Giustizia: ancora un detenuto suicida, intanto il governo rinvia la riforma delle carceri di Massimo Martinelli Il Messaggero, 16 giugno 2013 L’ultimo ha deciso di farla finita tre giorni fa, nel carcere di Rebibbia. Era un detenuto bulgaro, e si è ucciso nel bagno della cella che divideva con altri come lui, ristretti in spazi piccolissimi, fuori norma, talmente angusti che molto spesso non vengono presi in considerazione nemmeno per allevare gli animali. Mentre il governo ha rinviato oggi pomeriggio, ancora una volta, la soluzione per alleggerire il sovraffollamento nelle carceri, accade sempre più spesso che i detenuti scelgano la via più breve: quella del suicidio. Solo nel 2012 se ne sono uccisi 56; trenta erano italiani e 26 stranieri. E altri 97 sono morti per cause naturali (82 italiani e 17 stranieri). E i numeri sarebbero stati ben più drammatici se gli agenti della polizia penitenziaria non avessero evitato ben 1.308 suicidi. L’anno prima, il 2011, i morti per suicidio erano stati 63 detenuti; quelli per cause naturali 102. E i suicidi sventati dalla 1.003. Adesso, con i primi caldi, la situazione rischia di diventare ancora più drammatica, perché ci sono circa 66 mila cittadini detenuti in uno spazio nel quale sarebbero stretti in 44 mila. Secondo le normative comunitarie un detenuto dovrebbe avere a disposizione 7 metri quadrati in una cella singola; mentre adesso, in molte celle i detenuti non possono scendere tutti contemporaneamente dai letti a castello, che spesso sono a quattro piani, perché non ci sarebbe spazio sufficiente per stare tutti contemporaneamente in piedi. Le statistiche dicono che 35 detenuti su 100 sono stranieri. E che il 25-30 per cento è affetto da tossicodipendenza. Molti di loro chiedono di lavorare, anche se la paga è bassissima (appena tre euro l’ora); ma non tutti riescono ad ottenere quello che ormai è considerato un privilegio. Dal 2007 al 2011 il numero dei detenuti è cresciuto di circa il 50 per cento, anche se il bilancio per l’amministrazione penitenziaria è stato tagliato del 10 percento. Ma guardiamo i dati scorporandoli. I costi per il personale sono calati di circa il 5 per cento, quelli per gli investimenti (servizi e beni) di oltre il 30 per cento, mentre le spese per il mantenimento, l’assistenza e la rieducazione dei detenuti sono stati tagliati di oltre il 30 per cento. Il 60 per cento dei detenuti che ha almeno una condanna definitiva ha un residuo di pena inferiore ai tre anni. La maggior parte di loro ha commesso piccoli reati. Infatti i reati maggiormente diffusi sono quelli contro il patrimonio o per violazioni alla legge sugli stupefacenti. Il 40 per cento è in custodia cautelare (in paesi come Francia, Germania e Spagna le percentuali sono tra il 15 e il 20 percento) cioè sconta una pena senza aver ancora ricevuto una condanna. Giustizia: Pannella; raccolta firme per Referendum, Napolitano chieda amnistia Camere Ansa, 16 giugno 2013 Marco Pannella chiede al presidente della Repubblica “un messaggio alle Camere per annunciare l’ amnistia, unico strumento tecnico per interrompere la flagranza di reato contro l’ umanità ed i diritti umani perpetrate nel nostro Paese”. “Chiediamo al nuovo Capo dello Stato - ha aggiunto Pannella - di fare quanto il vecchio Capo dello Stato non ha fatto”. Il leader dei Radicali italiani ha presentato la raccolta di firme per i 12 referendum, 5 dei quali sulla giustizia, con una no-stop in piazza del Plebiscito, a Napoli. “Le condizioni della nostra giustizia - ha detto Pannella - sono peggiori di 30 anni fa, quando Enzo Tortora veniva condannato innocente. Oggi ci sono le condanne ufficiali della giurisdizione europea, costituzionalizzata in Italia, nei confronti del nostro Paese per violazione dello Stato di diritto e dei diritti dell’uomo”. Dal palco della manifestazione radicale hanno dato l’ adesione ai referendum sulla giustizia il presidente della Commissione giustizia del Senato Francesco Nitto Palma, a nome del Pdl (con esclusione di quello sull’ abolizione dell’ ergastolo), il deputato del Pd Daniele Giachetti, il senatore del Pdl Luigi Compagna, il presidente della Camera Penale di Napoli Domenico Ciruzzi, l’urbanista Aldo Loris Rossi, il cappellano del carcere di Poggioreale Don Franco Esposito. Presenti anche il consigliere regionale del partito socialista Corrado Gabriele, il deputato del Pdl Luigi Cesaro e l’ex deputato Alfonso Papa. Al Plebiscito la maratona radicale Sul palco con Pannella politici docenti e artisti La Bonino in video chat. Per la giustizia giusta, la legalità e la democrazia: Marco Pannella al secondo giorno di sciopero della fame e della sete, chiama a raccolta il popolo dei Radicali con una no stop in programma oggi a Napoli a partire dalle 10 e fino alle 23, in piazza del Plebiscito. Un comizio, inframmezzato da momenti di spettacolo, per promuovere i dodici referendum su divorzio breve, immigrazione, droga, finanziamento pubblico, 8 per mille e giustizia: dalla responsabilità civile dei magistrati alla separazione delle carriere. Un’occasione per colmare il vuoto di informazione che i Radicali denunciano sui loro quesiti. “Di tutte le persone che ho incontrato a Napoli nessuno lo sapeva. Noi invece vogliamo raggiungere quelli che ci seguivano quando a Napoli passavamo le notti in tv a fare il filo diretto, vorremo ritrovare quel popolo”. Hanno garantito la loro partecipazione all’appuntamento oltre a dirigenti e militanti Radicali tra gli altri il vicepresidente della Camera Roberto Giachetti; i senatori del Pdl Luigi Compagna, Vincenzo D’Anna e Nitto Palma; i professori Francesco Di Donato, Giuseppe Di Federico e Aldo Loris Rossi; Francesca Scopelliti e Tiberio Timperi. L’attrice Rosaria De Cicco leggerà testi di scienziati di fama mondiale sul rischio Vesuvio. Durante la manifestazione interverrà