Giustizia: Cancellieri; il decreto legge sulle carceri è pronto, mercoledì andrà in CdM Il Velino, 21 giugno 2013 “Il decreto è pronto. Abbiamo chiuso oggi in preconsiglio e andrà in Consiglio dei ministri mercoledì prossimo”. Lo ha annunciato il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, interpellata dai cronisti alla Camera sul dl cosiddetto “svuota carceri”. All’ex-ministro dell’Interno è stato poi chiesto conto di alcune indiscrezioni di stampa su un presunto emendamento “salva Berlusconi”, che se approvato modificherebbe la normativa sull’interdizione. “Con il provvedimento sulle carceri - ha affermato Cancellieri - non c’entra nulla. Più che di “emendamento fantasma” parlerei di ‘emendamento fantastico. Che c’azzecca?”. Il decreto prevede il recupero di alcuni penitenziari non più utilizzati da anni, l’apertura di altri e un maggiore utilizzo di pene alternative alla detenzione per una serie di reati minori, al fine di decongestionare le carceri sovraffollate. Giustizia: duello sul decreto-carceri, e il ministro Cancellieri apre all’ipotesi di amnistia di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 21 giugno 2013 Il provvedimento legislativo che doveva portare a uno sfollamento delle carceri è stato nuovamente rinviato. Il Consiglio dei ministri previsto per questa mattina slitta alla prossima settimana visto che oggi il Parlamento è impegnato nel voto di fiducia sul decreto emergenze e dunque si deve dare ai ministri l’opportunità di esprimersi. Ma al di là dei tecnicismi, appare ormai chiaro che un accordo non è stato raggiunto tra i ministeri di Interno e Giustizia che devono varare le nuove norme sui detenuti, ma anche una serie di altre novità in materia di violenza domestica e di mafia. Le divergenze tra Angelino Alfano e Anna Maria Cancellieri sul modo di affrontare l’emergenza del sovraffollamento nelle celle erano emerse la scorsa settimana durante le riunioni tra i tecnici dei due dicasteri. Al Viminale erano state infatti manifestate perplessità sulla concessione della liberazione anticipata ai reclusi che devono scontare anche reati gravi come la rapina e quelli che destano allarme sociale come il piccolo spaccio, i furti e gli scippi. In realtà queste persone andrebbero ai domiciliari, ma sono stati proprio i sindacati di polizia - primi fra tutti il Sap e l’Associazione Funzionari - a esprimere dubbi anche rispetto all’aggravio dei controlli che peserebbero sulle forze dell’ordine. Sempre dall’allargamento dei domiciliari è venuto un altro problema: la richiesta del senatore Pdl Niccolò Ghedini, bocciata dal Pd, di inserire una norma che preveda la possibilità di vedersi riconosciuta la detenzione domiciliare per reati con pena fino a 10 anni. Nel testo sulla messa alla prova, ora all’esame della Camera, questa possibilità viene riconosciuta solo per reati con pene fino a 6 anni. Nessun accordo anche sull’eventualità che nel “pacchetto” venga inserita una nuova norma che dovrebbe riformare in parte la legge sulla prescrizione. Molte divergenze sono emerse su come affrontare questo nodo e alla fine il rinvio è apparso la soluzione migliore. Proprio in materia di giustizia, ieri si è parlato anche di un’eventuale amnistia. Lo ha fatto Cancellieri al plenum del Csm rispondendo a chi gli chiedeva se si tratti di una strada percorribile: “Potrebbe essere la soluzione maestra ma è il Parlamento che deve sceglierla. Noi facciamo quello che è di nostra competenza”. Giustizia: decreto-carceri; tentato blitz per introdurre norma salva-Silvio, slitta il CdM di Francesco Bei e Liana Milella La Repubblica, 21 giugno 2013 L’emendamento fantasma del Cavaliere, spuntano tetti più alti per l’interdizione. “Non c’è niente da fare, mi vogliono arrestare. Ma io non mollo, io sarò sempre con voi: anche fuori dal Parlamento continuerò la mia battaglia”. Mercoledì sera, a palazzo Grazioli, Silvio Berlusconi ha indossato davanti ai suoi i panni del perseguitato politico, lo statista che predica “nervi saldi” nonostante la persecuzione dei giudici comunisti. Lo stesso messaggio il Cavaliere l’ha fatto recapitare anche a Enrico Letta - nell’entourage del leader Pdl si parla di una conversazione diretta tra i due - volta a rassicurare il premier sulla navigazione tranquilla del governo “nonostante l’attacco dei pm contro di me”. Eppure, dietro la facciata da “force tranquille”, dietro la nuova strategia difensiva affidata al principe del foro Franco Coppi, qualche manina sarebbe già all’opera con i metodi di sempre. Quelli delle leggine ad personam. Ci sarebbe infatti un “emendamento-fantasma”, un codicillo ancora non precipitato in alcun testo formale ma pronto a spuntare all’improvviso sul primo vettore utile, magari nei primi due decreti utili: quello sulle carceri della Cancellieri o quello sulla sicurezza di Alfano, visto che ormai i due provvedimenti da ieri sono ufficialmente separati. La norma-ombra dovrebbe intervenire sugli articoli 28 e 29 del codice penale, quelli che disciplinano l’interdizione dai pubblici uffici. Proprio la pena accessoria a cui è stato condannato Berlusconi nel processo Mediaset. Si tratterebbe semplicemente di agire aumentando gli anni di pena che rendono obbligatoria l’interdizione, oppure escludendo alcuni reati per l’applicazione della pena accessoria. Insomma, se anche il Cavaliere perdesse in Cassazione, potrebbe sempre restare in Parlamento. Dell’emendamento-fantasma si parla con circospezione nel governo, c’è chi sostiene di averlo visto materialmente. Ed è un fatto che il Consiglio dei ministri, che si sarebbe dovuto riunire oggi, è slittato a mercoledì. Ed è la seconda volta che il testo sulle carceri viene rimandato da una seduta all’altra per “divergenze di opinioni” tra il Viminale e la Giustizia. Che sia proprio l’emendamento-fantasma l’oggetto della disputa? Anche perché la parte che riguarda le pene alternative al carcere è già chiusa e non giustifica questo slittamento: si tratta di quattro articoli che aumentano la possibilità della liberazione anticipata, del ricorso al lavoro esterno e aprono le celle ai condannati per reati legati allo spaccio di stupefacenti. E tuttavia, se anche il testo venisse licenziato dal governo senza l’emendamento- ombra, nulla vieta che la stessa manina possa ripresentarlo in Parlamento. Del resto che il decreto carceri sia diventato un oggetto del desiderio lo dimostra il tentativo di Niccolò Ghedini che ieri l’Ansa ha portato alla luce. Il legale di Berlusconi voleva l’inserimento di una norma che prevedesse la possibilità di vedersi riconosciuta la detenzione domiciliare per reati con pena fino a 10 anni. Nel testo sulla messa alla prova questa possibilità viene riconosciuta solo per reati con pene fino a 6 anni. Se la strategia difensiva del Cavaliere oscilla fra il virtuosismo giuridico di Coppi e il ricorso alla leggi ad personam, la stessa incertezza c’è sul destino del governo Letta. È vero che Berlusconi ha assicurato al premier di non voler ritirare la delegazione del Pdl, ma è anche vero che ieri il clima si era decisamente fatto più burrascoso. Il leader del Pdl si sente infatti “ingannato “ e ce l’ha con tutti. Ce l’ha con la Consulta, ma ce l’ha anche con il capo dello Stato che non l’avrebbe tutelato. Insomma, Berlusconi inizia a sospettare che la pacificazione riguarda tutti tranne uno, proprio quello a cui servirebbe di più. Ma è anche consapevole di non poter provocare una crisi su un suo problema personale di giustizia. Per questo tutto il focus si è spostato adesso sui temi economici, gli unici che interessano agli elettori in questo momento. È lì che arriverà, se arriverà, il colpo mortale. “Noi - spiega Daniele Capezzone citando il motto olimpico - vogliamo un governo citius, altius, fortius. Ma se non fa quello che abbiamo promesso in campagna elettorale che ci sta a fare?”. All’obiezione che non si trovano sei miliardi di euro per stoppare Imu e Iva, il presidente della commissione finanze risponde scrollando le spalle: “Ma davvero ci vogliono far credere che non si possono tagliare 6 miliardi? Sono 1/133esimo della spesa pubblica, lo 0,75% del bilancio dello Stato. Suvvia, non scherziamo”. Giustizia: Cancellieri; rinvio per decreto-carceri, si tratta di un provvedimento complesso La Stampa, 21 giugno 2013 “Si tratta di un provvedimento complesso” ha spiegato il ministro Cancellieri. Alfano e Cancellieri non avrebbero trovato ancora un accordo. Slitta il Consiglio dei ministri previsto per oggi. La ragione ufficiale del rinvio, si conferma a Palazzo Chigi, è che si vorrebbe dare anche agli esponenti del governo l’opportunità di votare il decreto per le emergenze ambientali per il quale è stata chiesta la fiducia alla Camera. Ma un altro motivo di questa frenata - si ragiona in ambienti parlamentari- sarebbe il testo sulle carceri sul quale i ministri dell’Interno Angelino Alfano e della Giustizia Anna Maria Cancellieri non avrebbero trovato ancora un vero e proprio accordo. Tra l’altro - si è appreso - il parlamentare Pdl Niccolò Ghedini avrebbe chiesto di inserire una norma che prevede gli arresti domiciliari per pene fino a 10 anni, norma su cui ci sarebbe stato il no del Pd. In serata il ministro Cancellieri ha voluto smentire “che si siano state pressioni sulla formulazione del testo del decreto da parte di chicchessia”. Il ministro ha anche smentito “che ci sia disaccordo con il ministro Alfano”. Si tratta di “un provvedimento complesso”, si spiega, sul quale si deve ancora riflettere e che viene tenuto “molto riservato” proprio perché “si sta ancora discutendo”. Per chi dovrebbe beneficiare della libertà anticipata, ad esempio, servirebbero controlli adeguati e questo potrebbe creare non pochi problemi alle forze dell’ordine. In più alcuni parlano di una norma che dovrebbe riformare in parte la cosiddetta “ex Cirielli”, cioè la legge sulla prescrizione. E anche questo non semplificherebbe le cose. Intanto anche oggi il ministro Cancellieri, a margine del suo appuntamento al Csm, ha ribadito che per le carceri “l’amnistia potrebbe essere la soluzione maestra, che darebbe più respiro. Ma è il Parlamento che deve fare questa scelta”. Così è molto probabile che oggi si terrà una sorta di pre-consiglio, ma senza che venga affrontato il nodo carceri. Giustizia: manca l’intesa Alfano-Cancellieri, salta il Cdm sul decreto per le carceri www.lettera43.it, 21 giugno 2013 Ufficialmente il Consiglio dei ministri, che avrebbe dovuto affrontare il decreto carceri, è stato rinviato per consentire anche agli esponenti del governo di votare la conversione in legge del decreto per le emergenze ambientali per il quale è stata chiesta la fiducia alla Camera. In realtà, si ragiona in ambienti parlamentari, dietro la frenata c’è la tensione tra il ministro dell’Interno Angelino Alfano e il responsabile della Giustizia Anna Maria Cancellieri sul testo per trovare la soluzione al sovraffollamento nelle prigioni, su cui non è stato trovato un vero e proprio accordo. Si discute sul provvedimento. Il decreto carceri è considerato “un provvedimento complesso”, sul quale si deve ancora riflettere e che viene tenuto “molto riservato” proprio perché “si sta ancora discutendo”. Per chi dovrebbe beneficiare della libertà anticipata, per esempio, servirebbero controlli adeguati e questo potrebbe creare non pochi problemi alle forze dell’ordine. La riforma della ex Cirielli. In più alcuni hanno parlato di una norma che dovrebbe riformare in parte la cosiddetta “ex Cirielli”, cioè la legge sulla prescrizione. E anche questo non semplificherebbe le cose. Intanto Cancellieri, a margine del suo appuntamento al Consiglio dei ministri, ha ribadito che per le carceri “l’amnistia potrebbe essere la soluzione maestra, che darebbe più respiro. Ma è il parlamento che deve fare questa scelta”. Giustizia: la Cancellieri spinge per l’amnistia, ma l’emergenza non si risolve così di Davide Giacalone Libero, 21 giugno 2013 L’amnistia trova uno sponsor eccellente, il ministro della Giustizia. Non mi scandalizzano né l’ipotesi (a favore della quale i radicali conducono una coerente campagna) né l’altolocata adesione. Ma supporre di usare quello strumento per rimediare al sovraffollamento carcerario è, al tempo stesso, un errore e un’illusione. Il nostro problema è una giustizia penosa, negata, lenta al punto di cancellare sé stessa. Il troppo alto numero di detenuti non è il frutto di una dura politica repressiva, ma la conseguenza della malagiustizia. Qui ho già fatto i conti, non li ripeto: se anziché scarcerare i condannati scarcerassimo gli innocenti, vale a dire coloro i quali non stanno scontando una pena, avremmo risolto il problema dei posti. L’incapacità di discernere fra innocenti e colpevoli, fra pericolosi e no, non è un problema di spazi disponibili, ma di giustizia inesistente. Illusorio