Giustizia: senza un aiuto, per gli ex detenuti è calvario di solitudine e porte in faccia di Michele Brambilla La Stampa, 14 giugno 2013 Di solito fanno uscire di galera a mezzanotte, mezzanotte meno un minuto. Questioni burocratiche: la pena - è scritto sul certificato - finisce alle ore ventiquattro. Chi non ha mai provato pensa a quanto ci si possa sentire inebriati: ah, la libertà... Invece raccontano di un senso di smarrimento: “E adesso che cosa faccio? Non so né dove né da chi andare, e anche se lo sapessi non saprei come andarci: dove lo trovo un biglietto del tram a quest’ora? E se mi fermano senza biglietto e mi risbattono dentro?”. Il “dopo” è una grande incognita. Ho passato una giornata con alcuni uomini usciti dalle Vallette per cercare di capire, per quanto possibile, la vita agra dell’ex carcerato. Nove di mattina, un bar sotto i portici a Porta Susa. L’uomo che fa colazione con me chiede di limitarsi alle sue iniziali - G.P. - proprio perché il primo desiderio è quello di essere dimenticati dal mondo. Non era un delinquente, ma un giorno la gelosia l’accecò. Un delittaccio passionale: ha fatto dentro quindici anni ed è totalmente libero dal 2010. “Sono stato a San Vittore, Opera, Rebibbia, in Calabria e infine alle Vallette. San Vittore il peggiore, una bolgia di inefficienza, trasgressione, disordine, in ogni raggio comanda un’etnia: i calabresi, i siciliani, i sardi, gli albanesi, i marocchini. L’unica legge è il controllo del territorio. Alle Vallette c’è il polo universitario e ho potuto laurearmi. Soprattutto, ho incontrato volontari che si sono presi cura di me”. “La cosa fondamentale è uscire gradualmente e con una compagnia. Se quando esci sei solo, torni a rubare o spacciare; e se non lo hai mai fatto prima, cominci a farlo. Se invece hai qualcuno che ti dà da dormire e da lavorare, ti salvi. Mi creda: nessuno ha interesse a fare una scemata. Io sono stato accompagnato. Ma siamo una percentuale bassissima: gente che deve ringraziare la Caritas diocesana, il suo direttore Pierluigi Dovis, il cardinal Poletto”. Gli chiedo se resta qualcosa di positivo, della vita in carcere: “Il senso di solidarietà. Dentro è molto più forte che fuori. Quel muro è un simbolo di divisione: non solo di società ma anche di anime”. Alle 11,30 prende il treno per andare a lavorare: mi mostra con orgoglio la sua busta paga, mille euro netti: per lui sono la felicità. Ore tredici, una pizzeria di via Cecchi. Anche l’uomo che pranza con me chiede un semi-anonimato, perlomeno per il cognome: “Chiamami Roberto il Vecchio, in carcere mi conoscono così”. Ma la sua storia è unica e difficilmente la si può confondere con altre. Roberto il Vecchio è un veneto di settant’anni che ha passato in carcere gli ultimi sedici. Gli hanno fatto un po’ di sconto: la condanna, per narcotraffico, era stata di ventiquattro anni. Quest’uomo colto, poliglotta, elegante, affascinante, sempre sorridente, sposato con una bellissima cubana, quest’uomo che in carcere si è laureato in scienze politiche con una tesi intitolata in latino sulla fine del potere temporale dei papi e che ha un’altra quasi-laurea in teologia, quest’uomo che il 24 novembre 2010 ha parlato della condizione dei detenuti a San Pietro addirittura accanto a Papa Ratzinger, insomma quest’uomo da film era un più che benestante imprenditore veneto trasferitosi a Miami. Commerciava in marmi e un giorno si innamorò di una cava di lapislazzuli in Colombia. Quando andò a comprarla, gli chiesero: ma lei che va spesso in Italia, non potrebbe portare là un po’ di cocaina? Fu così che Roberto diventò uno “specialista di sistemi”. Spiega: “Vuol dire che inventavo i sistemi per nascondere la droga. La mettevo, ad esempio, all’interno dei fili elettrici. Per due anni andò bene. Poi, il mio socio mi tradì”. Quando lo arrestarono, gli trovarono centoventi chili di cocaina: ma al processo l’accusa contestò un traffico complessivo di 1.575 chili. Gli chiedo che cosa gli fece fare una simile fesseria, visto che di soldi ne aveva già. “Ne volevo di più”, risponde: “Quando ho visto le prime tre valigie piene di dollari, ho perso la testa”. Dice che adesso ha capito: “Allora mi auto-giustificavo. Dicevo che in fondo non mettevo le mani in tasca a nessuno: erano loro che volevano comprare la cocaina. Ma era pur sempre vendere un paradiso artificiale, e questo è sbagliato per Dio e per gli uomini. Quando sei dentro, cambi. Ho capito il male che ho fatto a mia moglie e ai miei figli”. I figli sono due. Vivono in Florida. Uno è poliziotto, l’altro agente dell’Fbi: “Per reazione al padre”, dice lui. Roberto è definitivamente fuori da due mesi e si arrangia come può: “Lavoro a cinquecento euro al mese. Quando esci trovi solo le organizzazioni di carità ad aiutarti. Tu cerchi un lavoro, ti chiedono che cosa hai fatto prima, tu glielo dici e loro ti rispondono “vedremo”. Al ventesimo vedremo riprendi a spacciare coca”. Ore quindici e trenta, nuova stazione Dora. Incontro Giovanni Ferina. È uscito nel 2010. Aveva preso, per omicidio, sedici anni e - bizzarrie delle sentenze - duecentomila lire di multa, l’equivalente di tre o quattro multe per sosta vietata di allora. Racconta di essere un esperto di “uscite” dal carcere: “Prima di questa condanna a sedici anni ero stato dentro più volte per piccoli reati. E quindi so che cosa vuol dire uscire. Che cosa fai quando esci? Una volta ho provato a lavorare: autotrasportatore in proprio. Ma siccome il furgone costava quaranta milioni, me n’ero procurato uno io: puoi immaginarti come. Quando mi hanno scoperto è finito il film”. Paradossalmente, dice, “quando sei dentro per una pena lunga è più facile essere seguito”. A lui è successo così, al polo universitario delle Vallette. “Di tutti quelli di noi che, dentro, hanno potuto studiare, nell’arco di quindici anni solo uno, dopo essere uscito, è rientrato in carcere”. Quella di Ferina è una storia a lieto fine: oggi lavora a tempo determinato come collaudatore di prototipi di autoveicoli. Ore diciassette e trenta, via Corte d’appello, palazzo dell’avvocatura del Comune. Qui sta facendo il tirocinio Marino Sacchetti, ex carabiniere, condannato per tentato triplice omicidio. Ha fatto in carcere quattordici anni. Dal 14 dicembre scorso è totalmente libero. Il prossimo 21 giugno si laurea in giurisprudenza. “Sono fortunato perché uscendo ho usufruito del protocollo di intesa con il Comune e grazie all’Ufficio Pio del San Paolo ho una borsa-lavoro di 650 euro al mese. Non sono assunto e quindi non prendo uno stipendio da un ente pubblico: mi sto solo preparando per trovare un lavoro”. È grato alle persone che lo hanno seguito in carcere negli ultimi anni: “Uscire senza accompagnamento è terribile. E se in carcere non si dà la possibilità di studiare e di lavorare, è difficile costruire un ponte per il dopo. Ci si riempie tanto la bocca con la parola sicurezza, ma la sicurezza la si costruisce anche dando la possibilità, a chi esce dal carcere, di non sbagliare più”. Per arrivare fin qui, in via Corte d’appello, mi avevano dato un passaggio in auto Ferina e Roberto il Vecchio. Stavo per scendere a Porta Palazzo quando mi hanno bloccato: “Questa è una brutta zona, rischi che ti fanno il portafoglio. Ti accompagniamo noi che questi qua li abbiamo conosciuti in carcere”. Mi resta così, con questa scorta imprevista, la strana sensazione di aver conquistato qualcosa, diciamo un rapporto, con uomini che in fondo chiedono solo di non essere lasciati soli. Giustizia: un decreto “del fare” anche per le carceri italiane, usciranno 3-4mila detenuti di Vittorio Nuti Il Sole 24 Ore, 14 giugno 2013 Un decreto “del fare” anche per le carceri italiane, sovraffollate e nel mirino della Corte europea dei diritti dell’uomo per gli spazi concessi ai detenuti, al limite della tortura. Il Governo, annuncia il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, intende approvarlo in fretta: forse già domani, via libera in Consiglio dei ministri a “un provvedimento-tampone urgente sulle carceri, per alleggerire le condizioni di vita dietro le sbarre, con modifiche sia in entrata che in uscita dei detenuti. Farà uscire non più 3-4 mila detenuti”. Il Guardasigilli, che parla a Roma a margine della conferenza dei prefetti, ricorda il pressing della Corte di Strasburgo, che ha fissato a maggio 2014 la dead line per adeguare le 206 strutture penitenziarie (capienza regolamentare 46.995 detenuti) agli oltre 65mila detenuti presenti. In serata, il ministro gioca d’anticipo sulle critiche al Dl, che “allenterà la pressione salvaguardando la sicurezza dei cittadini perché non toccherà persone che hanno compiuto reati socialmente pericolosi”. Il decreto, che i tecnici di via Arenula stanno ancora definendo, dovrebbe comprendere misure come lo sconto di pena ai fini della liberazione anticipata (che sale da 45 a 60 giorni per ogni semestre scontato) per i detenuti che partecipano alle attività di rieducazione. Lo sconto, in