Giustizia: carceri disumane, il governo promette ma non mantiene di Cristina Giudici www.linkiesta.it, 19 giugno 2013 L’esecutivo aveva promesso una soluzione tempestiva per il sovraffollamento, ma è niente di fatto. Andrà a finire così. Che dopo un’estenuante trattativa fra il ministero della Giustizia e quello dell’Interno, il decreto legge per ridurre il sovraffollamento nelle carceri non si farà. Ancora una volta, come sempre. Nonostante gli annunci a effetto del governo e la condanna della Corte europea dei Diritti dell’uomo di Strasburgo (che non è un organo Ue) che attende l’Italia al varco. Le norme per favorire la liberazione anticipata di alcune migliaia di detenuti “meritevoli” e ampliare le misure alternative al carcere anche per i recidivi dovevano finire nel pacchetto del decreto del Fare sabato scorso. Rinviate, dovevano essere discusse nel Consiglio dei ministri di mercoledì. E invece forse la discussione slitterà a venerdì. Andrà a finire così. Che i garantisti urleranno allo scandalo e i giustizialisti affermeranno di aver difeso la certezza della pena. E magari poi si troverà una soluzione che, per non scontentare nessuno, si trasformerà in una nuova legge inutile, che non risolverà lo scandaloso e penoso sovraffollamento, arrivato al suo picco storico: 66mila detenuti in 206 penitenziari. “Di notte faccio tre passi avanti e tre indietro. Il carcere sta dormendo, ignaro del mio tormento”. Inizia così la poesia di Salvatore, che per ingannare il tempo sospeso - l’attesa delle lancette dell’orologio che si sono fermate, il turno che deve fare con i suoi compagni di cella per poter stare in piedi - scrive sul giornale dei detenuti della casa circondariale di Brescia. “È il peggiore istituto penitenziario d’Italia”, afferma la storica militante del garantismo giudiziario, Rita Bernardini, dei Radicali italiani. E in effetti, chi entra nel carcere bresciano per la prima volta, ha la sensazione di aver preso un pugno nello stomaco. Nella casa circondariale di Canton Mombello, ci sono 90 celle distribuite su tre piani e due raggi, nei quali sono stipati 476 detenuti. Il doppio della capienza, o per meglio dire della soglia di tolleranza psico-fisica. Nelle celle più piccole, 8-9 metri quadrati, vivono, anzi sopravvivono 5-6 detenuti, mentre in quelle più grandi si arriva anche a 13-15 reclusi. Loro, nel primo sabato afoso che preannunciava una nuova estate senza ossigeno, lo sapevano già. E mentre il Consiglio dei ministri si stava riunendo per approvare il decreto del Fare e dimostrare al Paese intero che l’imperativo morale del governo delle larghe intese è quello di portare l’Italia fuori dalle sabbie mobili, i carcerati si divertivano a fare scommesse. Sicuri che non sarebbe stato approvato alcun decreto per ridurre il sovraffollamento. “Nessun decreto, nessuna scarcerazione, ne sono più che certo”, afferma un detenuto, mentre mi mostra uno dei 200 ricorsi inviati alla Corte europea dei Diritti dell’uomo dai detenuti del carcere di Brescia per ottenere un risarcimento a causa delle condizioni degradanti “che provocano disagi psico-fisici”, come ha scritto nel modulo del suo ricorso. In questo piccolo istituto penitenziario, un panopticon ottocentesco inaugurato nel 1914, si trovano tutti i mali oscuri, tutte le patologie del sistema penitenziario, afflitto da anni da un sovraffollamento cronico, che ora ha raggiunto il suo picco: 66mila detenuti. Ventimila in più, secondo la versione ufficiale del ministero della Giustizia, trentamila in più secondo le associazioni che fanno un monitoraggio permanente dei diritti (negati) ai detenuti, come esempio l’associazione Antigone. Alla rotonda, dove si snodano i corti bracci che portano verso le celle, non si respira alcun clima di attesa. Come se i detenuti lo avessero già intuito che a Roma, non ci si occuperà di loro. Come se i detenuti lo avessero già saputo, che il decreto annunciato con assertività dal ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, non sarebbe stato presentato. O quanto meno rinviato. O ancora modificato. Sebbene qualche giorno fa abbia dichiarato, dopo la reprimenda del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano: “Usciranno 3.500-4.000 detenuti”. Consapevole che la condanna della Corte europea dei Diritti dell’uomo impone all’Italia di risolvere lo scandalo del sovraffollamento entro il maggio del 2014. E invece, evidentemente, le anime garantiste e giustizialiste presenti all’interno del governo Letta non hanno ancora trovato la sintesi. A dispetto del noto articolo 27 comma 3 della Costituzione italiana secondo cui “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. In ogni caso ai reclusi del carcere bresciano, il messaggio è arrivato forte e chiaro: “In Italia sono più importanti i diritti dei cani Beagle, che i nostri, lo può scrivere?”, mi chiede con insistenza un marocchino, il braccio destro segnato da lesioni e diversi tagli, appena ricuciti. “Mi sono tagliato con delle lamette perché i miei compagni di cella volevano picchiarmi”, afferma, per giustificarsi, anche se probabilmente non è vero: voleva solo fare un atto dimostrativo, una pratica molto diffusa fra i carcerati stranieri, soprattutto maghrebini, esasperati dalla detenzione. Lui ne approfitta subito per dire che così non va bene, che un Paese civile deve aiutare i giovani che sbagliano a redimersi, a reinserirsi nella società. Rajid ha solo 23 anni e ha imparato a memoria la storiella della riabilitazione, a cui il sistema penitenziario dovrebbe aspirare perché il carcere sia di qualche utilità, soprattutto verso chi commette reati lievi. Perché sa che è vero e, anche se sta recitando, e magari non ha alcun desiderio di cambiare vita, nessuno può contraddirlo. “Dottoressa posso avere il cappello?”, chiede alla comandante degli agenti penitenziari. “A patto che quando torni in sezione poi non lo chiedi più, altrimenti poi lo vogliono tutti e io non ne ho a sufficienza”, risponde lei . Il cappello è un cappellino da basket, con la visiera per ripararsi dal sole ai passeggi, durante l’ora d’aria: due piccoli cortili di cemento in tutto per quasi 500 detenuti. Che possono uscire dalle celle due volte al giorno, alla mattina e al pomeriggio, per dividersi un po’ di aria. “Peccato che tre volte alla settimana si giochi a calcio, perché altri spazi non ce ne sono, e allora dobbiamo stare ai bordi, senza poter camminare”, racconta un altro recluso. Oggi però non si gioca a calcio e allora nel primo pomeriggio, loro ruotano dentro a un piccolo cortile. Con un movimento circolare, tutti nella stessa direzione, per non scontrarsi. Davanti agli occhi vigili di un agente. “Ne abbiamo uno per piano, quando va bene, uno su due piani quando manca personale”, mi fanno notare i poliziotti penitenziari, con una punta di disciplinata esasperazione. Dentro le celle, i reclusi si adeguano alla mancanza di spazio, come possono. Alcuni seduti intorno a un piccolo tavolo, giocano a dama, altri stanno sdraiati, in branda. Nella sezione Nord, come in quella Sud del carcere, lo scenario è sempre uguale. Celle anguste, muri scrostati, macchie di umidità, infissi rugginosi, e sulle scale, fra un piano e l’altro, gradini di cemento erosi dal tempo e dall’incuria. Brande a castello, in un cella ne conto tredici, e una di emergenza, nel caso arrivi un nuovo ospite, ovviamente non gradito. Dentro ogni cella, un bagno, con la doccia. Posta sopra un cesso alla turca e, nello spazio contiguo al bagno-doccia, un corridoio di mezzo metro che funziona da cucina, con una cassetta della frutta di plastica spaccata in due per rimediare uno scolapiatti. “Prima non avevamo neanche questo, solo docce comuni”, mi spiega uno di loro, quasi orgoglioso. Davanti allo sforzo di agenti, volontari, educatori che riescono attraverso un continuo dialogo con i carcerati a mantenere un clima pacifico, consapevoli di essere seduti su una polveriera, e l’ironica rassegnazione di detenuti che a volte si trasforma in disperazione autolesiva, ci si può solo fare una domanda. “Perché stanno qui? Perché se su 476 detenuti, quelli condannati sono solo 194, di cui 69 hanno condanne che non superano 18 mesi e 53 inferiori ai sei mesi (sic) , per reati lievi, non vengono applicate le misure alternative al carcere? Perché se gli altri, arrestati per reati contro il patrimonio, legati alla tossicodipendenza, sono in attesa di giudizio, non possono stare fuori ad aspettare la sentenza?”. Uno scandalo nello scandalo del sovraffollamento, visto che il 40% dei detenuti che affollano le carceri italiane sono in attesa di giudizio. E non esiste sempre una valida ragione giudiziaria, o processuale, per tenerli in carcere. In queste ore si attende un provvedimento che se arriverà, sarà ancora una volta incapace di risolvere i problemi strutturali del sistema giudiziario e penitenziario, perché poi fuori dal governo ci sono gli elettori abituati dalle anime più radicali del centrosinistra e del centrodestra a un giustizialismo d’accatto. E i detenuti lo sanno bene. Anche quelli che se si trovasse un lavoro, una dimora, potrebbero essere scarcerati. Sia come sia, dei 476 detenuti a Brescia, 301 sono stranieri. Di 40 nazionalità diverse. E chi conosce il carcere sa bene cosa significhi. Ossia che ci sono i tunisini che non possono sopportare i marocchini, i rumeni che non tollerano gli albanesi solo per fare qualche esempio. E gli italiani, che si sentono circondati. Eppure tutti devono convivere su sei piani e due bracci di carcere. Perché davanti a un tale sovraffollamento saltano tutte le regole. E in una casa circondariale, che dovrebbe avere la funzione di gestire carcerati per i quali è stata prevista solo la sorveglianza di media sicurezza, si trova anche una sezione protetta, per detenuti che devono rimanere isolati. E dove in questi giorni si trova addirittura un presunto terrorista islamico, in attesa di essere trasferito. O meglio in attesa che si trovino mezzi e risorse per trasferirlo. Qui, a Brescia, si va avanti solo grazie alla generosità delle associazioni di volontariato. Piatti di plastica, posate, lenzuola, televisori e addirittura dei frigoriferi in cella: tutti privilegi che derivano da donazioni, perché l’amministrazione penitenziaria non ha sufficienti risorse per distribuire ciò che prevede il regolamento. Anche se Rita Bernardini, che è andata a parlare con il ministro della Giustizia per capire se e come si risolverà lo scandalo del sovraffollamento, si chiede come mai il sistema penitenziario costi allo Stato quasi 3 miliardi di euro “Il doppio della Germania”, afferma, tanto per fare il solito paragone con il solito virtuoso e scomodo Paese. Nella cella 38 e 36 al terzo piano del braccio Nord, si entra nel guinness dei primati: 15 detenuti in una cella di 20 metri quadri, ad occhio e croce. E così bisogna scendere giù nella sala colloqui, ridipinta di verde, dove alcuni detenuti oggi incontrano i loro familiari, per trovare uno spazio meno angoscioso E passare per una sala giochi, molto dignitosa, per i bambini in