritti. Le Camere penali dell’Emilia-Romagna, in collaborazione con la Garante regionale delle persone private della libertà personale, promuovono e organizzano questa raccolta di firme all’interno degli istituti penitenziari - viene spiegato - per permettere anche ai detenuti di esercitare il diritto di partecipazione e cittadinanza. I tre progetti di legge di iniziativa popolare riguardano: introdurre il reato di tortura nel Codice Penale. Per la legalità e il rispetto della Costituzione nelle carceri: modifiche alla legge “ex Cirielli” sulla recidiva; introduzione del “numero chiuso” degli ingressi in carcere; istituzione del Garante nazionale; abolire il reato di clandestinità. Modificare la Legge sulle droghe. Per approfondire i temi delle proposte di legge: http://www.3leggi.it/. Nel sottolineare il senso della sua adesione, la Garante dei detenuti, Desi Bruno, rivolge un ringraziamento al Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria, ai Direttori degli Istituti, alla Magistratura di Sorveglianza, ai Garanti territoriali di Bologna, Ferrara e Piacenza, al volontariato e a coloro che si sono resi disponibili come autenticatori delle firme per il buon esito dell’organizzazione. Nella stessa giornata, a Bologna, il Comitato promotore la campagna “3 leggi per” allestirà un banchetto di raccolta firme in via D’Azeglio, in prossimità del Tribunale. Lecce: poco spazio in cella? basta tenere aperta la porta… il tribunale impone spazi umani Andrea Gabellone www.linkiesta.it, 24 giugno 2013 Si chiama “vigilanza dinamica”, è una soluzione “all’italiana” al problema del sovraffollamento. Evadere da quei 3 claustrofobici metri quadrati a disposizione e riguadagnare spazio e dignità sottratti. Non si tratta di un’azione illegale, ma di un diritto finalmente riconosciuto. È l’ordinanza 2013/1324, datata 16 maggio 2013, del Tribunale di sorveglianza di Lecce, che dispone il trasferimento di un detenuto nel carcere di Borgo San Nicola “in una cella adeguata alla normativa vigente”. Nulla di più e nulla di meno che nel rispetto della legge. Eppure, è la prima volta che accade in Italia: un giudice ordina all’amministrazione penitenziaria di mettere a disposizione del detenuto le condizioni previste dai regolamenti. E lo fa con un’ordinanza che - secondo una recente sentenza della Corte costituzionale - ha effetto coercitivo. In buona sostanza, se l’amministrazione del carcere non dovesse eseguirla nell’immediato, commetterebbe un reato. Il provvedimento, qualora divenisse esempio per altri detenuti e per altre realtà, potrebbe avere l’effetto di un macigno sulla situazione ormai disperata delle carceri italiane. Tassi di sovraffollamento altissimi e frequenti suicidi, infatti, hanno reso tristemente famosi in tutta Europa i penitenziari di casa nostra. “Ma è da qui che bisogna ripartire”, ha commentato l’avvocato Alessandro Stomeo, difensore del detenuto leccese. “La soluzione del problema non si trovava nel divieto di tortura o nell’articolo 27 della Costituzione. Esistono, molto semplicemente, delle norme interne: l’articolo 6 dell’ordinamento penitenziario e il decreto ministeriale del 5 luglio del 1975 prevedono delle misure minime per le strutture che ospitano il detenuto”, osserva Stomeo. Misure che, nella fattispecie, il carcere leccese non rispetta. La Asl di Lecce, incaricata dal magistrato di sorveglianza per controllare i requisiti della cella in questione, ha notificato che “la superficie pavimentata della cella è di 10,17 metri quadrati, che vi è sufficiente illuminazione naturale, che all’interno della cella vi è un servizio igienico di 1 metro quadrato con lavabo, vaso e bidet con aerazione forzata al momento dell’accertamento malfunzionante; che la cella presenta chiazze di muffa in prossimità delle finestre, presumibilmente dovute ad infiltrazioni di acqua, che i letti sono a castello e l’ultimo è a 50 centimetri dal soffitto”. Ogni cella del carcere di Lecce - nonostante il progetto ne prevedesse un uso individuale - ospita tre persone. Ogni individuo dispone di uno spazio calpestabile pari a circa 3 metri quadrati: se non una tortura, qualcosa di molto simile. Nella casa circondariale di Borgo San Nicola, attualmente, ci sono circa 1150 detenuti, ma dovrebbero essere solo 659. In linea con i numeri nazionali: il rapporto Antigone del 2012 parlava di un tasso di affollamento del 142,5%, a fronte del 99,6% della media europea. E se svuotare le carceri in tempi brevi è pura utopia, quali potrebbero essere le soluzioni possibili? Escludendo la realizzazione di nuove strutture - operazione che contribuirebbe solo a ingrandire il problema - lasciare aperte le porte delle celle durante il giorno, permettendo così ai reclusi di usufruire anche dello spazio dei corridoi interni, rappresenta di fatto un escamotage. Tecnicamente, si chiama “vigilanza dinamica” e alcune sezioni detentive italiane