caso di buona condotta, sarebbe applicabile a tutti i tipi di reato, anche gravi. Altra novità, quando la pena residua da espiare - computando le detrazioni per buona condotta - non superi i 3 anni (6 per reati commessi da tossicodipendenti), il Pm trasmette gli atti al magistrato di sorveglianza perché questi provveda “senza ritardo” alla riduzione della pena. La bozza del Dl abbassa anche da 3 a 4 anni il tetto della pena residua che consente ai condannati definitivi di chiedere una misura alternativa al carcere. Ma il decreto legge non è l’unica carta che il Guardasigilli intende giocare per riportare i penitenziari italiani a condizioni civili. In cantiere anche un “Piano carceri” che dovrebbe garantire altri diecimila posti con la creazione di nuovi strutture o la ristrutturazione di strutture dismesse, anche del Demanio militare. “Abbiamo bisogno di un po’ di tempo. Ci stiamo lavorando, e io conto di varare il piano per l’autunno”, assicura il ministro. Di ieri, invece, la presentazione di un emendamento del Governo al ddl su misure alternative e messa alla prova all’esame della commissione Giustizia della Camera che punta a far rientrare la reclusione presso il domicilio del condannato (o altro luogo di pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza) tra le possibili pene stabilite dal giudice al momento della sentenza, e non più una misura alternativa come è considerata oggi. L’opzione domiciliari vale per delitti puniti fino a 6 anni. Nonostante l’appoggio esplicito del Presidente della Repubblica, che anche pochi giorni fa ha ribadito la necessità di un intervento urgente per risolvere l’emergenza, l’accelerazione del Guardasigilli mette in allarme Lega e Fratelli d’Italia, che denunciano il rischio di rimettere in circolazione condannati anche per reati gravi e parlano di “follia” del Governo e di decreto “inaccettabile”. Giustizia: detenzione in casa per condanne relative a reati con pena massima fino a 6 anni di Francesco Grignetti La Stampa, 14 giugno 2013 Non avrà effetti immediati sul carcere, ma è in arrivo una leggina che potenzialmente potrebbe rivoluzionare il sistema della giustizia. Tra dieci giorni la Camera voterà il ddl sulla cosiddetta “messa in prova”. È un meccanismo che consente una giustizia “risarcitoria”: lavori socialmente utili al posto di un processo e poi di una condanna detentiva. È una possibilità offerta agli imputati di reati con pene fino a 4 anni più i reati “a citazione diretta”, ad esempio il furto semplice, la ricettazione, la resistenza a pubblico ufficiale, la rissa. Da ieri, poi, il ddl si è arricchito di un capitolo sui domiciliari. Si prevede che il giudice in futuro, al termine di un processo, nel determinare la pena, avrà tre possibilità tra cui scegliere: pena pecuniaria, pena detentiva, pena domiciliare. La pena domiciliare potrà scattare peri reati con pene fino a 6 anni. Ma il governo avrà il tempo di emettere un decreto attuativo con cui escludere dal mazzo alcuni reati, quelli di maggiore allarme sociale. “La nostra proposta - racconta il sottosegretario alla Giustizia che ha presentato ieri l’emendamento governativo, Cosimo Ferri - innova radicalmente il sistema. Si passa da un sistema di due e un sistema di tre possibili pene. Impossibile dire quante persone ne saranno interessate. La logica, però, ci dice che nel tempo questa riforma alleggerirà il ricorso al carcere e amplierà il ricorso ai domiciliari”. È soddisfatta Donatella Ferranti, Pd, presidente della commissione Giustizia alla Camera: “Sia il ricorso alla “messa in prova”, sia la pena ai domiciliari sono riforme di sistema, attese da tempo. La platea dei reati interessati ci sembra un buon compromesso tra le esigenze di sicurezza della società e la necessità di deflazionare il carcere. Si ricordi che qui non si vuole mandare nessuno a spasso: anziché in cella si finisce ai domiciliari. E se si evade da casa, scatta in automatico il carcere. Quindi non è interesse del detenuto. Inoltre lasciamo al magistrato la valutazione, legata al caso concreto, alla personalità del condannato, alla sua storia”. Buono anche il giudizio di Enrico Costa, Pdl, correlatore del ddl: “È misura di civiltà prevedere che ci sia anche questa possibilità”. Da notare inoltre che con la “messa in prova” il processo stesso viene sospeso. L’imputato svolgerà dei lavori socialmente utili, rispettando un programma concordato con il magistrato di sorveglianza, vigilato dagli assistenti sociali, al termine del quale, se tutto è andato per il verso giusto, il reato stesso è dichiarato estinto e quindi il processo non si svolge più. “Una misura - commenta ancora Enrico Costa -doppiamente utile: sia per evitare che si finisca in carcere, con tutto quello che ciò comporta in termini umani ed economici; sia perché si evitano processi minimali, che però ingolfano i tribunali”. Le opposizioni però sono già sulle barricate. Tra l’annuncio di un decreto sfolla carceri che potrebbe essere licenziato al prossimo consiglio dei ministri, e la marcia di questo ddl, vedono un pericoloso affievolirsi della severità dello Stato. Sostiene il leghista Matteo Salvini: “Pd e Pdl avranno sulla coscienza un’ondata di nuovi rea-ti, morti e feriti compresi”. Giustizia: carceri, la prima buona idea dall’inizio della “emergenza” nel 2010 di Susanna Marietti Il Manifesto, 14 giugno 2013 Il governo presenta un emendamento alla legge delega. Il migliore, dall’inizio dell’emergenza. Il governo e il parlamento propongono che la detenzione domiciliare diventi una pena detentiva a tutti gli effetti, comminata in sentenza. Se il secondo la chiedeva per reati puniti oggi con il carcere fino a quattro anni, il primo rilancia con un emendamento che innalza il tetto di due. È questa la misura più significativa mai ventilata durante il percorso compiuto dal gennaio 2010, quando fu dichiarata l’emergenza carceraria. Forse la sola volta in cui, per contrastare l’emergenza di un terremoto, si è pensato a costruire case più solide piuttosto che ospedali per curare i feriti. Un percorso che possiamo ripercorrere partendo dal dicembre 2010, quando vide la luce la cosiddetta legge Alfano, la 199, che mandava in detenzione domiciliare coloro cui rimanevano da scontare meno di dodici mesi di carcere. Passò un anno, cambiò il governo e il ministro Severino emanò un decreto che portava i dodici mesi a diciotto e che voleva intervenire su quel fenomeno delle “porte girevoli” per il quale si entra e si esce dal carcere nel giro di poche ore, venendo arrestati con provvedimenti mai convalidati dalla magistratura. La ministra della Giustizia aprì agli arresti le camere di sicurezza di commissariati e caserme. Circa diecimila persone sono a oggi uscite in detenzione domiciliare con la legge 199. Tutto questo - insieme però alle disposizioni europee sull’immigrazione che fortunatamente ci hanno impedito di mandare in galera chi solo non aveva obbedito all’ordine di lasciare il Paese - ha determinato un blocco nella crescita della popolazione detenuta, assestata sulle 66 mila presenze. Al decreto menzionato, Paola Severino affiancò un ddl governativo che prevedeva la sospensione del processo con messa alla prova, sul modello della giustizia minorile, per reati con pene fino a quattro anni, nonché l’introduzione di una nuova pena nel codice, quella della detenzione domiciliare, oggi prevista solo quale misura alternativa in cui la pena carceraria può essere parzialmente commutata. Nel dicembre 2012, a fine della legislatura e tra le lacrime della Severino, il disegno di legge venne affossato. La nuova legislatura ha riproposto su base parlamentare le misure del ddl Severino come legge delega. È a questa che la Cancellieri propone l’emendamento dei sei anni invece di quattro, il quale permetterebbe di intercettare qualcuno tra i condannati per l’art. 73 della Fini-Giovanardi sulle droghe - che prevede pene spropositate - e tutti coloro che, tra questi, sono condannati con l’attenuante dei “fatti di lieve entità”. La Cancellieri sta lavorando parallelamente a un decreto legge che vorrebbe estendere a 60 giorni a semestre lo sconto di pena oggi di 45, previsto per i detenuti che dimostrano di collaborare nel venire “rieducati”. Non è chiaro se ciò si applicherà anche retroattivamente, ampliando di molto l’efficacia ma rischiando sperequazioni. In quello stesso decreto dovrebbero comparire altre misure, tra cui l’uso di spazi dismessi (Pianosa, ad esempio) per progetti di custodia attenuata. Non è facile quantificare gli effetti in termini deflattivi. Bisogna recuperare un gap di 30 mila posti per evitare di incorrere nelle condanne della Corte Europea dei Diritti Umani. Oggi i posti letto, nonostante quanto venga ufficialmente scritto, sono circa 37 mila (non certo i 71 mila sentiti in recenti occasioni pubbliche). Non ci sono state parole di propaganda sul piano di edilizia. Di esso sono rimasti sulla carta 4 carceri e 16 padiglioni, per 350 milioni