con un messaggio audio-video Emma Bonino Ci sarà inoltre l’ex parlamentare del Pdl Alfonso Papa, testimonial della battaglia per il miglioramento delle condizioni carcerarie dopo aver sperimentato a sua volta la carcerazione. “Una condizione incivile che non sembra interessare il governo in carica e l’anomala maggioranza che lo sostiene, indaffarati a dare seguito ad un disegno politico lontanissimo dalle esigenze dei cittadini”, accusa Papa, secondo il quale “l’argomento giustizia continua ad essere affrontato in maniera utilitaristica, per il tornaconto personale del potente di turno chi si trova indagato o rinviato a giudizio. Un approccio non più sostenibile - conclude l’ex parlamentare - in un Paese costantemente condannato dalla Corte europea per i diritto dell’uomo, uno Stato recidivo e criminale per tendenza. La dignità di chi si trova ristretto dentro le carceri sembra non avere diritto di cittadinanza negli ordini del giorno delle Camere, una negligenza deleteria e pericolosa per la pace sociale”. Costa (Pdl): sostenere battaglie dei radicali “Le battaglie dei Radicali sulla giustizia sono non solo da osservare con attenzione, non soltanto da sostenere attraverso l’adesione ai referendum, ma da fare proprie attraverso iniziative legislative che le introducano fin d’ora nel dibattito parlamentare. Occorre agire in fretta e con coraggio”. È quanto afferma Enrico Costa, capogruppo Pdl in Commissione Giustizia alla Camera. Nitto Palma (Pdl): in Italia ancora tanti Enzo Tortora “In Italia vi sono ancora tanti Enzo Tortora, ed è sempre utile ricordarli. Ecco perché aderiamo convintamente ai referendum Radicali sulla giustizia, con l’ unica eccezione di quello sull’ abolizione dell’ergastolo”. Così il presidente della Commissione giustizia del Senato Francesco Nitto Palma, che ha portato l’adesione del Pdl alla raccolta di firme dei Radicali italiani nel corso di una no-stop in piazza Plebiscito. “Il 25% della popolazione carceraria - ha aggiunto Nitto Palma - è in attesa di giudizio, ed il 50% di esso viene poi assolto perché le impostazioni dell’accusa non trovano riscontro nelle decisioni dei giudici. Affidare la decisione sulla riforma della giustizia al popolo - ha detto ancora Nitto Palma - è il modo per tagliare la testa al toro, perché su questo tema le divisioni tra Pdl e Pd sono destinare a durare ancora per molto tempo, vista la forza dei magistrati, e temi come questo non possono essere sfiorati dal parlamento in una stagione politica che vede un governo di larghe intese”. Papa (Pdl): situazione insostenibile, governo assente “La situazione delle carceri italiane è da troppo tempo insostenibile. Una condizione incivile che non sembra interessare il governo in carica e l’anomala maggioranza che lo sostiene, indaffarati a dare seguito ad un disegno politico lontanissimo dalle esigenze dei cittadini”. Lo afferma, in una nota, l’ex parlamentare del Pdl, Alfonso Papa, che domani in piazza del Plebiscito a Napoli, assieme a Marco Pannella, illustrerà i referendum radicali per la riforma della giustizia. “I problemi della giustizia italiana e dei penitenziari continuano ad essere affrontati solo dal Presidente della Repubblica e da Papa Francesco, uomini le cui parole non hanno scalfito i due principali partiti italiani”, ha aggiunto Papa. “L’argomento giustizia continua ad essere affrontato in maniera utilitaristica, per il tornaconto personale del potente di turno chi si trova indagato o rinviato a giudizio. Un approccio non più sostenibile in un Paese costantemente condannato dalla Corte europea per i diritto dell’uomo, uno Stato recidivo e criminale per tendenza. La dignità di chi si trova ristretto dentro le carceri sembra non avere diritto di cittadinanza negli ordini del giorno delle Camere, una negligenza deleteria e pericolosa per la pace sociale”. Giustizia: Pagano (Dap); stranieri in carcere? un problema su cui non si può intervenire www.radio24.com, 16 giugno 2013 “Il sovraffollamento delle carceri dipende anche da fattori su cui non si può intervenire”. Parla molto chiaro Luigi Pagano, storico direttore del carcere di San Vittore a Milano e ora numero due del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, alla vigilia della presentazione del piano del Governo, per ridurre il sovraffollamento delle carceri. Tra i punti dolenti, sicuramente c’è quello degli stranieri. “Spesso non escono, non perché pericolosi, ma perché se non hanno un domicilio, non possono scontare la pena fuori dalla cella”, spiega Pagano, che torna ad indicare “nella revisione della legge ex Cirielli, che impedisce le misure alternative in caso di recidiva” un’altra riforma necessaria. “Ma siamo nella direzione giusta, con questo decreto del Governo, insieme al recupero dei posti letto”, aggiunge. Oltre al decreto, per far uscire circa 4mila detenuti, il Governo ha messo a punto anche un emendamento per concedere i domiciliari ai condannati a pene fino a sei anni. “È molto importante, per la prima volta si condanna a pene diverse dal carcere”, commenta Pagano che sottolinea anche l’importanza dell’ingresso all’interno delle carceri della società civile, enti locali, imprenditori. “Solo così si può fare quel salto di qualità che l’Europa ci chiede”, dice. E Pagano- numeri alla mano- risponde anche alle critiche di chi dice che questo provvedimento provocherà morti e feriti. “Solo l’1% delle persone tradisce e quelle che vanno in misure alternative e che noi seguiamo - racconta- abbattono la recidiva dell’ 80%”. Lettere: caso Cucchi; noi, medici del “Pertini”… non siamo carcerieri di Stefania Corbi Il Manifesto, 16 giugno 2013 Ho a lungo riflettuto sull’opportunità di scrivere questa lettera, che potrebbe essere fraintesa ed alimentare il clima di odio mediatico da cui mi sento circondata. Ma non riesco più a tacere. Per