la stanno già sperimentando. Tuttavia, anche questo sistema avrebbe i suoi rischi. Se così fosse, infatti, potrebbe insorgere la polizia penitenziaria, costretta già in molti casi a lavorare con un organico ridotto e con misure di sicurezza al limite. Insomma, una questione complicata da risolvere; almeno nell’immediato. L’Europa, d’altra parte, ci chiede trasparenza: dal settembre del 2012 il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa è in attesa dei dati dettagliati sul sovraffollamento dei penitenziari italiani. Lo stesso Comitato che, all’inizio del mese di giugno, ha preso in esame la prima condanna pronunciata nel 2009 contro l’Italia dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per la violazione dei diritti dei detenuti. Strasburgo richiede concretezza: l’Italia ha un anno di tempo per presentare le contromisure al problema del sovraffollamento e, su questo piano, il provvedimento del Tribunale di sorveglianza di Lecce sembra solo un valido motivo in più per decidere e per far presto. Napoli: a Poggioreale suicidi e detenuti psichiatrici, depositata interrogazione parlamentare Il Mattino, 24 giugno 2013 Nel giorno della visita del capo del Dap, l’associazione Antigone segnala tra le criticità anche le attese estenuanti per i colloqui. Sabato scorso la visita del capo del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino, nel carcere di Poggioreale. Arriva a Napoli per una cerimonia di “intitolazione” di Poggioreale a Giuseppe Salvia, vicedirettore fatto uccidere dalla camorra una trentina di anni fa. Nella casa circondariale partenopea sono presenti circa 2.800 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 1.430 unità. Ma l’istituto, noto alla cronaca per il problema del sovraffollamento, presenta anche altre forti criticità. Tanto che è stata presentata una interrogazione parlamentare. È quanto sottolinea in una nota l’associazione Antigone. L’interrogazione parlamentare. “Il 30 maggio 2013, a seguito delle denunce di Antigone - dichiara Mario Barone, presidente dell’associazione in Campania e componente dell’Osservatorio sulle condizioni di detenzione -, è stata depositata alla Camera dei deputati, un’interrogazione parlamentare con cui si chiedono al ministero della Giustizia risposte circa la presenza nel padiglione cosiddetto Avellino destro di detenuti isolati per ragioni psichiatriche, forma di isolamento vietata da diverse circolari dello stesso Dap allo scopo di prevenire episodi di autolesionismo o di suicidio”. Quindi la richiesta: “Sarebbe auspicabile che il dottor Tamburino visitasse il cosiddetto Avellino destro, onde verificare se le circolari emanate dal Dipartimento di cui è a capo vengono rispettate nella casa di reclusione di Poggioreale”. Il suicidio. Non solo: qualche giorno fa, “nell’istituto si è suicidato un detenuto sottoposto ad isolamento giudiziario da circa 10 giorni: l’accoglimento riservato a chi è al vertice dell’amministrazione penitenziaria non sembra essere dei migliori. L’isolamento - sottolinea Barone, sia esso disposto per ragioni disciplinari, sanitarie o giudiziarie, rappresenta un fattore di rischio per l’individuo-detenuto e va limitato fortemente sotto il profilo temporale”. Le attese per i colloqui. Fa notare il presidente di Antigone Campania che la cerimonia si svolge di sabato, giornata in cui non ci sono i colloqui dei detenuti con i loro familiari. “È da sempre che donne, anziani, bambini sono costretti ad estenuanti attese sin dalle prime luci del giorno davanti ai cancelli: chiediamo al capo del Dap di venire a visitare la prigione di Poggioreale in un giorno qualsiasi della settimana, per rendersi conto di persona di questa indecenza”. Conclude Barone: “Se questo è il volto della legalità che lo Stato italiano trasmette a questi bambini, nessun martire della lotta al crimine potrà convincerli che il giusto sta dalla parte della legge”. Avellino: domani protesta poliziotti penitenziari; siamo pochi e ci sono sempre più detenuti www.ottopagine.net, 24 giugno 2013 Nuovo sos dei sindacati di categoria per il carcere di Bellizzi Irpino. Stavolta il segretario nazionale del sindacato autonomo della polizia penitenziaria ha incontrato il presidente della commissione giustizia del senato della Repubblica, ex guardasigilli, Nitto Francesco Palma. Carceri sovraffollate con cifre da capogiro: sono infatti circa 8.500 i detenuti ospitati nelle carceri campane. “Basta citare ad esempio l’istituto di Napoli Poggioreale che ospita circa 2.900 detenuti - spiega -. Senza dimenticare che il personale della polizia penitenziaria è già sottorganico rispetto alla piante organiche previste dal decreto ministeriale del 2001 e continua a diminuire a causa dei pensionamenti e per l’assolvimento di nuovi compiti Istituzionali”. Le attuali condizioni operative del corpo non consentirebbero, di fatto, di garantire, come annunciato dal