visita, oggi vuota: i giochi sparsi per terra provocano una sensazione di desolato abbandono. Quello di un carcere abbandonato a se stesso fra l’indifferenza dell’opinione pubblica e l’ignavia dello Stato. Qui, dove gli unici alberi sono quelli dipinti dai detenuti sulle pareti, perché le piante sono di plastica: non potrebbero vivere in un piano interrato, privo di luce. E così, sfumata anche l’ipotesi di trasferire alcuni ai detenuti nell’istituto di Cremona, dove è stata costruita una nuova sezione, che poi è stata dichiarata inagibile “perché ci pioveva dentro”, sottolinea con piglio combattivo la direttrice del carcere di Brescia, Francesca Gioieni, lei ha scritto ai vertici dell’amministrazione penitenziaria per chiarire che a Canton Monbello non si può più trasferire nessuno. Nella speranza di saper gestire questa scatola arrugginita di sardine, dove ogni settimana arrivano in media 6-10 nuovi detenuti. Certo, nel carcere esiste un’area trattamentale, dove è possibile seguire dei corsi scolastici, e di alfabetizzazione. È vero, ci sono una piccola biblioteca, la redazione di un giornale interno, uno spazio per un corso di spinning e uno di yoga. D’accordo, alcuni detenuti lavorano (circa 40). E la direttrice, Francesca Gioeni, è riuscita con 700 euro - e il lavoro volontario di detenuti e agenti penitenziari - ad aprire una decorosa sezione a custodia attenuata, che è stata chiamata con spiccato senso dell’ironia, Vip, very ideal prison, dove lavorano e possono circolare liberamente 14 detenuti. Tutte queste lodevoli iniziative, però, vengono annullate dal sovraffollamento perché sono pochissimi, quelli che possono usufruirne. Per gli altri, la detenzione è solo una vessazione. Accettata con rassegnazione. E infatti quando cerco la via d’uscita, per lasciarmi alle spalle il carcere e le sue malattie, che nessuno è riuscito mai a curare, i detenuti mi salutano con una domanda retorica: “Scommettiamo che non si farà alcun decreto per ridurre il sovraffollamento?” Giustizia: il “gran rifiuto” di Alfano è assurdo, le nostre carceri hanno bisogno di legalità di Dimitri Buffa www.clandestinoweb.com, 19 giugno 2013 Poi non si lamentino i nostri politici e politicanti vari se la gente li sommerge di maledizioni. E se nei talk show qualcuno fa loro notare che in materia di giustizia se ne ricordano solo quando li raggiunge qualche avviso di garanzia o qualche richiesta di arresto in Parlamento da parte del pm protagonista di turno. Prendiamo, da ultimo, Angelino Alfano che secondo il “Corriere della Sera” si sarebbe messo di traverso a questo già di per se quasi ridicolo svuota-carceri cogitato dalla ministra Anna Maria Cancellieri. Dopo che l’Europa ci ha dato un vero e proprio ultimatum per rendere le nostre prigioni degne di quelle di un paese civile, dopo centinaia di condanne allo stato italiano su cause intentate davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo da parte dei detenuti nelle nostre patrie galere, dopo che ogni anno almeno 150 persone perdono la vita in detenzione, un terzo delle quali suicidandosi, che cosa gli viene in mente a questo politico, per la verità non di primo piano, di inseguire il giustizialismo grillino, leghista e di Fratelli d’Italia? Ancora vogliamo dotare il paese di altre leggi liberticide e dimenticarci i disastri già fatti dalla legge Cirielli, dalla Fini-Giovanardi e dalla Bossi-Fini? Si può anche capire che ad Alfano non freghi nulla che un politico vero come Marco Pannella stia da quattro giorni in sciopero della sete e della fame per aiutare l’Italia a rientrare nella legalità che l’Europa ci accusa di avere abbandonato. Ma per favore, mettersi a fare il forcaiolo fuori tempo massimo, potrebbe anche risparmiarcelo. Giustizia: Bernardini (Ri); Cancellieri mi ha detto che amnistia-indulto sono l’unica soluzione Ristretti Orizzonti, 19 giugno 2013 Dichiarazione di Rita Bernardini, già Deputato Radicale nella XVI Legislatura: “Ho incontrato, su sua richiesta, il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri. Sono assolutamente convinta - mi ha detto - che l’unica riforma strutturale che può risolvere l’illegalità delle carceri è un provvedimento di amnistia e indulto. L’ho già detto nell’intervista alla Stampa e lo ripeterò in ogni sede. La ministra è poi convinta che i dati del Dap sulla capienza regolamentare siano gonfiati: sono molti di meno, mi ha detto, dei 47.000 dichiarati. Sosterrà fino in fondo il decreto che ha preparato e che di fatto smantella la ex Cirielli sulla recidiva così come l’emendamento che ha presentato alla Camera che eleva da 4 a 6 anni la pena edittale massima per accedere alla carcerazione domiciliare (irrogata come pena), alla messa alla prova e ad altre pene alternative al carcere. Purtroppo, l’ex ministro Alfano già le sta mettendo i bastoni fra le ruote”. Giustizia: Favi e Leva (Pd); troppe resistenze al “pacchetto Cancellieri” per le carceri Ristretti Orizzonti, 19 giugno 2013 Dichiarazione di Sandro Favi, Responsabile nazionale carceri del Pd e Danilo Leva, Presidente Forum Giustizia del Pd: “L’unica strada percorribile per riportare la drammatica situazione dei nostri istituti penitenziari ad un livello accettabile e rispettoso dei diritti dei detenuti e delle condizioni di lavoro di tutto il personale, è porre al centro dell’azione riformatrice misure atte a restituire alla pena la sua vocazione al recupero e al reinserimento sociale dei condannati”. Questa la dichiarazione di Sandro Favi, Responsabile nazionale carceri del Pd e Danilo Leva, Presidente Forum Giustizia del Pd. “Occorre quindi incentivare la concessione delle misure alternative alla detenzione sia in sede di giudizio che durante l’esecuzione della pena detentiva - hanno chiarito - ridurre l’abnorme ricorso alla custodia cautelare in carcere, favorire il trattamento terapeutico dei tossicodipendenti autori di reato fuori dal carcere; revocare gli inasprimenti di pena e del trattamento penitenziario per i condannati recidivi; prevedere che le pene dei condannati stranieri siano eseguite nei paesi di origine ovvero prevedere l’espulsione quale misura alternativa; introdurre la sospensione dei procedimenti penali con messa alla prova degli autori di reati minori e di scarso allarme sociale. Siamo preoccupati delle resistenze che tuttora si frappongono agli interventi che il Ministro Cancellieri sta predisponendo proponendo, invece, di insistere in ipotesi del passato che si sono dimostrate fallimentari, che hanno solo generato quelle condizioni incivili delle nostre carceri e che ci hanno esposto alla censura della Corte europea dei diritti dell’uomo”. Giustizia: il Decreto legge sulle carceri in CdM venerdì, ministeri sono ancora al lavoro Adnkronos, 19 giugno 2013 Venerdì il decreto sulle carceri sarà all’esame del Consiglio dei ministri. Lo ha detto Anna Maria Cancellieri, ministro della Giustizia, rispondendo a margine della presentazione del libro di Michele Vietti a palazzo Giustiniani. “Ci stiamo lavorando”, ha confermato il ministro smentendo contrasti con il titolare del Viminale, Angelino Alfano: “Nessun contrasto con Alfano - ha detto, vogliamo mettere a punto la strategia e spiegare bene alla gente che chi uscirà non creerà allarme sociale”. Lo avevano scritto alcuni quotidiani, spiegando che l’oggetto del contendere è la norma cuore del provvedimento, che dovrebbe far uscire dal carcere tra i 3 e i 4mila detenuti: quella sulla liberazione anticipata che amplia da tre a quattro anni il residuo di pena che i detenuti possono scontare ai domiciliari oppure comunque in luoghi diversi dal carcere e che dovrebbe essere applicata anche ai recidivi. Una norma potenzialmente in grado di far uscire dalle carceri anche gli autori di reati che creano allarme sociale, dalle rapine ai furti. “Non ci sono contrasti, non c’è nessun problema con Alfano” garantisce Cancellieri spiegando che lo slittamento serve a “mettere a punto bene la strategia”. “Il nodo non sono i quattro anni”, dice ai giornalisti, ma piuttosto il problema è “spiegare alla gente che le persone che usciranno dal carcere non destano allarme sociale”. La parte centrale resta quella sulla liberazione anticipata, assicura il ministro; poi ci saranno anche norme per aiutare i giudici di sorveglianza a “lavorare meglio”. Ma quando le si chiede se nel provvedimento, diventato in corso d’opera a quattro mani con il ministro Alfano, ci saranno anche le norme sulla violenza domestica, il furto di identità e gli altri provvedimenti voluti dal titolare del Viminale, rimanda al suo collega di governo e dice “con lui ci sentiremo domani”. Una frase che fa immaginare che ancora non sia tutto appianato. Tant’è che anche in ambienti di via Arenula non si dà affatto per certa la data di venerdì per il varo del decreto. Il decreto, come annunciato dal ministro, prevede anche “un circuito di detenuti non pericolosi da sistemare in caserme distribuite in varie regioni”. Ne sono già state individuate una decina “da ristrutturare in tempi rapidi”. Una misura che i sindacati però bocciano, se non accompagnata da un incremento del personale di polizia penitenziaria: servirebbero tra 2mila e 3mila agenti in più, afferma l’Osapp. Giustizia: primo ok Camera su messa a prova, emendamento su domiciliari fino a 6 anni Tm News, 19 giugno 2013 Primo via libera, in commissione Giustizia alla Camera, al ddl sulle misure alternative al carcere e la messa alla prova. Il provvedimento è stato approvato la scorsa notte, dopo una maratona che a Montecitorio ha visto l’ostruzionismo della Lega e l’opposizione del Movimento 5 Stelle sulle norme. Tra gli emendamenti approvati, c’è quello del governo che prevede la possibilità della detenzione domiciliare per i reati puniti con reclusione fino a sei anni. Soddisfazione viene espressa dal Pd. “La proposta di legge sulle misure alternative al carcere e la messa alla prova, approvata in commissione Giustizia alla Camera, è un primo, importante passo - sottolinea Danilo Leva, parlamentare e presidente del forum Giustizia del partito - che avvicina il sistema penale italiano a quelli più avanzati. Le misure contenute incidono sulla situazione emergenziale delle carceri, hanno un effetto deflattivo sul carico dei procedimenti penali e, allo stesso tempo, rappresentano un punto di equilibrio tra la funzione rieducativa della pena e la sicurezza dei cittadini. Leva rivendica “l’ottimo lavoro svolto in Commissione soprattutto dal Partito Democratico che con celerità e spirito costruttivo ha consentito l’approvazione della proposta di legge. Siamo certamente di fronte ad un primo passo, non sicuramente il tassello risolutivo”. “Ora la parola però passa all’Aula, con l’auspicio che prosegua su questa strada, portando a compimento l’importante lavoro svolto in Commissione”, conclude. Giustizia: Ferranti (Pd); bene via libera a “messa alla prova”, ora approvarla entro estate Il Velino, 19 giugno 2013 “La Commissione giustizia alla Camera, dopo una lunga seduta notturna, ha varato il provvedimento sulle misure alternative al