di euro. Nessun cantiere è stato però aperto. Sarebbe cosa buona usare quei soldi per la manutenzione ordinaria delle carceri, per l’acquisto di beni primari, per avviare a progetti di recupero sociale migliaia di tossicodipendenti dando ossigeno ai servizi pubblici e alle comunità terapeutiche. Per ora nei progetti del governo non c’è traccia di una messa in discussione delle leggi che tanta carcerazione inutile hanno prodotto: droga, immigrazione, recidiva. La campagna “3 leggi per la giustizia e i diritti”, che si sta avvicinando alle 50 mila firme, riguarda questi temi, insieme a quello della tortura. Il 26 giugno, la giornata dedicata dall’Onu alle vittime della tortura ma anche alla lotta alla droga sarà destinata in tutta Italia alla raccolta di firme. La Corte di Strasburgo ci ha dato un anno di tempo per risolvere il problema del sovraffollamento. Con queste leggi non solo lo risolveremmo, ma sapremmo anche giustificare di fronte al mondo criteri meno propagandistici con i quali mandiamo in galera le persone. Giustizia: Di Lello (Psi); garantismo e diritti civili, siamo pattuglia laica in parlamento di Carlotta Sabatino www.clandestinoweb.com, 14 giugno 2013 L’urgenza della questione carceri in Italia è diventata così allarmante da essere finalmente entrata nell’agenda politica del governo che si prepara a varare un “piano carceri” che dovrebbe migliorare la condizione di sovraffollamento cronico e strutturale delle nostre strutture nelle quali si violano sistematicamente i più basilari diritti umani e civili. Oltre ai Radicali, si fanno carico di questa battaglia anche i socialisti, che, nella definizione dell’onorevole Marco Di Lello costituiscono una vera e propria “pattuglia laica in Parlamento” con idee e proposte molto chiare su quello che andrebbe fatto per migliorare la situazione. Onorevole Di Lello, come commenta il prossimo piano carceri a cui sta lavorando il governo e di cui si parla molto in questi giorni? Finalmente sono arrivate delle aperture significative da parte della Cancellieri rispetto ad esempio alla necessità di rendere operative nuove strutture carcerarie nel nostro paese. In qualche modo si sta facendo sempre più largo l’opinione che quella delle carceri italiane sia veramente una situazione indegna. Come socialisti vi siete molto impegnati anche per sensibilizzare il mondo politico sul tema delle carceri… Sul tema del garantismo e dei diritti civili come socialisti costituiamo una pattuglia laica in Parlamento e ci facciamo carico di questo impegno. Come forza politica abbiamo fatto molto in questa direzione. L’obiettivo è chiaramente quello di ribadire che anche i detenuti, anche chi ha sbagliato ha dei diritti che devono sempre essere rispettati. Se poi si considera che un terzo delle persone attualmente nelle nostre carceri è in attesa di giudizio e che la metà di questi - e quindi migliaia di detenuti si riveleranno alla fine innocenti - è evidente che questo aspetto è ancora più urgente. Cosa contestate nella situazione attuale? Noi sottolineiamo in particolare il ricorso esagerato alla custodia cautelare e il mancato sviluppo di strumenti - come i braccialetti elettronici - che sono funzionali alla diminuzione del numero dei detenuti e all’alleggerimento del peso dell’emergenza che è costituita dal sovraffollamento nelle nostre carceri. Importantissima inoltre è il ricorso alla decarcerizzazione per alcune fattispecie di reato. Quali sono invece le vostre proposte operative per migliorare lo status quo? Quello che faranno i gruppi socialisti è spingere per la costituzione di forme associative e lavorative all’interno delle carceri, seguendo l’esempio di alcune strutture penitenziarie, penso a Rebibbia, in cui questa esperienza ha funzionato in maniera efficace. La detenzione ha senso solo se il detenuto esce cresciuto dal periodo di restrizione. Sotto alcuni punti di vista siete molto vicini ai Radicali che hanno fatto della battaglia delle carceri una vera e propria bandiera... Sposiamo la battaglia radicale soprattutto negli aspetti che riguardano l’ambito referendario e anche se non siamo nel comitato promotore dei Referendum per la giustizia giusta che si promuoveranno a Napoli domenica non faccio fatica, da un punto di vista personale, a sottoscriverli. Giustizia: Daniele Farina (Sel); problema maggiore per le carceri è la legge sulle droghe di Eleonora Martini Il Manifesto, 14 giugno 2013 “Prima c’erano Di Pietro e i Comunisti italiani, ora c’è il M5S e la Lega a dire no a indulto e amnistia. E chiedono più carcere, per più persone”. L’hanno visto ieri mattina, i deputati della commissione Giustizia, l’emendamento del ministro Cancellieri che propone di estendere la detenzione domiciliare per i reati puniti fino a un massimo di 6 anni, anziché 4 come era nel testo che stanno discutendo dal 18 marzo scorso, quello che delega il governo a legiferare in materia di pene detentive non carcerarie e sulla messa alla prova. E proprio oggi anche Sel depositerà alla Camera un progetto di legge per modificare il testo unico sulle droghe rendendo fattispecie autonoma il reato di “lieve entità” - come nelle leggi di iniziativa popolare presentate da Antigone e Fuoriluogo - in modo da poter evitare il carcere a coloro che incorrono nella violazione della relativa norma. Si tratta del temuto comma 5 dell’articolo 73 che attualmente contribuisce al sovraffollamento portando in cella anche se per pochi giorni un numero non indifferente di persone, spesso tossicodipendenti. Primo firmatario della proposta è Daniele Farina, l’esponente del Leoncavallo che di nuovo siede per Sel in commissione Giustizia della Camera (nel 2006 ne era vicepresidente) e che, ricorda Wikipedia, nel 2007 “venne inserito da Beppe Grillo nella lista del vaffaday”. “Da tre settimane aspettiamo che i grillini decidano se vogliono firmare o no il nostro progetto di legge”, racconta. “Ma figuriamoci! In commissione, i 5 Stelle e la Lega vogliono addirittura restringere l’ambito di applicazione della detenzione domiciliare scendendo, al contrario di quanto propone il governo, da 4 a 3 anni di pena. Così si rende inutile il provvedimento”. Onorevole Farina, avete visto anche il testo del decreto che la Guardasigilli Cancellieri ha annunciato per domani in Consiglio dei ministri e che servirebbe a far uscire subito 3.500-4.000 detenuti? No, ne abbiamo sentito parlare però dalla ministra che è venuta finora in commissione un paio di volte. L’emendamento invece lo abbiamo discusso stamattina (ieri, ndr): è abbastanza interessante e innovativo perché innalza da 4 a 6 anni la pena edittale massima a cui si applica il meccanismo già sperimentato nella giustizia minorile, cioè l’applicazione della pena detentiva non carceraria e la messa alla prova che per la prima volta viene estesa anche agli adulti. Ma attenzione perché la delega contiene anche la facoltà del governo a procedere a una serie di esclusioni. Quindi a quali tipi di reati effettivamente verrà applicata, è tutto da vedere. Si parla di escludere lo stalking ma in realtà non sarà facile identificare le fattispecie a cui applicarla perché il concetto di allarme sociale è vario e estremamente volubile. Le sembra un provvedimento sufficiente? Assolutamente no. Si può e si deve fare molto altro, soprattutto una profonda modifica della legge Fini Giovanardi, il vero core business del problema carceri. L’Europa ci ha dato un anno di tempo, bisogna fare molto in fretta. Con l’innalzamento a 6 anni non vengono intercettati anche i reati previsti dalla Fini-Giovanardi? No. Se non - credo - il comma 5 dell’articolo 73, quello che delinea i relativi reati di “lieve entità”. Con l’attuale legge chi ha violato quella norma può ottenere una pena alternativa al carcere ma solo in un secondo momento, su disposizione del magistrato. Ecco perché nel nostro progetto di legge proponiamo di cancellare il comma 5 e di renderlo fattispecie autonoma con una sanzione più bassa. E prevediamo inoltre la completa non punibilità della coltivazione di marijuana per uso personale e la piccola cessione associata. Quale sarà l’iter della proposta di legge Ferranti, quella che state discutendo emendata appunto dal governo? Contiamo di concludere la discussione in commissione in sede referente martedì. Poi si va in Aula la settimana successiva. Indulto e amnistia? Sono sempre d’accordo con i provvedimenti clemenziali ma con l’avvertenza che le cose vanno modificate a regime. Mi sembra però difficile che si riesca a convincere una maggioranza come quella di oggi. Ho vissuto l’esperienza del 2006, con il tiro al bersaglio da parte di minoranze attive che si chiamavano Di Pietro e Comunisti italiani: figuriamoci oggi con i 5 stelle. Giustizia: decreto-carceri del ministro Cancellieri, altri commenti di politici e sindacati Ristretti Orizzonti, 14 giugno 2013 Cancellieri: decreto non svuota carceri, impedirà ingressi "Non è il decreto che riduce il sovraffollamento. Per