quasi 4 anni ho rifiutato di espormi, convinta che i processi vadano fatti nei luoghi deputati, ovvero nelle aule di Giustizia. Ma ora, dopo la sentenza di primo grado, sento la necessità di dire alcune cose. Ho appreso solo dai mezzi di informazione, poiché non ero presente, che il giorno della sentenza per la morte di Stefano Cucchi, nell’aula della Corte d’Assise, alla lettura della sentenza che ha assolto gli infermieri e gli agenti di polizia penitenziaria e condannato noi medici del reparto di Medicina Protetta dell’Ospedale S. Pertini per omicidio colposo, sono stati fatti gesti inaccettabili da parte dei sostenitori degli assolti, la qual cosa mi riempie di sdegno. Pur comprendendone le motivazioni, probabilmente dettate dall’essere arrivati alla fine di una gogna mediatica durata più di tre anni e in risposta alle altrettanto inaccettabili urla dei sostenitori della controparte che gridavano “assassini, assassini”, credo che nessuna motivazione possa in alcun modo giustificare tale comportamento, dal quale prendo le distanze totalmente. E anche se le mie parole rischiano di essere travisate, voglio esprimere la mia solidarietà ai genitori di Stefano Cucchi, che comprensibilmente ne sono stati sconvolti. Ma detto questo, penso che il medesimo rispetto doverosamente riservato a chi non c’è più e a coloro che lo piangono, spetti a chiunque. Anche a noi medici, ritenuti responsabili di colpa medica - e non di abbandono di incapace, l’accusa più infamante per chi svolge questa professione. A chiunque abbia seguito veramente il processo, in aula o attraverso l’ottimo servizio di Radio Radicale - che ha pubblicato sul proprio sito l’audio di tutte le udienze, per consentire a chiunque di farsi una propria idea, senza filtri, a chi non si è limitato alle informazioni di parte divulgate in questi anni dai comuni mezzi di informazione, è assolutamente chiaro che nessuno ha abbandonato Stefano Cucchi e nessuno lo ha fatto morire per coprire chissà quali nefandezze. Per noi medici, la sentenza di primo grado non è stata, come qualcuno vuol far credere, una sorta di “grazia” uscita fuori dal nulla, è stata invece il risultato di lunghi anni di dibattimento e testimonianze che hanno smentito, udienza dopo udienza, quelle accuse orribili. La sentenza ha finalmente affermato che non siamo dei mostri, dei criminali, ma ci ha ritenuto comunque responsabili di quella morte; le motivazioni, quando verranno pubblicate, ci spiegheranno quali siano le colpe addebitate a ciascuno di noi, da cui potremo difenderci nei successivi gradi di giudizio. Ma continuare ad accusarci pubblicamente di indegnità, affermando che Stefano sia stato “rinchiuso in un ospedale lager” e “abbandonato e lasciato morire dai medici, che invece di salvargli la vita si sono voltati dall’altra parte e che non sono degni di portare il camice bianco”, non è accettabile, nonostante anche in questo caso io ne comprenda le motivazioni alla base. Mi rendo conto che è difficile accettare che lunghi anni di processo non abbiano saputo dare una risposta circa la causa di morte (le varie perizie ne hanno individuate almeno 5, tutte diverse ed in contrapposizione fra loro), né tantomeno fare luce sulle responsabilità delle “eventuali” percosse, indipendentemente dal fatto se siano state oppure no la causa della morte. Perché di fatto il processo non è riuscito a rispondere a questa domanda, ovvero se le percosse ci siano state e soprattutto da parte di chi. E invece, a questa domanda tutti ci aspettavamo una risposta. Per mia formazione umana e professionale rigetto ogni forma di violenza, perpetrata ai danni di qualsiasi essere vivente. E solo l’idea che qualcuno abbia potuto infierire su un giovane nelle condizioni fisiche in cui si trovava Stefano Cucchi, mi fa orrore. Ho scelto la mia professione con convinzione, e allo stesso modo ho scelto di lavorare in un reparto per detenuti, certa che mi avrebbe arricchito dal punto di vista umano e professionale. E non mi sbagliavo. Nonostante tutto, nonostante quel reparto venga ancora rappresentato, a puro scopo strumentale, come un luogo di orrore, le mie motivazioni sono ancora presenti. Mi faccio forza pensando alle innumerevoli manifestazioni di stima di chi mi conosce personalmente, ma soprattutto a quelle, tutte documentate, di cui ci hanno sempre fatto dono i pazienti ricoverati, che sanno bene come lavoriamo e chi siamo a livello umano. Aspetto con ansia le motivazioni della sentenza per conoscere quale comportamento colpevole mi venga addebitato; pur essendomi interrogata a lungo su questo, perché la morte di un paziente è sempre vissuta come una sconfitta da qualsiasi medico, non riesco a comprendere quale mia negligenza abbia potuto determinare la morte di Stefano Cucchi. Ci si accusa ancora di aver abbandonato Cucchi perché era un detenuto, un tossicodipendente, uno spacciatore. Personalmente non chiedo mai il motivo per cui un mio paziente è detenuto, anche se a volte sono i pazienti stessi a parlarmene, perché non spetta a me giudicare la loro vita, per quello ci sono i Giudici e i processi. Io e i miei colleghi non siamo carcerieri e non vogliamo essere trattati come tali. Siamo medici, dipendenti della Asl Rm/B, che lavorano in un reparto nel quale vengono ricoverate persone detenute; medici che non fanno parte né del sistema carcere né dell’amministrazione penitenziaria, ma cercano solo di svolgere la propria professione in un reparto ospedaliero per molti versi “difficile”. E non ritengo giusto che tutte le disfunzioni del sistema carcerario e dei suoi regolamenti (mancato contatto con l’avvocato, mancato permesso ai genitori di vedere Stefano o parlare con noi medici, ecc..) debbano essere addebitate a chi, con quel sistema non ha nulla a che vedere. L’aver accomunato nel medesimo processo, sia coloro che erano