fu anche l’indulto: escono i condannati, restano in galera quelli in attesa di processo, si ristabilisce un numero accettabile e nel giro di qualche mese si torna al punto di partenza. L’amnistia ci vorrà, ma dovrà servire a non uccidere la riforma della giustizia, dopo che la si sarà fatta. Attenzione, perché la nostra condizione d’inciviltà precipita ogni giorno di più, senza che i mezzi di comunicazione ne avvertano la drammaticità. Nei palazzi di giustizia si gioca una spietata guerra di potere, intrecciata di ricatti e istituzionalmente devastante. Dalle mie partì non troverete rammarico per la perdita alla giustizia di Antonino Ingroia. La toga stonava sulle sue spalle, non all’attaccapanni. E però segnalo che da quando il suo agire divenne politicamente non allineato agli stessi che, altrimenti, non avrebbero mosso un dito, attorno a lui s’è stretta una tenaglia che ha stritolato l’intera procura di Palermo. Tenaglia fatta d’inchieste giudiziarie e interventi di un sempre più inquietante Consiglio superiore della magistratura. Essendo allergico alla faziosità e non avendo ragione alcuna di personale avversità, quel tipo di metodi mi fanno orrore sia che Ingroia li usi sia che li subisca. Quel che considero ancora più inquietante è che il presidente del Senato, Piero Grasso, non aveva ancora consumato l’iniziale emozione di pavoneggiarsi nelle sue nuove vestì, non aveva ancora appieno dimostrato di esservi inadeguato (ad esempio supponendo di potere esprimere giudizi preventivi sull’attività legislativa dei singoli senatori, che è cosa gravissima), che già spunta un verbale del 1999, nel quale Gaspare Spatuzza non solo gli dice che l’intero processo per l’uccisione di Paolo Borsellino (in quel momento ancora in corso) è basato su prove fasulle, ma fa anche il nome di chi organizzò quel potente depistaggio (La Barbera). Posto che le successive risultanze processuali diedero ragione a Spatuzza, il Grasso di allora fu un incapace. In alternativa un connivente. Ma il Grasso odierno somiglia molto a un ricattato. E il Csm ha appena mandato via il procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo, perché ricattabile. Non sono in grado di dire come stiano realmente le cose, vedo, però, che da quelle partì si agita un poderoso pozzo nero. Senza dimenticare che in un paio di procedimenti penali sul banco degli imputati siedono dei singoli cittadini, ma figurativamente il Ros, se non direttamente l’Arma dei Carabinieri. Si può pure essere ipocriti al punto di credere che stiano processando Mario Mori, ma è solare lo scontro fra apparati di sicurezza e di giustizia facenti capo al medesimo Stato. E ciò suggerisce che nessuno controlla più nulla. È un errore credere che il problema più grosso sia la politicizzazione di diversi magistrati, perché quello gigantesco consiste in un corpo separato e autoreferenziale, a sua volta in preda a una selvaggia guerra intestina. Tutto ciò per dire che se si fa l’amnistia solo per sfollare le celle non solo non si risolve il problema, ma si pratica l’aerosol lasciando progredire il cancro ai polmoni. Può darsi che l’aroma sia avvincente, ma di sicuro il resto è asfissiante. Giustizia: ecco perché un’amnistia aiuterebbe Berlusconi di Antonella Mascali Il Fatto Quotidiano, 21 giugno 2013 Fa il ministro tecnico della Giustizia Annamaria Cancellieri, ma per due volte in 48 ore fa sapere che la “strada maestra” per risolvere la vergogna delle carceri italiane è quella dell’amnistia o dell’indulto. Un provvedimento che, se scritto con criteri esclusivamente umanitari, potrebbe anche essere utile, ma che per come è sempre stato fatto non ha mai risolto le condizioni terribili dei detenuti. Ha “graziato”, però, molti colletti bianchi. Il provvedimento deve essere approvato dai due terzi delle Camere e il Guardasigilli, inevitabilmente, passa la palla: “Spetta al Parlamento decidere, il problema è squisitamente politico e non mi appartiene”. Ma intanto esprime il desiderio del governo che riaccende le speranze di farla franca del suo “azionista di maggioranza”, Silvio Berlusconi. L’amnistia estingue, in casi precisi, i reati. L’indulto, se passa uno dei disegni di legge depositati in Senato da Pd-Pdl, cancella oltre la pena (in parte) anche quella accessoria. E Berlusconi, come si sa, è stato condannato pure a 5 anni di interdizione dai pubblici uffici al processo Mediaset, giunto in Cassazione. “L’amnistia potrebbe essere la soluzione maestra, che darebbe più respiro. Ma è il Parlamento che deve fare questa scelta” ha ribadito ieri la ministra davanti al Plenum del Csm. Il sovraffollamento delle carceri “è una priorità assoluta per la quale avverto, come cittadina, l’urgenza anche morale di un efficace intervento”. E ha annunciato “di portare quanto prima all’esame del Consiglio dei ministri una serie di misure tese proprio ad alleggerire l’ormai insostenibile sovraffollamento delle strutture”. Mercoledì, alla Camera, per rafforzare la sua tesi della necessità di un “provvedimento di clemenza” aveva fornito alcuni dati drammatici: nelle 206 carceri italiane ci sono 65.886 detenuti (tra loro 23 mila stranieri e 24.342 in attesa di giudizio) a fronte di una capienza di 46.945 posti e il piano di edilizia penitenziaria garantirà solo quattromila posti in più a fine 2013. Dunque che si fa? Amnistia o indulto. Come nel 2006 quando si disse che doveva essere un caso eccezionale per affrontare alla radice la piaga delle carceri traboccanti di detenuti. In Parlamento ci sono già disegni di legge Pd-Pdl su amnistia e indulto che prevedono il salvataggio di Berlusconi se dovesse essere condannato anche in Cassazione all’interdizione dai pubblici uffici. Sono stati presentati al Senato e prevedono la cancellazione, per alcuni reati, delle pene accessorie. C’è poi un ddl alla Camera a firma Sandro Gozi (Pd) ma non è disponibile il testo. Un progetto è stato presentato dai senatori democratici Luigi Manconi (primo firmatario) Paolo Corsini, Mario Tronti e da Luigi Compagna, senatore del gruppo misto. Compagna, nella scorsa legislatura, come senatore del Pdl provò a inserire un emendamento “salva Silvio” alla già discutibile modifica del reato di concussione contenuta nella legge Severino. Questo ddl su amnistia e indulto è stato presentato al Senato il 15 marzo, assegnato in Commissione l’11 giugno ma l’iter non è ancora iniziato). Prevede l’amnistia per tutti “i reati commessi entro il 14 marzo 2013 per i quali è stabilita una pena detentiva non superiore nel massimo a quattro anni”. Per quanto riguarda l’indulto “è concesso nella misura di tre anni in linea generale e di cinque per i soli detenuti in gravi condizioni di salute”. Ed ecco la postilla “salva Silvio” che per motivi di età, ovviamente non andrà mai in carcere: “È concesso indulto, per intero, per le pene accessorie temporanee, conseguenti a condanne per le quali è applicato anche solo in parte l’indulto”. In caso di condanna in Cassazione per il processo Mediaset, e in caso di indulto, i 5 anni di interdizione sparirebbero. Della pena a 4 anni di carcere ne rimane uno. Gli altri 3 sono cancellati già dal provvedimento del 2006. Pene accessorie automaticamente indultate anche in un altro ddl firmato solo da Compagna e Manconi. Giustizia: lo svuota-carceri selettivo che salva solo potenti e benestanti di Emiliano Liuzzi Il Fatto Quotidiano, 21 giugno 2013 La bozza del decreto svuota carceri è già pronta. La strada più breve è stata quella di riprendere in mano la legge Simeone-Saraceni, entrata in vigore il 14 giugno 1998 (all’epoca salvò Forlani, Citaristi, Pomicino, Sama e Bisignani) che risparmiava il carcere a chiunque debba scontare fino a tre anni. Il decreto Cancellieri si limita in sostanza a due aspetti: concessione degli arresti domiciliari o pene alternative a coloro che abbiano compiuto i 70 anni, e ingresso in carcere impossibile alle persone condannate a 4 anni. Restano esclusi i condannati per associazione di stampo mafioso, traffico di droga, terrorismo, sequestro di persona a scopo di estorsione. Benefici che il governo ritiene nella relazione “indispensabili per fronteggiare il sovraffollamento delle carceri” e si aggiungono alla legge Gozzini, al rito abbreviato (che sconta già di un terzo la pena) e alla buona condotta, ossia 45 giorni di carcere in meno ogni anno al detenuto modello. Il punto è che la riforma, così come pensata dal governo, prevede tutti i benefici ottimi per la casta. E confezionati per coloro che hanno spalle robuste, una casa in cui vivere, una famiglia che può aiutare il condannato, un ottimo avvocato e nessun precedente. Tutti requisiti che gli stranieri clandestini o gli scippatori non possono avere. Uscirebbero dal carcere il giorno successivo i poliziotti condannati per l’omicidio Aldrovandi, mentre resterebbe in carcere il clandestino albanese arrestato due giorni fa e colpevole di non avere il permesso di soggiorno e per “false dichiarazioni a pubblico ufficiale”. Altro punto fondamentale, che amplia ancora il raggio di azione della Simeone-Saraceni, riguarda la detenzione agli arresti domiciliari. Prima il magistrato di sorveglianza doveva per legge concederla alle persone anche parzialmente inabili che avessero compiuto i 60 anni di età. Adesso il parzialmente inabili sparirebbe e la detenzione a casa sarebbe concessa a tutti coloro che invece hanno compiuto 70 anni. Un esempio pratico, Calisto Tanzi: tornerebbe a casa, e non per lo stato di salute, ma solo per problemi anagrafici. Il governo è pronto a portarla a termine perché è “l’Europa che ce lo chiede”. Come scritto in calce si tratta di un decreto per “contrastare il sovraffollamento delle carceri e per adottare i rimedi imposti allo Stato italiano dalla Corte europea dei diritti dell’uomo”. Opposizione per ora non c’è, eccetto quella del Movimento 5 stelle, pronto anche a manifestare. Il resto verrà deciso nelle stanze di palazzo Chigi, sede della solida alleanza tra il Pd e il Pdl. Al momento si tratta di una bozza, ma la linea guida che ne segue è in realtà molto chiara e ha alle spalle un progetto politico. Non riguarda direttamente i pubblici ministeri: questa volta il decreto è molto legato alla parte finale dell’esecuzione della pena e non entra più nel merito di quelli che sono i reati scoperti in flagranza. In sostanza lo scippatore finisce in galera, successivamente godrà della liberazione anticipata. L’ordine di custodia cautelare, invece, dovrà seguire attentamente le disposizioni che Letta e i suoi si preparano a varare. Il documento, fino a oggi mai uscito e in mano al Fatto Quotidiano, non prevede variazioni capillari della Simeone-Saraceni. I giuristi, quando venne varata la legge nel 1998, la definirono un “indulto permanente”. Questa ne è la fotocopia, con una più ampia valutazione dei benefici. Si tratta di otto pagine con le linee guida dove - chi ha steso la relazione - si sofferma anche sui soldi da trovare per fare in modo di adeguare e ristrutturare le carceri che esistono in Italia. “In realtà”, spiega al Fatto il procuratore aggiunto di Torino, Paolo Borgna, “sarebbe bene pensare a strutture carcerarie diverse. Oggi abbiamo tutti carceri di massima sicurezza, nati e costruiti soprattutto negli anni del terrorismo. Oggi le esigenze sono cambiate. Probabilmente sarebbe più agevole costruire strutture che hanno costi meno sostenuti, anche aperte, dove i detenuti possano avere la libertà di lavorare, e non pensare solo alle evasioni. Chi ha commesso due scippi non pensa a evadere, non è il pluriomicida. Come diceva Cesare Beccaria sarebbe il caso di addolcire la pena. Che sia immediata o comunque vicina al reato commesso, ma più dolce”. Giustizia: arresti domiciliari à la carte di Simona D’Alessio Italia Oggi, 21 giugno 2013 Arresti domiciliari, sceglierà il giudice, di volta in volta, se concederli ai condannati a pene fino ai sei anni. Ma cade la possibilità che determinate fattispecie di reato “vengano sottratte alla decisione del magistrato”, determinando così, come sola opzione, la permanenza dietro le sbarre. È la correzione approvata ieri dalla commissione Giustizia di Montecitorio alla delega al governo in materia di pene detentive non carcerarie, e disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili (pdl 331 e 927); il testo, che ha ottenuto il semaforo verde della maggioranza, ma ha incassato il voto contrario di M5S e Lega, sarà a partire da lunedì 24 giugno all’esame dell’Aula. Relatori saranno la presidente dell’organismo parlamentare Donatella Ferranti (Pd) ed il deputato del Pdl Enrico Costa che spiega a Italia Oggi come sia stata stralciata la possibilità che l’esecutivo, in base alla modifica che recepisce un parere della commissione Affari costituzionali, “possa escludere l’applicazione della norma a singoli reati di “forte allarme sociale”. E questo perché, una volta stabilita la pena fino a sei anni, la gravità rimane uguale, seppur per ragioni diverse”. Un’iniziativa che, sottolinea l’esponente del centrodestra, “non credo, però, che vada nella direzione di contribuire a risolvere il problema del sovraffollamento negli istituti carcerari, come il progetto del ministro Annamaria Cancellieri, ma si ponga come unico obiettivo di mandare ai domiciliari, in presenza di alcune condizioni, la persona condannata”. E, dalla prossima settimana, quando il provvedimento sbarcherà in Assemblea, “continuerà, insieme a quello annunciato dal M5S, anche il nostro ostruzionismo”, interviene il leghista Nicola Molteni, il cui gruppo aveva presentato oltre 200 emendamenti in commissione “per tentare di affossare una norma che non esito a definire salva-delinquenti, nonché un indulto mascherato. È vergognoso”, incalza il rappresentante del Carroccio, che “venga garantita impunità per legge a chi commette reati, mistificando il principio della certezza della pena e peggiorando il diritto alla sicurezza dei cittadini”. Giustizia: Gonnella (Antigone); messa alla prova e più misure alternative, la strada giusta Redattore Sociale, 21 giugno 2013 Il presidente di Antigone sul testo approvato in commissione Giustizia alla Camera: “Opposizione Lega non stupisce, con il M5S cercheremo il dialogo in vista del voto in Aula”. E ricorda: “Sovraffollamento più grave di quanto dicano le statistiche”. Il testo approvato è condivisibile, la speranza è che in Aula non si crei un’asse trasversale per provare ad affossarlo. È positivo il giudizio del presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, sul testo licenziato ieri dalla commissione Giustizia alla Camera sulle misure alternative al carcere e la messa alla prova. Al termine di una lunga seduta notturna, segnata dall’ostruzionismo della Lega e dall’opposizione del Movimento 5 Stelle, sono stati esaminati oltre 200 emendamenti: il documento finale è stato approvato ed inviato all’esame delle altre commissioni e dell’Aula di Montecitorio che dovrà presto esprimersi sulla materia. “L’opposizione della Lega non stupisce - dice Gonnella nel corso di una conferenza stampa alla Camera - mentre non so con quali argomenti il Movimento 5 Stelle si sia opposto al testo: è nostra intenzione chiedere loro quanto prima un incontro per capire quale tipo di politica abbiano in mente di attuare su questo terreno”. Gonnella sottolinea in particolare l’approvazione in Commissione di un emendamento del governo che prevede la possibilità della detenzione domiciliare per i delitti puniti con reclusione fino a sei anni. “Oggi - specifica Gonnella - il giudice non può direttamente comminare gli arresti domiciliari”: c’è sempre un passaggio in carcere di almeno qualche giorno, prima che gli stessi vengano concessi, e dunque con la nuova proposta questo passaggio sarebbe evitato. Nel testo licenziato dalla commissione Giustizia è anche prevista l’introduzione del meccanismo della messa alla prova, oggi utilizzato per i minori, anche agli adulti, quando le pene non siano superiori ai 4 anni. Il testo, secondo Gonnella, potrebbe rappresentare - se venisse approvato - un primo passo nel processo di contrasto al sovraffollamento carcerario. Tale sarebbe, secondo il presidente di Antigone, anche l’abrogazione della legge ex Cirielli nella parte sulla recidiva. “Occorre essere rigorosi nel dire, peraltro, che ci vuole un intervento significativo su più versanti: fra gli altri “cambiare la legge sulle droghe e cambiare l’approccio alla custodia cautelare, in accordo con la magistratura”. A proposito di sovraffollamento, Gonnella ricorda inoltre che il dato dei 46-47 mila posti di capienza regolamentare dichiarati dall’amministrazione penitenziaria è sovrastimato: “Comprende, secondo nostre rilevazioni, anche reparti chiusi e celle inagibili: la nostra stima parla di almeno 8 mila posti in meno”. L’affollamento in carcere è dunque ancor più grave di quanto non raccontino le statistiche ufficiali, e va risolto al più presto, anche perché - ricorda - pende il giudizio della Corte Costituzionale che entro l’estate dovrà pronunciarsi sulla questione”. Per promuovere le proposte di legge presentate sul tema e sensibilizzare i cittadini, Antigone sarà presente, insieme a numerose altre realtà, in 100 piazze italiane nella giornata internazionale delle vittime della tortura, che cade il prossimo 26 giugno. Giustizia: Anfp; no a svuota-carceri, così il Paese rischia una nuova emergenza sicurezza Asca, 21 giugno 2013 “Prima di mandare agli arresti domiciliari chi ha commesso reati, occorre rendere efficace il sistema del braccialetto elettronico, che va reso obbligatorio per tutti coloro che beneficiano della possibilità di scontare la pena a casa, così si eviterebbe di distrarre gli agenti di polizia per effettuare i relativi controlli”. Lo afferma l’Associazione nazionale funzionari di polizia che chiede al governo di “prendere coscienza che lo scorso anno sono aumentati tutti i reati predatori: furti, scippi, borseggi, truffe rapine, quei reati cioè che destano il maggiore allarme sociale”. Di fronte a questi dati “chiari”, si ricorda che “l’inefficacia della legge Gozzini fu evidente già l’anno successivo alla sua entrata in vigore”. “Gli effetti negativi sulla sicurezza - si conclude - saranno inevitabili”. Benedettelli (FdI): provvedimenti di clemenza fallimento dello Stato In merito a quanto espresso dal Ministro Cancellieri a Radio Radicale sul problema delle carceri vorrei dire al Ministro e a tutti coloro che sono pronti a provvedimenti di clemenza quali indulti più o meno mascherati e amnistie che riterrò, come tutte le vittime dei reati, lo Stato colpevole delle conseguenze. I provvedimenti di clemenza sono infatti un dichiarato fallimento dello Stato incapace di provvedere in maniera strutturale a questioni che ogni cinque anni si presentano nella loro gravità proprio perché sempre risolte nell’emergenza. L’indulto del 2006 ha causato la morte violenta di tanti cittadini innocenti a causa di indultati. E di loro non parla nessuno. Come possiamo definirci un paese civile se ci preoccupiamo più dei delinquenti che degli innocenti che vivono nella legalità? Dopo ogni indulto e ogni amnistia crescono i delitti contro la persona come dimostrano le statistiche. Abbiamo oltre 30 carceri finite e inutilizzate in Italia, si ridistribuisca la popolazione carceraria e si utilizzino a questo scopo le tante caserme dismesse. E si cominci a lavorare seriamente su un modello rieducativo non utopistico e slegato dalla premialità, perché solo così gli adulti moralmente strutturati possono comprendere il disvalore di ciò che hanno compiuto e il valore della legalità. Col Ministro sono d’accordo solo su un punto. La necessità che i carcerati lavorino. Potrebbero così contribuire alle spese che invece oggi sono a totale carico dei cittadini comprese le loro vittime. La dignità umana passa attraverso il lavoro, un diritto oltre che un dovere costituzionale. Non c’è niente di meglio per rieducare un delinquente. E visto che si parla di rieducazione potrebbe essere reso obbligatorio come è obbligatoria la scuola per i bambini e gli adolescenti. Ma mai si parli di provvedimenti che renderebbero lo Stato il mandante degli stupri, delle violenze, delle rapine e degli omicidi che seguirebbero inevitabilmente un indulto o, ancora peggio, un’amnistia. È di giustizia che abbiamo bisogno. Non dell’illegalità autorizzata dallo Stato! Lo dichiara Barbara Benedettelli, Responsabile Nazionale Area tutela Vittime della Violenza - Fratelli d’Italia. Giustizia: Consulta; il diritto alla difesa è sacro, anche per i detenuti sottoposti al 41-bis di Gianni Macheda Italia Oggi, 21 giugno 2013 Bocciato il pugno di ferro nei colloqui con i propri difensori dei detenuti in regime speciale. È infatti costituzionalmente illegittimo l’articolo 41-bis, comma 2-quater, lettera b), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui pone limitazioni al diritto ai colloqui con i difensori nei confronti dei detenuti sottoposti alla sospensione delle regole di trattamento, in particolare prevedendo che detti detenuti possono avere con i difensori, “fino a un massimo di tre volte alla settimana, una telefonata o un colloquio della stessa durata di quelli previsti con i familiari” (pari, rispettivamente, a dieci minuti e a un’ora). Lo ha affermato ieri la Corte costituzionale con la sentenza n. 143, ricordando innanzitutto come la legge n. 94 del 2009 abbia irrigidito il regime speciale del 41 bis prevedendo tra l’altro che con i difensori possano effettuarsi, fino ad un massimo di tre volte alla settimana, una telefonata o un colloquio della stessa durata di quelli previsti con i familiari, ossia della durata massima di un’ora, quanto ai colloqui visivi e di dieci minuti, quanto ai colloqui telefonici. Ma secondo la Corte le restrizioni in questione, per il modo in cui sono congegnate, “si traducono in un vulnus del diritto di difesa”. Questo, dicono i giudici, è sì suscettibile di bilanciamento con altre esigenze di rango costituzionale, così che il suo esercizio può essere variamente limitato dal legislatore ma non compromesso, in modo particolare quando incida sul diritto alla difesa tecnica delle persone ristrette in ambito penitenziario. Non è insomma possibile presumere, in termini assoluti, che tre colloqui visivi settimanali di un’ora, o telefonici di dieci minuti, consentano in qualunque circostanza una adeguata ed efficace predisposizione delle attività difensive. Né si può presumere che l’avvocato difensore si presti a fungere da tramite fra il detenuto e gli altri membri dell’organizzazione criminale, il che richiederebbe una limitazione dei contatti tra i due. In sintesi, dunque, alla compressione - per la Corte indiscutibile - del diritto di difesa indotta dalla norma del 41 bis “non corrisponde, prima facie, un paragonabile incremento della tutela del contrapposto interesse alla salvaguardia dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini”. Di qui la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lettera b), ultimo periodo, della legge n. 354 del 1975, limitatamente alle parole “con i quali potrà effettuarsi, fino ad un massimo di tre volte alla settimana, una telefonata o un colloquio della stessa durata di quelli previsti con i familiari”. Giustizia: viaggio a Bollate, il carcere modello con le celle aperte dove nessuno evade di Michele Brambilla La Stampa, 21 giugno 2013 “Questo qua l’ha aperto qualche anno fa un mio collega diversamente onesto”, mi spiega Adelio Miccoli, fine pena 2029, un tipo di milanese d’una volta che sembra il personaggio di una canzone di Jannacci. Mi sta mostrando il laboratorio di pelletteria nel quale lavora con una signora che è anche sua compagna nella vita. Anche lei detenuta, nella sezione femminile dello stesso carcere. Il lettore si chiederà com’è possibile. Ma siamo a Bollate, in quello che è considerato un carcere modello, uno dei pochissimi. Dobbiamo pur raccontare anche le cose che funzionano. Celle aperte tutto il giorno, detenuti che in gran parte sono occupati a far qualcosa piuttosto che a spegnersi giorno dopo giorno, uomini e donne spesso insieme nelle varie attività di lavoro. Il direttore Massimo Parisi spiega che qui si pratica la “vigilanza dinamica”, cioè non c’è bisogno di guardare a vista il detenuto. “Tendiamo a conoscerli il più possibile e a stipulare con loro un patto di responsabilità”. Assicura che funziona: “Tenga conto che qui abbiamo 430 agenti di polizia penitenziaria, in media meno che negli altri istituti dove si marca a uomo”. Se sgarrano, peggio per loro. Ma finora i numeri sembrano dar ragione alla politica diciamo così, “illuminata”, di chi ha voluto Bollate, nato nel 2001 per cercare di superare vecchie logiche. I numeri, dicevamo. Qua ci sono 1.180 detenuti (di cui una novantina di donne, nella loro sezione che è ovviamente separata ma fa parte dello stesso complesso). Al novantanove per cento sono persone condannate in via definitiva, e quindi qui per scontare la pena. Diciannove sono ergastolani. Raro caso in Italia, è un carcere senza sovraffollamento: capienza e detenuti coincidono. Le celle sono di tutti i tipi: singole, doppie, triple o cameroni da quattro. I numeri, dicevamo, per ora sono confortanti. Qui non c’è mai stato un suicidio. E nonostante (o forse per) la “vigilanza dinamica”, grossi guai non ce ne sono stati. “La vede quella roba lì?”, mi dice Miccoli con vocione alla Piero Mazzarella: “Seghe, coltelli, forbici. Qui in laboratorio c’è di tutto, e non è mai successo niente”. Eppure questo Miccoli è uno che ha commesso un reato gravissimo. Certo che in galera si fanno incontri pazzeschi. Si vengono a sapere cose