quello servono misure più strutturali, come indulto o amnistia". Così, il ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, a margine della Conferenza dei prefetti che si è conclusa a Roma, sottolineando che "il decreto, invece, serve a individuare la tipologia di persone che hanno compiuto reati non socialmente pericolosi e che sono sotto il controllo del giudice, che hanno tutta una serie di garanzie da non destare allarme sociale". Secondo il Guardasigilli questo decreto "non svuota un bel niente, perché impedirà l'ingresso nelle carceri di 3-4.000 persone. Altra cosa invece è il sovraffollamento, quantificabile in 20.000 persone, ma in realtà il numero è di gran lunga maggiore ed è un problema che chiede un intervento epocale". Cirielli (Pdl): con emendamento svuota carceri peggio dell’amnistia “Già l’originario provvedimento presentato da Pd e Pdl sulla ‘messa in provà era un grave vulnus alla sicurezza dei cittadini e alla credibilità dello Stato perché sbriciolava il principio della certezza della pena. Ora, dopo l’emendamento del Governo e i nuovi di Pd e PdL in Commissione, il testo cosiddetto ‘svuota carceri e deflattivo dei processi, rischia di diventare peggiore dell’amnistia”. Lo dichiara Edmondo Cirielli, deputato di Fratelli d’Italia e componente dell’Ufficio di Presidenza di Montecitorio. “L’emendamento - spiega - consente gli arresti domiciliari anche per reati gravissimi come quelli di stalking, maltrattamenti in famiglia, scippo, furto in abitazione e resistenza con violenza e lesioni a pubblico ufficiale. Altro che convenzione di Istanbul e impegno da tutti sbandierato contro la violenza sulle donne. Altro che difesa della sicurezza dei cittadini e delle Forze dell’Ordine su cui tutti si erano impegnati”. “Fratelli d’Italia - aggiunge Cirielli - ritiene che non con provvedimenti come amnistie, indultini e gli altri messi in campo dal Governo Monti e con questi presentati dall’attuale si possa risolvere l’emergenza carceri che puntualmente si ripresenta. È necessario, invece, far scontare nei Paesi di provenienza il carcere agli stranieri extracomunitari, contrastare l’immigrazione clandestina e, ovviamente, costruire nuove carceri. Solo così - conclude - si pu ò rendere più civile il luogo di espiazione della pena, introducendo peraltro misure rieducative e di lavoro in carcere”. Di Pietro (IdV): liberano chi ha violato la legge “Per risolvere il sovraffollamento delle carceri hanno trovato il solito sistema all’italiana, mettendo in libertà chi ha violato la legge. Così si offende la giustizia e chi è stato vittima degli atti criminali commessi da chi ora è detenuto”. Lo scrive Antonio Di Pietro dell’Italia dei Valori sulla sua pagina Facebook, commentando il contenuto del decreto sulle carceri annunciato dal ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri. “Invece di creare più strutture carcerarie, renderle vivibili, tenendo conto in primis del rispetto della persona, e adeguate anche a progetti di reinserimento - ha aggiunto Di Pietro - hanno risolto il problema facendo uscire circa quattromila detenuti. Un modo per poter poi dire: adesso in carcere si sta molto più larghi. Certo, ma in giro i cittadini saranno meno sicuri”, conclude. Ugl: decreto annunciato sia davvero risolutivo “Altrimenti, - avverte il sindacalista - il nostro sistema penitenziario continuerà ad essere difforme sia da quanto previsto dalla Costituzione italiana sia dalle leggi europee circa la dignità della persona e non ci saranno miglioramenti visibili né per la popolazione detenuta nè per gli agenti”. “Confidiamo - conclude Moretti - che la determinazione del Guardasigilli si espliciti presto in una profonda riorganizzazione dell’amministrazione penitenziaria, in cui il ruolo della Polizia Penitenziaria non sia più relegato a mero esecutore di ordini gerarchici, ma assuma incarichi confacenti all’evoluzione avuta negli anni dal Corpo”. Gatti (Asl Milano): no a pene alternative solo perché costano meno Il commento di Gatti, direttore del Dipartimento dipendenze dell’Asl di Milano: “Non vorrei che si pensasse alle pene alternative solo perché la retta dai 30 ai 70 euro di una comunità è più bassa dei costi della detenzione”. Lavoriamo per spostare le persone da un contenitore ad un altro ma non si pensa mai al senso del percorso di reinserimento sociale”. Con queste parole Riccardo Gatti, direttore del Dipartimento dipendenze dell’Asl di Milano commenta il piano carceri proposto dal Governo. Quest’idea di puntare sulle pene alternative, sostiene Gatti, funziona solo se esiste un sistema di servizi in grado di reggere all’urto. “Altrimenti non si fa altro che spostare il problema da un luogo ad un altro, senza mai entrare nel merito”. Gatti poi ragiona su un vantaggio evidente delle pene alternative rispetto alla detenzione: il costo. “Non vorrei - dichiara - che si pensasse alle pene alternative solo perché la retta dai 30 ai 70 euro di una comunità è più bassa dei costi della detenzione. Qui va ripensato l’intero modello se la cura in comunità diventa l’alternativa al carcere”, che per altro già per Costituzione è considerato un luogo rieducativo. Basteranno i posti dei servizi territoriali ad accogliere i tossicodipendenti che usciranno dalle carceri con i nuovi provvedimenti previsti dal decreto legge che sarà approvato sabato? Forse, dati i numeri contenuti, “ma le comunità e i servizi hanno posti e risorse limitate. E chi entra in comunità deve aderire a un percorso, che deve avere un senso e un significato profondo”, commenta Gatti. Prima della norma, quindi, andrebbe toccata l’organizzazione del sistema di recupero di chi delinque e ha problemi di dipendenze. Anche perché sui servizi territoriali, quindi in particolare sulle Asl, ricadano tutte le nuove forme di dipendenze (come quella da gioco d’azzardo, ad esempio) e i detenuti con problemi psichiatrici che usciranno dagli Opg. Nonostante questo sovraccarico, i finanziamenti a disposizione dei servizi territoriali non cambiano. “Non c’è una buona distribuzione delle risorse - prosegue -. Sono convinto che se fossero messe a disposizione, per ogni detenuto da inserire nei percorsi terapeutici, le stesse risorse giornaliere complessive, attualmente necessarie per mantenerlo in carcere e nel circuito penale, la soluzione al problema della dipendenza si troverebbe”. Sappe: stranieri scontino pena nel loro paese Alfonso Greco, segretario lombardo del sindacato autonomo della polizia penitenziaria: “Far scontare ai detenuti stranieri la pena nel loro Paese d’origine. Si tenga conto che sono il 60 per cento dei detenuto in Lombardia. Ha pesato la Bossi-Fini” Il piano carceri che sarà approvato tra venerdì e sabato porterà fuori dalle celle dalle 3.500 alle 4 mila persona, stimano al Ministero della Giustizia. “È ancora troppo poco”, commenta Alfonso Greco, segretario lombardo del Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria. E di misure efficaci in tempi più brevi, soprattutto per la Lombardia, ce ne sarebbero: “Il sindacato propone di far scontare ai detenuti stranieri la pena nel loro Paese d’origine - spiega Greco. Si tenga conto che sono il 60 per cento dei detenuto in Lombardia. Significherebbe stare tutti in condizioni più umane”. Al contrario, dal punto di osservazione della Polizia penitenziaria, le norme vigenti aggravano la situazione del sovraffollamento, al posto che contenerla. “La legge Bossi-Fini (legge che disciplina le espulsioni e detenzioni per gli immigrati irregolari, ndr) ha inciso parecchio sui numeri degli stranieri detenuti - aggiunge Greco -. A mio giudizio, è assurdo che si riempiano le carceri per sei mesi, per poi lasciare uscire l’immigrato con in mano un foglio di via, fino al momento in cui non viene trovato di nuovo e rimesso in carcere”. E a questo si aggiungono tutti i casi di celle “a porte girevoli”: processi per direttissima che portano dietro le sbarre il colpevole per due tre giorni. “Non serve a nulla se non a riempire la struttura”, aggiunge Greco. Indulto e amnistia sono escluse: “Nel giro di un anno al massimo ci sarebbero di nuovo le carceri piene”. La posizione del sindacato, per ò, è critica nei confronti di idee diverse dalle pene alternative. Ad esempio, al Sappe non piace la “vigilanza dinamica”, un progetto al vaglio del Dipartimento di amministrazione penitenziaria che prevede il rientro in cella solo la notte per dormire. “È un bluff - chiarisce Greco -. Che facciamo, lasciamo i detenuti passeggiare tutto il giorno nei corridoi? Serve che facciano dei lavori”. Ma qui si apre un altro problema, dice il Sappe: la cronica mancanza di fondi per svolgere attività nei penitenziari. “Ma dobbiamo riuscire a sfruttare questo momento per cambiare qualcosa, ora che anche l’opinione pubblica ci sta dando attenzione”, è l’auspicio di Alfonso Greco. Letizia (Anfp): non scaricare problema carceri sulla Polizia "Non si può pensare di risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri con l'ennesimo provvedimento emergenziale che scaricherà sulle forze di polizia l'onere di controllare il rispetto delle prescrizioni degli arresti domiciliari". Ad affermarlo è Enzo Marco Letizia, segretario nazionale dell'Associazione nazionale dei funzionari di polizia, secondo cui "verranno, così, distratti ulteriori agenti sia dal controllo del territorio sia dal contrasto alla microcriminalità". Il governo - prosegue Letizia - rifletta sulle conseguenze del provvedimento in tema di sicurezza e si ricordi che la carenza organica delle forze di polizia è in continuo aumento a causa dei continui blocchi parziali del turn over". "La questione delle carceri - ricorda Letizia - è un problema antico come la cronica incapacità a farvi fronte della politica, che ha sempre rimandato l'adozione di un progetto che metta in sinergia le opportunità della tecnologia con un'edilizia carceraria sostenibile come la ristrutturazione delle caserme dismesse. Non si può continuare a scaricare, dopo averle indebolite per anni, sulle forze di polizia le emergenze di questo Paese". Moretti (Ugl): decreto annunciato sia davvero risolutivo “Auspichiamo che il provvedimento-tampone annunciato dal ministro Cancellieri porti l’effetto più agognato, e cioè il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro nel sistema detentivo del nostro Paese”. Lo dice il segretario nazionale dell’Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, aggiungendo che “è ormai chiaro che per ridurre il sovraffollamento non è sufficiente aprire nuove strutture, come prospettato dal vicedirettore del Dap, Luigi Pagano, ma occorre procedere a modifiche normative sostanziali, tra cui riteniamo valide l’innalzamento della detenzione domiciliare da 4 a 6 anni per alcune tipologie di reato e l’ampliamento delle misure alternative. Altrimenti,- avverte il sindacalista- il nostro sistema penitenziario continuerà ad essere difforme sia da quanto previsto dalla Costituzione italiana sia dalle leggi europee circa la dignità della persona e non ci saranno miglioramenti visibili ne per la popolazione detenuta né per gli agenti”. “Confidiamo - conclude Moretti - che la determinazione del Guardasigilli si espliciti presto in una profonda riorganizzazione dell’amministrazione penitenziaria, in cui il ruolo della Polizia Penitenziaria non sia più relegato a mero esecutore di ordini gerarchici, ma assuma incarichi confacenti all’evoluzione avuta negli anni dal Corpo”. Giustizia: caso Cucchi; il Sindacato di polizia Coisp denuncia la sorella di Stefano Adnkronos, 14 giugno 2013 “Il Coisp vuole difendere la dignità, di chi ogni giorno, con grande professionalità, dedica il proprio impegno alla difesa della legalità e della sicurezza dei cittadini, rischiando l’incolumità anche a causa di chi continua ad istigare l’odio contro le divise. Per questo abbiamo presentato all’Autorità giudiziaria una serie di denunce verso chi continua a praticare una costante opera di diffamazione contro la Polizia, come la stessa sorella di Stefano Cucchì. È quanto afferma Franco Maccari, Segretario Generale del Coisp - il Sindacato Indipendente di Polizia, commentando le polemiche seguite alla sentenza del processo per la morte di Stefano Cucchi, che ha assolto delle accuse gli agenti della Polizia Penitenziaria. ‘Se una sentenza condanna un Poliziotto va rispettata, ma se un Poliziotto viene assolto, si grida allo scandalo. Tanto varrebbe non celebrare affatto i processi, perché la verità dei fatti non serve: un poliziotto deve essere sempre colpevole - prosegue la nota del Coisp - Anziché esprimere soddisfazione perché un Tribunale ha accertato che da parte degli Agenti non vi furono maltrattamenti ci si indigna perché non c’è il Poliziotto cattivo da buttare in carcere. Non interessa la verità, non si cerca la giustizia, ma soltanto vendetta”. “Non si cercano i colpevoli - continua Maccari - ma dei capri espiatori, dei trofei da portare in piazza ed appendere a testa in giù. Si vuole una verità che sia buona per farci un film. Si vuole una giustizia sommaria, magari la giustizia fai-da-te, e per ottenerla si continua a gettare fango contro gli uomini e le donne delle Forze dell’Ordine, continuamente insultati, denigrati, esposti alle aggressioni e alle violenze della piazza”. Lettere: Pianosa è un patrimonio di storia e natura… mai più un carcere di Giuseppe Tanelli (ex presidente del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano) Il Tirreno, 14 giugno 2013 Riecco il tormentone del ritorno del carcere a Pianosa. È ormai una decina di anni che, puntualmente si ripete il rito, nel frattempo l’Isola si sgretola, nonostante sia compresa dal ‘96 nel Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano. Due annunci si sono accavallati nell’arco di poche ore. Quello del provveditorato della amministrazione penitenziaria della Toscana e quello del ministro della Giustizia. Con il primo si prevede il ritorno a Pianosa di 40 detenuti in semi-libertà per espletare azioni di manutenzione e restauro del patrimonio edilizio e naturale dell’Isola. È il “ Carcere verde”. Una buona cosa, da sempre coltivata dal Parco, dal Comune di Campo, dalla Provincia di Livorno e dalla Regione. La storia insegna che una residenza stabile a Pianosa si ottiene solo per ragioni coatte o spirituali. E quelle spirituali tramontarono all’inizio del terzo millennio quando naufragò l’insediamento di una comunità di monaci benedettini. Resta il carcere verde. Il secondo annuncio, è per lo meno devastante. Il ritorno di 500 detenuti nell’Isola con, ovviamente, una idonea presenza di personale penitenziario. Organi del sindacato di polizia penitenziaria, hanno lucidamente analizzato i costi e gli aspetti organizzativi legati a questa operazione. I costi per l’ ambiente e la fruizione eco-turistica sono facilmente immaginabili come bene illustrato da Legambiente e Italia Nostra. Il 29 giugno, dopo un percorso iniziato alla fine del secondo millennio, sarà inaugurata la Casa del Parco di Pianosa, con una mostra del patrimonio archeologico e naturalistico dell’Isola e, grazie agli Amici di Pianosa, con una esposizione dei documenti di quando era colonia agricola. Questa strada deve continuare, senza annunci inquietanti, evitando quei “superficiali” ed inutili interventi, come il muro e la caserme inutilizzate, costati al tempo miliardi e miliardi di lire. Il tempo degli annunci, della superficialità e degli sprechi è finito. Pianosa è parte integrante e non rinunciabile del Parco nazionale, un patrimonio unico di storia e natura che attende di essere adeguatamente salvaguardato dalla Repubblica Italiana, come bene sanno il presidente Enrico Letta e il ministro della Pubblica istruzione, università e ricerca Maria Chiara Carrozza. Lettere: come una spiga di grano nella bocca del vento di Beppe Battaglia www.cittasociale.eu, 14 giugno 2013 Perché siamo contrari alla pena dell’ergastolo? Siamo contrari perché ormai è chiaro: si tratta di una vendetta sociale nei confronti di una persona. Una vendetta primitiva che reca con sé alcuni requisiti preliminari senza i quali manifesterebbe tutta la sua sete desertica di cimitero. Perché siamo contrari alla pena dell’ergastolo. Tra questi, la mostrificazione della persona destinataria dell’ergastolo. Il “mostro”, si sa, di per sé non appartiene più al genere umano, io e lui non abbiamo più nulla in comune, egli è radicalmente diverso da tutte le altre persone umane, sebbene mantenga gli occhi allo stesso posto degli altri esseri umani, così le braccia, la testa, le gambe… Di questa narrazione s’incaricano gli organi inquirenti (polizia, magistratura, tribunali) e quelli mediatici. Si tratta di produrre un’opinione pubblica secondo la quale il “mostro” è una sottospecie vivente sulla quale è lecito ed anzi opportuno esercitare il diritto di proprietà totale, senza che ciò possa ferire il comune senso di umanità. Il “mostro” infatti, attraverso questa narrazione, è totalmente spogliato di ogni frammento di umanità. È un’altra cosa. Dunque, la sua esclusione in eterno dal consorzio umano si giustifica. Un esorcismo, insomma, teso a far cambiare la natura delle cose e anche delle persone. Una recisione così profonda e così apodittica da suggerire l’assoluto della “spada di Dio”. Massimo Pavarini c’insegna infatti che l’ergastolo è stato introdotto nel diritto penale ripescandolo dal diritto canonico, dove peraltro rappresentava una forma attenuata tra le pene. Una sorta di “sospensione eterna” della punizione. Siamo contrari all’ergastolo perché, secondo noi, si tratta di una pena che non rientra nello spirito e nella lettera della nostra Carta Costituzionale. La Corte Costituzionale si è pronunciata più volte, ma in modo contraddittorio, il che suggerisce una sorta di arrampicamento sugli specchi. Noi riteniamo invece che si tratta semplicemente di buonsenso, prima ancora che di diritto costituzionale. Abolire la pena di morte e