Giustizia: habeas corpus di Luigi Manconi Il Foglio, 11 giugno 2013 Se le condizioni di detenzione sono illegittime l’esecuzione della pena può e deve essere sospesa 1. Informazione di servizio. La terza sezione penale della Corte i d’assise di Roma non ha affatto affermato che, in relazione alla morte di Stefano Cucchi, “nessun pestaggio c’è mai stato”. Dire questo equivale a una sesquipedale sciocchezza. Quella corte si è limitata a dichiarare che le prove portate dalla procura a carico dei poliziotti penitenziari rinviati a giudizio non sono da ritenersi sufficienti. 2. Cogliamo l’occasione per parlare ancora di carcere. Il 27 maggio scorso la Grande Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo ha confermato la sentenza pilota che obbliga l’Italia ad adottare rimedi strutturali per il sovraffollamento penitenziario. È cominciato così il conto alla rovescia che deve portare al ripristino della legalità penitenziaria entro un anno dalla decisione. Non mancano le proposte per uscire da questa impasse, da quelle orientate alla riduzione degli ingressi in carcere a quelle finalizzate alla riduzione della detenzione dei condannati e al potenziamento delle alternative. Fino all’adozione di misure straordinarie di clemenza, quali l’amnistia e l’indulto: provvedimenti sacrosanti, previsti dalla nostra Costituzione, e che hanno dato ottima prova di sé, ancorché con effetti temporanei (questo vale anche per l’indulto del 2006, bistrattato fino alla diffamazione da quanti continuano a ignorarne i reali effetti positivi). Solo una straordinaria accidia morale e una diffusa pavidità politica impediscono di prenderli ora in considerazione, come propongono i Radicali, quale misura d’eccezione per uno stato d’eccezione: scelta indispensabile per introdurre quell’elemento di “normalità”, che potrebbe consentire le riforme strutturali che tutti a parole dicono di preferire. In ogni caso, e qualunque sia la soluzione adottata, risulta essenziale preliminarmente un orientamento chiaro in materia di carcere, pena e marginalità sociale. Un orientamento alternativo a quello che abbiamo visto all’opera in questi anni. Il sovraffollamento non è infatti il prodotto di una fatalità, ma il risultato di decenni di politiche penali e, addirittura, di un modello di difesa e controllo sociale, come spiega efficacemente Stefano Anastasia nel suo “Metamorfosi penitenziarie. Carcere, pena e mutamento sociale” (Ediesse, 156 pp., 12 euro). Non diversamente dagli Stati Uniti e da molti paesi occidentali, anche l’Italia ha subito, negli ultimi vent’anni, la fascinazione di politiche della sicurezza fondate sulla rimozione e l’esclusione del disagio sociale e della devianza. Ai vecchi progetti di sostegno, recupero e reinserimento ispirati al modello del welfare state, sono subentrate pratiche di esclusione e di espulsione della marginalità sociale. Non è un caso che, a partire dai primi anni Novanta, la stessa giurisprudenza costituzionale italiana sia andata concentrando la propria attenzione sul divieto dei trattamenti contrari al senso di umanità piuttosto che sulla funzione rieducativa della pena: via via che il contesto politico-sociale veniva cambiando, inevitabilmente - sostiene Anastasia - la Consulta ha dovuto concentrare la propria attenzione sulla protezione della “nuda vita” delle persone private della libertà. Del resto, un simile mutamento di prospettiva non è solo (né principalmente) italiano. Abbiamo detto della Corte europea dei diritti dell’uomo, ma analoga attenzione alla materialità e alla tollerabilità delle condizioni di detenzione è venuta recentemente da storiche sentenze della Corte suprema degli Stati Uniti e della Corte costituzionale tedesca che hanno posto più o meno esplicitamente all’ordine del giorno sia una politica di decarcerizzazione, sia la necessità di una clausola di salvaguardia, a protezione dell’habeas corpus dei detenuti. Una clausola che impedisca la privazione della libertà in condizioni di violazione dei diritti fondamentali della persona. Lo diceva qualche giorno fa Giovanni Tamburino, capo del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, in occasione dell’assemblea annuale della Conferenza nazionale del volontariato della giustizia: come l’ordinamento ha riconosciuto la legittimità di condizioni di sicurezza tali da mettere in discussione le ordinarie regole del trattamento penitenziario, attraverso l’applicazione dell’articolo 41bis, così deve prendere in considerazione una situazione specularmente opposta. Dunque, quando si verifichino condizioni di detenzione illegittime, perché contrarie a norme costituzionali e internazionali di protezione dei diritti umani, l’esecuzione penale può e deve essere sospesa. In questo senso si sono recentemente pronunciati due tribunali di sorveglianza (Venezia e Milano), sollevando