che stando fuori nessuno si potrebbe immaginare. Per esempio la storia dell’uomo che incontro nel laboratorio del vetro: per l’anagrafe carceraria è Tucci Santo, anni 56, fine pena 2026. Cioè ancora tredici anni, che è un tempo che fa paura solo a sentirlo. Ma la cosa incredibile è che quest’uomo è dentro già da quarant’anni: “Sono entrato a sedici anni per un piccolo reato e non sono più uscito”. È in carcere che ha combinato quello che gli ha procurato cumuli su cumuli di pena, così che pur senza avere l’ergastolo, starà dentro (anzi, è già stato dentro) più di tanti ergastolani. Dice che la sua vicenda è esemplare di come il carcere possa rovinare o raddrizzare, a seconda di com’è: “Io mi sono lasciato coinvolgere dalla logica brutale del carcere, e ho peggiorato la mia situazione. Fino a quando, qui a Bollate, ho trovato una realtà diversa. Qui non esiste un detenuto che, se ha un problema, non ha una porta dove bussare. Da otto anni lavoro il vetro con la cooperativa “Il passo”, ho avuto permessi per uscire, fatto mostre nelle scuole, tenuto corsi per insegnare questo mestiere. Sa di quanto s’è accresciuta la mia autostima? Io sono evaso tante volte in passato, ma da quando lavoro non mi viene neanche in mente di rifarlo. Penso solo a quante persone tradirei... Il lavoro non è un passare il tempo, è un dare la dignità alla sofferenza”. Il lavoro è la grande scommessa e, anche su questo i numeri sono confortanti. “Qua ci sono 160 detenuti in articolo 21, cioè in permesso di lavoro all’esterno del carcere”, dice il direttore. “La gente pensa: poi scappano. Ma qui abbiamo avuto un evaso negli ultimi due anni, 5-6 negli ultimi dieci. Tutti articoli 21: e tutti ripresi”. Chiedo ingenuamente se hanno il famoso braccialetto elettronico, che dev’essere una specie di leggenda metropolitana perché girando per le carceri non se ne trova traccia: “Nessun braccialetto. Noi sappiamo che è nell’interesse del detenuto non tradire la fiducia. Noi abbiamo, a parte gli articoli 21, 330 detenuti che usufruiscono di permessi premio: vanno a casa anche per periodi di quindici giorni, per un massimo di 45 giorni all’anno. Sanno che sgarrano salta tutto il sistema che abbiamo cercato di mettere insieme”. Ad esempio l’area colloqui, che non è come si vede nei film, ma è - almeno da maggio a ottobre - un giardino con tavolini, ombrelloni e giochi per i bambini. Ad esempio il teatro - qui dentro si fanno spettacoli a pagamento -, ad esempio il laboratorio musicale, o ad esempio il catering con i detenuti che vanno in giro a portar da mangiare. O, ancora, lo sportello giuridico: avvocati e magistrati in pensione vengono qui a fare assistenza gratuita ai detenuti, perché anche quando si è dentro c’è sempre bisogno. E i due giornali che vengono realizzati qui all’interno, “Carte Bollate” e “Salute inGrata”. Troppa grazia per chi ha ucciso, rapito, rubato? “Guardi”, mi dice Simona Gallo, l’educatrice che mi accompagna nel giro all’interno del carcere, “i detenuti non chiedono prigioni che sembrino alberghi a quattro stelle. Chiedono di dare un senso alla loro esperienza e alla loro vita, chiedono di poter cambiare”. Dice che chi è fuori fatica a capire che in carcere si possa incontrare un’umanità insospettabile: “Mi sono laureata in Giurisprudenza e ho ricoperto diversi incarichi, ho fatto anche l’avvocato e ho accettato questo posto quasi per caso. Poi mi sono accorta che la mattina ero contenta di andare a lavorare. Perché quello che ti dà lo sguardo di una persona che hai aiutato è impagabile”. Ma non è tutto così, non è tutto un bel quadretto. “Ci sono carceri terribili, provi ad andare a Poggioreale”, mi dice uno dei detenuti-redattori di “Carte Bollate”. Un suo collega è molto sincero: “E non è colpa solo delle istituzioni. Ci sono molti detenuti che non vogliono cambiare, che vogliono che il carcere sia un terreno di guerra”. Cambiare, recuperare - o se si vuole usare una parola grossa, redimere - è difficile. E spesso si va incontro a delusioni. E tuttavia un viaggio nel pianeta delle carceri ci dice che sperare si può, anzi si deve. Il problema più grosso non è il sovraffollamento ma la condanna all’accidia, che può diventare ira. Anche Bollate - al cui interno c’è un’area industriale - conferma che i detenuti che in carcere lavorano hanno poi una recidiva molto bassa, vicina allo zero. Eppure sono pochissimi, su 66.000 detenuti in Italia, quelli che lavorano. Meno di un migliaio all’interno dei carceri, e ancora meno con il permesso di lavoro esterno. Perché? Forse per il conservatorismo di un mondo che non vuole cambiare, e per il disinteresse di un altro mondo - quello “fuori” - il quale si illude che non sia un problema suo. Lombardia: Commissione carceri incontra sindacati di PolPen, mancano 1.000 addetti Adnkronos, 21 giugno 2013 La Commissione speciale sulla situazione carceraria presieduta da Fabio Fanetti ha ricevuto in audizione le organizzazioni sindacali dei rappresentanti della polizia penitenziaria regionale. Presenti Mario Dossi per la Cisl, Angelo Urso per la Uil e Rino Raguso dell’Osapp. Durante l’audizione, è stata sottolineata la criticità del sistema, in particolare è stata evidenziata la carenza di organici che in Lombardia ha toccato ormai le 1.000 unità. Tra le problematiche, oltre alle cattive situazioni strutturali in cui versano diversi penitenziari, è stata anche sottolineata la difficoltà per gli agenti di polizia penitenziaria a trovare gli alloggi e i problemi legati alla custodia dei detenuti ricoverati nelle strutture ospedaliere in assenza ormai di una sanità penitenziaria (l’unico ospedale attrezzato con un reparto ad hoc è il San Paolo di Milano con 20 posti letto) e che costringe le amministrazioni carcerarie a destinare al controllo e alla custodia dei detenuti decine di agenti. “Ringrazio le componenti sindacali - ha detto il presidente Fanetti - per averci presentato un quadro preciso e puntuale della situazione in cui lavorano gli agenti di polizia penitenziaria. Vedremo ora, in base alle nostre competenze, i passi da muovere per cercare soluzioni alle esigenze emerse durante l’audizione”. Nell’ambito della programmazione dei lavori, la Commissione lunedì prossimo, 24 giugno, effettuerà intanto un sopralluogo alle carceri di Varese e di Busto Arsizio. Napoli: detenuto di 29 anni si impicca nel carcere di Secondigliano di Antonio Orza Il Mattino, 21 giugno 2013 La magistratura napoletana ha comunque disposto l’autopsia per sciogliere ogni dubbio sulla sua morte. Ennesimo suicidio in carcere. L’ultima vittima porta il nome di Aniello Esposito, 29 anni. Esposito, originario di Sarno, si è suicidato mercoledì pomeriggio nel carcere napoletano di Secondigliano. A dare l’allarme sono stati gli agenti della polizia penitenziaria, che non hanno potuto fare nulla per salvarlo. Esposito, la cui famiglia abita a Sarno in località Acquarossa, si è tolto la vita impiccandosi nella sua cella. Un gesto estremo, che probabilmente aveva pianificato da giorni spinto da un forte disagio psicologico che lo perseguitava da anni. Sembra, infatti, che la vittima soffrisse di problemi psichici ed era da tempo in cura nel reparto psichiatrico del penitenziario napoletano. A dare la tragica notizia mercoledì sera ai familiari di Esposito, sono stati i carabinieri di Sarno, diretti dal luogotenente Sante Longo. Ad avvisare i militari, via fax, la direzione del carcere di Secondigliano. Il personale di polizia penitenziaria non ha potuto fare nulla: quando gli agenti sono intervenuti era già troppo tardi. La magistratura napoletana ha comunque disposto l’autopsia per sciogliere ogni dubbio sulla sua morte. Lecce: detenuto vince ricorso, dovrà avere una cella adeguata agli standard previsti www.lecceprima.it, 21 giugno 2013 La normativa impone il rispetto di una superficie non inferiore a 14 metri quadrati, ma nelle celle di Borgo San Nicola tre detenuti si dividono 11,5 metri. L'istanza preparata dall'avvocato Alessandro Stomeo ha portato alla storica sentenza. L’amministrazione penitenziaria dovrà trasferire in una cella adeguata agli standard previsti dalla legge un detenuto del carcere di Borgo San Nicola, l’istituto di pena alle porte del capoluogo salentino. E’ questa la decisione, ritenuta non a caso storica, del Tribunale di sorveglianza di Lecce, con cui il giudice Maria Gustapane ha accolto il ricorso presentato da un detenuto originario di Lizzanello, rappresentato dall’avvocato Alessandro Stomeo del foro di Lecce, da sempre impegnato in prima linea nella difesa e la tutela dei diritti dei detenuti. Il giudice della Sorveglianza, infatti, ha stabilito che, in base al decreto ministeriale del 5 luglio del 1975, gli ambienti di vita e di riposo per ogni detenuto non devono essere di superficie inferiore a 14 metri quadrati. Cifre e spazi ben lontani da quelle di Borgo San Nicola, alle prese con una cronica emergenza dovuta al sovraffollamento, dove per ogni cella di circa 11,50 metri quadrati (progettata per una persona) sono rinchiusi tre detenuti, con uno spazio calpestabile di circa 3 metri quadrati per ogni soggetto recluso. Il tutto in violazione del regolamento penitenziario e dell’articolo 27 della Costituzione, secondo cui la limitazione della libertà dovrebbe avere come obiettivo la riabilitazione dell'uomo e il suo reinserimento in società. La cella, per poter ospitare tre detenuti, dovrebbe essere di almeno 42 metri quadri. Per questo, scrive il giudice nella sentenza, il detenuto deve essere spostato in una cella adeguata. Si tratta di una sentenza unica nel suo genere, che dovrà avere immediata attuazione. Con un recente verdetto (il 135 del 2013), infatti, la Corte costituzionale ha stabilito che l’amministrazione penitenziaria è obbligata a eseguire i provvedimenti assunti dal magistrato di sorveglianza a tutela dei diritti dei detenuti. “Se non lo facesse – spiega l’avvocato Alessandro Stomeo –, incorrerebbe nella commissione di un reato”. Il caso del detenuto 64enne di Lizzanello rischia ora di travolgere l’intera struttura penitenziaria salentina. Se, com’è lecito attendersi, i ricorsi dei detenuti (costretti a dividere una cella con altri due reclusi) dovessero moltiplicarsi in maniera esponenziale, il carcere di Borgo San Nicola e l’amministrazione penitenziaria si troverebbero a fare i conti, oltre che con il solito problema del sovraffollamento, anche con una struttura inidonea ad ospitare un numero così elevato di detenuti. Sarebbero costretti, dunque, ad applicare la legge. Pordenone: il Ministero decide costruzione del nuovo carcere a San Vito, Sindaco furioso di Stefano Polzot Messaggero Veneto, 21 giugno 2013 Svolta nella realizzazione del nuovo carcere: il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, ha annunciato che il penitenziario sarà realizzato nella caserma Dall’Armi di San Vito. Non solo: la struttura prevede un numero di detenuti inferiore al progetto della Comina (300 anziché 450) e un costo quasi dimezzato (25 milioni al posto dei 45) interamente coperti con i fondi del ministero e senza alcuna compartecipazione dei privati come proposto da un pool di imprese locali. La conferma giunge dal senatore del Pd, Lodovico Sonego, che ha incontrato la Cancellieri e il prefetto Angelo Sinesio nel suo ruolo di commissario per l’edilizia penitenziaria. Dal ministro la rassicurazione che i fondi - congelati ancora dallo scorso anno per la mancata imputazione nei capitoli del ministero dopo l’approvazione del Cipe - saranno erogati e la ristrutturazione verrà completata nell’arco di 450 giorni contando sulla corsia preferenziale delle procedure commissariali. Tant’è che la Cancellieri si è detta ottimista a tal punto da ritenere che possa essere lei a inaugurare la struttura. Già a settembre dovrebbe essere emesso il bando di gara in quanto la progettazione esecutiva sarebbe pressoché definita. La ristrutturazione privilegerà la creazione di spazi per attività di rieducazione e reinserimento e le celle saranno costruite con gli standard moderni, a differenza di piazza della Motta dove all’interno della stessa cella convivono spesso 6 persone. Si tratta ora di capire se non si verificheranno intoppi visto che la ristrutturazione di un edificio militare è pur sempre un’operazione complessa che può riservare sorprese dal punto di vista della bonifica dall’amianto e da eventuali cisterne interrate. “Anche in questa occasione - afferma Sonego - va privilegiata la soluzione più rapida nei tempi e concretamente realizzabile. Dall’analisi del ministero la soluzione preferibile è quella di San Vito e ora c’è la possibilità di attuarla”. Resta il fatto che Pordenone perde la localizzazione del carcere: addio giro d’affari legato alla polizia penitenziaria e alle visite ai detenuti, ma anche al riconoscimento che ne deriva come capoluogo. Non