mantenere l’ergastolo è stato ed è un anacronismo ed un’intollerabile ipocrisia. Come dire: non ti ammazzo ma ti costringo a morire ogni giorno, ogni ora, ogni minuto della tua esistenza ancora una volta. Ossia, non ti ammazzo una volta, bensì mille volte! E non si dica che tanto l’ergastolo non se lo fa nessuno. Questa è una leggenda bugiarda come tante altre. Gli ergastolani muoiono in galera di vecchiaia e solo una sparuta minoranza riesce ad accedere, dopo vari decenni, alla grazia o alla liberazione condizionale, giusto in tempo - quasi sempre - per morire fuori dal muro di cinta! Siamo contrari all’ergastolo perché - secondo noi - si tratta di tortura! Togliere, infatti, la prospettiva ad una persona equivale a togliergli una delle tre dimensioni che caratterizzano tutti i corpi solidi. E il corpo umano, anche se mostrificato, anche se privato di tutti i diritti, resta pur sempre e dispettosamente un corpo! Togliergli la prospettiva significa togliergli la profondità, la speranza, la proiezione cui destinare la propria sofferenza, il nesso teleologico che sempre accompagna l’umana sofferenza; significa ridurre un corpo all’immagine bidimensionale di sé, un tratto rinsecchito impressionato su una parete! Ai fautori della “certezza della pena” che dovrebbe tradursi in numeri, in una data, noi chiediamo qual è la certezza del “fine pena: mai”. La risposta la diamo noi: la pena di morte che si vergogna di se stessa alla pari dei suoi fautori! “Liberi dall’ergastolo” è un logo nato spontaneamente (e adottato già da alcuni locali a Roma e Milano) ad opera di un gruppo di cittadini provenienti da diversi luoghi e realtà italiane, che ogni anno, recandosi in visita all’ergastolo di S. Stefano (Ventotene), con annesso il cimitero degli ergastolani, intende manifestare la propria dissociazione ogni volta che un giudice commina un ergastolo “a nome del popolo italiano”. Il logo vuole replicare: “non a nostro nome”! L’appuntamento a S. Stefano di quest’anno è per il 22 del corrente mese di giugno. Un grande impatto simbolico che presentifica la memoria e inchioda la sete desertica di patibolo a uno scoglio del Tirreno. E un logo che va cercando adozione come una spiga di grano nella bocca del vento. Milano: detenuti al lavoro per l’Expo, dubbi dei Sindacati e poca chiarezza sui compensi di Rita Querzé Corriere della Sera, 14 giugno 2013 Carcerati al lavoro per Expo. L’annuncio del ministro Anna Maria Cancellieri insieme con Expo spa doveva avvenire l’altro ieri. Appuntamento rimandato. Ma la sostanza resta: per la grande esposizione del 2015 si vorrebbero far lavorare oltre 2.000 detenuti. Il tutto nell’ambito del piano del ministero della Giustizia per ridurre di 4.000 unità gli ospiti delle carceri. Più nel dettaglio, il “Progetto Prossima” prevede l’impiego di squadre da 345 detenuti, una per ciascuno dei sei mesi di durata di Expo. Si tratterà di “soggetti non socialmente pericolosi”. Ci sarà una remunerazione? Il punto non è ancora chiaro. “Il compenso è fondamentale - taglia corto Michelina Capato, presidente della cooperativa sociale Estia che lavora al carcere di Bollate. È chiaro che un detenuto non direbbe mai di no a un’esperienza che offrisse la possibilità di uscire dal carcere. Ma questa gente per ricominciare ha bisogno di un lavoro remunerato”. La bozza del decreto carceri (il testo definitivo dovrebbe essere pronto sabato) parla della possibilità di sospendere l’esecuzione della pena, purché non superi i quattro anni, nei casi di detenzione domiciliare. Viene ampliata la possibilità di estendere l’assegnazione di detenuti ad attività in favore della collettività, prevedendo che specifiche categorie di carcerati non pericolosi possano essere assegnati a titolo volontario all’esecuzione di progetti di pubblica utilità. Si allarga inoltre l’ipotesi di lavoro di pubblica utilità prevista per detenuti tossicodipendenti, fatta eccezione per i condannati per i reati più gravi. In attesa dell’annuncio ufficiale con il ministro di Grazia e Giustizia, Expo spa non entra nei dettagli del progetto. Il sindacato e il mondo del non profit, invece, non nascondono dubbi e perplessità. “Primo, la cosa andrebbe discussa anche con noi - dice Renato Zambelli, sella segreteria Cisl di Milano. Secondo, non vorremmo che con la scusa di un intervento di solidarietà si cercasse di risparmiare”. “La nostra più che ventennale esperienza di reinserimento sociale fa ritenere largamente carente un progetto che facesse vivere Expo solo come una forma alternativa alla detenzione - si inserisce Antonio Lareno, al tavolo per la Cgil. Al contrario, la manifestazione dovrebbe fornire l’occasione per impiegare le abilità professionali e di lavoro frutto di tante attività formative interne al carcere”. Sergio Silvotti, portavoce del Forum del Terzo settore va dritto al cuore del problema: “L’obiettivo del recupero di chi vive l’esperienza del carcere deve venire prima dell’esigenza di far quadrare i conti”. Più positiva la Uil: “Se c’è la possibilità di far lavorare qualche carcerato va bene - approva il segretario generale milanese Walter Galbusera. Ma ci piacerebbe che tutto fosse inserito in un quadro più chiaro”. A oggi si sta discutendo più in generale sul ruolo dei volontari nel funzionamento della manifestazione. Si parla dell’impiego di 15 mila persone per l’assistenza ai visitatori nel corso dei sei mesi. Expo spa sarebbe per il coinvolgimento anche di volontari in pensione che in passato hanno fatto parte di forze dell’ordine o protezione civile. L’idea non piace al sindacato. Per quanto riguarda i posti “veri” alle dipendenze dirette di Expo spa, si parla di un migliaio di assunzioni e di 200 stagisti retribuiti. Con l’indotto si dovrebbero raggiungere i dodici mila posti di lavoro. Un numero ridimensionato rispetto alle previsioni del dossier di candidatura. Santa Maria Capua Vetere (Ce): lo spreco del carcere militare, 56 detenuti e 280 agenti di Andrea Pasqualetto Sette-Corriere della Sera, 14 giugno 2013 Sala pittura, campo di calcio, corsi di pet therapy, cinema e teatro. Oggi, però, molte celle sono vuote: per soli 56 detenuti ci sono 280 guardie Nessuno è mai evaso dal carcere militare di Santa Maria Capua Vetere. Chiaro: ci sono 280 “guardie” per 56 detenuti, condizione non proprio ideale per chi volesse annodare qualche lenzuolo. E che detenuti: 22 carabinieri, 18 poliziotti, 3 finanzieri, 4 soldati di esercito e aeronautica e pure 9 agenti di polizia penitenziaria, cioè personale che fino a qualche tempo fa vigilava sui reclusi e che ora è vigilato e recluso, chi per omicidio, chi per mafia, chi per droga. Ma perché mai dovrebbero evadere da un carcere del genere, questi “prigionieri” che pranzano alla stessa mensa dei “controllori” e talvolta con loro: il menu è “à la carte”, da scegliere fra quattro primi e quattro secondi, diversi per ogni giorno della settimana. “Sono tutti in sovrappeso”, scherza ma fino a un certo punto il colonnello Raffaele D’Ambrosio, comandante dell’Organizzazione penitenziaria militare italiana e dunque anche di Santa Maria Capua Vetere, ultima struttura detentiva per uomini in divisa rimasta in Italia Un carcere dove esiste un campo da calcio regolamentare dotato di tribuna e uno da calcetto sui quali giocano agenti e detenuti, anche nella stessa squadra che ha pure partecipato a un campionato di terza categoria: “Da dimenticare”. Dove c’è un’area verde piantumata a pini marittimi, attrezzata con gazebo, giochi per bambini, dondoli, scivoli, aperta ai familiari di chi è finito dentro. Dove la sala colloqui è una specie di bar e ogni cella è dignitosa, con tv a cristalli liquidi e naturalmente bagno, tavolo e armadietto. Ma, soprattutto, dove un tipo come l’ex brigadiere dei carabinieri Pietro Mango, marcantonio baffuto di 53 anni condannato per aver rapinato e ucciso due anziani coniugi, scatta sull’attenti nella sua cella solitaria quando bussiamo alla porta, aperta: “Colonnè, sempre a disposizione!”. Mango è qui da nove anni: “La libertà mi manca, eccome, ma dovendo scontare una pena questo posto è quasi ideale”. Lui si diletta con l’orto e con corsi vari. “Quando uscirò vorrei fare qualcosa nell’edilizia, anche il muratore”. Il problema sarà uscire: ergastolo. “Grazie, Mango”, saluta D’Ambrosio. “Agli ordini, comandà!”