carcere e la messa alla prova”. Lo ha detto Donatella Ferranti, presidente della commissione Giustizia della Camera. “Si tratta - spiega - di un primo passo per ripensare il sistema delle pene in attuazione della sentenza, del gennaio scorso, della Corte europea dei diritti dell’Uomo che ci ha condannato per il problema del sovraffollamento carcerario. Le nuove norme mirano ad individuare una giusta proporzione della sanzione penale in relazione al bene violato, alla gravità del comportamento in concreto e alla pericolosità sociale dell’imputato. È un provvedimento in grado di incidere sulla situazione emergenziale delle carceri e di diminuire il carico dei procedimenti penali. Un primo importante tassello di una riforma di sistema più ampia che dovrà risolvere le criticità della giustizia penale nel medio-lungo periodo. Si è cercato di attuare un equilibrato rapporto fra giustizia riparativa e pena tradizionale: il recupero di un condannato, oltre ad essere una questione umanitaria, ha un significato di prevenzione generale. Infatti le cifra sulla recidività ci dimostrano chiaramente che un condannato recuperato attraverso pene alternative difficilmente tornerà a delinquere, a differenza di uno che ha scontato la pena in carcere. Nessun indulto, nessuno sconto di pena, nessun automatismo. Ma la pena, nel caso di reclusione ai domiciliari, sarà applicata dal giudice della cognizione e non più da quello della sorveglianza, solo se sarà esclusa la pericolosità sociale dell’imputato e per reati di non particolare allarme sociale. La misura alternativa al carcere diventa pena principale e si eviteranno così inutili passaggi in carcere che sono perlopiù dannosi e costosi per la collettività. Viene così garantito il principio costituzionale della finalità rieducativa e della proporzionalità della pena. Spero - conclude Ferranti - che adesso l’aula, a partire da lunedì, approvi il testo con la stessa celerità e il medesimo impegno che ha contraddistinto il lavoro della commissione e che ha portato a questo primo importante risultato per risolvere alcune criticità del sistema penale nell’interesse del cittadino”. Verini (Pd): con “messa alla prova” si coniuga sicurezza e civiltà “Un atto di civiltà”. È il commento del deputato Pd Walter Verini, capogruppo in commissione Giustizia, all’approvazione in commissione del provvedimento sulle pene detentive non carcerarie e sulla messa alla prova. “Parlare di indulto - prosegue Verini - è completamente fuori luogo, questo provvedimento è un contributo a fare finalmente della pena un’occasione di recupero e non di vendetta, un’occasione per decongestionare le carceri e non prevede inoltre reati di particolare allarme sociale. Si tratta insomma di una legge che coniuga civiltà e sicurezza”. Farina (Sel): finalmente Parlamento muove passo verso diversa giustizia Con l’approvazione da parte della Commissione Giustizia della Camera del provvedimento sulle pene detentive non carcerarie e sulla “messa alla prova”, finalmente il Parlamento muove un passo verso una diversa politica sulla giustizia, dopo anni di sovraccarico penale utile a gonfiare enormemente le carceri e assai poco alla sicurezza dei cittadini. Lo afferma il capogruppo di Sel in Commissione Giustizia Daniele Farina. Mi duole tuttavia constatare che sulla giustizia penale Lega Nord e M5S condividono molte posizioni con sfumature diverse. Una sorta di giustizialismo di serie minore, prosegue l’on. Farina, privo della tragica grandezza di precedenti Torquemada nostrani. Ora è necessario che l’Aula della Camera, conclude l’on. Farina, approvi il prima possibile questo provvedimento che riduce l’emergenza carceraria come più volte sollecitato dagli organismi europei ed internazionali. Lo rende noto l’ufficio stampa nazionale di Sel. Giustizia: Letta: task force contro criminalità. Gratteri: tablet ai detenuti per atti processo Ansa, 19 giugno 2013 Il presidente del Consiglio, Enrico Letta, istituisce una task force contro la criminalità, con proposte concrete per combattere il crimine, per aggredire il patrimonio mafioso. A presiedere l’organismo sarà il segretario generale alla Presidenza del Consiglio Garofoli. Ci saranno anche Magda Bianco, dirigente della Banca d’Italia; Raffaele Cantone, magistrato di Cassazione; Nicola Gratteri, procuratore aggiunto Reggio Calabria; Elisabetta Rosi, magistrato di Cassazione; Giorgio Spangher, ordinario di procedura penale. Lo comunica con una nota Palazzo Chigi, sottolineando l’aspetto della lotta ai patrimoni criminali. Letta aveva già anticipato in una puntata di “Che tempo che fa” del maggio scorso la nascita di una regia del Governo contro le mafie. Obiettivo è puntare su personalità di alto profilo che lavorando d’intesa con Palazzo Chigi diano subito un segnale e presto risultati nella lotta contro la criminalità. Nella battaglia per la legalità. L’idea è di dotarsi di nuovi strumenti normativi, che rendano più spedita la legislazione in materia, rinnovando il Codice di Procedura penale e snellendo la macchina della giustizia. “Lo scopo della task force, ha detto Gratteri, “deve essere quello di proporre concretamente modifiche normative per velocizzare il processo penale in modo da abbattere i tempi e quindi i costi del sistema giustizia e, contestualmente il potere discrezionale di chi amministra giustizia. Dovrà introdurre modifiche normative così importanti da non rendere più conveniente delinquere”. Gratteri ha proposto di dotare ogni detenuto di un tablet dove ricevere messaggi di posta elettronica certificata, con tutti gli atti relativi al suo processo. Tablet con opportune modifiche per renderlo sicuro. Secondo Gratteri, una scelta del genere permetterebbe di abbattere del 50% costi e tempi dei processi. Giustizia: Grasso (Senato); ripensare il sistema delle pene e rimodulare la prescrizione Ansa, 19 giugno 2013 Il presidente del senato Pietro Grasso è stato chiaro: “È prioritaria l’esigenza di rimodulare le dinamiche della prescrizione per evitare che finisca di essere uno strumento per vincere facile”. Necessaria, secondo l’ex magistrato, anche “l’esigenza di ottemperare alla sentenza emessa lo scorso 8 gennaio dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, intervenendo non solo sull’assetto detentivo, ma ripensando nel suo complesso il sistema delle pene, individualizzando la sanzione e adeguandola al bene violato, nonché agli interessi della società”. “La questione della funzione della pena e della ricerca di forme sanzionatorie alternative al carcere che si intreccia con il drammatico problema del sovraffollamento delle carceri è”, ha sottolineato ancora Grasso, “intrinsecamente legata al tema delle procedure all’efficienza della macchina giudiziaria”. Giustizia: sovraffollamento è il problema principale delle carceri… non il 41-bis di Maria Grazia Caligaris (Presidente Associazione “Socialismo Diritti Riforme”) Ristretti Orizzonti, 19 giugno 2013 Estremizzare il tema del 41 bis, il regime di detenzione ad elevata sicurezza per i reati di terrorismo e associazione mafiosa, sta facendo perdere di vista che il problema principale delle carceri italiane è il sovraffollamento. Ma voler riaprire il carcere dell’Asinara, chiuso da oltre tre lustri, è davvero assurdo. Non ha fondamento e logica far riecheggiare il nome dell’isola Parco per affrontare e risolvere una questione che non esiste. Sorprende che la proposta, l’ultima in ordine di tempo, provenga da un Magistrato come Domenico Fiordalisi. Innanzitutto non si può dimenticare che l’Asinara è un Parco naturale con endemismi unici nel Mediterraneo. È noto inoltre che in Sardegna si stanno costruendo 4 nuove carceri e che circa 180 detenuti, suddivisi tra Cagliari-Uta e Sassari-Bancali, saranno custoditi in condizioni particolarmente dure. Si parla principalmente di detenuti mafiosi o camorristi che, secondo il Magistrato e non solo, rappresentano un grave pericolo per la società sarda per le possibili ramificazioni di tipo mafioso o camorristico. Sono valutazioni che inducono a riflettere e fanno emergere aspetti contraddittori. Da un lato si dimentica che se l’Italia non provvederà entro maggio 2014 a ripristinare condizioni umane di vivibilità dentro le strutture penitenziarie alle persone private della libertà, dovrà pagare una multa salatissima. La Corte Europea dei Diritti Umani ha già derogato una volta. Suscita perplessità inoltre che si vogliano trasferire la metà dei detenuti in regime di 41 bis in Sardegna. Ma se ci sono i pericoli di infiltrazione mafiosa, che vengono paventati dal Magistrato e da diversi Parlamentari, è opportuno evitare il trasferimento, visto che finora questo genere di ristretti non ha costituito motivo di allarme sociale benché Asinara e Pianosa non siano più isole-carcere. Un’altra riflessione deve essere fatta sui lavori infiniti nella struttura penitenziaria di Uta e la qualità di quelli realizzati a Massama-Oristano dove è addirittura mancata la permeabilizzazione. Un’ispezione parlamentare forse avrebbe avuto un positivo effetto. Ora però occorre una svolta con lo sblocco del cantiere di Uta, anche se permangono tutte le perplessità in merito alla finalità ultima delle megastrutture, nate come contenitori e non come luoghi di reale riabilitazione delle persone private della libertà. La Sardegna ha sempre offerto parti pregiate del suo territorio per soddisfare le necessità contenitive dello Stato ma non ha mai visto applicato il principio di territorialità della pena. Sarebbe ora di trasferire nell’isola i detenuti sardi che lo chiedono e smetterla di pensare a riaperture antistoriche e contrarie a qualunque sviluppo economico locale. La nostra isola soffre troppo per le pesanti servitù penitenziarie - supercarceri disumanizzanti, Istituti ad alta sicurezza, Case Circondariali e Colonie penali che occupano vastissimi territori - e tutti sanno che non sono le strutture detentive a produrre ricchezza. La proposta di riaprire Asinara e Pianosa, infine, è in contrasto perfino con la storia. Il Governo Obama ha deciso di abbandonare Guantánamo, che è ormai in fase di smobilitazione, e Alcatraz è solo un’attrattiva turistica. In Italia invece si vuole andare contro corrente trasformando i Parchi in luoghi di espiazione delle pene detentive. Così non si risolve il problema del sovraffollamento e si nega lo sviluppo a una comunità depressa economicamente per scelte sbagliate. Giustizia: la violenza contro le donne e quel pasticciaccio del decreto svuota-carceri di Nadia Somma Il Fatto Quotidiano, 19 giugno 2013 Un pasticcio o cos’altro? Da qualche giorno sul web si commenta il decreto legge Disposizioni urgenti per contrastare il sovraffollamento delle carceri e in materia di sicurezza; meglio conosciuto come il “decreto svuota carceri”. Sarà discusso nel Consiglio dei ministri entro pochi giorni e prevede l’introduzione di un capitolo sulla violenza domestica. Il capitolo “Prevenzione e contrasto di fenomeni di particolare allarme sociale” riguarda nuove norme in tema di violenza contro le donne e