ministro della Giustizia Cancellieri, la prossima apertura di nuovi padiglioni ricadenti nelle sedi penitenziarie di Santa Maria Capua Vetere, Ariano Irpino e Carinola. “Sedi queste già al collasso per note carenze strutturali e carenze degli organici dei diversi comparti. “Il Presidente Palma ha garantito il suo costante interessamento per addivenire a idonee soluzioni per deflazionare il sistema penitenziario, inoltre egli ci ha purtroppo confermato il progetto ormai esecutivo di conversione della Sfapp di Aversa come sede di Uffici giudiziari previsti nella nuova “geografia giudiziaria” voluta dalla politica Governativa. La scrivente Segreteria in linea con le direttive della Segreteria Generale di Roma ha annunciato lo stato di agitazione contro una politica scellerata dell’Amministrazione posta in essere dal Capo del Dipartimento Giovanni Tamburino e ha annunciato una nuova manifestazione di protesta per martedì in concomitanza della festa del corpo presso l’Istituto penitenziario di Avellino, manifestazione che segue di pochi giorni quella avutasi davanti all’Istituto di NapoliPoggioreale.- Protesteremo, quindi, ad Avellino in considerazione del fatto che l’istituto irpino con l’apertura del nuovo Padiglione ha fatto lievitare la popolazione detenuta a circa 700 unità in una struttura che ne dovrebbe contenere circa la metà, sede tra l’altro lasciata senza una Dirigenza titolare e stabile dall’inizio dell’anno ad oggi”. Pordenone: nuovo carcere a San Vito, la Serracchiani chiede conto al ministro di Stefano Polzot Messaggero Veneto, 24 giugno 2013 Alla cerimonia in Questura erano seduti uno accanto all’altro, ma oltre a un saluto di cortesia non si sono parlati. È un solco profondo quello che si è formato tra il sindaco di Pordenone, Claudio Pedrotti, e il senatore Lodovico Sonego, reo di aver lavorato per portare il nuovo carcere a San Vito. Sono finiti i tempi in cui Sonego convinceva Pedrotti a firmare l’appello pro-Bersani segretario del Pd: tra i due ora c’è il gelo. Oltre alla freddezza nei rapporti, la guerriglia, perché Pedrotti non intende limitarsi alla protesta formale. Ha alzato la cornetta del telefono e chiamato la presidente della giunta regionale, Debora Serracchiani, per chiederle un intervento nei confronti del ministero. Un’azione che la Serracchiani compirà per conoscere quali sono le motivazioni che hanno spinto il commissario, Angelo Sinesio, a preferire San Vito a Pordenone. Si tratta dell’unica carta possibile per rovesciare un risultato che sarebbe già scritto in quanto tra Stato e Regione vige ancora l’accordo di programma del 2010 che prevedeva la realizzazione del penitenziario in Comina. È ben vero che la giunta Tondo, con una delibera di generalità - pare non sia mai arrivata formalmente nei palazzi romani - ha aperto alla soluzione San Vito ritirando la disponibilità a stanziare 20 milioni di euro, ma la nuova giunta regionale potrebbe rovesciare questo indirizzo. Cosa non facile: la ristrutturazione della Dall’Armi ha avuto il placet dei tecnici perché, a conti fatti, costa di meno. Il nuovo carcere, già dimagrito nei posti (da 450 a 300 detenuti ospitabili) può contare su uno stanziamento di 25 milioni (contro i 45 milioni con la compartecipazione). A San Vito il terreno è disponibile a titolo gratuito, in base all’accordo col Comune, e, inoltre, non sono necessarie grandi opere infrastrutturali visto che la caserma è già dotata della rete fognaria e non richiede modifiche alla viabilità. Interventi che sommano qualche milione di euro e che hanno fatto propendere l’ago della bilancia verso San Vito. Resta il giallo, però, dell’effettiva disponibilità delle risorse. Fino ai giorni scorsi, lo stesso commissario, nella sua relazione, rappresentava che i bandi di gara per i penitenziari di Torino, Catania e Pordenone (quest’ultimo previsto a ottobre) potevano essere emessi, ma senza il trasferimento dei 122,2 milioni stanziati dal Cipe nel 2012 alla contabilità speciale del commissario i pagamenti non possono essere fatti. In sostanza l’impresa vincitrice potrebbe essere costretta a lavorare a credito, senza ottenere acconti sullo stato di avanzamento dei lavori. Per ammissione del commissario questo limiterebbe il numero dei partecipanti alla gara. Al di là del fronte ministeriale e dei nodi tecnici, l’offensiva di Pedrotti è pure politica. “Il carcere - ha affermato - è elemento riconoscitivo del capoluogo ed è incredibile che il centro-sinistra, che gode di una forte rappresentanza a Trieste e a Roma, si divida e non ottenga risultati condivisi. Il carcere e l’ospedale sono la linea Maginot della provincia e per questo motivo è necessario un tavolo comune per decidere ed evitare di vanificare il lavoro di anni”. Un appello che trova riscontro nel deputato Giorgio Zanin: “Al di là della scelta tra Pordenone e San Vito, il Governo deve concordate le decisioni col