questioni di costituzionalità laddove il codice penale, quella sospensione, non prevede. Insomma, se si vuole intervenire efficacemente e durevolmente sul sovraffollamento penitenziario, non ci si può precludere alcuno strumento, da quelli ordinari (depenalizzazione dei reati minori, potenziamento delle alternative al carcere...) a quelli straordinari, già ricordati. Ma tutti questi strumenti vanno sostenuti da un’opzione di carattere generale per un modello sociale inclusivo, e garantiti da una clausola di salvaguardia che impedisca di scaricare sui detenuti la responsabilità di scelte politiche improvvide o inefficaci. Giustizia: Garante Privacy; maggiore tutela diritti detenuti, internati e immigrati nei Cie Agi, 11 giugno 2013 “La tutela della privacy rappresenta il presupposto per un corretto esercizio del potere, soprattutto nei confronti dei soggetti affidati alla potestà dello Stato: si pensi ai detenuti, agli internati o agli stranieri ristretti nei centri di identificazione ed espulsione”. Lo ha affermato Antonello Soro, Garante della privacy, nella relazione sull’attività del 2012. “Si tratta di soggetti - ha sottolineato - la cui fragilità, per natura o circostanza, li rende davvero ‘nudì di fronte all’autorità” “È evidente - ha continuato Soro - come la difficoltà di tali condizioni e la sproporzione tra la debolezza del singolo e la forza dell’amministrazione possano mettere a rischio più facilmente persino quei diritti fondamentali che non devono essere negati neppure nell’esecuzione della pena. Ma proprio perché rappresentano una prerogativa essenziale della cittadinanza e una garanzia della dignità cui nessuno deve poter rinunciare- neppure in carcere (ancora più se minorile), in una camera di sicurezza o in un ospedale psichiatrico giudiziario - il Garante intende riservare un’attenzione ancora maggiore a questi trattamenti e alla necessità di promuovere, anche e soprattutto in tali contesti, un’effettiva consapevolezza di questi diritti”. Giustizia: Manconi (Pd); accelerare introduzione reato tortura, indispensabile tutela vittime Adnkronos, 11 giugno 2013 Il Parlamento acceleri sull’introduzione del reato di tortura nell’ordinamento italiano. La sollecitazione giunge dal senatore del Pd Luigi Manconi, che oggi è stato ricevuto dalla presidente della Camera Laura Boldrini, insieme ai familiari di alcune delle vittime di casi come quelli di Stefano Cucchi e Giuseppe Uva. “Vogliamo sollecitare - ha spiegato Manconi al termine dell’incontro a Montecitorio - l’attenzione della politica su una questione molto importante come quella di vittime delle vicende giudiziarie che hanno subito maltrattamenti durante il fermo in carcere o in caserma, come quelle di chi è morto dopo essere rimasto legato per 90 ore ad un letto di contenzione”. “Per questo, chiediamo che vengano calendarizzate al più presto le proposte presentate in Parlamento per l’introduzione del reato di tortura, anche per rispettare le raccomandazioni dell’Unione europea sulla tutela delle vittime”, ha aggiunto Manconi, che ha definito “estremamente positiva la risposta della presidente Boldrini, che ha annunciato la propria partecipazione ad un’iniziativa per l’introduzione del reato di tortura”. “Non si può e non si deve ignorare -ha rilevato ancora Manconi - l’infinita solitudine che vivono i familiari delle vittime; bisogna dire di no a quello che viene definito il meccanismo della doppia morte, dove alla morte fisica della vittima si aggiunge la sua stigmatizzazione e colpevolizzazione, come è stato nel caso di Stefano Cucchi”. Manconi ha sottolineato come un percorso parlamentare sia già stato avviato, almeno a Palazzo Madama, “dove è stata calendarizzata la mia proposta, la prima che ho presentato una volta eletto, per l’introduzione del reato di tortura in Italia”. Ilaria Cucchi, sorella di Stefano ha detto che Boldrini “ha mostrato grande sensibilità ai temi che le sono stati sottoposti. La terza carica dello Stato ci ha restituito uno spiraglio di speranza”, ha concluso. Giustizia: Consulta: obbligatoria l’esecuzione delle decisioni del magistrato di sorveglianza di Lucia Nacciarone www.diritto.it, 11 giugno 2013 Con la sentenza n. 135 del 7 giugno 2013 il giudice delle leggi si è pronunciato in merito ad un conflitto di attribuzioni occorso fra la magistratura di sorveglianza e l’amministrazione penitenziaria. Nel caso sottoposto all’attenzione della Corte il magistrato aveva accordato, accogliendo il reclamo opposto da un detenuto ai sensi della procedura contenziosa di cui all’art. 14-ter ord. pen. il permesso di assistere ai programmi televisivi trasmessi dalle emittenti televisive Rai sport e Rai storia. Tuttavia l’amministrazione penitenziaria si era esplicitamente opposta alla riattivazione del segnale televisivo a beneficio del detenuto, sottoposto