a caso il sindaco di Pordenone, Claudio Pedrotti, quando è stato informato ieri pomeriggio da Sonego, non l’ha presa bene. “È uno schiaffo alla città - tuona - e un insulto a Pordenone. Capisco le esigenze di segretezza del lavoro parlamentare, ma mi sarei aspettato di essere informato preventivamente. Invece nulla. Mi chiedo anche la Regione cosa pensa di questa vicenda dopo che si era esposta con un accordo di programma”. E a Trieste il vice presidente Bolzonello pare non abbia gradito la novità Livorno: tutti contro la riapertura del carcere sull’isola di Pianosa Redattore Sociale, 21 giugno 2013 Tutti contro la riapertura del carcere di Pianosa. Contrari Sappe, provincia di Livorno, comune di Campo nell’Elba, Parco nazionale dell’arcipelago toscano, coordinatore dei garanti dei detenuti nazionali. Per alleggerire il sovraffollamento degli istituti penitenziari italiani, il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri sta valutando l’ipotesi di riaprire strutture in disuso. Tra queste c’è Pianosa, che potrebbe ospitare 500 detenuti, chiusa dopo 140 anni di attività nell’agosto 1998. Attualmente nell’isola è presente una decina di detenuti semiliberi che lavorano alla manutenzione delle strutture esistenti, oltre ad alcuni agenti di polizia penitenziaria. “È sbagliato riservare completamente l’isola alle esigenze penitenziarie, sarebbe un ritorno al passato che allontanerebbe il turismo che sta nascendo nell’isola e non farebbe di Pianosa un bene collettivo - ha commentato il presidente della provincia di Livorno Giorgio Kutufà - Semmai, l’unica cosa fattibile è un leggero potenziamento dell’attuale struttura penitenziaria, allargando la squadra di manutenzione dei reclusi”. Per discutere del futuro dell’isola è necessario “convocare un tavolo di confronto fra tutti gli enti che hanno competenza sulla questione, dal ministero di Giustizia alla Regione, dalla Provincia di Livorno al Comune di Campo nell’Elba”. Molto dubbioso sul progetto ministeriale anche Giampiero Sammuri, presidente del Parco nazionale dell’Arcipelago toscano: “Da quando il carcere di Pianosa è stato chiuso, il Governo ha annunciato di ristrutturare la prigione per almeno cinque o sei volte. Chi progetta di riaprire la struttura non ha molto chiara le condizioni dell’isola, dove la situazione impiantistica è drammatica: mancano i servizi, mancano le fognature, non ci sono gli impianti di depurazione, l’acqua scarseggia”. Ecco perchè, secondo Sammuri, “costerebbe molto meno costruire ex novo un carcere sulla terraferma piuttosto che riqualificare quello di Pianosa”. Inoltre “negli ultimi anni è stata data una connotazione turistico-ambientale all’isola che verrebbe meno nel caso venisse rifatta la prigione”. Preoccupato anche il sindacato degli agenti penitenziari (Sappe). Pochi giorni fa il sindacato ha inviato una lettera al ministro della Giustizia in cui si chiedono delucidazioni sul futuro dell’isola. Il dubbio, spiega il Sappe, nasce da una comunicazione fatta nei giorni scorsi dalla direzione della casa di reclusione di Porto Azzurro in merito all’apertura del presidio navale della polizia penitenziaria nelle acque che delimitano Pianosa. Un presidio, secondo il sindacato, che potrebbe essere un “atto propedeutico alla riapertura del carcere”. Camerino (Mc): Comune approva la mozione per la costruzione del nuovo carcere Corriere Adriatico, 21 giugno 2013 Approvata a larghissima maggioranza la mozione presentata dal consigliere regionale Udc Luca Marconi, e sottoscritta da Francesco Comi, Angelo Schiapichetti e Enzo Marangoni, per impegnare la presidenza della Giunta e del Consiglio Regionale ad intraprendere, nell’immediato, tutte le iniziative utili a sollecitare le autorità governative e il Ministro della Giustizia a dare piena attuazione a quanto previsto dal piano per l’edilizia penitenziaria con la costruzione del nuovo carcere di Camerino. È stato lo stesso Luca Marconi, da assessore regionale con delega al sostegno alla famiglia e servizi sociali, a sottoscrivere, nel novembre 2010, a Roma l’intesa per la realizzazione del nuovo carcere insieme al Commissario delegato per l’emergenza di sovrappopolamento degli istituti penitenziari, Franco Ionta. La nuova casa circondariale, su cui la Giunta comunale camerte ha già espresso a suo tempo parere favorevole alla localizzazione, sarà in grado di ospitare circa 450 detenuti (per la stragrande maggioranza marchigiani secondo l’accordo sottoscritto a suo tempo) e per la sua realizazzione è stato previsto un investimento complessivo di oltre 40 milioni di euro. La mozione approvata prende spunto dall’indifferibilità e urgenza di procedere all’avvio dei lavori per la costruzione della nuova struttura penitenziaria camerte e dal fatto che nei prossimi giorni il Governo dovrà assumere una decisione definitiva in merito sbloccando finalmente le risorse finanziarie a suo tempo accantonate. “Si tratta di un’esigenza particolarmente sentita dalla Comunità Montana del Maceratese e dalla Regione Marche, ha spiegato il consigliere Marconi. L’attuale carcere, ospitato all’interno dell’ex convento duecentesco di San Francesco, in pieno centro storico, è diventato ormai inadeguato ed insufficiente ad ospitare i detenuti. La realizzazione del nuovo istituto, inoltre, andrà ad incidere notevolmente nel tessuto economico e occupazionale della città e potrà rappresentare un’occasione importante di lavoro in questo momento di particolare criticità. In questo modo le Marche, infine, daranno un serio contributo alla soluzione del disumano e non più accettabile sovraffollamento carcerario.” Genova: Uil-Pa; allarme tubercolosi nel carcere di Marassi, grave mancanza di profilassi www.genova24.it, 21 giugno 2013 È allarme Tbc nel carcere di Genova Marassi. Ad ammalarsi è stato un detenuto italiano, classe 1969, prima ubicato nel Centro Clinico dell’Istituto, in camera con altri due detenuti e in contatto con agenti e detenuti del piano, poi dimesso dopo circa una settimana, una volta riscontrata la malattia contagiosa ( tubercolosi attiva ) . “Un paradosso - commenta Fabio Pagani, Segretario Regionale della Uil Penitenziari Liguria che aggiunge - gli agenti della polizia penitenziaria non sono stati ancora sottoposti ad accertamenti clinici per verificare l’insorgenza di eventuali casi di positività alla malattia. Una eventualità che speriamo possa essere scongiurata ma che, purtroppo, appartiene al novero delle ipotesi possibili”. “Piuttosto che minimizzare il problema - aggiunge il sindacalista - come hanno fatto in tanti, sarebbe stato meglio attivarsi immediatamente per avviare le necessarie azioni di profilassi e di prevenzione. La possibilità che il contagio possa riguardare anche il personale è un rischio da noi rilevato sin dal primo momento. Speriamo che le autorità sanitarie e la stessa amministrazione penitenziaria si attivino con efficacia”. Secondo Pagani, la questione sanitaria è un aspetto, spesso poco indagato, del dramma complessivo che attraversa il sistema carcere in Liguria. “A questo punto - sottolinea il sindacalista - vogliamo sperare che il ministro Cancellieri , prima di dedicarsi alla sua nuova attività, chieda al Governo le risorse per garantire la funzionalità del sistema penitenziario”. E conclude: “Nel carcere Marassi di Genova la gestione sanitaria ingenera tante perplessità - le malattie infettive, il sovraffollamento (815 detenuti presenti rispetto alla capienza di 430), la carenza di circa 100 poliziotti penitenziari , rappresentano un rischio alle già critiche condizioni dell’Istituto . E non si può sottacere la mancata fornitura di strumenti di prevenzione al personale e soprattutto l’assenza di sottoporre i lavoratori a periodiche forme di profilassi, obbligo sino ad oggi eluso dall’Amministrazione Penitenziaria nei confronti del personale della Casa Circondariale”. Cagliari: Sdr; caldo insopportabile per 500 detenuti nel carcere di Buoncammino Ristretti Orizzonti, 21 giugno 2013 “Sono bastate poche giornate estive per far emergere nel carcere di Buoncammino la difficoltà di far convivere 500 persone private della libertà in una struttura che ha una capienza regolamentare di 345 posti. Una situazione che richiede l’immediata adozione di iniziative di alleggerimento della detenzione in cella”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, osservando che “l’arrivo dell’estate, come ogni anno, accresce l’insofferenza tra i ristretti in spazi angusti”. “Realtà come quella di Buoncammino, dove si trovano persone anziane, malati con diverse patologie e tossicodipendenti con disturbi psichici, sono esemplari - sottolinea Caligaris - della difficoltà da parte degli operatori di contenere il disagio. Le celle sono affollate e purtroppo piuttosto scarsi gli spazi disponibili per attività alternative. In queste condizioni stare chiusi 22 ore su 24 si configura come una tortura e la convivenza rischia di generare intolleranza. Del resto è noto che sono ridottissime le possibilità di svolgere attività lavorative nell’Istituto. Le poche opportunità sono quelle del piantone, dello scopino, dello scrivano, del porta vitto o di qualche altro servizio. Anche la fruizione della sala hobby è regolamentata rigidamente per poter soddisfare la maggior parte delle richieste. La situazione è migliore per la sezione femminile dove sono ristrette una quindicina di donne ma anche in questo caso lo spazio per l’aria consiste in un piccolo cortile di cemento che il sole rende impraticabile per la maggior parte della giornata”. “La situazione di Buoncammino è peraltro uguale a quella di altre carceri sarde o della penisola dove il sovraffollamento è la caratteristica predominante. Sono quindi improcrastinabili - conclude la presidente di SdR - iniziative urgenti per ristabilire la legalità, ridurre l’ingente numero di detenuti e rendere le carceri meno afflittive riconsiderandone il ruolo secondo quanto previsto dal dettato costituzionale. In queste condizioni la rieducazione del detenuto diventa infatti ancora più difficile se non impossibile”. Pavia: all’Ufficio di esecuzione penale esterna soltanto sei assistenti sociali per 804 utenti La Provincia Pavese, 21 giugno 2013 Gli assistenti sociali dell’Ufficio esecuzione penale esterna che si occupano di reinserimento dei detenuti, pene alternative, arresti domiciliari, sono solo sei. Gestiscono attualmente 804 casi e nel corso del 2012 hanno gestito 1885 detenuti. In pochi mesi sono raddoppiati i lavori di pubblica utilità, ma anche gli affidamenti ai servizi sociali. “Sono previsti 21 assistenti, ce ne sono meno di un terzo - spiega Fabrio Catalano, Cgil Funzione pubblica durante l’assemblea dei lavoratori di ieri mattina - Siamo preoccupati anche in vista dell’apertura della nuova ala del carcere di Voghera e di quella di Pavia che porteranno 500 detenuti in più sul territorio oltre ai 1300 già presenti. Una mole di lavoro impossibile da gestire, si mette a rischio il mandato costituzionale del reinserimento del detenuto nella società” . All’assemblea c’erano anche Barbara Campagna e Lina Lamonica, responsabili regionali e nazionali della Fp Giustizia. “Chiediamo l’intervento dei politici locali - dice Catalano - perché è provato che un buon percorso gestito dall’Uepe fa diminuire il rischio di recidive e incide sulla sicurezza”. L’Uepe collabora con associazioni, gestisce l’affidamento in prova ai servizi sociali e arresti domiciliari, collabora col carcere e con la magistratura di sorveglianza per l’applicazione delle misure alternative: “Si può fare t solo con un costante investimento sul personale - spiega - Lamonica - mentre a Pavia i casi da seguire crescono e mancano assistenti sociali”. Genova: encomio per poliziotto penitenziario, salvò detenuto colpito da attacco cardiaco Ristretti Orizzonti, 21 giugno 2013 Encomio ministeriale per un sovrintende della polizia penitenziaria che nel febbraio del 2012 nella Casa circondariale di Pontedecimo salvò la vita ad una detenuto colto da attacco cardiaco all’interno della sua cella. Il sottufficiale praticò all’uomo il massaggio cardiaco e la respirazione artificiale permettendo la ripresa del battito. Per questo la commissione ministeriale ha deciso di premiare il poliziotto: “per le eccellenti capacità professionali ed il determinante e fattivo impegno posto in essere”, viene scritto nella motivazione. Soddisfazione per questo encomio è stata espressa dal segretario generale aggiunto del Sappe Roberto Martinelli. “Un risultato - scrive il rappresentante sindacale - che onora non solo il bravo collega ma tutto il reparto. Si pensi che nel solo 2012 ci sono stati in carcere 56 detenuti morti per suicidio (30 italiani e 26 stranieri) e 97 decessi per cause naturali (82 italiani e 17 stranieri). I suicidi sventati sono stati 1.308. L’anno