territorio”. Oristano: la ristrutturazione dell’ex carcere affidata ai detenuti di Michela Cuccu La Nuova Sardegna, 24 giugno 2013 Coltivare la terra, allevare gli animali, trasformarne i prodotti che non hanno una sola valenza commerciale, ma anche sociale. Che parla di riabilitazione ed integrazione di detenuti, ma anche di lotta alle povertà estreme e coinvolgimento di disabili. Da qualche anno a questa parte sono questi solo alcuni degli obiettivi seguiti attraverso una serie di coraggiosi progetti che hanno messo insieme, l’amministrazione penitenziaria, diversi Comuni, l’agenzia Laore e la Cooperativa sociale Il seme. Agricoltura e non solo, perché attraverso la Soprintendenza archeologica, sono state portate avanti campagne di scavi che hanno permesso il recupero di monumenti preziosissimi, fra tutti, il Forum Traiani di Fordongianus e il Ponte di Othoca a Santa Giusta. Per il futuro, si spera non troppo lontano e lungaggini burocratiche permettendo, si punta ad un progetto ancora più ambizioso: ristrutturare l’ex carcere di piazza Manno per rimettere in luce quella che fu la reggia giudicale, utilizzando come manodopera gli stessi detenuti, oggi rinchiusi nel nuovo carcere di Massama. L’annuncio lo hanno dato ieri mattina proprio a Massama il direttore della Casa circondariale, Pierluigi Farci e l’archeologo Raimondo Zucca. L’occasione l’ha data il 28° convegno sui temi dell’agricoltura sociale organizzato dalla Cooperativa Il Seme di Santa Giusta. È stata l’occasione non solo di fare il punto sui progetti che il carcere di Oristano ha portato avanti con i Comuni di Oristano, Santa Giusta, Fordongianus, Norbello e Bosa e Il Seme, sia per l’agricoltura sociale E per attività di recupero di aree archeologiche, ma anche per parlare del futuro dell’agricoltura sociale. Non a caso, ieri mattina fra i relatori c’erano i senatori di Sel, Loredana De Petris e Luciano Uras, firmatari della proposta di legge nazionale che, se accolta, punta non solo al riordino delle norme di riferimento per il finanziamento e l’attuazione di progetti di agricoltura sociale, ma soprattutto, per dare a questa realtà dinamiche più moderne, sia sul fronte della commercializzazione dei prodotti, ma anche per dare una nuova ottica ai servizi sociali, come nel caso dei progetti sui lavori socialmente utili o i cantieri destinati alla lotta contro le grandi povertà. Una legge che, attraverso la valorizzazione di esperienze e realtà r con la collaborazione delle istituzioni e delle amministrazioni, potrebbe dare risposte importanti sul fronte del riequilibrio sociale. “Sull’agricoltura - ha detto ad esempio la senatrice De Petris, dobbiamo riuscire a trovare un sistema più snello e moderno ad esempio per l’utilizzo delle terre pubbliche o di quelli confiscati da assegnare proprio a questo genere di progetti”. Introducendo il convegno, Antonello Comina, presidente della cooperativa Il Seme ha ricordato come fra gli obiettivi più importanti ci sia quello di “creare economia locale dall’agricoltura sociale. Non è un caso - ha detto - che in progetti come quello portato avanti a Norbello o a Santa Giusta, trovino impiego anche persone del posto”. Insomma, l’agricoltura sociale non vista come una esperienza a termine o sporadica, piuttosto come un progetto a lunga durata, capace di creare opportunità per il futuro. Detenuti-archeologi al lavoro Dieci operai, dei quali, due detenuti del carcere di Massama e due pazienti del Centro di igiene mentale di Oristano, saranno impegnati un’opera destinata ad arricchire ulteriormente il già ricco patrimonio archeologico del territorio. Il sottosuolo nelle campagne lungo la vecchia “Via de Casteddu”, nasconderebbe infatti una fattoria di età romana. La scoperta risale a qualche mese fa e presto l’area sarà interessata da una campagna di scavi archeologici. Ora però si parte con una campagna di sondaggi, anche attraverso sistemi per fotografare il sottosuolo, in maniera da confermare l’ipotesi degli studiosi. Ovvero che quella parte di fertile campagna venisse sfruttata in maniera razionale fin dall’antichità. Domani si inizia con un incontro di preparazione degli otto addetti ai lavori, dei quali, quattro inseriti attraverso il programma dell’assessorato regionale al Lavoro nell’ambito del Servizio civico regionale. È la Cooperativa agro-sociale Il Seme di Santa Giusta, ad aver ideato il progetto che vede assieme anche il Comune, la Casa circondariale di Oristano, la Asl 5, l’Università di Sassari (il responsabile scientifico del cantiere è infatti l’archeologo Raimondo Zucca) e la Fondazione Banco di Sardegna. Antonello Comina, presidente de “Il Seme”, racconta come si è giunti alla scoperta dei primi reperti, probabilmente delle mura, che hanno fatto ipotizzare la presenza di una fattoria romana. “Il sito è interno ai terreni della nostra cooperativa - dice - la scoperta non deve stupire: le