accusati di un pestaggio ai danni di una persona privata della libertà personale, sia i medici accusati di averli coperti e avere abbandonato quella persona, ha fatto sì che quei medici, nell’immaginario collettivo, siano diventati essi stessi degli aguzzini, sui quali sono state traslate, per assurda proprietà transitiva, tutte le accuse fatte ai primi. Ma questo non è accettabile. Spero che quanto prima, alle persone che prestano servizio presso il reparto di Medicina Protetta del Pertini venga restituita la dignità di quello che fanno ogni giorno. Vorrei che esistesse qualcuno davvero interessato a capire la verità delle cose (giornalisti, politici), che venisse a verificare personalmente chi siamo e come lavoriamo; finora tutti sono stati pronti a dare giudizi e condanne morali, senza verificare in alcun modo. Non chiedo assoluzioni, della condanna di cui devo rispondere avrò modo di discolparmi in sede di appello. Spero soltanto che si smetta di spacciare per verità le innumerevoli falsità date per assodate in modo strumentale, nonostante siano state totalmente smentite nel corso del processo. Ringrazio fin d’ora chi avrà la bontà di pubblicare questo sfogo. Sassari: a Bancali duecento detenuti, in arrivo da diverse carceri italiane di Giampiero Cocco La Nuova Sardegna, 16 giugno 2013 Nel carcere di Bancali saranno ospitati, entro la fine del mese, duecento nuovi detenuti, in arrivo da diverse carceri italiane. Si tratta di carcerati “comuni”, non assoggettati a particolare esigenze di sicurezza come gli As3 e 2 o i 41 bis, per i quali è necessario una ulteriore fase di preparazione per poterli ospitare in sicurezza. Ma con i detenuti stanno arrivando nell’isola anche massicci rinforzi per la polizia penitenziaria, che in poco meno di sei mesi, per l’accorta “politica” portata avanti dal provveditore regionale Gianfranco De Gesu, ha quasi raddoppiato il proprio organico, passando da poco più di novecento tra agenti e sottufficiali all’attuale presenza, nelle diverse carceri dell’isola, di circa 1600 addetti, gran parte dei quali destinati proprio a Bancali (il cui organico oscillerà tra le 500 e le 600 unità) e a Nuchis, il carcere di alta sicurezza già funzionante a pieno regime in Alta Gallura, dove è in atto un prolungato “sciopero della fame” da parte della popolazione carceraria (detenuti con oltre venti anni di condanna , il fior fiore di camorristi, d’affiliati alla ‘ndrangheta o mafiosi di prim’ordine) che rifiutano i tre pasti forniti loro dall’amministrazione penitenziaria, consumando invece il cibo da loro preparato. Gli alimenti in eccedenza vengono consegnati alla Caritas, che li distribuisce nelle mense dei poveri della Gallura. Uno sciopero della fame dettato dall’intenzione, prossima alla realizzazione, di portare il numero dei detenuti di Nuchis dagli attuali 150 a 204. In Sardegna è presente il vicesegretario nazionale dell’Osapp (l’organizzazione sindacale della polizia penitenziaria, una delle sigle che rappresentano gli agenti) Domenico Nicotra, che sta visitando con il segretario regionale Giovanni Battista Usai e quello provinciale Giulio Santoru tutti gli istituti penitenziari sardi, compresa la scuola di formazione professionale di Monastir. “La nuova mappa disegnata dal Dap - ha spiegato Nicotra, che ieri era a Nuoro per la festa del Corpo - rispecchia l’esigenza di gran parte degli agenti delle polizia penitenziaria, che vengono reclutati nell’isola. Rientreranno circa ottocento tra agenti e sottufficiali, con una ricaduta economica, per l’isola, non indifferente. Basti pensare che le forniture per i diversi istituti di pena debbono, per disposizioni del Dap, essere assicurate da aziende locali, le quali partecipano alle gare d’appalto predisposte dal provveditorato regionale”. Livorno: Coop. San Giacomo; vantaggi a Pianosa solo con progetto reinserimento Adnkronos, 16 giugno 2013 Sì a al progetto di reinserimento lavorativo dei detenuti a Pianosa, ma senza ipotizzare la riapertura vera e propria del supercarcere. È Brunello De Batte, amministratore delegato della Cooperativa san Giacomo, la onlus che gestisce l’Hotel Mirella, l’unico che accoglie i turisti a Pianosa, a sottolinearlo riferendosi all’ipotesi di riutilizzo della struttura penitenziaria sull’isola. “A Pianosa -dice all’Adnkronos- esiste già un gruppo di detenuti che lavora per la Cooperativa sociale San Giacomo alla gestione delle strutture di accoglienza turistica, un albergo e un bar-ristorante. Il progetto dell’amministrazione penitenziaria al momento prevede che sull’isola siano trasferiti altri detenuti per fare percorso di formazione e reinserimento lavorativo”. “Se l’intenzione è quella di intraprendere questo tipo di percorso, ben venga. Diverso sarebbe se dovessero aprire un carcere di massima sicurezza, che sarebbe un grave danno economico per l’isola”, aggiunge De Batte. A dispetto dell’allarme circolato, assicura, un’iniziativa di questo tipo “è un vantaggio per tutti”. Il progetto “prevede l’apertura di una scuola professionale per i detenuti in diversi settori, che possano poi più facilmente offrire possibilità dopo il fine pena. I corsi, divisi in una parte teorica e un’altra pratica, serviranno ad assicurare la manutenzione all’isola, in accordo con altri enti, il Comune di Campo dell’Elba e il Parco dell’arcipelago toscano” Dunque, sostiene De Batte, sarebbe un vantaggio “innanzitutto per il demanio, che è proprietario di quasi tutti gli immobili dell’isola, e che li vedrebbe rimessi a posto”. Poi “per l’amministrazione penitenziaria, che in un momento di tale sovraffollamento delle carceri può trasferire qualche detenuto, anche se si tratta di numeri esigui, e alleggerire carico”. Ancora, a beneficiarne sarebbe il Comune, “perché potrebbe rinascere piccolo nucleo abitativo e commerciale, dato che nel