. Un carcere dove l’ex ispettore di polizia Pasquale De Santis, finito dentro per droga e con tre anni ancora da scontare, è riuscito a laurearsi in corso con no in Conservazione dei beni culturali: “Grande soddisfazione, ho studiato su quel tavolino”. Non si vede, il tavolino coperto di libri. C’è la foto di papa Giovanni e, qualche metro più in là, la branda di un suo collega tristemente famoso: Luigi Spaccarotella, 9 anni e 4 mesi per l’omicidio del tifoso laziale Gabriele Sandri. Spaccarotella è presente. Osserva circospetto, tace e, frettoloso, esce. Qui frequenta la seconda classe dell’Istituto alberghiero e il corso di pet therapy con due pastori tedeschi. “Serve a convogliare l’aggressività in atteggiamenti positivi”, spiega il comandante. De Santis ha un sogno: “Fare il corniciaio”. Nessuno di loro potrà infatti rimettere la divisa perché la legge lo vieta in caso di condanne superiori ai 5 anni. Tra mensa e palestra. Seguendo i corsi interni, carabinieri e poliziotti imparano così un nuovo mestiere. Alcuni andranno a fare i cuochi, altri i pizzaioli, un ex agente fa già l’attore, un altro, fuori da poco, ha aperto un ristorante, un altro ancora sogna un agriturismo. Passeggiando per questo raggio incrociamo Domenico Cavasso, l’agente penitenziario responsabile nel 1995 della strage alla Conservatoria di Santa Maria Capua Vetere, dove fece fuoco all’impazzata uccidendo sette persone che a suo dire gli negarono un certificato catastale per incassare l’eredità. Cammina a testa bassa avanti e indietro e saluta veloce: “Buongiorno buongiorno”. Non dice altro, riabbassa lo sguardo e riprende a bofonchiare come un automa, la testa incassata nelle spalle. Un vecchietto di cinquanta anni. Cavasso ha scontato la sua condanna (in parte trascorsa in un ospedale psichiatrico) e sta per uscire. “Per lui non è stato facile trovare il giusto percorso di reinserimento”. Più avanti, il raggio si apre a una sala dove una decina di ex agenti ed ex uomini dell’Arma giocano a carte. Cinema, teatro, palestra e la sala pittura completano il quadretto di questa anomala isola di prigionia che vanta un dato politico esclusivo: l’antiproibizionista Marco Pannella, che quando vede un muro di cinta lo butterebbe giù, non ha mai avuto nulla da ridire. Nessun lusso, sia chiaro, si tratta di una vecchia struttura riadattata con molto ordine e senso pratico. Da queste celle sono passati uomini che hanno riempito pagine di cronaca nera e giudiziaria: i fratelli Savi della Uno Bianca, l’ex agente del Sisde Bruno Contrada che ancora telefona e scrive al carcere, l’ex Ss dell’eccidio delle Fosse Ardeatine Erich Priebke e il suo “collega” Michael Seifert, il caporale nazista passato alle cronache giudiziarie come il “boia” di Bolzano per le atrocità commesse in un campo di transito altoatesino. “Ecco, lì c’era lui”. La stanza è vuota: un letto, una tivù, un armadietto, un bagno. A Santa Maria Capua Vetere ci sono molti spazi inanimati, pieni solo di celle vuote, porte aperte e corridoi deserti. È il caso del braccio femminile, dove l’ultima detenuta se n’è andata due anni fa, mentre sono ben 34 i militari donne che avrebbero il compito di gestire le recluse. E succede anche in quello maschile riservato ai militari condannati dalla giustizia ordinaria, dove l’unico rumore è l’eco dei nostri passi. Anche qui tutto è perfettamente funzionante e pulito. La sola cosa che non va è il vuoto umano: zero detenuti. Eppure il penitenziario ne potrebbe ospitare 129, ben oltre il doppio dei presenti. D’Ambrosio, che comanda i 280 militari chiamati a vigilare (180 sono in ferma temporanea di un anno), non ci sta: “La situazione è paradossale: esiste un decreto legislativo del 2010 che impone il trasferimento in questo carcere dei militari condannati di esercito, marina e aeronautica. Basterebbe che lo applicassero e torneremmo a pieno regime”. Un caso su tutti: Salvatore Parolisi, l’ex caporalmaggiore in cella per l’omicidio di sua moglie Melania Rea: “Dovrebbe essere qui e invece lo tengono a Teramo”. Uno spreco, dunque. Soprattutto se si considera che fuori di queste mura ci sono file di disoccupati, gente senza casa, negozi che chiudono, montagne di spazzatura (dentro si fa la differenziata) e, per rimanere al mondo detentivo, la piaga del sovraffollamento denunciata anche dall’Europa. Anche al Gran Caffè di Santa Maria Capua Vetere si parla della buona mensa e dei posti vuoti del vicino penitenziario. Un signore di mezza età, forse senza lavoro, sorride: “Domani vado anch’io dal comandante, magari ha una cella anche per me”. Bari: un nuovo carcere per cercare di risolvere i casi di sovraffollamento di Manlio Triggiani Gazzetta del Mezzogiorno, 14 giugno 2013 Sarà realizzato presto un nuovo carcere a Bari, un carcere modello da seicento posti, che affiancherà quello attuale di via De Gasperi per far fronte al sovraffollamento. È quanto emerso, fra le altre cose, al termine dell’incontro di ieri pomeriggio a Roma, in via del Gonfalone, dove ha sede il Museo criminologico, fra il ministro Anna Maria Cancellieri, i direttori generali del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) e quelli locali che rappresentano le articolazioni regionali. A garantire la realizzazione al provveditore del Dap Puglia, Giuseppe Martone, è stato in persona il prefetto Angelo Sinesio commissario straordinario per il Piano carceri. Costerà 45 milioni di euro, già disponibili nel “tesoretto “ destinato all’edilizia carceraria, quindi al di fuori dei fondi destinati al Piano carceri. Dovrebbe essere costruito nei pressi di Carbonara, quartiere periferico di Bari. La nuova struttura sarebbe un “carcere trattamentale” dove verrebbero destinati detenuti con condanne non superiori ai tre anni e con programmi orientati marcatamente al recupero dei detenuti. L’intenzione è di replicare nel Mezzogiorno, per la prima volta, l’esperienza pilota - e positiva - del carcere di Bollate, nei pressi di Milano. I fondi ci sono, c’è la volontà da parte del ministero, resta la volontà politica che, pare, stavolta non verrebbe meno. Infatti, della realizzazione di questa struttura se ne parla da tempo, già due anni fa si stava per definire il progetto: c’erano i soldi, c’era la volontà del ministero della Giustizia che però aveva vincolato il via libera all’assenso degli enti locali. In una riunione che si tenne nel carcere di Bari, il sindaco, Michele Emiliano, diede il proprio assenso ma il presidente della Giunta regionale, Nichi Vendola, si oppose in quanto, disse, non voleva passare nella storia della regione come colui che aveva contribuito a creare carceri in Puglia. Così, il problema sovraffollamento non fu risolto, la realizzazione di un carcere umano e moderno svanì nel nulla e dell’aumento di posti di lavoro per l’ampliamento del numero di agenti di Polizia penitenziaria non se ne parlò più. Ora, il ministero della Giustizia sottolinea la necessità di realizzarlo e avrebbe assicurato che non ci saranno intralci da parte di politici. Pavia: ricoverato un detenuto malato di tubercolosi, paura per contagio in carcere La Provincia Pavese, 14 giugno 2013 Un caso di tubercolosi in carcere a Torre del Gallo: un detenuto è stato ricoverato al policlinico San Matteo nel reparto di malattie infettive quattro giorni fa, e nella struttura di via Vigentina si è diffuso il timore del contagio tra detenuti e agenti di polizia penitenziaria. La tubercolosi attacca solitamente i polmoni, ma può colpire anche altre parti del corpo. Si trasmette per via aerea attraverso goccioline di saliva emesse con la tosse. Il battere della Tbc è dappertutto, ma la sua manifestazione era quasi scomparsa in Italia con il diffondersi del benessere e di una buona alimentazione e stile di vita. Il sindacato di polizia della Cgil ha scritto al direttore della struttura per chiedere rassicurazioni sull’adozione di “tutte le dovute precauzioni necessarie in quanto tale malattia non si diffonda all’interno dell’istituto”. Il sindacato chiede “che tutti gli operatori penitenziari che hanno in qualsiasi circostanza avuto contatti con il detenuto in questione siano sottoposti ai test medici di controllo previsti in queste situazioni”. Jolanda Vitale, direttore del carcere di Pavia: “Ci sono procedure per tutelare la salute di dipendenti e detenuti, è partita la macchina dei controlli sulle persone che possono essere state in contatto col detenuto. Ma il rischio di contagio è basso”. I sanitari del carcere stanno somministrando il test di Mantoux per la diagnosi precoce e per procedere, nel caso, alla cura. Verona: privacy; siglata da Assostampa la “Carta di Milano” sulle garanzie ai detenuti L’Arena di Verona, 14 giugno 2013 Privacy e giornalismo, diritto di cronaca e bisogno di informazione. Ma soprattutto obbligo di verità e anche diritto all´oblio. Perchè se qualcuno ha commesso un errore e ha pagato con la detenzione e poi s´è ricostruito una vita è giusto non continuare a rivangare ogni volta il suo passato. E ancora: diritti dei detenuti, tutela della dignità delle persone, disciplina degli archivi giornalistici. Sono stati questi i temi di un seminario che si è tenuto ieri mattina in sala Boggian, organizzato dal consiglio comunale di Verona in collaborazione con Assostampa Verona e l´Ordine degli avvocati. Infatti la partecipazione al corso dava diritto a crediti formativi. “Con questo seminario il consiglio comunale vuole offrire un contributo al dibattito che ruota attorno alla tematica del bilanciamento tra diritto dell´informazione e tutela della dignità delle persone”, ha detto il presidente Luca Zanotto. Al ta! volo dei