campagne della Sardegna sono ricchissime di tesori archeologici. Abbiamo però pensato di cogliere l’occasione per aprire un cantiere di archeologia del paesaggio. Faremo insomma da apripista a quello che in futuro potrebbe rappresentare un ulteriore valore aggiunto per l’agricoltura isolana, con le aziende che oltre a coltivare e allevare, offrono la possibilità di far conoscere il patrimonio archeologico”. Il sindaco di Santa Giusta, Angelo Pinna, è entusiasta. “In questo modo il nostro territorio arricchisce il suo già consistente patrimonio archeologico. Senza contare che questo cantiere assume una valenza sociale importantissima, dando la possibilità di lavorare a persone particolarmente svantaggiate”. Non è il primo cantiere che a Santa Giusta vede impegnati anche detenuti del carcere di Oristano: già in precedenza, una formula simile era stata adottata per la formazione delle maestranze del progetto Archeo 3, per il ponte romano. Oggi ai detenuti si affiancheranno pazienti seguiti dal Centro di Igiene mentale. “Da tempo siamo impegnati in attività di agricoltura sociale - spiega Antonello Comina - dal 2005 in collaborazione con la Casa circondariale di Oristano operiamo in diversi Comuni della provincia con cantieri archeologici, l’agricoltura e la trasformazione dei prodotti”. Si prosegue dunque su una strada tracciata che ha già portato a ottimi risultati. Catania: il ministro Cancellieri inaugura il reparto per i detenuti all’Ospedale Cannizzaro La Sicilia, 24 giugno 2013 Non poteva mancare da parte del ministro della Giustizia la posizione al caso Miccoli, ex giocatore del Palermo. Annamaria Cancellieri a Catania per inaugurare il nuovo reparto di Medicina Protetta all’ospedale Cannizzaro di Catania dichiara “inammissibili alcune esternazioni nei confronti del giudice Falcone, ma non voglio entrare nei particolari di un’indagine e quindi in materie che non mi competono”. Il ministro dopo una breve visita del reparto di degenza riservato ai detenuti si è complimentata con la direzione dell’azienda ospedaliera per il lavoro svolto. La struttura è stata realizzata dalla collaborazione fra il Ministero della Giustizia, l’assessorato della Salute della Regione Sicilia e il Cannizzaro, ed è stata progettata d’intesa con l’Amministrazione Penitenziaria e realizzato nei tempi previsti. L’area di degenza comprende sei stanze, ciascuna dotata di sei posti letto, e appositi locali per controllo, colloqui, medicheria. A margine dell’inaugurazione del reparto si è svolta una manifestazione pacifica del comitato contro la soppressione del tribunale di Nicosia previsto dal decreto sulla riorganizzazione della geografia degli uffici giudiziari. Il ministro ha incontrato una delegazione tra cui il sindaco: “Da Nicosia - dichiara la Cancellieri - arriva una voce forte, come da altre città, ma come voi sapete è impossibile poter cambiare la Riforma. Ma questo governo non lascerà inascoltate le loro istanze”. L’inaugurazione del reparto di medicina protetta si è concluso con un congresso a cui hanno partecipato tutte le autorità civili e militari di Catania. Seduto accanto al ministro il Presidente della Regione Rosario Crocetta, il sindaco di Catania, Enzo Bianco e il procuratore Giovanni Salvi. “Questo è un giorno importante - hanno commentato - soprattutto per aver attuato i principi cardine della Costituzione che è quello di garantire il diritto alla salute a tutti”. Il procuratore Salvi, a margine, ha annunciato con entusiasmo che presto sarà inaugurato un nuovo padiglione per il carcere di Piazza Lanza. Su questo tema il ministro della Giustizia ha assicurato: “I fondi necessari per garantire la riqualificazione delle carceri siciliane ci sono”. Poi la Cancellieri spinta dai giornalisti commenta la vicenda del Cavaliere sul processo Ruby: “Non penso ci siano motivi perchè la sentenza possa avere ripercussioni sul governo, ma sono vicende politiche in cui non voglio entrare”. Crocetta: reparto detenuti per tutela dignità “Ritengo ci sia veramente un problema, così come sottolineato dal ministro Cancellieri. Le nostre carceri sono spesso disumane e la condizione dei detenuti è terribile”. Lo ha detto il presidente della Regione Siciliana, Rosario Crocetta, oggi a Catania, partecipando alla cerimonia di inaugurazione del reparto detenuti dell’ospedale “Cannizzaro”. “Queste strutture - ha aggiunto - valorizzano e tengono conto della dignità dell’essere umano, perchè la pena non deve servire non a punire, ma a recuperare i detenuti”. Stiamo chiudendo Opg di Barcellona “Stiamo chiudendo la struttura di Barcellona Pozzo di Gotto, che è un lager, la stiamo smantellando progressivamente con la collaborazione del ministero della Giustizia”. Lo ha ribadito, in riferimento al carcere psichiatrico di Barcellona Pozzo di Gotto, in provincia di Messina, il presidente della Regione Siciliana, Rosario Crocetta, oggi a