progetto si prevedono anche attività di artigianato, come laboratori di cuoio o di ceramica”. Infine sarebbe molto utile alla gestione del Parco “perché il presidio consentirebbe di mantenere il controllo dell’isola, sia a terra sia per mare, ed evitare il, rischio di pescatori di frodo”. Dunque un’iniziativa, se posta in questi termini, che l’isola saluta con favore, a patto che “ci sia l’impegno serio di tutti gli attori in campo e - assicura - ora ai vertici di questi enti ci sono tutte persone che sapranno impegnarsi in questa direzione”. Brescia: Consiglieri Pd dopo la visita a Canton Mombello “servono nuove soluzioni…” www.bsnews.it, 16 giugno 2013 Ieri il Consigliere Regionale Gianantonio Girelli ed il Consigliere Comunale Giuseppe Ungari hanno visitato il carcere di Canton Mombello, accompagnati per quasi tre ore dal Comandante della Casa circondariale di Brescia. Una struttura che si colloca esattamente tra gli ultimi posti nella classifica della vivibilità nelle prigioni italiane. “Dopo aver entrambi visitato Canton Mombello quattro o cinque volte negli ultimi anni”, spiegano i due esponenti del Pd in una nota, “con la visita odierna abbiamo potuto constatare ed apprezzare l’impegno della Direzione, della Polizia penitenziaria e del personale per garantire ai detenuti condizioni di dignità e, laddove possibile, anche grazie alla collaborazione con le Associazioni di volontariato, per migliorare la situazione in un contesto che strutturalmente rende tutto più difficile. La situazione di Canton Mombello resta però drammaticamente grave a causa del sovraffollamento. Sono evidenti alcuni segni di miglioramento ottenuti grazie all’impiego di personale interno cioè grazie all’impegno di detenuti che, riacquistando il piacere del lavoro, hanno tinteggiato locali, effettuato riparazioni, garantito manutenzioni. Resta però l’urgenza di un intervento non più rinviabile per rendere possibile la funzione rieducativa del carcere. Ma per far ciò”, continuano i due, “è necessario avere personale adeguato, strutture ed attrezzature consone, disponibilità economiche sufficienti che vanno ricercate sollecitando Ministro e Governo a non escludere Brescia, come avvenuto negli ultimi anni, tra le città destinatarie di risorse per l’edilizia carceraria”. Girelli, membro della Commissione regionale carcere, e Ungari, da anni impegnato sul tema con l’obiettivo di portare le marginalità e le povertà presenti anche a Brescia al centro del dibattito politico e delle scelte amministrative, hanno voluto ribadire nell’occasione la disponibilità ad un impegno per l’individuazione di possibili soluzioni volte ad alleviare la condizione faticosa delle persone recluse, dei congiunti e degli operatori penitenziari. Canton Mombello è stato giudicato da un’ispezione europea tra i peggiori carceri d’Italia: il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti o delle pene inumane o degradanti del Consiglio d’Europa, che visita luoghi di detenzione al fine di valutare il trattamento dei detenuti e, ove necessario, formula raccomandazioni per migliorarne le condizioni, ha pubblicato, il 20 aprile del 2010, il rapporto relativo alla sua quinta visita svoltasi nel nostro Paese dal 14 al 26 settembre 2008. Ne è uscito un giudizio “preoccupante” su Canton Mombello. Nonostante qualche segnale positivo nella manutenzione della struttura, infatti, la situazione rimane grave. La capienza regolamentare di 206 posti a fronte del più del doppio delle presenze rende il carcere di Brescia “fuorilegge” e, in questo contesto che vede il 70% di stranieri di circa 40 etnie, un centinaio scontano la condanna definitiva mentre gli altri possono considerarsi “presunti innocenti” in quanto ristretti a misura cautelare, in attesa di primo giudizio, appellanti o ricorrenti. “Con riferimento alla Costituzione (art. 27 c. 3)”, chiudono i due, “deve essere ribadito che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Ed in quest’ottica l’attenzione di chi è impegnato nella vita politica ed amministrativa porta a sollecitare tutti ad una maggiore attenzione per la tutela dei diritti delle persone recluse, delle loro famiglie che incolpevolmente vivono spesso il dramma del carcere e, non da ultimo, di quanti lavorano ed operano volontariamente in condizioni difficili. Da qui l’impegno, secondo le competenze di ognuno dei livelli istituzionali d’appartenenza, a vigilare sulle condizioni del carcere di Brescia, a collaborare con le realtà del volontariato nell’affermazione del loro impegno e a mettere in atto le dovute sollecitazioni a chi di dovere”. Viterbo: il carcere di Mammagialla scoppia, troppi detenuti e pochi spazi di Silvana Cortignani Il Messaggero, 16 giugno 2013 Sopralluogo dell’Osservatorio delle camere penali. I legali: “Così è impossibile favorire il reinserimento”. Docce fatiscenti a Mammagialla e neanche un albero a fare ombra sul piazzale di cemento dell’ora d’aria. Ma la vera tragedia è la carenza di personale unita al sovraffollamento: due detenuti gomito a gomito in media per venti ore al giorno, in celle di meno di 9 mq nate per ospitarne soltanto uno, facendo pochissime attività finalizzate al reinserimento. Magra consolazione, il supercarcere di Viterbo è uno di quelli meglio tenuti tra gli oltre 30 visitati negli ultimi due anni dagli avvocati dell’osservatorio dell’Unione delle camere penali che dicono no alla detenzione fine a se stessa. Dopo la visita di venerdì all’intera struttura - comprese le sezioni della criminalità e dei boss in 41 bis - il penalista viterbese Marco Russo e il responsabile nazionale Alessandro De Federicis hanno fatto il punto con la direttrice Teresa Mascolo. I detenuti sono saliti a 740, contro i 440 previsti, oltre 300 dei quali in attesa di giudizio. Gli agenti sono 317 invece di 485. Solo 5 educatori, un unico dirigente