preoccupa le associazioni di donne impegnate sul problema del maltrattamento familiare perché non rispetta la Convenzione di Istanbul né l’esperienza maturata sul campo dai centri antiviolenza. Desta perplessità perché inserisce alcune norme sulla violenza domestica in una legge che tratta di sicurezza. Il decreto prevede che il Questore, avuta notizia di un reato di lesioni in situazioni di violenza familiare, anche in assenza di querela, ammonisca l’autore del maltrattamento: un procedura che avviene anche per il reato di stalking. Il progetto di legge definisce poi violenza domestica: tutti quegli “atti non episodici”, di violenza fisica, sessuale e psicologica o economica che si verificano all’interno del nucleo familiare. La sospensione della patente è una delle sanzioni previste per l’autore del maltrattamento. La considerazione da fare innanzitutto è che la descrizione della violenza domestica come “lesione” e “atto non episodico” si discosta molto dalla definizione di violenza domestica della Convenzione di Istanbul. La legge di ratifica è stata recentemente approvata e già se ne tradisce il testo. Nel trattato europeo, la violenza domestica comprende “tutti gli atti di violenza fisica, sessuale, psicologica, economica che si verificano all’interno della famiglia”: ovvero qualunque atto che provochi sofferenza a prescindere dalle lesioni fisiche e dalla durata del maltrattamento. Il legislatore forse ritiene accettabile una dose minima di violenza commessa all’interno della famiglia e nelle relazioni con le donne? Ma i pasticci di questo decreto non finiscono qua, purtroppo. Chi lavora sul campo sa quanto aumenti il pericolo per le donne, quando la violenza familiare è svelata. Quello è un momento delicato perché l’autore delle violenze sente che può perdere il controllo sulla compagna. Ammonire senza mettere immediatamente in sicurezza la donna, (tanto meno coinvolgerla o informarla) significa esporla a rischi altissimi. L’Italia è carente di case rifugio e progetti di ospitalità per le vittime di violenza: ci sono regioni dove non esiste nemmeno un centro antiviolenza. Che accadrebbe ad una donna che continua a vivere sotto lo stesso tetto con l’autore di maltrattamenti dopo l’ammonimento del questore? L’altro dubbio è come dovrebbe arrivare la segnalazione di lesioni al questore, chiacchiere dei vicini a parte, con il referto dal pronto soccorso? I medici hanno l’obbligo di segnalazione all’autorità giudiziaria solo quando le vittime (se di tratta di adulti) hanno lesioni per le quali è prevista la procedura d’ufficio. Il decreto invece è pensato per le situazioni di violenza denunciabili con la querela di parte. E come si affrontano nei pronto soccorso e negli ospedali italiani i casi di violenza domestica? Sul territorio nazionale non sono attuati in maniera omogenea interventi ad hoc, nei casi di sospetto maltrattamento. Per esempio avviene di frequente che l’autore delle violenze accompagni o raggiunga al pronto soccorso la moglie o la compagna per controllarla ed evitare che parli con medici o infermieri. Nei presidi sanitari dove sono attuate buone prassi, il personale è adeguatamente formato e preparato onde evitare che una donna entri nell’ambulatorio del pronto soccorso accompagnata dal marito o dal compagno. In questo modo si agevola lo svelamento della violenza, si informano le donne sui loro diritti e le si mette in contatto con un centro antiviolenza. Tutto è fatto per evitare rischi alla vittima. La prima cosa è prendersi cura della donna, rassicurarla, darle indicazioni su come e dove trovare aiuto, darle il tempo di maturare decisioni e fare scelte, preoccuparsi che sia in una situazione di sicurezza prima di qualunque azione legale. Ma quanti sono i pronto soccorso e gli ospedali che attuano queste procedure? Resta peraltro incomprensibile che non sia stata prevista la revoca immediata del porto d’armi e il sequestro dell’arma ma solo la sospensione della patente. Il permesso di guida sarebbe rilasciato solo per essere utilizzato nel tragitto da casa al lavoro ma è poco chiara la logica di questa sanzione. Insomma siamo al solito problema. I nostri governanti continuano ad intervenire sul problema della violenza contro le donne con azioni di carattere securtario e legiferano senza confrontarsi e ascoltare chi opera sul campo. Ma se questo capitolo sarà approvato dal Consiglio dei ministri si faranno azioni che passeranno sopra la testa delle donne vittime di violenza. Interventi come questi non sono di aiuto alle donne anzi rischiano di essere persino dannosi se non vengono inseriti e resi coerenti con una rete di azioni e prassi condivise tra soggetti istituzionali e privati che mettano al centro di ogni percorso la vittima di violenza. Ma si dovrebbe fare politica e non demagogia. Giustizia: fare impresa in carcere, è possibile quando ci sono stimoli sociali ed economici di Simone Caroli www.zummolo.com, 19 giugno 2013 Agli italiani, nonostante la critica situazione economica, la voglia di fare impresa sembra non passare mai. Per fare impresa, però, la volontà non basta: servono stimoli sociali ed economici, cioè un tessuto sociale pronto a credere nella nuova impresa e misure finanziarie per il suo sviluppo. Questi ingredienti stanno dando ottimi risultati, anche in luoghi inaspettati come i (rari) carceri-modello italiani: il carcere di Bollate e la Casa di Reclusione Femminile Venezia Giudecca. In Italia, solo il 20% dei detenuti ha un lavoro, nonostante l’art. 27 della Costituzione indichi nel lavoro un valore centrale di riabilitazione e reinserimento. A Bollate e Venezia l’andamento è decisamente migliore. Qua, dove la popolazione carceraria ha lavori per esprimersi e dare il proprio contributo, non solo si tengono uomini e donne lontani dalla delinquenza, ma si crea valore aggiunto. Si curano le piante in serra e ne si ricavano alimenti e prodotti cosmetici artigianali, si cura l’edizione di un periodico (come Carte Bollate e Ristretti Orizzonti, (per altro molto seguiti), si tiene un servizio di catering da 350 pasti al giorno, si riparano componenti elettroniche non solo, come riportano le autorevoli fonti del Bollettino Adapt e del Rapporto dell’Associazione Antigone, perché le imprese ricevono incentivi e sgravi contributivi per avvalersi della manodopera carceraria, ma anche perché le capacità di queste persone possono ancora arricchire la collettività anche da una casa circondariale. Per le cooperative sociali “Rio Terà dei Pensieri” e “Il Cerchio” a Venezia, “Abc La Sapienza in Tavola” e SST s.r.l., fare impresa in carcere è già una realtà che va avanti da anni, e produce risultati più che soddisfacenti. Lo dimostra il rinnovo dei contratti che molti ex detenuti sperimentano una volta scontata la pena, nonostante i vantaggi fiscali non possano più essere applicati, segno, quindi, che è possibile creare lavoro competitivo nella qualità e nei prezzi anche in queste situazioni. Aziende (sia in forma societaria che cooperativa) di successo possono quindi nascere anche “dentro”. Ma, a parte l’importantissimo contributo sociale, l’impresa è business e profitto. Che profitto si può avere da fuori? Prima di tutto un beneficio per le famiglie dei carcerati, che possono mantenersi a proprie spese e non sulle spalle dei contribuenti, e in secondo luogo un’opportunità di lavoro per chi si pone come “ponte” tra il mondo carcerario ed il mondo esterno. Non mancano certo volontari che nel tempo libero seguono i percorsi di riabilitazione dei detenuti (soprattutto se giovanissimi e per reati di modesta entità) e sicuramente non manca la volontà di trasformare l’attività volontaria in una professione, dando, quindi, lavoro anche a chi in carcere non è. Una sfida ambiziosa e, come tutte le sfide, impegnativa. Diffidenza, pregiudizio e scetticismo, invece, sono totalmente gratuiti. Lazio: in Consiglio regionale due audizioni sui problemi della sanità penitenziaria Agenparl, 19 giugno 2013 La commissione Politiche sociali e Salute del Consiglio regionale del Lazio, presieduta da Rodolfo Lena (Pd), ha tenuto due audizioni sul tema della sanità penitenziaria. Ad essere ascoltati: il garante regionale dei diritti dei detenuti, Angiolo Marroni, e il provveditore del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria, Maria Claudia Di Paolo. La riforma della Sanità penitenziaria risale al 1999, quando il decreto legislativo n. 230 inseriva tale settore nel Sistema sanitario nazionale, sottraendolo dalle competenze del ministero della Giustizia. Alle Aziende sanitarie locali veniva assegnata la funzione di erogare le prestazioni sanitarie, mentre l’Amministrazione penitenziaria manteneva i compiti relativi alla sicurezza. Il passaggio di consegne avvenne il primo gennaio del 2000, pur tra molte criticità, elencate dai soggetti ascoltati in Commissione. Per il provveditore Di Paolo, il primo problema da affrontare è il sovraffollamento: 7.198 sono attualmente i detenuti nei 14 istituti penitenziari a disposizione, con un tasso di sovraffollamento pari al 46%. I detenuti in attesa di giudizio definitivo rappresentano il 44% del totale. Sul fronte della sanità penitenziaria, si è sottolineata il diritto dei detenuti a ricevere lo stesso livello di assistenza degli altri cittadini: la mancanza di specialisti all’interno delle carceri comporta sempre più spesso il trasporto protetto e il successivo piantonamento dei soggetti in strutture ospedaliere, con aggravio di costi. Incoraggiata, invece, l’esperienza di reparti ad hoc all’interno di strutture del Sistema sanitario regionale (come il “Belcolle” di Viterbo e il “Sandro Pertini” di Roma). Il garante Marroni ha sottolineato il trend in continuo aumento dei detenuti laziali e l’esiguità del numero di agenti (circa 3mila contro i 4.136 previsti). Decisivo il ruolo del volontariato e dell’associazionismo, che tuttavia non riesce a lenire i problemi di gestione della sanità penitenziaria nel suo complesso. L’esperienza sul campo ha accertato che il 35% dei detenuti è tossicodipendente e che circa il 50% assume psicofarmaci. Sullo sfondo, poi, la prossima chiusura, su base nazionale, degli ospedali psichiatrici giudiziari, con la conseguente presa in carico dei malati da parte delle Asl di appartenenza. Marroni ha infine chiesto un interlocutore, a livello di Giunta regionale, sul fronte della Sicurezza, mancando di fatto un assessorato specifico di riferimento. Nel 2007, il Consiglio regionale è intervenuto sulla questione delle carceri con la legge n. 7, avente per oggetto: “Interventi a sostegno dei diritti della popolazione detenuta della Regione Lazio”. “Ci rendiamo conto che sono ancora tanti gli interventi legislativi e non da portare a termine per completare la riforma della sanità penitenziaria anche nella nostra regione - ha dichiarato il presidente Lena: con queste audizioni apriamo un canale di confronto diretto e costante con chi lavora e opera tutti i giorni con i detenuti, affinché non ci ricordi delle nostre carceri solo in casi di emergenza o di estremo