Catania, partecipando alla cerimonia di inaugurazione del reparto detenuti dell’ospedale “Cannizzaro”. Lucia Borsellino: tassello nel processo di riqualificazione del sistema sanitario “Oggi si fissa un altro tassello nel processo di riqualificazione del sistema sanitario in Sicilia con l’attivazione di un reparto dedicato ai detenuti”. Così l’assessore regionale alla Sanità Lucia Borsellino, oggi a Catania, ha commentato l’apertura del reparto di medicina protetta all’ospedale Cannizzaro. “Un progetto importante - ha detto l’assessore - che si colloca in un contesto più ampio di recepimento delle norme in materia di medicina penitenziaria che sulla base del contesto normativo sono trasferite al sistema sanitario regionale. Una conquista per la Sicilia - ha aggiunto - perché si tratta dell’unico reparto presente nella regione e che quindi fungerà da punto di riferimento per tutti i detenuti che hanno bisogno di cure e per cui è necessario il ricovero ospedaliero”. Alessandria: Sappe; detenuto aggredisce agenti, feriti due poliziotti Ansa, 24 giugno 2013 Due agenti della polizia penitenziaria, in servizio al carcere di Alessandria, sono stati feriti da un detenuto italiano, che li ha aggrediti con una lametta. Lo rende noto il Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe), che denuncia una “situazione ben oltre il limite della tolleranza”. “Le tensioni in carcere crescono di ora in ora - afferma il segretario generale del Sappe, Donato Capece - bisogna garantire una adeguata sicurezza, altrimenti il sistema implode”. Reggio Calabria: detenuto tenta il suicidio, salvato dai poliziotti penitenziari Agi, 24 giugno 2013 Un sovrintendente e un assistente della polizia penitenziaria hanno salvato la vita di un detenuto che aveva tentato il suicidio nel carcere di Reggio Calabria. Lo rendono noto Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del sindacato Sappe, e Damiano Bellucci, segretario nazionale. Il fatto si è verificato il 22 giugno, verso le ore 14. “Si tratta - spiegano - di uno dei circa 1.100 tentativi di suicidio che si verificano ogni anno nelle affollate carceri italiane”. “Negli ultimi 20 anni - continuano - sono stati salvati circa 17.000 detenuti, che avevano tentato di suicidarsi”. I due sindacalisti affermano anche di aver preso atto dell’ennesimo rinvio dell’inaugurazione del nuovo carcere della città “che, a questo punto, - dicono - non sappiamo quando aprirà”. Salerno: cresta sulla spesa in cella, nel mirino 2 detenuti Metropolis, 24 giugno 2013 Cresta sul sopravvitto in carcere, rivolta dei detenuti contro i colleghi ed uno dei lavoranti chiede di essere messo in isolamento per paura di ripercussioni, l’altro viene trasferito in un’altra struttura della provincia. È esplosa circa 15 giorni fa una vicenda che ancora una volta mette in luce le criticità e le contraddizioni che si vivono nel carcere di Salerno-Fuorni. Da mesi numerosi detenuti - soprattutto quelli arrivati da poco o in transito - si vedevano scalati dal proprio conto spesa beni di prima necessità che avevano chiesto di acquistare ma che in realtà non ricevevano. Zucchero, caffè, olio, sale ma anche detersivi o prodotti per la pulizia personale e della cella vengono acquistati attraverso una ditta esterna che solitamente è la stessa impresa di mantenimento già presente in carcere. Si occupano della richiesta dei beni, ma anche della distribuzione gli stessi detenuti che per questo lavoro percepiscono una sorta di piccolo stipendio. Detenuti lavoranti che - in questo caso - pare si siano approfittati dei colleghi mancando di consegnare la merce acquistata e tenendola per se stessi, o magari regalandola ad altri. Un andazzo scoperto circa quindici giorni fa, nel carcere di Fuorni, e che è oggetto di un’indagine interna e di una segnalazione alla Procura della Repubblica. I due lavoranti addetti al sopravvitto (così si chiama la spesa che ogni giorno il detenuto può prenotare presso la ditta che si occupa di rifornire il carcere), negli ultimi mesi hanno dovuto però correre ai ripari dopo che sono stati scoperti. Per evitare problemi di incolumità personale e eventuali vendette da parte dei detenuti truffati, uno dei due lavoranti si è auto isolato. Ha chiesto ai vertici del carcere e agli addetti alla sicurezza di essere messo in una cella protetta, evitando contatti con gli altri reclusi. Pare abbia raccontato al personale della sicurezza interna che sta indagando sul caso, la metodologia utilizzata in questi mesi per appropriarsi - senza pagare - di beni di prima necessità per la propria sopravvivenza in carcere. Spiegando dove andavano a finire derrate alimentari ma anche prodotti per l’igiene personale acquistate dai detenuti e mai arrivate nelle loro celle, mentre invece venivano detratti dai singoli conti. L’altro detenuto addetto alla distribuzione del sopravvitto, invece, ha chiesto e ottenuto il trasferimento