prima, il 2011, ha registrato morti per suicidio 63 detenuti e morti per cause naturali 102 persone ristretto. I suicidi sventati dalla Polizia Penitenziaria erano stati 1.003”. Firenze: picchiarono alcuni detenuti nel carcere di Sollicciano, condannati tre agenti www.gonews.it, 21 giugno 2013 Le pene inflitte vanno da 8 mesi a un anno e mezzo di reclusione e impongono il risarcimento dei danni in favore delle parti civili. Si è concluso con tre condanne e un’assoluzione il processo a carico di quattro agenti di polizia penitenziaria accusati di lesioni e abuso di autorità nei confronti di alcuni detenuti del carcere fiorentino di Sollicciano, per episodi accaduti tra il settembre e il dicembre 2005. I tre agenti sono stati condannati dal tribunale di Firenze a pene che vanno da otto mesi a un anno e sei mesi di reclusione e al risarcimento dei danni in favore delle parti civili. Tre gli episodi contestati a vario titolo agli agenti, accusati di aver applicato “misure di rigore non consentite dalla legge”, sferrando schiaffi contro i detenuti o colpendoli con oggetti contundenti. L’episodio più grave risale al 26 ottobre 2005, quando, secondo l’accusa, uno di loro colpì ripetutamente un detenuto con il manico di una scopa “sino a spezzaglielo addosso in più parti”. I condannati sono l’allora ispettore responsabile dell’unità operativa del reparto di polizia giudiziaria, ora in pensione; un assistente capo ancora in servizio a Sollicciano; e un agente di polizia penitenziaria ora in servizio in Campania. Le indagini partirono dalle segnalazioni delle associazioni L’Altro diritto e Antigone, costituitesi parti civili. Cinque gli agenti inizialmente imputati nel processo, uno dei quali poi deceduto. “Soddisfazione” per la sentenza che ha condannato i tre agenti del carcere di Sollicciano colpevoli di maltrattamenti nei confronti di alcuni detenuti, è espressa dalle associazioni che si erano costituite parte civile nel processo. “La sentenza - afferma Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - restituisce giustizia ai detenuti coinvolti a cinque giorni dalla giornata Onu per le vittime della tortura”. “Proprio il 26 giugno - aggiunge Gonnella saremo in 100 piazze italiane per raccogliere firme per le tre leggi di iniziativa popolare, tra cui quella diretta ad introdurre il reato di tortura nel codice penale”. Secondo Gonnella, infatti, “la sentenza di oggi forse sarebbe stata più dura se il reato di tortura fosse già previsto”. Per Giuseppe Caputo dell’associazione “l’Altro diritto la “condanna ai quattro appartenenti della polizia penitenziaria, per episodi di violenza a danno dei detenuti del carcere di Sollicciano avvenuti tra il 2005 e 2006, dimostra che il nostro sistema giudiziario quando vuole è in grado di punire i pubblici ufficiali responsabili di abusi e violenze e deve rappresentare un monito per tutti”. “Il risarcimento riconosciuto alla nostra associazione di 2.000 euro - aggiunge Caputo - sarà donato ai detenuti del carcere di Sollicciano per l’acquisto di carta igienica che gli è stata recentemente razionata a causa della carenza di fondi”. Roma: assegnava le celle migliori di Regina Coeli, in cambio un posto di lavoro al fratello di Giuseppe Scarpa La Repubblica, 21 giugno 2013 Aveva promesso a un detenuto il trasferimento in una zona meno affollata in cambio dell’assunzione del parente disoccupato nell’azienda di famiglia. Il detenuto non era riuscito a far assumere il fratello dell’agente, e così il suo trasferimento era stato revocato. Una cella più “carina” a Regina Coeli in cambio di un posto di lavoro. Era l’accordo tra un detenuto e un poliziotto della penitenziaria di Regina Coeli. Uno scambio dove a beneficiarne sarebbero stati entrambi. Il posto di lavoro era per il fratello dell’agente. Mentre la cella migliore sarebbe stata riservata allo stesso detenuto che avrebbe provveduto, nell’impresa edile di famiglia, a sistemare in qualche modo il fratello disoccupato del poliziotto. Corruzione, questo il reato per il quale sia l’agente Fabio Tomei che il detenuto Gianluca Piarulli sono stati rinviati a giudizio, così come richiesto dal sostituto procuratore Vincenzo Barba. I fatti si riferiscono all’agosto del 2010. Tomei era in servizio nel carcere romano dove Piarulli era detenuto. E tra i due nacque subito un accordo. “L’ispettore mi ha contattato quando ero alla terza sezione, chiedendomi un favore per suo fratello - dichiarò Piarulli - e lo stesso giorno in cui ho parlato con lui mi hanno trasferito in un’altra sezione del carcere. Durante la settimana potevo fare una sola telefonata a casa. E il 28 agosto ho chiamato e ho chiesto di assumere il fratello di Tomei”. Piarulli venne trasferito il 27 agosto del 2010 dalla terza alla seconda sezione del carcere, considerata meno dura, meno affollata e con celle più confortevoli, con tre posti letto invece dei sei della terza. In più per il detenuto c’era la possibilità di svolgere le mansioni di idraulico, in modo tale da poter passare con più leggerezza i lunghi giorni della detenzione. Mentre per l’agente penitenziario ci fu la promessa dell’assunzione del fratello senza lavoro nell’impresa edile a conduzione familiare del detenuto. Una promessa che sarebbe rimasta tale. Infatti da quanto è emerso il fratello di Tomei, alla fine, non sarebbe mai stato assunto nell’azienda di famiglia di Piarulli. E il trasferimento del detenuto, nella meno dura seconda sezione, sarebbe stato revocato dopo qualche mese. “A dibattimento - sottolinea Domenico Naccari, l’avvocato di Fabio Tomei - dimostreremo l’assoluta correttezza dell’ispettore di polizia. Il mio assistito non ha compiuto alcun tipo di reato”. Comunque sia spetterà ai giudici dell’ottava sezione collegiale stabilire o meno la responsabilità dei due. La prima udienza per Tomei e Piarulli è fissata per il quattro marzo del 2014. Sulmona (Aq): “Vivere e morire di carcere”, bilancio positivo del terzo convegno Ipa www.rete5.tv, 21 giugno 2013 Ottima riuscita del terzo convegno sulla criminologia organizzato dall’International Police Association di Sulmona. L’enorme affluenza di partecipanti, unito alla positivissima recensione che il convegno “Vivere e morire di carcere” ha ottenuto, hanno convinto anche gli ultimi scettici sul fatto che un appuntamento annuale, con un filone così delicato nella filiera della cultura, può offrire spunti di enorme interesse e nel contempo formazione per chi ha voglia di approfondire le tematiche trattate. Notevole è stato il contributo offerto dal Comitato Organizzativo composto da Mauro Nardella, Sanelli Nicola, Biondi gionni, Americo Michele, Nino Genovese, Cinzia Simonetti ed antonietta santavenere, ha avuto come tema predominante il disagio che si vive all’interno del carcere da entrambe gli attori e quindi detenuti e personale penitenziario. “Il convegno “Vivere e morire di Carcere”, - racconta Nardella - svoltosi presso la casa di reclusione di Sulmona, ha visto la partecipazione di numerosi relatori di fama nazionale ma anche di personalità, come il Dr. Effati Homayoun che hanno reso il convegno molto sentito anche e soprattutto dal punto di vista interculturale. Heffati ha entusiasmato e nello stesso tempo emozionato tutti con il suo intervento accostando il tema del carcere propriamente italiano a quello della sua nazione di origine, l’Iran, dove la dignità dell’uomo non conosce limiti nell’ambito del non rispetto di regole umanitarie. Il suo racconto, incentrato sulla carcerazione vissuta da suo fratello per motivi politici e che l’ha portato nelle più disparate, fetide e brutali carceri iraniane a vivere 4 anni della sua vita, ha ammutolito tutti quando lo stesso Effati ha riferito dell’impossibilità che hanno avuto di conoscere le sorti del fratello per tutto il tempo passato in carcere ivi compreso il fatto se fosse vivo e in quale prigione fosse stato condotto. Il Dr. Effati ha completato il suo intervento parlando della materia per la quale risulta specializzato vale a dire la medicina del lavoro. La correlazione che vi è tra ambiente di lavoro e disagio è stato più volte sottolineato dallo stesso e che in un sistema come quello italiano dove le riforme pensionistiche non hanno risparmiato neanche coloro i quali saranno costretti a passare più di 40 anni in carcere potrebbe nascondere numerose insidie visto che quello attuale è un periodo sperimentale e che mai prima di adesso si era dovuto fare i conti a passare 4 decenni della vita lavorativa in un luogo così disagevole. Accademico, e non poteva essere altrimenti, è stato l’intervento del criminologo, nonchè docente universitario, Dr. Rocco Primavera. Riprendendo il concetto espresso dal medico iraniano, Primavera ha voluto, utilizzando i meandri della sua conoscenza, trasportarlo in una realtà molto più attrezzata rappresentata dalla psicologia clinica. Anche il dr Primavera ha voluto sottolineare il potere “distruttivo” che potrebbe avere un così lungo periodo di tempo all’interno del carcere soprattutto se non si è dotati di quelle prerogative culturali ed esperienziali capaci di far meglio assorbire le negatività insite al carcere. Le massime “ovidiane” più volte riprese dal docente universitario hanno incorniciato uno splendido intervento e che male non farebbero i dirigenti dell’Amministrazione Penitenziaria, ivi compresi il neo Ministro della Giustizia ad ascoltare Il cardiologo Dr. Tony Silveri ha chiuso gli interventi riferibili agli aspetti sanitari implicanti il vissuto carcerario correlando le patologie cardiache e pressorie che stanno sempre più riguardando i poliziotti penitenziari con i problemi derivanti dallo svolgimento di questa professione. In carcere si può vivere meglio se le condizioni in ordine al sovraffollamento e ai numerosi eventi critici che ne conseguono fossero risolte definitivamente. Un consiglio in tal senso l’ha voluto dare l’Avvocato, nonché cultore dell’Università D’annunzio Dr.ssa valentina Pierfelice, parlando di applicazione della pena e utilizzo delle misure alternative alla detenzione. Il ricorso a questo tipo di istituto potrebbe deflazionare di molto il numero di detenuti nelle carceri italiane con notevoli e positivi riscontri dettate da minori spese per lo Stato e maggior vivibilità per chi in carcere ci deve restare. Il tema della morte in carcere e del connubio che purtroppo si è creato nel tempo tra detenuti e Corpo della Polizia Penitenziaria - continua Nardella - è stato con diligenza affrontato dal direttore Della Casa di reclusione di sulmona Dr. Massimo Di Rienzo e dal Comandante Del carcere Dr. Pierluigi Rizzo. Mentre il Direttore ha voluto evidenziare le “vite parallele” che accomunano i detenuti agli agenti per i disagi che il carcere offre e che entrambi sono costretti ad affrontare. Il Commissario Rizzo ha impressionato tutti parlando dei suicidi degli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria, riscuotendo la giusta dose di applausi (l’ultimo verificatesi ieri a Roma dove un agente di 32 anni ha deciso di farla finita buttandosi dal 5° piano di un palazzo). Il Procuratore Trifuoggi ha chiuso i battenti contestando di fatto una politica nazionale che nulla sta facendo per rendere più vivibili le carceri italiane. La politica svuota carceri dettata dalle varie amnistie è ferma di fatto agli anni 70 ed è l’unica al momento capace di ridare ossigeno ad un sistema che collassa ogni giorno sempre di più. Trifuoggi ha anche ammesso che scarcerare un detenuto senza offrigli un’opportunità di lavoro quasi sicuramente ritorna in carcere. Il procuratore ha chiuso il suo discorso asserendo che di carcere si può vivere ma di carcere non si deve morire”. Mauro Nardella, promotore del convegno, ha introdotto i lavori descrivendo l’obiettivo che attraverso questo convegno ci si vuol prefiggere: “Migliorare la vita dei condannati significa inevitabilmente migliorare quella degli operatori penitenziari”. Napoli: film su internati psichiatrici, i detenuti di Secondigliano diventano attori Il Velino, 21 giugno 2013 Dopo la chiusura per legge dei manicomi criminali e degli ospedali psichiatrici arriva ora la chiusura degli O.P.G. (Ospedali Psichiatrici Giudiziari). Il Parlamento ha approvato recentemente la legge che fissa al 1 aprile 2014 la chiusura degli Opg, dove sono ancora internate più di mille persone. Di queste, centinaia sono rinchiuse “in proroga” e attendono finalmente di essere dimesse. Una questione di livello nazionale, perché verranno messi in libertà molti malati di mente che hanno anche commesso reati, alcuni dei quali non hanno più famiglia e non sapranno dove andare a vivere. E al momento non ci sono soluzioni alternative di reinserimento sociale. Napoli si pone in prima linea ed apre serie riflessioni sul problema attraverso il film “Le stanze aperte” realizzato