disagio, ma si passi ad una programmazione degli interventi a carico della Regione, con scadenze precise e riscontri certi, a partire da una ricognizione del lavoro svolto dalle nostre Asl in questo ambito, al fine di garantire una uniformità di azione in tutta la regione”. Il consigliere Fabrizio Santori (La Destra), auspicando una mozione a firma dei membri della Commissione sulla situazione carceraria, è intervenuto così sul tema del sovraffollamento degli istituti penitenziari: “Ritengo che sia utile partire dal dato dei detenuti stranieri nelle carceri laziali, che risultano essere 2.871 su 7.198, con una rappresentatività di ben 153 nazionalità diverse. È decisivo lavorare ad accordi bilaterali con gli Stati di provenienza per consentire, perlomeno a chi è stato già oggetto di sentenza definitiva, di scontare la pena nella propria terra, tra la propria gente. Soprattutto con Paesi dell’Unione Europea, come la Romania, ritengo sia necessario incentivare questo tipo di azione, in grado di dare immediatamente risposte concrete al tema del sovraffollamento”. La Commissione tornerà a riunirsi venerdì 21 giugno, alle ore 10: all’ordine del giorno l’incontro dei commissari con l’assessore Rita Visini per l’illustrazione delle linee programmatiche dell’assessorato alle Politiche sociali. Piemonte: Radicali; non si perda più tempo, Consiglio regionale nomini Garante detenuti Notizie Radicali, 19 giugno 2013 Alla notizia che Luca Pedrale (Capogruppo Pdl in Consiglio Regionale), primo firmatario della pdl n.188 cosiddetta “ammazza garanti”, ha ritirato la sua firma dal provvedimento (che è stato rinviato in I Commissione, che dovrà riesaminarlo entro il 16 luglio), Igor Boni (presidente Associazione radicale Adelaide Aglietta) e Giulio Manfredi (Comitato nazionale Radicali Italiani) hanno dichiarato: “Niente male il dietrofront di Pedrale. Lo diciamo senza nessuna intenzione polemica. Da un anno e mezzo, ormai, cerchiamo in tutti i modi (dai comunicati, agli appelli, agli scioperi della fame, alle diffide presentate tramite l’Ass. Aglietta da cittadini detenuti) di rivolgerci al buon senso dei consiglieri regionali, cercando di spiegare loro come le 13 carceri piemontesi hanno bisogno di una persona che, giorno per giorno, si occupi di quanto avviene dietro le mura, promuovendo le cose positive (che, comunque, ci sono), riducendo il danno prodotto dal sovraffollamento e dal fatto incontestabile che il carcere è ormai una discarica sociale, dove si contengono quelli che non hanno alcuna protezione sociale, dai tossicodipendenti agli extracomunitari. Nelle ultime settimane le nostre buone ragioni hanno spinto a scendere in campo a favore della nomina del garante (e, quindi, contro il PDL “Pedrale e altri”) sia Enrico Costa (coordinatore regionale PDL) sia la Camera Penale di Torino. Due prese di posizione pesanti che hanno sicuramente influito sul ripensamento di Pedrale, in sinergia con la ferma posizione delle forze di opposizione, PD in testa, compatte nella difesa dell’istituto del garante detenuti. Ora non si perda più tempo; in un mese la I Commissione può ricercare tutte le soluzioni che consentano risparmi ed economie di scala affinché, prima della pausa estiva, il Consiglio Regionale nomini finalmente il garante, come previsto dalla legge regionale n. 28 del lontano 2 dicembre 2009. Sarebbe un ben segnale per tutta la comunità penitenziaria piemontese (non solo per gli oltre 5.000 detenuti ma anche per i quasi 3.000 agenti di polizia penitenziaria, educatori, medici, infermieri….), in una stagione, quella estiva, che acuisce al massimo grado quella situazione di patente illegalità per cui l’Italia è stata condannata a più riprese dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo”. Abruzzo: manutenzione del verde affidata ai detenuti, un Protocollo tra Anci e Ministero www.pagineabruzzo.it, 19 giugno 2013 “Sono otto i detenuti in stato di semilibertà che stanno prestando servizio per il Comune di Pescara collaborando nella manutenzione del verde pubblico e delle nostre spiagge, primo progetto frutto del Protocollo d’intesa stipulato tra Anci e Ministero di Grazia e Giustizia, un esempio di concretezza e di come un accordo sottoscritto su carta possa trasformarsi in operatività del fare”. Lo ha detto l’assessore al Personale Marcello Antonelli nel corso della conferenza stampa odierna convocata per illustrare l’iniziativa, alla presenza del Direttore della Casa Circondariale di Pescara Franco Pettinelli, del Provveditore Bruna Brunetti e della dottoressa Parruti, Magistrato di Sorveglianza del Tribunale di Pescara. “Da qualche giorno - ha spiegato l’assessore Antonelli - 8 detenuti in stato di semilibertà stanno lavorando in maniera valida nel settore del verde pubblico, a cominciare dai nostri parchi, e il report redatto dal responsabile di servizio è assolutamente ottimo relativamente all’impegno profuso dai ragazzi coinvolti nel progetto e che ovviamente non sono affatto riconoscibili rispetto ai nostri operai comunali. Tre operatori stanno lavorando sugli sfalci, le spollonature, la bonifica e la pulizia delle aiuole a Largo Madonna, lungomare Matteotti, piazza Primo Maggio, via Gramsci e viale Riviera nord; altri tre operatori sono impegnati sul lungomare Cristoforo Colombo, via De Nardis, viale Primo Vere, via Luisa D’Annunzio, via La Porta; gli ultimi due operano nel centro cittadino, ossia corso Vittorio Emanuele, corso Umberto, viale Kennedy, via Regina Elena, via Regina Margherita, piazza della Rinascita, via Carducci e via Nicola Fabrizi. E quello attuato è un esempio di collaborazione concreta, che è la stella polare del nostro operare. Soprattutto quello odierno è solo un esempio di collaborazione con la Casa Circondariale che intendiamo replicare anche in futuro”. “Fa piacere constatare la grande sinergia esistente tra Ente locale e Stato perché il carcere non dev’essere relegato ai margini della società - ha detto la dottoressa Brunetti. Parliamo tanto di reinserimento dei detenuti, ma se poi non creiamo le opportunità, se poi non abituiamo i detenuti a lavorare concretamente le parole perdono di significato, perché è evidente che i detenuti sono soggetti che non sono abituati a lavorare perché non ne hanno avuto la possibilità, o hanno fatto scelte sbagliate, noi allora dobbiamo abituarli a impegnarsi, perché chi esce fuori a lavorare vuol dire che ha la possibilità di uscire dal carcere e ha tutto l’interesse a comportarsi bene, altrimenti torna dentro”. “In un momento storico in cui il lavoro non c’è - ha detto la dottoressa Parruti - è importante dare un’opportunità a chi nella vita ha avuto meno dalla famiglia, dalla società. E il progetto attivato con il Comune è importante perché induce il detenuto a impegnarsi utilmente per la società assolvendo alla funzione rieducativa della detenzione. Ed è poi importante la durata della convenzione perché gli interventi-flash non servono”. “Ringrazio l’amministrazione per la sua collaborazione - ha aggiunto Pettinelli; quello odierno è un intervento di 4-6 mesi per la pulizia delle spiagge e del verde e spero che tali progetti possano poi concludersi con le borse lavoro dando un’opportunità futura concreta al detenuto”. Ciascun lavoratore impegnato nel progetto percepisce un compenso di 120 euro al mese oltre all’abbonamento gratuito del bus messo a disposizione dalla Gtm. “Per il futuro - ha anticipato l’assessore Antonelli - stiamo già pensando ad affidare a una cooperativa costituita all’interno della Casa Circondariale il compito di archiviare in maniera digitale tutti i nostri progetti edilizi”. Marche: Mozione per il carcere di Camerino, Spacca chiede un incontro al ministro www.cronachemaceratesi.it, 19 giugno 2013 Il Consiglio regionale ha approvato la mozione a firma della Vice Presidente Rosalba Ortenzi e dei consiglieri Luca Marconi, Francesco Comi, Angelo Sciapichetti ed Enzo Marangoni, che “considerata l’indifferibilità e l’urgenza di procedere all’avvio dei lavori per la costruzione della nuova struttura penitenziaria camerte che dovrà ospitare circa 450 detenuti, impegna la presidenza della Giunta e del Consiglio ad intraprendere nell’immediato tutte le iniziative utili a sollecitare le autorità governative e il Ministro della Giustizia a dare piena attuazione a quanto previsto dal piano di edilizia penitenziaria con la costruzione del nuovo carcere di Camerino”. Per la realizzazione dell’opera sono già state avviate le necessarie procedure amministrative con il Comune di Camerino, relative alla definizione dell’area da espropriare, e nel 2010 è stata sottoscritta l’intesa dall’Assessore Luca Marconi con il Capo Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Franco Ionta. Giudicate plausibili le assicurazioni avute al riguardo dal Commissario per l’Edilizia Penitenziaria Prefetto Angelo Sinesio che tuttavia ha precisato che nei prossimi giorni dal Governo verrà assunta una decisione definitiva in merito al costruendo carcere di Camerino per lo sblocco delle risorse finanziarie a suo tempo accantonate. Nel frattempo il Presidente della Regione, Gian Mario Spacca, ha chiesto un incontro al Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri per affrontare proprio la questione del carcere. Sassari: mandate i mafiosi?, allora vogliamo una direzione distrettuale antimafia di Paoletta Farina La Nuova Sardegna, 19 giugno 2013 Ci mandano i mafiosi nelle nuove carceri di Bancali e Tempio? E allora lo Stato ci dia la direzione distrettuale antimafia e la corte d’appello autonoma da Cagliari. Non è una provocazione, ma un appello alla mobilitazione per riaprire una vecchia battaglia del territorio, quella che ha lanciato ieri il consigliere comunale montiano Gigi Pisanu. Grido di guerra che ha trovato una sponda nel sindaco. Dall’altra parte della barricata, politicamente, anche Gianfranco Ga-nau ha condiviso le considerazioni di Pisanu e si è detto pronto a mettersi alla testa. Il segnale verso Roma è lanciato. Consiglio comunale, si apre con le segnalazioni. E Pisanu spara subito. Figlio di Beppe, il più longevo parlamentare della Repubblica che è stato anche il presidente della commissione antimafia, non si può dire che non conosca la materia anche per averla respirata in famiglia. Per giunta Gigi Pisanu è avvocato. Dice: “A Sassari e Tempio le nuove carceri potranno ospitare boss e gregari delle mafie, a Bancali anche in regime di 41 bis, quindi di massima restrizione. Da più parti si discute delle possibili ripercussioni che la presenza di esponenti della criminalità organizzata potrebbe avere sul nostro territorio. Un prezzo che le nostre comunità non devono pagare senza un corrispettivo: che è quello di una forte presenza dello Stato anche in termini di contrasto ai reati di stampo mafioso”. Per Gigi Pisanu ne consegue che dove può esistere il pericolo di infiltrazioni mafiose deve esserci la direzione distrettuale antimafia. “Se c’è un agente patogeno - afferma - allora dobbiamo avere gli anticorpi”. Ora l’organo giudiziario, appunto perché distrettuale, porta