in un’altra struttura carceraria per evitare ripercussioni. L’ennesimo caso nella struttura carceraria di Fuorni dopo il ritrovamento di cellulari, sim-card e di un’arma. Bergamo: tenta di portare droga in cella, bloccato dagli agenti del carcere L’Eco di Bergamo, 24 giugno 2013 Aveva avuto un colloquio con la sorella e stava rientrando in cella, nel carcere di Bergamo dove è detenuto, quando il personale della polizia penitenziaria lo ha perquisito: aveva con sè, ben nascosti, 50 grammi di hashish e 5 grammi di cocaina. È successo sabto mattina 23 giugno ed è l’ultima delle operazioni compiute negli ultimi mesi dalla polizia penitenziaria di Bergamo che ha portato al rinvenimento di un ingente quantitativo di droga oltre a 10 telefoni cellulari detenuti illegalmente dai carcerati. Il colpevole è un detenuto napoletano 60enne che era detenuto a Bergamo per spaccio: per nascondere la droga l’aveva messa negli slip, ma gli agenti hanno visto un movimento strano e sono intervenuti. Denunciati sia l’uomo che la sorella. A comunicare la notizia il sindacato della polizia penitenziaria, il Sinappe, che sottolinea: “Tutto questo, il prezioso servizio degli uomini e delle donne della polizia penitenziaria, avviene nonostante la cronica carenza di personale e di risorse economiche che non consentono un’adeguata manutenzione ordinaria e straordinaria degli attuali sistemi di sicurezza degli istituti penitenziari”. Svizzera: carcere e lavoro, Ticino è il primo Cantone che fa produrre le targhe ai detenuti www.cdt.ch, 24 giugno 2013 Presentato il laboratorio targhe del penitenziario cantonale. Gobbi: “Un’idea che contribuisce alla risocializzazione dei detenuti e serve anche all’amministrazione cantonale”. Il luogo è inconsueto per un conferenza stampa. Del carcere si parla e scrive molto, ma di solito lo si fa in relazione a notizie di carattere giudiziario. Quello che succede all’interno del penitenziario cantonale di solito non trova molto spazio nelle cronache. Questa volta il Dipartimento delle istituzioni ha deciso di far aprire i cancelli e le porte blindate della Stampa per far conoscere da vicino un progetto che per la Svizzera è una prima. Probabilmente chi ha cambiato recentemente la targa della propria vettura, o ne ha richiesta una nuova, non sa che la maggior parte del lavoro di produzione è stato fatto proprio dai detenuti. Da inizio anno infatti, all’interno degli spazi del corpo intermedio tra il carcere giudiziario della Farera e quello penale della Stampa è stato realizzato il nuovo laboratorio per la stampa delle targhe. Laboratorio dove, sotto la guida di un capo-arte, vengono impiegati 4 detenuti che stanno espiando una pena solitamente abbastanza lunga. “C’è comunque una grande rotazione. Chi lavora qua lo fa per qualche mese e poi cerchiamo di garantire una rotazione - spiega il direttore del penitenziario cantonale Fabrizio Comandini che aggiunge - scegliamo i detenuti in base alle proprie capacità, alla durata della pena e al loro futuro inserimento. cerchiamo di riabituarlo al lavoro, con gli orari e la pressione che si possono trovare in qualsiasi posto all’esterno. Inoltre dobbiamo garantire la sicurezza di tutti, compresa quella dei detenuti”. Nel laboratorio targhe vengono prodotti 250 pezzi al giorno per un totale di 200 giorni lavorativi. In totale sono circa 50.000 pezzi all’anno, dei quali 30.000 sono targhe nuove. Lo standard di qualità è ottimo confermano dalla Sezione della circolazione. Infatti il laboratorio della Stampa, oltre ad essere un progetto che si inserisce nel processo di risocializzazione del detenuto, deve comunque tenere conto, come qualsiasi attività produttiva, della qualità. Soddisfatto il direttore del DI Norman Gobbi: “Questo è un progetto che siamo riusciti a realizzare in base ad alcune linee direttive decise anni fa. Non è stato facile ma siamo riusciti a concretizzare una produzione che, senza fare concorrenza a nessuno, è utile anche per l’amministrazione cantonale”. Il lavoro quindi come strumento di rieducazione alla legalità, ha sottolineato Gobbi, e che allo stesso tempo permette al detenuto di mantenere un equilibrio psico fisico importante per chi guarda alla propria vita dopo il carcere. E che l’idea, nata nel 2011, sia stata difficile da portare a termine lo ha detto anche il capo progetto Christian Cattaneo che ha illustrato il quadro di riferimento nel quale si inserisce il laboratorio ovvero produrre la totalità delle targhe nel Cantone, impiegare i detenuti, ridurre i costi del lavoro in carcere, garantire una qualità invariata rispetto al fornitore precedente (azienda friborghese che continua a fornire i semilavorati) e accorciare i tempi di fornitura. Quello che si fa alla Stampa riguarda la parte più complicata della produzione e cioè la stampa del numero che viene eseguita da una pressa idraulica. Il prodotto passa quindi dalla