medico. Circa 200 psichiatrici, 220 tossicodipendenti, un 34% di stranieri, specie romeni, albanesi e magrebini. “La gente ha un’idea distorta, non capisce che il carcere deve essere l’extrema ratio - ha sottolineato Russo - e in ogni caso dovrebbe essere strutturato in modo tale da ridurre le recidive, ma la legge, che pure favorisce sulla carta il reinserimento, non viene applicata per carenze di organico e di fondi”. Il risultato, come ha ammesso Mascolo, è che le attività “trattamentali” a Mammagialla sono ridotte all’osso, nonostante i due laboratori interni di falegnameria e sartoria e la cooperativa Zaffa per il lavoro esterno e i volontari di Gavac, Arci e altre associazioni che ci mettono perfino i soldi del loro”. Mentre lo svuotamento degli Opg (Ospedali psichiatrici giudiziari) rischia di dare il colpo di grazia. “La nostra è un’iniziativa politica - hanno concluso Russo e De Federicis - c’è un piano carceri sul tavolo del ministro Cancellieri”. Rovigo: Garante Livio Ferrari; più lavori di pubblica utilità, per avere meno detenzioni Rovigo Oggi, 16 giugno 2013 Durante l’ultimo consiglio comunale di Palazzo Nodari, Livio Ferrari, nella veste di garante dei detenuti di Rovigo ha presentato la sua quarta relazione all’aula. Dal suo intervento si è evidenziato una richiesta di maggiore attenzione alle attività di reintegro dei detenuti alla vita normale attraverso azioni sociali. I temi toccati da Ferrari, sollecitato dalle domande poste dai consiglieri, dal sindaco e dal presidente del consiglio, hanno messo sotto la lente d’ingrandimento la distanza che continua sempre ad esserci tra il mondo libero e quello recluso, nonostante lo scorso anno 20 consiglieri e 4 assessori abbiano varcato le porte di via Verdi per rendersi conto dello stato di vita dei detenuti, oltre alla visita effettuata da 5 assessori e i capigruppo al nuovo carcere in costruzione. Il cambio di direzione che avverrà da lunedì prossimo, dopo meno di un anno dall’ultimo avvicendamento, è stato stigmatizzato da tutti i presenti sottolineando che queste scelte del Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria penalizzano la nostra realtà. Il garante ha sottolineato la necessità che venga data maggiore forza ai lavori di pubblica utilità (Lpu) per evitare che coloro che vengono fermati dalla stradale per superamento dei limiti della assunzione di alcol durante la guida che incorrono in multe salate e confisca dell’auto, nei casi più gravi, a fronte di una condanna, possano ritrovarsi in carcere. Questo potrà avvenire solo se i comuni stipuleranno una convenzione con il Tribunale di Rovigo, per il momento sono solo 8 su 50 amministrazioni, e se in questi territori ci saranno associazioni disposte ad accogliere i soggetti condannati per un percorso di volontariato, queste per il momento sono solo 2. Ferrari ha poi lanciato l’allarme sui progetti lavorativi per le persone in esecuzione penale che risentono della contingenza economica negativa e si stanno sempre più riducendo, rendendo perciò inefficace quanto è previsto per legge per il reinserimento e la rieducazione delle persone condannate. Infine il garante Livio Ferrari ha sollecitato il Comune a farsi da tramite con l’assessore regionale alla sanità per avere notizie in merito alla prevista chiusura degli Opg, che doveva essere lo scorso 31 marzo ma rinviata al 2014, e il ritorno dei soggetti che vi sono reclusi nelle rispettive regioni di appartenenza, affinché la Regione del Veneto intervenga per alimentare tutti quei necessari passaggi strutturali che dovranno essere prodotti. “In particolare è opportuno che si scongiuri l’ipotesi di apertura di un numero anche significativo di strutture esclusivamente dedicate ai “folli-rei”, con caratteristiche fisiche, tecnologiche, organizzative e di sicurezza di tipo manicomiale”. Arezzo: Verini (Pd); studio, lavoro e cultura sono migliori strumenti contro la recidiva Asca, 16 giugno 2013 Il capogruppo alla commissione giustizia della Camera ha sottolineato che Parlamento “sta lavorando a procedimenti che rendano meno affollati i penitenziari”. “Carceri a dimensione umana e con una direzione illuminata come quello di Arezzo servono non solo per recuperare i detenuti in chiave umana ma anche per investire in sicurezza. Chi esce da un luogo come questo dove si studia, si lavora e si fa teatro difficilmente quando esce delinquirà di nuovo”. Lo ha detto Walter Verini, capogruppo Pd alla commissione giustizia della Camera, intervenuto presso il carcere San Benedetto di Arezzo alla commemorazione dei fratelli aretini Sante e Giuseppe Tani e di Aroldo Rossi trucidati in cella dai nazifascisti il 15 giugno del 1944. La cella peraltro dove avvennero gli omicidi è rimasta intatta. Verini, accompagnato dai parlamentari aretini del Pd Marco Donati e Donella Mattesini ha inoltre sottolineato come il Parlamento: “stia lavorando per approvare procedimenti che rendano più snelli i procedimenti e meno affollati i penitenziari”. Padova: nove detenuti puntano al diploma di ragioneria all’Itc Einaudi-Gramsci Il Mattino di Padova, 16 giugno 2013 Esame di maturità anche per nove detenuti - studenti dei Due Palazzi, che hanno frequentato la specifica sezione aggregata all’Itc Einaudi-Gramsci guidato dalla preside Amalia Mambella. Otto sono cittadini italiani ed uno è straniero. Non è la prima volta che un folto gruppo di detenuti-studenti partecipa all’esame di Stato. In città il corso (aggregato sempre al Gramsci fin dai tempi del preside Maurizio Angelini, ex sindacalista della Cgil) ha registrato finora almeno un centinaio di candidati. All’interno del Due Palazzi, oltre alla sezione di scuola superiore, funziona anche un vero e proprio “polo universitario”, frequentato da 20 detenuti di cui dodici sono iscritti ai corsi di laurea di Lettere e filosofia. “Anche