con sé anche un’autonoma corte d’appello. Quella sassarese, infatti, è nata solo come sezione distaccata di Cagliari, non essendo Sassari distretto. Senza contare che il riconoscimento di distretto porterebbe al capoluogo anche l’istituzione di un Tribunale regionale amministrativo. E tutti gli altri effetti positivi che deriverebbero dall’avere una giustizia più “vicina”. Una rivendicazione di autonomia giudiziaria dal capoluogo regionale che il Nord Sardegna non si stanca di proporre, nonostante le molte orecchie sorde. Perciò anche Gianfranco Ganau si è convinto che valga la pena di dare nuovo impulso alla lotta. “Abbiamo sempre sostenuto la necessità di avere una sede nostra di corte d’appello, lo confermano tutte le iniziative che abbiamo preso in passato a sostegno, anche se i risultati non ci sono stati. Perciò ritengo che la proposta di Pisanu sia condivisibile e che si possa lavorare in questa direzione”. Peraltro a una Dda sassarese il lavoro non mancherebbe di certo. Più volte la direzione antimafia cagliaritana si è occupata di reati commessi nel circondario di Sassari e Nuoro. Per citare i più eclatanti il sequestro dell’imprenditore di Bonorva Titti Pinna e l’omicidio di Dina Dorè, la donna di Gavoi uccisa nel garage di casa davanti alla figlioletta di pochi mesi. Reato, quest’ultimo, per cui è in cella il marito. Proprio di recente l’inchiesta Dorè è stata spostata da Cagliari a Nuoro, ritenuto il “ giudice naturale” dalla stessa Dda dopo che l’ipotesi di sequestro si è rivelata inconsistente. Sassari: Manconi (Pd); riaprire l’Asinara?... è solo un tormentone estivo di Elena Laudante La Nuova Sardegna, 19 giugno 2013 Quella dei detenuti reclusi all’Asinara è una foto sbiadita, per sempre. “Non penso si sia parlato della possibile riapertura del supercarcere, ritengo che la notizia sia un falso, priva di qualunque fondamento”. Capitolo chiuso. Il tono di Luigi Manconi è di chi non ammette repliche a tormentoni di mezza estate, come rischiava di diventare la frase buttata lì dal sottosegretario alla Giustizia, Giuseppe Berretta. “L’Asinara? Non so se riaprirà”, aveva detto lunedì. A Sassari per visitare una struttura della Giustizia minorile mai utilizzata, il presidente della Commissione del Senato per i diritti umani ha escluso che Berretta, pur non menzionato, parlasse seriamente. “La notizia non esiste - ha affermato - e se mai esistesse, io sarei totalmente e incondizionatamente contrario”. Forse dell’Alcatraz sarda non c’è più bisogno. In Sardegna il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha clonato tanti bunker: i mafiosi al 41 bis andranno nei bracci di Sassari-Bancali e Uta-Cagliari, quelli in Alta sicurezza saranno a Tempio e Oristano. Sono coloro che fanno gridare al pericolo infiltrazioni, per la presenza massiccia di capicosca (tra 200 e 300, a regime pieno). “Il pericolo mafia? Esiste - ammette Manconi - ma è evitabile. Come il resto d’Italia ha ospitato al confino i criminali sardi, così la Sardegna ospiterà al confino gli altri”. E sul più generale rischio che la presenza di quei boss faccia sbarcare pure la mafia, l’esponente Pd è realista. “C’è preoccupazione ma la questione della sicurezza è una questione nazionale, e i costi devono essere sopportati da tutti. Comunque, a proposito di infiltrazioni mafiose, non credo siano inevitabili”. Sociologo di natali sassaresi, docente universitario e primo firmatario della legge Smuraglia del 2000 (quella sul lavoro dei detenuti), Manconi conosce bene le dinamiche carcerarie. E sa che quella sull’Asinara è una boutade che si ripete sempre uguale. Sebbene lo scorso anno, il Guardasigilli Paola Severino sia pure andato sull’isola-parco per valutare lo stato delle strutture penitenziarie, sollevando lo stesso polverone. Ieri come oggi, il presidente del Parco dell’Asinara, Pasqualino Federici, ricorda che “una legge ha cancellato le strutture carcerarie da qui”. Ma ogni estate qualcuno ripete quel refrain. Foggia: Mastrulli (Coosp); questo è il carcere più sovraffollato d’Italia, uno scandalo www.statoquotidiano.it, 19 giugno 2013 “Il personale della Polizia penitenziaria in visita anche oggi al carcere Circondariale di Foggia, insieme al coordinamento sindacale del Coosp, non può che gridare allo scandalo per le rappresentate emergenze di questa struttura”. Così il Segretario generale del Sindacato penitenziario, Domenico Mastrulli, all’uscita, stamani della visita ispettiva regolarmente autorizzata. “La visita effettuata - sottolinea Mastrulli - è stata fatta per sondare in modo capillare le criticità interne della Casa Circondariale riguardanti anche il personale. Sussistono - evidenzia il segretario - emergenze rispetto la mancanza di attenzione generale, e globale sui rischi sanitari, sulla scarsa vivibilità nei reparti detentivi. Tutte conseguenze del sovraffollamento giunto ormai a superare il 100%. La Puglia detiene 4.200 detenuti in 12 strutture, più una minorile, con 23 minori”. “Uno scenario inverosimile - continua Mastrulli - che va contro la capienza regolamentare stimata in 2.400 detenuti. In particolare il carcere di Foggia presenta un tasso di sovraffollamento del 67%, il più alto nella media nazionale. Al contrario, la struttura circondariale del capoluogo dauno, nata per contenere fino a 350 detenuti, ne ospita quasi 800”. “Solo, oggi a causa di un preventivo sfollamento, certamente - chiosa il segretario Coosp - si vuole pensare non legata alla visita del coordinamento sindacale, si contavano 650 presenze. Di queste, almeno 50 sono a rischio suicidio, e soggetti a rischio autolesionismo. Bisogna inoltre sottolineare la presenza di 400 detenuti in stato di Alta Sicurezza, tra i quali almeno il 35% è tossicodipendente”. “Nel reparto femminile, la situazione è degenerata, e diventata esplosiva specie per il comparto psichiatrico. Di 33 presenze totali, si contano almeno 5 gravemente malate, e che necessitano di cure psichiatriche. Intanto - rileva Mastrulli - la donna, che i giorni scorsi è stata colpevole di aver lanciato feci e urine contro personale della Polizia Penitenziaria, stranamente, oggi nel corso dell’ispezione non era presente. La medesima, nella stessa circostanza aveva dato fuoco ai rifiuti, e scaraventato il letto nel corridoio, fuori dalla cella”. “A Foggia manca un reparto psichiatrico, e questo istituto non può, e non deve diventare una discarica sociale. In queste condizioni sono necessarie almeno 15 unità di rinforzo della Polizia femminile, e 30 uomini dei Baschi azzurri. In caso contrario dall’emergenza - conclude il segretario - le condizioni devieranno al Codice Rosso”. Bari: 45 milioni per nuovo carcere, ospiterà detenuti con condanne non superiori ai 3 anni Gazzetta del Mezzogiorno, 19 giugno 2013 Nei prossimi giorni è prevista una riunione istituzionale con il presidente della giunta regionale, Vendola, ed il sindaco Emiliano. Nell’istituto penitenziario fra via Giovanni XXIII e corso Benedetto Croce 478 reclusi a fronte di una capienza per 280 persone. Sono 4.055 i detenuti (oltre settecento stranieri) nelle 11 carceri pugliesi anziché i 2.459 previsti, e 478 solo nella casa circondariale di Bari, anziché 280. E gli agenti di polizia penitenziaria sono sotto organico: 396 previsti da una vecchia pianificazione ma attualmente in tutto 380 a Bari, con vari distacchi al Provveditorato. Il nuovo organico ne prevede per gli istituti pugliesi 2.448: di questi 83 per i servizi vari (Provveditorato e uffici esecuzione penale esterna a Foggia, Taranto, Lecce, Brindisi, Bari). Una manna dal cielo, quindi, la possibilità che venga realizzato un nuovo carcere a Bari, annunciata la settimana scorsa. Entro i prossimi giorni si dovrebbe conoscere la data di una riunione in città fra dirigenti della Direzione amministrativa penitenziaria della Puglia, incaricati del commissario straordinario per il Piano carceri, il prefetto Angelo Sinesio, ed esponenti degli enti locali: il sindaco del capoluogo Michele Emiliano e il presidente della Giunta regionale, Nichi Vendola. Pareri necessari per stipulare l’intesa istituzionale ai fini della localizzazione del nuovo carcere. Già nel 2011, nell’ambito del Piano carceri messo a punto dall’allora commissario straordinario Franco Ionta, c’erano 40 milioni di euro per la realizzazione del nuovo istituto penale nella zona fra Carbonara e Loseto. Ci fu l’impegno del senatore Luigi D’Ambrosio Lettieri, il sindaco Emiliano dette l’assenso di massima, mentre il presidente Vendola non volle stipulare l’intesa istituzionale in quanto sostenne di non voler passare nella storia della Puglia come colui che aveva contribuito a far costruire carceri. Ma il disagio per i detenuti continua a causa del sovraffollamento e i 40 milioni disponibili sono andati perduti. Ieri, nell’incontro fra il senatore Luigi D’Ambrosio Lettieri e i vertici del sistema carcerario pugliese e della Casa circondariale di Bari c’è stata la conferma di una nuova disponibilità economica nel piano di edilizia carceraria, come ha rimarcato il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria Giuseppe Martone: circa 45 milioni di euro. È stata ieri l’occasione anche per fare il punto sulla questione della sanità in carcere e delle condizioni in cui operano gli agenti di Polizia penitenziaria. Si è trattato di un primo incontro e altri seguiranno su temi specifici. Nelle intenzioni, il nuovo carcere sarà un “carcere trattamentale” per detenuti con condanne non superiori ai 3 anni e con programmi orientati al recupero attraverso la formazione al lavoro. L’intenzione è di replicare nel Mezzogiorno, per la prima volta, l’esperienza pilota - e apprezzata - del carcere di Bollate, vicino a Milano. Udine: Sappe; ferito un poliziotto, aggredito con calci e pugni da un detenuto tunisino Asca, 19 giugno 2013 “Un collega della Polizia Penitenziaria è stato aggredito questa mattina nel carcere di Udine da un detenuto tunisino di 20 anni, ristretto per spaccio di droga, mentre erano in corso le operazioni di perquisizione delle celle. Il poliziotto è stato proditoriamente aggredito, prima verbale e poi fisicamente con calci e pugni, tanto da rendersi necessarie le cure all’Ospedale. Nonostante tutto, i colleghi della Polizia Penitenziaria sono riusciti ad evitare più gravi conseguenze. A lui, ricorso alle cure del locale Pronto Soccorso, va naturalmente tutta la nostra vicinanza e solidarietà, ma ci domandiamo quante aggressioni ancora dovrà subire il nostro Personale di Polizia Penitenziaria perché si decida di intervenire concretamente sulle criticità del carcere di Udine e, più in generale, di un sistema sempre più vicino all’implosione. In poche settimane abbiamo registrato i suicidi di un Agente di Polizia Penitenziaria (nel carcere minorile di Lecce) e di due detenuti (a Castelfranco Emilia ed a Catanzaro), altri due suicidi di ristretti sventati in tempo dalla Polizia penitenziaria a Modena ed nel carcere minorile di Catanzaro, poliziotti aggrediti in carcere a Reggio Emilia, Spoleto e Salerno ed un’aggressione contro un