dalle associazioni culturali “V.e.d.” e “Baruffa film” di Maurizio e Francesco Giordano, con la sceneggiatura di Giuliana Del Pozzo. Basandosi sulla vita degli internati dell’attuale manicomio criminale napoletano, i due registi, hanno provato a raccontare, oltre alla vita vissuta dietro le sbarre, il cammino del ritorno a casa dopo una lunga detenzione. Il film è interpretato da veri internati, che hanno fatto quadrato intorno all’attore professionista Vincenzo Merolla. Pellicola-riflessione su prossima chiusura Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) L’opera è innovativa anche perché ha visto cimentarsi dietro la macchina da presa, oltre alle maestranze tradizionali, anche i malati dell’ospedale psichiatrico, attualmente diretto dal dott. Stefano Martone. La pellicola è stata presentata e proiettata presso la struttura Opg di Secondigliano, con la partecipazione, tra gli altri, del Console francese a Napoli Christian Thimonier, Maurizio Gemma direttore della Film Commission, l’ingegner Salvatore De Lucia, presidente della Superiore Arciconfraternita Ss Ecce Homo al Cerriglio, il cappellano dell’Opg, fra Sereno de La Salle, le operatrici Marisa Savaglia, coordinatrice di progetto, e Gabriella Di Stefano, nonché il dott. De Martino, rappresentante per conto del dott. Contestabile, provveditore regionale del Ministero della Giustizia, che ha patrocinato la pellicola. Pellicola-riflessione su prossima chiusura Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) La produzione cinematografica pone numerose domande e stimola dibattiti sulla questione, ma nel contempo intende suggerire un percorso terapeutico attraverso la macchina da presa e il cinema. Maurizio e Francesco Giordano, fratelli napoletani, si stanno attivando per proporlo, dopo la proiezione nell’Istituto detentivo, in numerosi circoli e cineclub, in attesa di una distribuzione vera e propria nel circuito di sale organizzato. Il film nasce dall’idea di trasporre in immagini alcune storie, a testimonianza di esistenze ignorate o anonime, eppure straordinariamente vive e capaci di vivere ancora, magari in modo diverso. Come in un film. Il protagonista è Vincenzo Arte, un personaggio volutamente contraddittorio nel quale convivono faticosamente sogno, realtà e follia: egli vive in modo personale il legame tra la precedente struttura di S. Eframo e quella attuale di Secondigliano, dove una documentarista ha chiesto di entrare per realizzare un servizio . Pellicola-riflessione su prossima chiusura Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) Di qui la storia e la testimonianza che ella raccoglie da Vincenzo Arte si snodano intorno all’altro livello narrativo, quello del documentario, che ritrae le vicende che i veri reclusi - internati e detenuti - vivono quotidianamente e che ci hanno consentito di filmare e raccontare. L’opera costituisce un film di finzione girato con tecnica documentaristica: i personaggi del film, reali o costruiti, non possiedono una fisionomia psicologica e relazionale propria, ma sono identica espressione e manifestazione di più personalità, segno tangibile dell’anonimato a cui la loro condizione li “condanna” realmente. Il taglio documentaristico è poi avvalorato dal fatto che l’azione si svolge quasi tutta all’interno del carcere e che le linee guida del film, anche se lateralmente, suggeriscono agli spettatori interrogativi a cui la coscienza civile non può sottrarsi. Pellicola-riflessione su prossima chiusura Opg (Ospedali Psichiatrici Giudiziari) Gli autori non lo hanno fatto. I registi sono stati in stretto contatto con le persone detenute per circa sei mesi. Hanno creato un laboratorio ed hanno formato ed individuato chi potesse lavorare per le riprese, le luci, l’audio e per la produzione del film. Un vero attore ha preparato gli altri attori. La sceneggiatura del film è stata elaborata anche da alcune storie raccontate da detenuti ed internati e da fatti di cronaca. Gli attori, ad esclusione dell’attore protagonista e di quelli scelti per le scene esterne al carcere, sono detenuti ed internati, infermieri, educatori, agenti di polizia penitenziaria e il frate cappellano. La troupe tecnica ad esclusione del direttore della fotografia, sono detenuti ed internati. I truccatori, gli assistenti di regia, i fotografi sono stati scelti dal personale interno dell’Opg. Libri: “Mamma è in prigione”, di Cristina Scanu… inchiesta sul mondo delle detenute di Lidia Baratta www.linkiesta.it, 21 giugno 2013 “Quando mi hanno arrestata era quasi mezzanotte, mio figlio di quattro anni dormiva nel letto con me. L’ho svegliato, ho cercato di tranquillizzarlo, ma gli agenti mi strattonavano e lui si è messo a piangere. Mi hanno portata in questura e abbiamo passato lì la notte”. Susanna, 23 anni, vive da 28 mesi nel carcere di Empoli. L’hanno arrestata mentre rubava del parmigiano in un supermercato. Federico, il suo unico figlio, è troppo grande per stare in prigione con lei. Natasha invece vive nel carcere di Rebibbia e ha preferito tenere con sé la sua piccola di due anni, per evitarle il trauma del distacco. Così come hanno scelto di fare decine di donne che Cristina Scanu, giornalista della trasmissione L’ultima parola di RaiDue, ha incontrato in un viaggio lungo un anno nelle sezioni femminili delle carceri del nostro Paese. Storie che ha raccolto nel libro Mamma è in prigione (JacaBook, 15 euro, 222 pagine), un testo prezioso che fa il punto sulla situazione delle donne detenute in Italia. Anche perché “l’ultimo libro sul tema risale al 1990”, commenta l’autrice. A marzo le donne in cella erano 2.847, a fronte di quasi 63mila uomini detenuti. Circa il 5%, il 90% delle quali è madre. I figli in carcere, che potranno restare con le loro mamme fino ai tre anni, sono una settantina. Nel 2011 la legge 62 ha modificato l’ordinamento carcerario del 1975, estendendo fino a sei anni l’età dei bambini incarcerati con le madri. A patto però che vivano in istituti a custodia attenuata senza celle né secondini in divisa. Di questi istituti, però, al momento ne esiste solo uno, a Milano. Di altri, neanche l’ombra. E i piccoli continuano ogni giorno a svegliarsi, giocare, mangiare e addormentarsi al suono dei cancelli che si chiudono alle loro spalle. Cristina Scanu ha visitato le sezioni femminili di dieci strutture, da Bollate (Milano) a Firenze Sollicciano, da Rebibbia (Roma) alla casa circondariale femminile di Pozzuoli (Napoli). E anche l’istituto a custodia attenuata di Milano, Icam. “Che in confronto alle altre strutture che ho visitato è una meraviglia”, commenta la giornalista. Per ognuna delle strutture Scanu ha affrontato tutte le procedure burocratiche per entrare. Uno, due, tre, dieci volte. “Dal primo carcere che ho visitato sono uscita quasi in lacrime”, racconta, “ho incontrato soprattutto persone che vengono da contesti sociali disagiati, persone che a trent’anni hanno già un carico pazzesco sulle spalle. La maggior parte sono immigrate che del nostro Paese hanno conosciuto solo l’aeroporto e il carcere”. Del suo viaggio nelle sezioni femminili, Cristina racconta di una situazione “terrificante” delle carceri italiane. “Certo ci sono sezioni più curate come l’asilo nido di Rebibbia, tutto colorato e ben curato, e le sezioni più fatiscenti, come le celle di Sollicciano, con i soffitti che trasudano di umido. Per non parlare dei problemi di sovraffollamento: a Rebibbia le donne con i bambini per un periodo sono state costrette a dormire sui lettini del pronto soccorso”. “È il carcere”, ripete Cristina più volte. E “la povertà è il filo conduttore”. Soprattutto “per le straniere, che sono la maggioranza delle detenute. Perché le italiane nella maggior parte dei casi hanno una casa dove scontare gli arresti domiciliari”. Donne che si sono macchiate soprattutto di “reati piccoli, furtarelli, piccolo spaccio o rapine fatte con i coniugi, che magari stanno scontando la stessa pena per lo stesso reato”. E poi ci sono quelle che invece i mariti li hanno lasciati fuori, da soli. O con i bambini. Quelle che fanno le “mamme a distanza”. Hanno diritto a sei ore di colloquio al mese. “Alcuni mariti vanno a trovarle, altri se ne lavano le mani anche se in carcere con la moglie c’è il figlio”, racconta Cristina. “Le madri libere che accompagnano i bambini a trovare il papà sono molte, gli uomini che fanno lo stesso sono pochi. Così come è molto comune che la moglie porti al marito il cosiddetto “pacco”, con la biancheria pulita e le provviste alimentari. Il contrario è molto raro”. Ma non tutte le “mamme a distanza” riescono a dire la verità ai propri bambini sul perché di questa distanza. “Molte dicono di essere in ospedale, per la paura di venire colpevolizzate, e poi li chiamano una volta a settimana”. E poi ci sono quelle che invece con i propri figli, fino a tre anni, condividono la cella e le sbarre. “Questi bambini hanno degli sguardi spaventati, piangono molto, fanno fatica ad addormentarsi, imparano a parlare tardi, a camminare tardi. I segni della detenzione gli restano per tutta la vita”. Non solo: “Molti studi dicono che per i bambini nati o che hanno vissuto in carcere con le mamme la probabilità di andare in carcere è cinque volte più alta”. E passati i tre anni arriva “lo strazio della separazione, che è un trauma in più”. E dopo il carcere? “La maggior parte di queste donne fa fatica a reinserirsi dopo la detenzione. A meno che non camuffino il curriculum, è difficile che qualcuno le assuma vedendo un buco di due-tre anni. Né ci sono incentivi o agevolazioni per gli imprenditori che assumono i detenuti. Solo nelle cooperative sociali di tipo B si può trovare un’occupazione. In più, le donne sono penalizzate rispetto agli uomini, perché essendo di meno ci sono minori investimenti per corsi di formazioni o di preparazione al lavoro in carcere. È più probabile che venga finanziato un corso di falegnameria e non uno di sartoria”. Ma la femminilità, in carcere, dove va a finire? “Maternità negata, affettività negata. Sessualità negata. Accessori negati: piccoli ma importanti frammenti di femminilità rinchiusi nell’ufficio valori. Mi sarei più sentita donna in carcere? Avrei più sentito la mia identità? Un’identità che solo il pacco di assorbenti, incluso nel kit distribuito ai nuovi giunti, continuava a ricordarmi. Fino a che, una mattina, mi sono svegliata e mi sono guardata allo specchio: una faccia gonfia, due sopracciglia folte, una ricrescita bianca: ero un mostro!”. È una delle testimonianze raccolte da Cristina. Che aggiunge: “Solo con un nuovo regolamento del 2000 le donne possono avere uno specchio infrangibile in cella e possono acquistare smalti, shampoo colorati, rossetti e creme, e in alcuni istituti c’è anche il parrucchiere. Ovviamente a pagamento”. E poi ci sono le altre donne, quelle che devono sorvegliare: le agenti della polizia penitenziaria che vivono con le detenute, ma che sono libere. Donne, come loro, con le quali molto spesso si instaurano rapporti umani. “Ne ho incontrate tante, lamentano di essere in poche, ma anche di vivere in condizioni pessime. Perché se nel carcere d’estate i condizionatori non funzionano, fa caldo ai detenuti ma anche agli agenti. Si tratta spesso di persone che vivono lontane dalle famiglie, molte sono meridionali. E guadagnano poco. Sono donne molto attente e sensibili, che nella maggior parte dei casi sono anche madri. Ma il tasso di suicidi, anche tra loro, è altissimo”. Cuneo: presso la Biblioteca “Anna Frank” serata per riflettere sulla condizione carceraria www.grandain.com, 21 giugno 2013 Nell’ambito del progetto “Scuola di legalità”, le Associazioni Liberavoce e Terra del Fuoco propongono un incontro sul tema del lavoro e del volontariato in carcere. Una serata per riflettere sulla condizione carceraria attraverso l’esperienza di cooperative sociali e associazioni che trasformano questo luogo in un laboratorio di educazione alla legalità, alla dignità umana, al valore del lavoro e al rispetto dei diritti. Interverranno i volontari di “Ariaperta” e “Sesta Opera” che nel carcere di Cuneo portano avanti iniziative culturali e di alfabetizzazione dei detenuti. “Voci Erranti” racconterà invece l’esperienza del teatro sociale nel penitenziario “Morandi” di Saluzzo. Grazie alla Cooperativa sociale “Colibrì Altromercato” di Cuneo si parlerà poi dei prodotti artigianali e alimentari realizzati nelle case circondariali di tutta Italia e distribuiti dalla rete del commercio equo e soldiale. Infine, Andrea Bertola porterà l’esempio della cooperativa “Pausa Cafè” che al “Morandi” di Saluzzo ha realizzato un laboratorio di torrefazione e produzione di birre artigianali impiegando i detenuti. La serata si concluderà con una degustazione delle birre di “Pausa Café”, realizzate con ingredienti del commercio equo e