di recente un detenuto-modello si è laureato in Giurisprudenza dopo avere dedicato agli studi tanti anni della sua vita dietro le sbarre” osserva la volontaria Fernanda Grossele, che è anche la coordinatrice dello sportello giuridico ai Due Palazzi, “Per chi non è più libero arrivare al diploma o alla laurea rappresenta anche una grande prova di riscatto morale nei confronti della società”. Ferrara: “Astrolabio”, inaugurata la redazione del giornale del carcere www.telestense.it, 16 giugno 2013 “Astrolabio” è la rivista che vuole dare libera voce ai pensieri. Un periodico che ora ha la sua redazione nel carcere di via Arginone. “Quando scrivo, mi sento vivo, mi sento libero”. Questa la frase incisa sulla targa che da accoglie, da venerdì, i collaboratori detenuti nel penitenziario. Inaugurazione molto sentita, venerdì 14 giugno nel pomeriggio, in una saletta del carcere che ospiterà computer e stampanti come in ogni redazione che si rispetti. Frutto della collaborazione fra il Comune e la Casa Circondariale, oltre al teatro, allo sport e alle attività ricreative, il penitenziario di Ferrara ha anche il periodico “Astrolabio - Il giornale del Carcere di Ferrara”. Una rivista che descrive attraverso articoli e racconti, scritti principalmente dai detenuti, la realtà vissuta all’interno della struttura. La direttrice dell’istituto di pena, Di Lorenzo, ha affermato che “ c’è tanta sofferenza in carcere ma ci sono anche tante risorse preziose che vanno utilizzate e valorizzate nella prospettiva di un recupero sociale”. Uno dei redattori più “anziani” della rivista Astrolabio, durante l’inaugurazione, ha detto che “nessuno di noi ha la pretesa o l’illusione di diventare scrittore o giornalista. Abbiamo semplicemente trovato il modo di dare voce ai nostri pensieri, a chi voce non ha più”. Vigevano (Pv): detenuto colpisce agente con una caffettiera avvolta negli stracci La Provincia Pavese, 16 giugno 2013 Un agente di polizia penitenziaria è stato aggredito da un detenuto, giovedì pomeriggio, all’interno della casa circondariale della frazione Piccolini. L’episodio è avvenuto nel momento in cui l’agente ha aperto la cella per consentire ai detenuti di uscire per l’orario di passeggio. “Non è ancora chiaro cosa abbia scatenato l’aggressione - spiega Fabio Catalano, segretario generale della Cgil Pavia-Funzione pubblica - ma il detenuto, con una caffettiera avvolta in alcuni stracci, ha colpito ripetutamente l’agente al corpo e al collo. Sono intervenuti gli altri colleghi che hanno bloccato il detenuto e hanno portato l’agente al Pronto soccorso. Le sue condizioni fortunatamente non sono gravi”. La ragione del gesto non è ancora nota, ma Catalano dice: “A Vigevano, come nel resto d’Italia, c’è un grave problema di sovraffollamento del carcere. L’aggressione è avvenuta in una sezione in cui sono detenute 75 persone per reati non gravi: dovrebbero essercene 25, poi la capienza tollerabile è stata aumentata a 50, ma ce ne sono 75. Il sovraffollamento, le condizioni difficili in cui vivono i detenuti, possono creare queste situazioni, in particolare quando inizia a fare caldo e la tensione cresce”. La casa circondariale di Vigevano, spiega il sindacalista, ha una capienza di 300 unità “ma ci sono 550 detenuti e l’organico della polizia penitenziaria è di circa il 25% in meno rispetto al previsto”. Ragusa: agenti scoprono droga negli indumenti intimi per un detenuto Adnkronos, 16 giugno 2013 A Ragusa, la polizia penitenziaria della casa circondariale della città iblea, durante il quotidiano controllo dei pacchi ai colloqui tra i detenuti e i familiari, ha trovato e denunciato all’autorità giudiziaria il tentativo d’introduzione di sostanza stupefacente in carcere da parte dei parenti di un carcerato che hanno tentato di occultare la polvere bianca, contenuta in due involucri trasparenti, all’interno degli slip indirizzati al loro congiunto. Verona: “Avvocati di strada”, da 10 anni tutelano i diritti dei più deboli L’Arena, 16 giugno 2013 I 23 veronesi si occupano di 200 casi ogni anno. Tra gli assistiti, anche persone licenziate e padri separati. I professionisti sono entrati a far parte dell’associazione nazionale La coordinatrice: “Aumenta il numero di italiani in difficoltà”. Ci sono casi che risolvono bene, come quello di un lavoratore brasiliano, padre di famiglia, che tutte le mattine veniva reclutato a Montorio dal caporalato veronese e portato a lavorare in nero nelle campagne della provincia per pochi euro l’ora: grazie all’intervento degli avvocati di strada, il datore di lavoro gli ha riconosciuto tutto ciò che gli spettava. E poi ci sono i casi che finiscono male, come quello di un ragazzo senegalese che la notte in cui l’Italia vinse i Mondiali di calcio nel 2006 venne picchiato, perché osò andare a festeggiare in piazza Bra con il tricolore: per lui non si poté fare nulla, perché se avesse presentato denuncia, sarebbe stato probabilmente arrestato lui stesso, in quanto clandestino. Gli avvocati di strada sono nati per questo: tutelare i diritti dei più deboli, dei senzatetto, impegnandosi per risolvere anche i casi più difficili. Presenti a Verona già da dieci anni, hanno deciso ora di entrare a far parte dell’associazione nazionale Avvocato di strada onlus, nata a Bologna alla fine del 2000 e ora attiva in 33 province italiane. La coordinatrice della sede scaligera, il cui sportello si trova nel complesso di San Bernardino in stradone Provolo 28, è l’avvocato Eve Tessera. “Siamo 23 legali e ci occupiamo circa di 200 fascicoli all’anno: all’inizio assistevamo soprattutto persone straniere per i permessi di soggiorno, i decreti di espulsione e il diritto di residenza”, racconta la Tessera. “Oggi, anche a causa della crisi, il numero di italiani è pari a quello dei migranti: ci occupiamo di sfratti, di licenziamenti e di