altro Basco Azzurro sventata ad Alessandria, due risse tra detenuti nel carcere genovese di Marassi, due incendi provocati da detenuti a Como e Montelupo Fiorentino che per il pronto intervento degli Agenti non è sfociato in tragedie, la morte improvvisa per malore di cinque detenuti (nel carcere di Velletri, Roma Rebibbia e nell’Ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia) e di un poliziotto del carcere di Firenze Sollicciano”. È quanto scrive in una nota Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe (il primo e più rappresentativo della Categoria), commentando l’ennesima aggressione a poliziotti della Penitenziaria, questa volta nel carcere di Udine. “Questa ennesima aggressione ad un poliziotto ci preoccupa. La carenza di personale di Polizia Penitenziaria e il costante sovraffollamento (a Udine ci sono duecento detenuti per 100 posti letto), con le conseguenti ripercussioni negative sulla dignità stessa di chi deve scontare una pena in celle affollate oltre ogni limite e soprattutto di chi in quelle sezioni deve lavorare rappresentando lo Stato come i nostri Agenti, sono temi che si dibattono da tempo, senza soluzione, e sono concause di questi tragici episodi. Spesso, come a Udine, il personale di Polizia Penitenziaria è stato ed è lasciato da solo a gestire all’interno delle nostre carceri moltissime situazioni di disagio sociale e di tensione, 24 ore su 24, 365 giorni all’anno. Il Dap pensa alle favole, alla vigilanza dinamica ed all’autogestione dei detenuti: ma le tensioni in carcere crescono in maniera rapida e preoccupante: bisogna intervenire tempestivamente per garantire adeguata sicurezza agli Agenti e alle strutture! E bisogna che chi aggredisce gli Agenti sia punito con severità e fermezza”. Prato: alla Dogaia un giardino per i figli dei detenuti grazie ai corsi di formazione Il Tirreno, 19 giugno 2013 Inaugurato il giardino nella sezione di massima sicurezza del carcere di Prato. 130 detenuti hanno partecipato ai corsi di formazione finanziati dalla Provincia: ognuno ha dato il proprio contributo per creare un’oasi colorata destinata ai bambini. Intravedere una luce fuori dal carcere, un ritorno alla normalità dopo anni di detenzione: più facile con il lavoro. È la scommessa del progetto Ariel, finanziato dalla Provincia di Prato con il sostegno dei Comuni di Montemurlo e Carmignano, gestito dall’istituto Datini, che ha coinvolto 130 detenuti del carcere della Dogaia. Orto, bosco, idraulica e guida del muletto: quattro corsi, in tutto quasi 700 ore di formazione. Stamani il risultato finale con tanto di taglio del nastro di un giardino nello spazio interno della sezione di massima sicurezza. Uno spazio giochi per bambini, colorato e accogliente, con qualche giostrina, panchine e gazebo, aiuole e alberi per accogliere i figli dei detenuti durante gli incontri. Tutto nel giardino - dalla recinzione ai cestini dei rifiuti, dalla scelta delle piante alla semina del tappeto d’erba - è stato curato dai detenuti, in particolare da quelli condannati per reati sessuali. Per arredare questo e gli altri spazi a cui i detenuti hanno lavorato, tre ragazzi della scuola Datini hanno realizzato dei murales. I corsi di formazione sono serviti a insegnare mestieri spendibili nel mercato del lavoro: produzioni arboree e ortofloricole, protezione del terreno e cura delle superfici boschive, installazione e manutenzione di impianti termoidraulici, conduzione di carrelli elevatori. Un detenuto su 5 tra i 714 ospitati dal carcere della Dogaia, ha avuto l’opportunità di frequentare i corsi: la scelta è caduta su quelli che hanno già scontato gran parte della pena e sono vicini alla scarcerazione. Spinazzola (Bat): lettera del Ministero, il carcere resta chiuso definitivamente di Cosimo Forina Gazzetta del Mezzogiorno, 19 giugno 2013 “Chi è causa del suo mal pianga se stesso”. Possiamo anche chiosarla così, definitivamente, la vicenda del carcere di Spinazzola smembrato e chiuso. Con una pietra tombale che potrà anche far riflettere, per molti versi indignare, ma la parola fine è arrivata dal vice capo Gabinetto del Ministro della Giustizia Vittorio Paraggio nelle mani del presidente della Provincia Francesco Ventola. Lo scorso 20 marzo il consiglio Provinciale della Bat aveva deliberato la richiesta della riapertura dell’Istituto Penitenziario di Spinazzola chiuso nel 2011, decreto a firma dell’ex Guardasigilli Angiolino Alfano. Spunto, la condanna dell’Italia dalla Corte di Strasburgo per le condizioni indecenti delle sue carceri. Lo scatto di reni del consiglio Provinciale, per tentare l’intentabile, era arrivato su proposta della II Commissione, presidente l’ex sindaco di Spinazzola, oggi consigliere provinciale, Carlo Scelzi. A smorzare gli entusiasmi la lettera arrivata dal Ministero: “Si rappresenta che le problematiche che hanno indotto l’Amministrazione a chiudere detto istituto, nel corso del 2011, sono ancora attuali e non rendono praticabile l’ipotesi di una sua riattivazione. Difatti, il rapporto costo benefici si presenta ancora antieconomico, sia in ragione della limitata capacità ricettiva della struttura che di altre criticità al momento difficilmente superabili, quali la carenza di personale di Polizia Penitenziaria da adibirvi, l’avvenuta riconsegna al Demanio dello Stato dell’immobile, la difficoltà a garantire assistenza sanitaria ai ristretti stante la distanza del presidio ospedaliero di zona”. “L’insieme delle condizioni evidenziate, si conclude, e l’attuale congiuntura economico-finanziaria, che richiede di razionalizzare e ottimizzare le risorse a disposizione inducono a ritenere, allo stato, non realizzabile la riapertura di Spinazzola”. Ora non sappiamo chi funge da oracolo in quel del Ministero, ma come ormai da cronaca sappiamo, tanto dalla documentazione che dalla posizione assunta dal sindacato Ugl Polizia Penitenziaria che dal Sappe che le cose non stanno così. Sulmona (Aq): Sappe; il carcere diventa di “massima sicurezza”, serve nuovo personale Il Centro, 19 giugno 2013 Con la trasformazione in istituto di pena di massima sicurezza si complica la vita all’interno della struttura di via Lamaccio, così come è emerso nell’incontro che il Sappe (Sindacato autonomo di polizia penitenziaria) ha tenuto proprio nella struttura, dopo la nuova pianta organica che sottrae 57 agenti. Dei 328 previsti nel 2001, il nuovo assetto ne prevede 271, anche se effettivi in servizio ne sono 240 e operativi solo 200, fra permessi e malattie. Quasi cento poliziotti in meno per vigilare su oltre 400 detenuti di massima sicurezza: mafiosi, terroristi internazionali e criminali pericolosi. Chiusa la casa lavoro, infatti, sono stati trasferiti altrove i 160 internati. “La situazione è drammatica”, è intervenuto il segretario regionale Sappe, Giuseppe Ninu, “noi chiediamo l’integrazione degli agenti”. Un’apertura è arrivata dall’assessore regionale ai Lavori pubblici, Angelo Di Paolo. “Il sistema carcerario va riformato”, ha detto, “io sono pronto a farlo”. Intanto, il progetto di ampliamento col nuovo padiglione da altri 200 posti, resta sulla carta. Foggia: cure inadeguate a un detenuto, tribunale ordina indagine su medici e infermieri di Gabriella De Matteis La Repubblica, 19 giugno 2013 “Costante pericolo imminente di morte a causa di un’incompetente ed irresponsabile assistenza medica”. Sono parole dure quelle messe nero su bianco da uno specialista chiamato a pronunciarsi sul caso di un giovane di 31 anni di Bari, detenuto nel carcere di Foggia dall’agosto di un anno fa. Ha una protesi meccanica all’aorta. Deve essere sottoposto ad una terapia anticoagulante, che, però, dietro le sbarre se pure possibile, si è rivelata, dice lo specialista “inconcludente ed inefficace”. Per questo il Tribunale di Sorveglianza di Bari ha deciso di trasmettere le carte alla procura chiamata a stabilire se il comportamento del personale medico ed infermieristico in servizio al carcere di Foggia sia stato corretto o se possa essere perseguito penalmente. Il giovane, secondo i giudici del Tribunale di Sorveglianza, “è ritenuto elemento di spicco della criminalità organizzata barese”. Proveniente da una famiglia normale, “ha avviato una vera e propria escalation criminale”, rimediando cinque sentenze di condanna per reati che vanno dalla rapina al traffico di sostanze stupefacenti. Dal 2010 di fatto è dietro le sbarre e prima di arrivare a Foggia era a Secondigliano. Il Tribunale di Sorveglianza ora ha disposto il suo trasferimento nella struttura penitenziaria di Bari perché a Foggia rischiava di fatto di morire a causa di una assistenza medica non adeguata. Scrive Nicola Ciavarella, direttore del centro Emofilia e Trombosi del Policlinico di Bari: “Ho potuto registrare una trascuratezza pericolosa, una superficialità, una indifferenza, un abbandono e soprattutto la mancanza di responsabilità a livello di dirigenza medica”. Consulenza quella dello specialista che ha spinto i giudici del Tribunale di Sorveglianza di Bari a trasmettere gli atti alla procura. “Nel carcere di Foggia - scrive ancora Ciavarella - manca tutta la documentazione del percorso terapeutico: prescrizione, somministrazione e assunzione”. La difesa del detenuto (rappresentata dall’avvocato Francesco De Giglio), aveva chiesto di concedere i domiciliari, richiesta che è stata respinta, considerato, fa notare il Tribunale di Sorveglianza, anche “l’elevato livello di pericolosità sociale” del giovane che ora si trova in quello di Bari. La sua patologia è infatti compatibile con la detenzione in carcere. Trapani: tagli alle classi scolastiche per i detenuti, 64 docenti sottoscrivono una petizione La Sicilia, 19 giugno 2013 Nelle carceri “San Giuliano” di Trapani, dal prossimo anno scolastico, le classi dell’Istituto tecnico “Sciascia” di Erice saranno ridotte da 7 a 3. La soppressione riguarda, oltre che una prima, anche due quarte ed una quinta classe. Di conseguenza i detenuti, aspiranti ragionieri, sono costretti ad interrompere gli studi dopo aver frequentato per anni il corso di studio. Per scongiurare i tagli, sessantaquattro docenti dello “Sciascia” hanno sottoscritto una petizione, consegnata all’Ufficio scolastico provinciale, sottolineando che la riduzione delle classi rappresenta “una palese violazione del diritto allo studio”. Così facendo, “il percorso riabilitativo è destinato a rimanere incompiuto”, afferma Antonella Parisi, docente di Matematica e curatrice di iniziative culturali dentro le carceri, come la pubblicazione di due volumetti realizzati dai detenuti. Il mantenimento delle sette classi è stato chiesto all’Ufficio scolastico provinciale anche dal direttore dell’istituto di pena, Renato Persico. San Gimignano (Si): scarpe nuove per un detenuto, ma dentro c’erano droga e cellulare Il Tirreno, 19 giugno 2013 Non solo problemi di sovraffollamento, poco personale e situazione dirigente ormai allo sbando al carcere di Ranza: è di poche ore fa la notizia di un episodio che viene riscontrato molto più spesso nelle fiction televisive che nella realtà. È stato