solidale. L’appuntamento è per venerdì 21 giugno alle ore 21 presso la Biblioteca “Anna Frank” di Borgo San Dalmazzo (Via Boves n. 4). Ingresso libero e gratuito. Immigrazione: 1 miliardo e 600 milioni in dieci anni tra controlli, Cie, rimpatri e burocrazia www.sbilanciamoci.info, 21 giugno 2013 La politica del “rispediamoli tutti a casa” ha un costo salato: 1 miliardo e 600 milioni in dieci anni, tra controlli alle frontiere, Cie, rimpatri e burocrazia. E non funziona, dati alla mano. Un Rapporto di Lunaria sui “costi disumani”. I diritti umani non hanno prezzo, e non è con calcoli economici che potremo salvarli. Però qualche conto può aiutare, soprattutto in tempi di austerity e spending review, per sostenere le ragioni che si oppongono alle “politiche del rifiuto”. È quel che ha fatto Lunaria, con un rapporto che, anno dopo anno e spesa dopo spesa, fa i conti in tasca alle politiche di contrasto all'immigrazione irregolare. Arrivando in poco più di un decennio a una cifra considerevole: 1 miliardo e seicento milioni di euro, la gran parte dei quali a carico delle casse nazionali. Numeri che vanno confrontati poi con quelli degli immigrati respinti e rimpatriati, quelli dei regolarizzati e quelli (stimati) dei “senza documenti”: per verificare, dati alla mano, l'inefficacia di tale spesa. E dunque il fallimento di politiche dell'immigrazione basate su un impianto tutto repressivo. Il Rapporto, presentato e discusso il 30 maggio a Roma, ripercorre i capitoli principali di una spesa pubblica che è tra le più invocate (in nome della sicurezza) ma tra le meno controllate. Se un sindaco apre le liste per l'assegnazione delle case popolari ai cittadini stranieri si scatenano polemiche infinite, e le politiche di inclusione sono tacciate di buonismo o – nel migliore dei casi – viste come un lusso; ma pochi sono andati a guardare tra gli sprechi e i costi delle politiche di esclusione. Politiche che fanno capo a molteplici centri di spesa e vari fondi, nazionali, comunitari e cofinanziati. I ricercatori di Lunaria sono andati dunque a spulciarli uno per uno. C'è il Fondo Europeo per le frontiere esterne, i cui stanziamenti vanno soprattutto a beneficio dei controlli costieri (dalla sorveglianza all'acquisto di materiali ai sistemi tecnologici, al coordinamento delle informazioni: 331 milioni di euro, dal 2007 al 2012); un Pon (Programma Operativo Nazionale) specificamente dedicato alla sicurezza del Mezzogiorno (111 milioni di euro dal 2000 al 2006, per Basilicata, Calabria, Campania, Puglia, Sardegna e Sicilia: anche qui, si parla di supporto alle attività delle forze dell'ordine per cercare e identificare i migranti); il Fondo europeo per i rimpatri, che finanzia i programmi per rispedire in patria i migranti catturati (circa 61 milioni di euro, 2008-2012); un bel pacchetto di stanziamenti per la Cooperazione con i paesi di origine (151 milioni, anni 2005-2012). E poi c'è il grosso della spesa, quella per i Centri di identificazione ed espulsione e altre strutture simili. Strutture carcerarie, di fatto; sorvegliate dalle forze dell'ordine, da cui non ci si può allontanare. E nelle quali si può stare fino a 18 mesi (inizialmente era stato fissato un massimo di 30 giorni). Vanno pagate le strutture, il personale, il vitto, la manutenzione, la sorveglianza... Il tutto è costato, finora, 143,8 milioni di euro all'anno. Il conto complessivo si può vedere nella tabella: 1 miliardo 668 milioni, di cui 281 a carico delle risorse comunitarie e il resto della spesa pubblica nazionale. Ed è una stima per difetto, dato che di alcune spese non è stato possibile ottenere una rendicontazione precisa. A fronte di tutto ciò, c'è la sostanziale inefficacia delle politiche di contrasto, di tutto l'apparato del rifiuto che va dalle coste agli invivibili Cie. Dal '98 al 2012, si legge nel Rapporto, meno della metà delle 169.126 persone transitate nei Cie sono state effettivamente rimpatriate: 78.081, il 46,2% del totale. Mentre gli enormi flussi di emersione dall'immigrazione irregolare, in occasione delle varie sanatorie, mostrano che ben più grande è la dimensione dell'immigrazione: dal 1986 al 2009, i provvedimenti di emersione hanno portato alla regolarizzazione di 1.661.291 persone, tutti migranti regolarizzati in seguito al loro arrivo in Italia. Di contro, ci sono i numeri – non piccoli, ma assai minori – di quanti sono stati rintracciati dalle autorità di pubblica sicurezza in posizione irregolare, prima di poter usufruire di una sanatoria o nei periodi di attesa tra una sanatoria e l'altra: 540.389 persone, dal 2005 al 2011, il 60,3% delle quali non hanno obbedito all'ordine di allontanamento. Con tutta evidenza, non basta pensare a una “spending review” (come pure è stato fatto, abbassando la quota di rimborso per migrante/mese nei Cie nelle gare d'appalto, e peggiorando le condizioni di vita nei Centri). Bisogna riflettere su tutto l'impianto delle politiche dell'immigrazione, e di quella legge che porta il nome di due politici che in parlamento non ci sono più (Umberto Bossi e Gianfranco Fini). Confrontando i costi delle politiche del rifiuto con quelli delle politiche di inclusione: i quali saranno oggetto di un prossimo rapporto, già messo in cantiere da Lunaria. Mondo: 3.100 italiani detenuti all’estero, domani una giornata per ricordarli 9Colonne, 21 giugno 2013 “Prigionieri del Silenzio” si occupa concretamente della tutela dei diritti umani degli italiani detenuti all’estero. “Oggi - si legge in una nota dell’associazione - contiamo 3.100 detenuti, connazionali di cui nessuno parla che per reati veri, futili o addirittura mai commessi, si trova a scontare pene ai limiti della dignità umana. Figli, fratelli, amici abbandonati a se stessi, in un paese troppo lontano sia materialmente che culturalmente. Prigionieri del Silenzio lotta tutti i giorni per far conoscere i singoli casi, e si pone l’obiettivo di offrire a tutte le famiglie che si trovano ad affrontare da sole il dramma della detenzione all’estero, un supporto legale, psicologico e linguistico. Domani, sabato 22 giugno, l’Associazione si dà appuntamento in una giornata dedicata alla condivisione, al confronto tra famiglie, mamme, amici e tra tutti coloro che si trovano a vivere il dramma di un proprio caro detenuto all’estero, spesso in condizioni disumane e con autorità italiane completamente assenti. La giornata comincia con un flash mob la mattina davanti al Tribunale di Milano (ore 11) e si conclude con un aperitivo. Momenti di incontro e condivisione tra famiglie e amici”. Saranno presenti alla giornata e disponibili per interviste e approfondimenti: Marina Maurizio (mamma di Tommaso Bruno, uno dei due ragazzi condannati all’ergastolo in India. Una mamma che non ha mai smesso di lottare contro un assurdo e poco chiaro sistema giudiziario indiano). Carlo Parlanti (il caso più eclatante di errore giudiziario all’estero che ha toccato media e opinione pubblica e che oggi spinge Carlo ad un’instancabile ricerca di verità). Afghanistan: Usa, possibile scambio prigionieri con Talebani Agi, 21 giugno 2013 Malgrado lo slittamento a tempo indeterminato dei colloqui preliminari tra emissari americani e dei Talebani, gli Stati Uniti non escludono che, una volta avviati effettivamente i contatti con gli ex studenti coranici, si possa comunque arrivare a uno scambio di prigionieri. In sostanza un certo numero di detenuti nel carcere speciale di Guantánamo potrebbero essere rilasciati, o comunque trasferiti altrove, come corrispettivo per il rilascio dell’unico militare statunitense prigioniero dei ribelli centro-asiatici. Si tratta del sergente Bowe Bergdahl, catturato in Afghanistan nel 2009. Bahrain: tra carcere, condanne e torture, l’oblio copre le lotte di Manama di Michele Giorgio Il Manifesto, 21 giugno 2013 Quante analogie tra la protesta di Occupy Gezi contro il nuovo sultano Erdogan e la sollevazione che prosegue da oltre atte anni del popolo del Bahrain contro la monarchia assoluta di Hamad bin Isa al Khalifa. Eppure scorrendo i lanci delle agenzie italiane in questi ultimi 2-3 mesi si scopre che questo piccolo arcipelago del Golfo è ignorato. E ciò è ancora più sconfortante se si considera che il contenuto settario e religioso sempre più marcato della guerra civile siriana ha forti ripercussioni in Bahrain dove re Hamad è uno dei petro-monarchi più attivi nel lanciare accuse all’Iran e -a Hezbollah (alleati di Bashar Assad) per il ruolo (presunto) “sovversivo” che svolgerebbero nella regione. Non devono ingannare i piccoli segnali di distensione tra il neo-eletto presidente iraniano, Hassan Rohani, e l’Arabia saudita. Riyadh resta convinta dell’”urgenza” di contenere “l’espansionismo sciita” che Teheran promuoverebbe nella regione, a cominciare dal Bahrain. Proprio le forze armate saudite, sotto la copertura dell’accordo “Scudo difensivo del Golfo”, sono intervenute nel 2011 su richiesta di re Hamad per schiacciare l’accampamento di tende di Piazza della Perla a Manama, simile a quello di Piazza Tahrir al Cairo. Eppure in Bahrain di cose ne accadono e molto gravi. La popolazione continua la sua battaglia pacifica per ottenere i diritti negati dalla monarchia assoluta. Ben pochi lo riportano. Due giorni fa, ad esempio, un tribunale ha condannato un oppositore 18enne, Akbar Ali al Kishi, a 10 anni di prigione per aver fatto esplodere, secondo l’accusa, alcune bombole di gas - peraltro a scopo dimostrativo, non per un attentato -, assieme ad altri adolescenti. Per al Kishi la prigione potrebbe durare ben oltre quella condanna perchè il giovane attivista nei giorni scorsi era stato condannato per un altro “crimine” politico ad altri 16 anni di carcere. Non basta. Lo attendono altri processi e condanna dopo condanna i suoi avvocati e la famiglia temono che il totale arrivi a 80 anni di detenzione. Il padre peraltro denuncia che il giovane è stato torturato in prigione per costringerlo a confessare. Al Kishi ha anche denunciato al Centro del Bahrain per i diritti umani che uno degli ufficiali che lo ha interrogato ha minacciato di sodomizzarlo. “Non riusciamo quasi a parlargli - aggiunge il padre - ci permettono colloqui in carcere della durata appena di 10 minuti”. Mortada al-Moqdad, un altro attivista bahreinita, afferma contro al Kishi “è in atto una vendetta per il suo impegno sin da quando era un ragazzo, le autorità in questo modo ritengono di dare una lezione a tutti i giovani che prendono parte alle manifestazioni”. Ne è convinta anche la giornalista Reem Khalifa. “Le accuse nei confronti di quel ragazzo sono molto vaghe - spiega al manifesto - l’impianto sembra voler dare una punizione esemplare e spaventare gli attivisti e le loro famiglie”. Khalifa sottolinea i punti in comune tra la rivolta pacifica repressa dalla polizia in Turchia e quanto accade in Bahrain. “Il nostro paese però viene ignorato dall’informazione”, lamenta la giornalista. E mentre piovono dure accuse su Damasco che non consente l’ingresso nel paese della commissione dell’Onu incaricata di indagare su un possibile uso di armi chimiche, nessuno apre bocca di fronte al secondo secco “no” della monarchia bahreinita all’arrivo dell’inviato dell’Onu per i reati di tortura, Juan Mendez. “Non ci è stata fornita alcuna data per il nostro ingresso in Bahrain e ciò può essere interpretato come l’esistenza di fatti da nascondere”, ha notato Mendez. Senza dimenticare che i leader di Piazza della Perla e diversi attivisti dei diritti umani come Nabil Rajab, Mahmud al Khawaja e sua figlia Zeinab continuano a rimanere in carcere. Honduras: concluso il Progetto “Dignità per le detenute”, dell’Ong italiana Dokita Onlus 9Colonne, 21 giugno 2013 Si è concluso ieri il progetto “Dignità per le detenute: miglioramento della condizione carceraria delle donne recluse del Penitenziario Nazionale Femminile di Tegucigalpa” (Honduras), realizzato dalla Ong italiana Dokita onlus con il co-finanziamento dell’Unione Europea. Il progetto si è concluso con successo e con grande soddisfazione delle Istituzioni locali e dell’UE. Grande soddisfazione - come si legge in una nota a è stata espressa dal Direttore della Commissione Speciale di Transizione del Sistema Penitenziario in Honduras, l’Avv. Josè Augusto Avila Gonzales, il quale ha dichiarato che “Il progetto Dignità per le detenute, realizzato dalla Ong italiana Dokita, sarà considerato come esperienza pilota per la futura riforma dei sistemi di riabilitazione dei detenuti in Honduras”. Secondo Laurent Sillano, a capo della Direzione di Cooperazione della delegazione Ue in Honduras, il progetto ha rappresentato un’esperienza importante per la positiva ricaduta sui diritti umani delle detenute. Un progetto sperimentale che, sebbene sia stato realizzato con risorse economiche non elevate, ha dato risultati davvero significativi.