relatori Giulia Pasetti del dipartimento comunicazione e rete telematiche del garante la privacy, la giornalista del nostro quotidiano Alessandra Vaccari, la presidente del consiglio territoriale disciplina dei giornalisti Fiorenza Coppari, la garante per i detenuti Margherita Forestan gli avvocati Luca Tirapelle e Luca Giacopuzzi esperto di privacy e diritto delle nuove tecnologie. A coordinare gli interventi il vicesegretario del comune di Verona Giuseppe Baratta. “Per garantire il rispetto dell'identità personale negli archivi on line per gli editori sarebbe paradossalmente più agevole rimuovere anziché aggiornare una vecchia pagina”. ha detto avvocato veronese Giacopuzzi, specializzato anche nell’information technology e sugli aspetti relativi alla tutela della privacy, illustrando una recente sentenza della Cassazione, Giacopuzzi ha spiegato come il diritto di cronaca non debba prescindere dal diritto all´oblio. “I giudici con riferimen! to alla rete internet non pongono una questione di pubblicazione o di ripubblicazione della notizia, quanto piuttosto della permanenza nella rete e, a monte, nell´archivio online dell´editore”, ha sottolineato il legale. Il seminario è stata l´occasione per siglare da parte della presidente di Assostampa Mirella Gobbi la carta di Milano, protocollo deontologico per i giornalisti che trattano notizie di carceri e di persone in esecuzione penale. Ivrea (To): oggi l’incontro “Serve davvero tanto carcere? e a cosa?” di Marco Campagnolo www.localport.it, 14 giugno 2013 Con l’incontro “Serve davvero tanto carcere? e a cosa?”, prosegue questo pomeriggio, venerdì 14, “Cinegiornale d’attualità”, la nuova iniziativa organizzata dalla cooperativa Rosse Torri, con il patrocinio e il contributo della Città di Ivrea, e la collaborazione di associazioni che seguono i temi proposti alla discussione. “Cinegiornale d’attualità” evoca, tra i più anziani e le persone informate, uno strumento di propaganda (nato agli inizi del Novecento ed estintosi negli anni Settanta) utilizzato in particolar modo dai regimi. Qui l’uso è rovesciato: non più per propaganda tranquillizzante di potere, ma come occasione per informarsi e discutere su seri problemi d’attualità attraverso il cinema e l’incontro con esperti e protagonisti Oggi alle 17.30 proiezione del film “I giorni scontati. Appunti per un film in carcere” di Germano Maccioni, con protagonisti detenuti e operatori della Casa Circondariale di Lodi (Italia, 2012. Durata: 54 minuti). L’autore, Germano Maccioni, ricorda “I giorni scontati. Appunti per un film in carcere” è stato girato interamente presso la Casa Circondariale di Lodi: un luogo dove - a detta di tutti, ma soprattutto di chi lo vive - “le cose funzionano”. Alcuni lo chiamano collegio, altri albergo a 5 stelle, ma non è nulla di più di quello che un istituto penitenziario dovrebbe essere: un carcere “modello”, la cui efficienza viene però messa in costante discussione. Diamo per scontata l’esistenza delle prigioni, ma non vogliamo affrontare le realtà che producono e le condizioni di coloro che le vivono. Siccome sarebbe troppo penoso accettare l’eventualità che capitasse a noi stessi, tendiamo a considerare il carcere come qualcosa di avulso dalla nostra vita, una sorte riservata ad altri, un luogo ideologico per generici individui indesiderabili. Il che ci solleva dalla responsabilità di riflettere sulle problematiche concrete che affliggono i funzionamenti di tali strutture. Riflettere su questa presenza-assenza significa iniziare a riconoscerne i paradossi”. Intervengono, nel dibattito successivo alla visione del film, Giovanni Torrente (dell’associazione Antigone) e Armando Michelizza (Garante per i diritti dei detenuti della Città di Ivrea).L’incontro sarà occasione anche per la presentazione di le tre leggi di iniziativa popolare (sulle quali la raccolta di firme è già partita) promosse, fra gli altri, da Antigone, Arci, Libertà e Giustizia, Gruppo Abele, Cgil, Ass. Giuristi democratici, il coordinamento nazionale dei garanti (www.3leggi.it). Le tre proposte mirano a introdurre il reato di tortura nel codice penale; depenalizzare il consumo di droghe, diversificare fra leggere e pesanti, sostenere il ruolo dei servizi per le tossicodipendenze, assicurare .a legalità e il rispetto della Costituzione nelle carceri, la riduzione del sovraffollamento. A Ivrea si firma presso l’Uurp (anagrafe) del Comune (via Piave) tutte le mattine. Eboli (Sa): carcere trasformato in un teatro en plein air… e in un mercato medioevale La Città di Salerno, 14 giugno 2013 La casa di reclusione trasformata in un teatro en plein air e in un mercato medioevale. Accade nell’Istituto a custodia attenuata per il trattamento dei tossicodipendenti di Eboli, dove domani andrà in scena l’evento storico rievocativo “Ana de Mendoza, principessa di Eboli”. Protagonisti saranno tutti i 50 ospiti dell’Icatt, chi come attore, nell’ambito del progetto “Liberi dentro” durato un anno intero, chi come “venditore” dei prodotti di pelletteria “made in Icatt”, chi come cuoco e chi, addirittura, come coautore della sceneggiatura, liberamente ispirata dal libro di Giuseppe Barra e Antonella Cestaro. È il caso di Massimo Balsamo che, smessi i panni dell’illegalità, ora si occupa della biblioteca dell’istituto e partecipa a concorsi di poesie. E, adesso, si è cimentato anche nella scrittura della rievocazione, adattata al teatro, sotto la supervisione e, soprattutto, con i consigli di Gaetano Stella, che è anche il regista della rappresentazione, che è stata presentata ieri mattina presso la Sala del Consiglio di Palazzo Sant’Agostino. A parlare dell’evento sono stati, oltre a Stella, il direttore dell’Icatt, Rita Romano, il consigliere provinciale Massimo Cariello e l’attrice Elena Parmense, della compagnia Animazione 90. Le porte dell’Icatt si apriranno agli spettatori alle 19, quando partirà il mercato Medioevale, durante il quale saranno in bella mostra, oltre che i prodotti locali, pure le creazioni dei detenuti che, in abiti d’epoca, proporranno l’acquisto dei lavori realizzati con il laboratorio di pelletteria, con un marchio già registrato in attesa della costituzione di una cooperativa. E l’ambiente, non solo visivamente, farà fare un salto a ritroso nel tempo, perché sarà possibile ascoltare anche il suono soave di un vecchio liuto del 500, oltre che apprezzare le evoluzioni degli sbandieratori e dei trombonieri di Cava dè Tirreni. A seguire ci sarà la rievocazione che vedrà coinvolti anche due ballerini del Professional Ballet di Pina Testa e i giovani allievi dell’Accademia dello Spettacolo di Baronissi. “Questo progetto - ha evidenziato Romano - rappresenta un punto di partenza, sia per gli aspetti artistici che per il suo significato sociale. Noi abbiamo il compito di restituire alla società uomini liberi, anche perché ogni detenuto costa alla Stato 350 euro al giorno e, perciò, è dovere di noi operatori rieducare gli ospiti”. Che l’Icatt, attraverso i sui programmi “rieducativi”, che hanno portato anche alla nascita della compagnia teatrale “Le canne pensanti”, rappresenti un’eccellenza, è stato sottolineato anche da Cariello, che ha voluto pure precisare come la “Provincia abbia svolto un ruolo di mediazione con la Regione per l’assegnazione dei fondi”. Roma: detenuti-artisti espongono a Rebibbia, inaugurata “Tanti buoni, pochi cattivi” Ansa, 14 giugno 2013 Una sessantina di opere visive in mostra a Rebibbia. Gli autori sono otto detenuti della terza casa del carcere, tutti giovani tra i 25 e 35 anni. “Dentro la galleria 2. Tanti buoni pochi cattivi”, questo il titolo della mostra, è il risultato di un anno di lavoro di un laboratorio che si è tenuto a Rebibbia grazie al contributo dell’associazione Made in Jail in collaborazione con l’associazione radicale “Nessuno Tocchi Caino”. Il tema centrale dell’esposizione, inaugurata oggi e che gli organizzatori vorrebbero riuscire a portare anche fuori dal carcere, è quello del ragno e della ragnatela. “Tra gli uomini succede come nei ragni - spiega Silvio Palermo, presidente dell’associazione Made in Jail - il 95% delle specie non sono velenose lo è solo il 5%”. “L’obiettivo del lavoro svolto nel laboratorio - aggiunge - è coinvolgere i detenuti incoraggiandoli alla formazione e motivandoli al lavoro facendo emergere anche e loro qualità artistiche”. “Un processo - ha aggiunto - indirizzato alla riconquista della dignità sociale e culturale attraverso il lavoro visto come strumento per migliorare la qualità della vita e per il reinserimento nella società”. “Dobbiamo partire dall’idea che si può sbagliare ma che si deve dare la possibilità reale di cambiamento “, afferma la direttrice della terza casa di Rebibbia, Annunziata Passannante”. Non dobbiamo dimenticare - aggiunge - che la Comunità ha il diritto di sapere come viene espiata la pena. Non possiamo restituire alla società una persona peggiore di quello che era quando è entrata in carcere”.