problemi legati alla famiglia, dai divorzi al mantenimento dei figli”. Su questi e molti altri temi, dal diritto all’asilo alla tutela delle persone non autosufficienti, dai problemi del sovra indebitamento alla riforma Fornero, saranno incentrati gli incontri formativi che l’associazione scaligera proporrà tra ottobre e novembre, grazie alla collaborazione degli avvocati Barbara Bonafini e Massimo Tirelli. “Tutelare i diritti delle persone più deboli significa tutelare i diritti di tutti noi”, sostiene Antonio Mumolo, presidente della onlus Avvocato di strada. “La causa più importante di cui ci occupiamo è quella per il diritto di residenza, perché senza residenza si viene cancellati dai registri anagrafici e si diventa invisibili: non si può lavorare, non si può percepire la pensione, non si può uscire dalla strada”. Anche Mumolo conferma la sempre maggiore presenza di italiani tra gli assistiti dell’associazione: “Seguiamo lavoratori licenziati, che spesso vengono poi sfrattati, padri separati, imprenditori falliti, artigiani che hanno perso tutto. Queste persone mai avrebbero pensato di ritrovarsi in questa condizione e di frequente si vergognano a chiedere aiuto”. Contento per la presenza degli avvocati di strada nel complesso di San Bernardino è anche Fra Beppe Prioli, fondatore de La Fraternità, l’associazione che si occupa dei detenuti. “Stiamo dando risposte a quanto ci richiede Papa Francesco”, commenta Frà Beppe. “Dopo la mensa per i poveri, l’assistenza ai detenuti e l’attenzione alle vittime di reati, con l’attività degli avvocati di strada si chiude il cerchio dei servizi agli ultimi: è bello vedere che siamo aperti alle necessità dei poveri sotto tutti questi diversi aspetti”. Immigrazione: Nyt; i Cie sono di fatto delle carceri, reportage su Centro Ponte Galeria Ansa, 16 giugno 2013 I centri di identificazione ed espulsione (Cie) degli immigrati clandestini, come quello romano di Ponte Galeria, sono in realtà delle carceri. Lo scrive oggi con ampio rilievo il New York Times. Sul Cie di Ponte Galeria, non lontano dall’aeroporto di Fiumicino, la corrispondente del Nyt Elisabetta Polovedo scrive in particolare che Ponte Galeria “non è una prigione, ma la differenza è in realtà soprattutto semantica”. Il quotidiano della Grande Mela ricorda che i centri di questo tipo, in Italia e in Europa, sono sempre più criticati dalle organizzazioni di difesa dei diritti umani che li definiscono “inumani, inutili e costosi”. In Italia, aggiunge la Polovedo, ‘i più critici sostengono che i centri sono il riflesso delle politiche che assimilano immigrazione a criminalità, dimenticano i benefici economici che gli immigrati possono portare e non prendono in considerazione la crescente natura multiculturale della società”. In base ad un rapporto recentemente pubblicato dal ministero dell’Interno, ricorda infine l’articolo, il governo giudica i centri, gestiti da società private, indispensabili pur riconoscendo una serie di problemi, tra cui “l’assenza totale di attività all’interno dei centri”, un fatto che porta ad un aumento dell’aggressività e del disagio, accrescendo la tensione tra immigrati e polizia. Miraglia (Arci): Cie in contrasto con art. 13 costituzione “Quella denunciata dal New York Times è una cosa che diciamo da tanti anni. I Cie sono luoghi in cui la gente viene privata della libertà e dei diritti e sono in contrasto con l’articolo 13 della nostra Costituzione. Negli ultimi anni la situazione è anche peggiorata perché è peggiorata la gestione dell’immigrazione irregolare, gli sforzi sono stati indirizzati solo a reprimere”. Lo dice all’Adnkronos Filippo Miraglia, responsabile immigrazione dell’Arci, commentando la denuncia apparsa sul Nyt. “Il numero di persone che vengono detenute e poi espulse dai Cie è diminuito negli anni e ora siamo al minimo storico - aggiunge. Ormai i Cie sono solo propaganda. Le politiche per l’immigrazione e per la lotta all’immigrazione irregolare non sono utili a migliorare la situazione: sarebbe ora di cominciare a cambiare”. Droghe: Corleone; su delega sulle dipendenze Letta si piega a diktat centrodestra? Ansa, 16 giugno 2013 La delega sulle dipendenze a un rappresentante del Pdl nel Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali? È quanto denuncia Franco Corleone, coordinatore dei Garanti dei diritti dei detenuti e segretario di Forum Droghe. “Voci molto allarmate denunciano l’intenzione del presidente del Consiglio Letta di affidare oggi la delega della politica delle droghe al Ministero del Welfare, ma concretamente a un rappresentante del Pdl”, dice Corleone che ricorda “i numerosi appelli perché venisse segnata una discontinuità rispetto alla politica scelta nel 2006 dal Governo Berlusconi con l’approvazione della legge Fini-Giovanardi, che ha provocato oltre alla criminalizzazione di centinaia di migliaia di giovani consumatori, il disastro delle carceri con il sovraffollamento per cui l’Italia è stata condannata dalla Corte europea per i diritti umani”. “È davvero stupefacente - prosegue - che proprio quando la Corte di Cassazione rinvia alla Corte Costituzionale una legge frutto dell’abuso furbesco e di un colpo di mano istituzionale, Letta ceda alle pretese di chi è stato responsabile di una scelta criminogena e nefastamente ideologica. Ho avuto la fortuna di conoscere Beniamino Andreatta in Parlamento e ricordo oltre all’intelligenza e al rigore, soprattutto il coraggio. Chi si proclama suo allievo rileva invece viltà, rassegnazione, pavidità e subalternità alla logica del più squallido compromesso. Sulla pelle dei soggetti più deboli e fragili e sull’altare dell’esercizio del potere senza principi”. “Se così sarà, si dovrà alzare la bandiera del non mollare, con l’intransigenza di dover affrontare una dura battaglia contro un governo nemico” conclude Corleone.