colorazione e infine all’imballaggio. Per i macchinari il Cantone ha speso 70.000 franchi mentre per la sistemazione del laboratorio sono stati spesi 50.000 franchi. Spesa che verrà facilmente ammortizzata. Le entrate sono quantificate in 370’000 franchi di cifra d’affari, le uscite in 280’000 per un risparmio, rispetto a quanto speso fino allo scorso anno, di 90.000 franchi. Tolto l’investimento le autorità prevedono di ammortizzare entro i prossimo anno. In 5 anni il laboratorio delle targhe della Stampa permetterà all’amministrazione cantonale di risparmiare 325.000 franchi. “Ricordiamo che in questo modo 800.000 franchi saranno spesi in Ticino mentre prima erano destinati fuori cantone” ha spiegato Cattaneo. E Gobbi dal canto suo ha ricordato: “Molti cantoni fanno produrre le targhe all’estero, soluzione alla quale naturalmente mi sarei opposto”. Gran Bretagna: i Vescovi; ingiusto privare del diritto di voto i detenuti condannati Radio Vaticana, 24 giugno 2013 “Chi ha commesso un crimine può essere, ed a ragione, privato della libertà e detenuto in prigione, ma non smette mai di essere un cittadino”. Scrive così mons. Peter Smith, vicepresidente della Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles, in una lettera pubblicata sul quotidiano The Guardian. Al centro della missiva del presule, la questione del voto per i detenuti: attualmente è, infatti, al vaglio del Parlamento inglese la proposta di revocare ai carcerati il divieto di votare, puntando invece al loro essere “parte del processo democratico”. “Riconosciamo - scrive mons. Smith - che le persone in prigione siano in grado di esercitare la loro responsabilità civica”. Definendo, quindi, la privazione del diritto di voto come una decisione “ingiusta ed obsoleta” che viola, per di più, “gli obblighi del Regno Unito nei confronti della Convenzione europea sui diritti umani”, il vicepresidente dei vescovi inglesi afferma che tale decisione “mina gli sforzi di aiutare i detenuti a cambiare le loro vite, dando l’idea che le loro opinioni non siano desiderate e che le loro voci non contino”. Senza dimenticare, continua il presule, che “molti detenuti, prima di essere spediti in prigione, già erano emarginati a causa della povertà o di abusi; rimuovere il loro basilare e democratico diritto di voto rende ancora più dannosa questa emarginazione”. Di qui, l’appello lanciato alle istituzioni affinché il regolamento carcerario venga ripensato sotto questo aspetto. Afghanistan: Kabul esorta il Pakistan a liberare comandanti talebani in carcere Adnkronos, 24 giugno 2013 Kabul torna a chiedere a Islamabad la liberazione dei Talebani detenuti in Pakistan. L’ennesima richiesta in tal senso arriva dopo le tensioni esplose negli ultimi giorni in seguito all’apertura dell’ufficio politico dei Talebani a Doha. Se il “Pakistan è realmente determinato a sostenere il processo di pace in Afghanistan -si legge in una nota del ministero degli Esteri di Kabul- allora il passo più utile e urgente è il rilascio dei leader dei Talebani afghani che sono stati arrestati dalle autorità pakistanè’. Già giovedì, stando a quanto riportato dal giornale afghano online Khaama Press, era arrivata una richiesta simile a Islamabad dal ministero degli Esteri afghano. “Il rilascio di questi leader di spicco dei Talebani darebbe all’Alto consiglio di pace dell’Afghanistan l’opportunità di avviare colloqui di pace con lorò’, prosegue il comunicato in riferimento all’organismo creato nel 2010 dal presidente afghano Hamid Karzai per favorire il processo di pace. Per l’Afghanistan, che ha spesso accusato il Pakistan di fare il ‘doppio giocò riguardo il conflitto, il rilascio dei Talebani detenuti nelle carceri pakistane è “crucialè’ per i negoziati di pace. Lo scorso anno il Pakistan ha scarcerato 26 comandanti dei Talebani per favorire il processo di riconciliazione in Afghanistan e Islamabad ha accolto con favore la notizia dell’apertura dell’ufficio politico dei Talebani a Doha, ma poi è arrivata la sospensione dei colloqui diretti che avrebbero dovuto avvenire in Qatarl, oltre allo stop deciso da Kabul nei negoziati con gli Stati Uniti per un accordo bilaterale sulla sicurezza dopo il 2014. Karzai punta alla scarcerazione del mullah Abdul Ghani Baradar, l’ex numero due del mullah Omar, catturato a Karachi nel febbraio del 2010 quando era probabilmente coinvolto in colloqui di pace con il governo afghano. A inizio anno Islamabad ha assicurato di essere impegnata per il rilascio di “tutti” i Talebani afghani rinchiusi nelle sue prigioni, compreso il mullah Baradar, ritenuto una pedina chiave nell’ambito del processo di pace in Afghanistan. E due giorni fa fonti governative pakistane hanno confermato all’agenzia di stampa Dpa che Islamabad potrebbe annunciare presto la liberazione di alcuni leader dei Talebani afghani detenuti nelle carceri pakistane, compreso il mullah Baradar.