infatti trovato un quantitativo di droga per un detenuto del carcere di San Gimignano. L’ha scoperta ieri intorno all’ora di pranzo la polizia penitenziaria, durante i controlli dei pacchi postali in ingresso. È stato scoperto un modico quantitativo di hashish ed un telefono cellulare, ben nascosti in un paio di scarpe, inserita all’interno delle tomaie. C’erano circa 12 grammi. Dopo i primi sospetti, conseguenti ai controlli avvenuti con apparecchiature a raggi X, le ulteriori verifiche sono state effettuate al momento della consegna del pacco al detenuto. Il destinatario è un detenuto in regime di alta sicurezza. La Cisl Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori - in una nota intende “segnalare l’alta professionalità dei colleghi di Polizia Penitenziaria di San Gimignano, che pur operando in difficili condizioni per la grave carenza di personale e le ristrettezze economiche per uso di mezzi e strumenti necessari al servizio, hanno sventato una pericolosa situazione al carcere di “Ranza”. “A loro - conclude il segretario generale Fabrizio Ciuffini, vanno i nostri complimenti, a nome di tutte le colleghe ed i colleghi che la Cisl Fns rappresenta nei diversi Corpi dello Stato”. Bologna: dalla Dozza all’Alma Mater, con una tesi sulla detenzione di Eva Pedrelli La Repubblica, 19 giugno 2013 Giovanni Gandolfo si è laureato in Scienze Politiche nel carcere bolognese, dove sta scontando un ergastolo. E già pensa a un altro diploma accademico. Una laurea in Scienze Politiche in tasca e un “fine pena mai” nel suo futuro. Giovanni Gandolfo, 47 anni, in carcere per un omicidio commesso in un agguato mafioso 23 anni fa nella sua Sicilia, ha discusso martedì mattina una tesi sui percorsi di integrazione dei detenuti. La camionetta della Polizia Penitenziaria è arrivata dalla Dozza alla Facoltà in Strada Maggiore alle 10. Gli agenti della scorta non lo perdevano di vista un attimo. Elegante e sudato, complici il caldo e la tensione, ha incontrato i famigliari in una saletta privata. Poi l’inizio della sessione, l’ansia del momento, con gli occhi sgranati, balbettando, chiedeva: “Non sarò mica il primo?”. Alla commissione e al suo professore, Roberto Cartocci, ha parlato delle opportunità di reintegro date ai detenuti delle carceri tedesche, dove ha passato otto anni. Dopo la cerimonia, anche un pranzo fuori con i parenti. “Giovanni pensa già ad un’altra laurea. Ha voglia di riscattarsi e bisogno di tenere la testa impegnata”, racconta la sorella Cristina, “è portato per la storia, per il diritto, ma con l’inglese non c’è niente da fare”. La mamma avrebbe preferito che giornalisti e curiosi restassero fuori: “So che è aperto al pubblico ma io volevo una giornata tutta per noi”. C’è voluto del tempo prima che il Tribunale di Sorveglianza concedesse il permesso per andare all’Università. Il timore era che tutto slittasse a settembre, perché non sarebbe stato facile per l’Università organizzare in così poco tempo una commissione speciale che andasse alla Dozza. Poi, tutto è andato per il meglio. Questa laurea rappresenta un nuovo successo per i volontari dell’Avoc, che permettono a chi sta dietro le sbarre di poter studiare: fanno da tramite con i professori, copiano dispense e cercano donazioni in libri. “La convenzione tra Alma Mater e la Dozza offre 30 posti ad una retta di soli 157 euro l’anno”, racconta Laura Luchetta, di Ausilio Cultura, “ma restano difficoltà: per esempio, non si possono seguire le lezioni in videoconferenza perché in carcere non c’è accesso a internet”. Stati Uniti: Tidei (Pd); il ministro Bonino chieda clemenza per i 5 cubani detenuti Agenparl, 19 giugno 2013 “Chiediamo che il Ministro degli esteri Emma Bonino si attivi, in sede bilaterale e multilaterale, per sollecitare al Governo degli Stati Uniti la concessione di un atto di clemenza per ragioni umanitarie per i cinque prigionieri cubani condannati per spionaggio a pene pesantissime, tra cui l’ergastolo per tre di loro e che sono rinchiusi nelle carceri americane dal 2001”. Lo dichiara Marietta Tidei, presentando un’interrogazione scritta al Ministro degli Esteri insieme, tra gli altri, ai deputati Eleonora Cimbro e Fabio Porta. “I cinque cubani erano agenti infiltrati nella malavita a Miami, ma dalle testimonianze fornite da parte di alti ufficiali statunitensi emerge come costoro fossero disarmati e il loro lavoro investigativo non ha mai visto conflitti a fuoco e non ha mai provocato colluttazioni di alcun genere. Le pene sembrano davvero sproporzionate anche in confronto ad altri condannati per accuse simili, come fu nel caso di un agente non registrato del Governo di Saddam Hussein condannato nell’aprile 2004 a meno di quattro anni”. “Chiediamo l’intervento del Governo italiano - conclude l’esponente del Pd - anche alla luce di quanto dichiarato da Gruppo di lavoro sulle detenzioni arbitrarie delle Nazioni Unite, che ha dichiarato come la privazione della libertà dei cinque detenuti fu arbitraria ed in violazione delle Convenzioni sui Diritti Umani delle Nazioni Unite”. Israele: Mahmoud Sarsak, ex promessa del calcio rimasto in carcere 3 anni senza processo di Luca Pisapia Il Fatto Quotidiano, 19 giugno 2013 Mahmoud Sarsak è, anzi era una giovane promessa della nazionale di calcio palestinese. Il 22 luglio 2009 è stato arrestato e poi detenuto senza processo per tre anni nelle carceri israeliane, da cui è uscito solo l’anno scorso dopo un lungo sciopero della fame che ha debilitato alcuni suoi organi vitali. Sarsak due settimane fa era a Londra e durante il 37mo congresso Uefa ha consegnato al presidente Platini una richiesta formale affinché a Israele non fosse concesso di ospitare l’Europeo Under 21. Un appello cui ha fatto seguito quello promosso dall’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, dal regista britannico Ken Loach e altri, concordi nel ritenere “sconvolgente che la Uefa dimostri totale insensibilità nei confronti della palese e radicata discriminazione inflitta ai palestinesi da parte di Israele”. In quell’occasione, Mahmoud Sarsak ha deciso di raccontare a ilfattoquotidiano.it la sua storia e le ragioni della sua protesta. Ci puoi raccontare esattamente cosa è successo quel giorno d’estate di quattro anni fa? Stavo andando da Gaza alla Cisgiordania per una trasferta, e mentre attraversavo un check-point sono stato arrestato. Inizialmente sono stato detenuto per 45 giorni, prima di ritrovarmi in prigione per tre lunghi anni, in cui sono stato privato dei miei diritti e in cui sono stato considerato non un essere umano ma un numero. Mi hanno rinchiuso in una cella di due metri per due, in cui non riuscivo a distinguere il giorno dalla notte. Mi hanno anche legato in diversi modi, a volte con il “metodo della banana”: le mani legate alle gambe e il mio corpo ricurvo, di modo che per diversi giorni non potessi dormire. Oppure hanno cercato di sfiancarmi mettendomi in un’altra cella, sempre di due metri per due, che sembrava un freezer, dove la temperatura arrivava a -15 gradi. Tutto questo per ottenere una confessione di colpe che non ho mai commesso. Ancora oggi non so di cosa sia stato accusato. Su cosa si basava l’accusa? Mi hanno accusato di tantissime cose, ogni volta cercando da me una confessione diversa: che fossi membro della jihad, di Hamas o di Al Fatah. Sono stato accusato poi di essere un “combattente illegale”: uno status giuridico assolutamente non applicabile nei miei confronti, ma che ha permesso loro di tenermi in carcere per quanto volevano grazie al regime di “detenzione amministrativa”. Quando hai deciso di cominciare lo sciopero per la fame? Quando ho capito che sarei rimasto detenuto ingiustamente per un tempo infinito, senza che ai miei avvocati fosse formalizzato alcun capo d’accusa e senza alcun processo. E dopo aver visto il mio amico Zakreea Isaa (calciatore del Betlemme, ndr) soccombere al cancro con i carcerieri che l’avevano abbandonato a se stesso, rifiutandosi di fornirgli assistenza medica. Tutto questo mentre le organizzazioni sportive internazionali stavano a guardare, anche loro senza fare nulla. Non volevo che questo potesse succedere anche a me, che non avessi più la possibilità di vedere la mia famiglia e i miei cari. È stato allora che ho deciso di cominciare lo sciopero della fame. È stata un’esperienza terribile, una sofferenza impossibile da spiegare con le parole. Eppure, quando sono in gioco la tua libertà e la tua vita ti senti in grado di superare qualsiasi dolore, perché sai che la vita senza libertà non vale la pena di essere vissuta. È stato atroce, ho visto la morte da vicino più volte. Ma è tutto quello che riesco a dirti, a un anno di distanza è ancora troppo difficile oggi per me parlare di questa cosa. Adesso come ti senti? Quando mi hanno rilasciato non sapevo se ridere o piangere. Da una parte ero contento di poter tornare dalla mia famiglia, che non vedevo da tre anni, e mi sentivo rinato. Dall’altra non potevo fare a meno di pensare a tutti gli amici ancora incarcerati e detenuti in condizioni disumane, privati di ogni diritto e deprivati pure del sole. Come Omar Abu Roweis e Mohammad Noofal, compagni della nazionale palestinese ancora in attesa di processo. Se personalmente cerco di essere felice per ogni giorno di libertà, e cerco di aiutare il mio popolo raccontando la mia storia, in realtà di salute non sto per niente bene. E poi ho paura, perché sento la pressione di Israele, mi sento seguito ogni passo che faccio e minacciato, ho veramente paura. Hai detto che le organizzazioni sportive internazionali stavano a guardare. Come è possibile? All’inizio sembravano non curarsi della mia situazione, o di quella dei miei compagni come Zakreea. Poi quando alcuni calciatori hanno pubblicato un appello per sostenermi (cui hanno aderito tra gli altri anche l’ex calciatore Eric Cantona il linguista Noam Chomsky, ndr) le acque hanno cominciato a muoversi, e anche la Uefa e la Fifa sono intervenute. Oggi posso dire che il mondo del calcio mi ha aiutato, e che anche io attraverso il calcio voglio fare qualcosa: regalare un sorriso sulla bocca di tutti quei bambini palestinesi che ancora soffrono le conseguenze delle continue occupazioni israeliane. E in futuro mi piacerebbe poi ricostruire lo stadio di Gaza che Israele ha distrutto durante l’ultima offensiva, così i bambini potranno tornare a giocarci. Cosa pensi della decisione della Uefa di assegnare i Campionati Europei Under 21 a Israele? Israele non merita di ospitare questi giochi (dello stesso avviso anche oltre 50 calciatori europei, tra cui Hazard e Kanoutè, che hanno lanciato un appello in tal senso lo scorso dicembre, ndr). Permettere loro di farlo è come approvare tutti i crimini che stanno commettendo: dall’invasione di Gaza ai bombardamenti sullo stadio dove sono morti diversi bambini che stavano giocando a calcio, fino alle torture e le uccisioni di numerosi giovani coinvolti nello sport o confronti di donne e bambini palestinesi in generale. È assolutamente sbagliato permettere a Israele di ospitare questi giochi.