peraltro al regime di cui all’art. 41-bis ord. pen. sostenendo che l’oscuramento precedentemente disposto aveva la finalità di impedire che attraverso la trasmissione in video di brevi messaggi degli spettatori giungessero al detenuto indebite informazioni. Tale divieto aveva leso, secondo il magistrato di sorveglianza, il diritto soggettivo all’informazione del detenuto medesimo. E la Corte con la sentenza in parola ha stabilito che non spettava al Ministero della Giustizia disporre che non fosse data esecuzione all’ordinanza del magistrato di sorveglianza. Infatti, si legge in sentenza, nel caso di specie non veniva in rilievo una doglianza su aspetti generali o particolari dell’organizzazione penitenziaria, ma la lesione del diritto fondamentale all’informazione, tutelato dall’art. 21 della Costituzione, che il giudice competente ha ritenuto ingiustificatamente compromesso da un provvedimento limitativo dell’amministrazione penitenziaria. “L’estensione e la portata dei diritti dei detenuti”, prosegue la Corte, “può infatti subire restrizioni di vario genere unicamente in vista delle esigenze di sicurezza inerenti alla custodia in carcere. In assenza di tali esigenze, la limitazione acquisterebbe unicamente valore afflittivo supplementare rispetto alla privazione della libertà personale, non compatibile con l’art. 27, terzo comma, Cost.”. Nella fattispecie non ricorrendo ragioni giustificative della restrizione, la menomazione delle attribuzioni di un organo appartenente al potere giudiziario ha avuto il risultato di rendere in effettiva una tutela giurisdizionale esplicitamente prevista dalle leggi vigenti e costituzionalmente necessaria. Giustizia: a Roma-Rebibbia 4 morti in dieci giorni, a Torino convegno su suicidi in carcere Ristretti Orizzonti, 11 giugno 2013 “Come sindacato abbiamo appreso dei 4 morti in soli 10 giorni nel carcere romano di Rebibbia grazie ad una conversazione con gli amici di “Radio Carcere” su Radio Radicale e la cosa ci ha lasciato completamente esterrefatti, tenuto conto che, per quanto ci riguarda, una condizione di tale gravità è stata tenuta abilmente nascosta dagli organi dell’Amministrazione penitenziaria”. È quanto racconta Leo Beneduci segretario generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) che aggiunge: “a Rebibbia, per cause definite “naturali”, quali l’infarto, a partire dal 28 maggio e fino al 7 giugno sono morti 3 detenuti, rispettivamente di 45, di 31 e di 68 anni e un’infermiera di 62 anni - prosegue il leader dell’Osapp - e se responsabilità reali non se ne possono attribuire ad alcuno permane il sospetto che, in termini di prevenzione e di organizzazione, ci sia qualcosa che non funziona più a dovere nella struttura penitenziaria un tempo ‘fiore all’occhiellò dell’Amministrazione penitenziaria in ambito nazionale”. “Peraltro, per colpa di un’Amministrazione centrale del tutto assente, per Rebibbia con 1.800 detenuti in 1.218 posti-letto e almeno 100 agenti in meno del previsto e per Regina-Coeli con 1.050 detenuti in 725 posti e almeno 140 agenti in meno - prosegue il leader dell’Osapp - da nove mesi, con decine e decine di Dirigenti “a spasso” sul territorio nazionale, c’è un Direttore unico per entrambe le strutture, con condizioni di assoluta precarietà anche per quanto riguarda dei diritti minimi lavorativi degli addetti del Corpo, le relazioni sindacali e la piena trasparenza nella gestione dei vari posti di servizio”, “Per questi motivi, che riteniamo di ingiustificata gravità, per i quali abbiamo lungamente e del tutto vanamente richiesto al Provveditore Regionale e da ultimo al Capo del Dap Tamburino l’adozione di urgenti correttivi - conclude Beneduci - non ci resta che l’adozione nei prossimi giorni di adeguate e tangibili iniziative di protesta da organizzare in prossimità di entrambi gli istituti penitenziari e presso la sede del Dipartimento centrale” Suicidi e tentati suicidi: 7mila vittime in dodici anni, un convegno a Torino Nel 2012 i detenuti hanno raggiunto i 7.317 atti di autolesionismo e 1.308 tentativi di suicidio. In un convegno a Torino si parla delle possibili soluzioni. Nelle carceri italiane si registra un tasso di suicidi 20 volte maggiore rispetto a quello della popolazione libera. Negli ultimi dodici anni si sono avuti complessivamente 692 suicidi, più di un terzo di tutti i decessi avvenuti in carcere. Ancora più rilevante è il numero di tentativi di suicidio e atti di autolesionismo. Nel 2012 i detenuti hanno raggiunto i 7.317 atti di autolesionismo e 1.308 tentativi di suicidio. Le morti sono state complessivamente 154, di cui 60 per suicidio, con una più elevata frequenza tra le persone più giovani. Una fotografia allarmante, contro la quale è necessario intervenire. Un progetto esiste, e verrà presentato mercoledì 12 giugno nel corso del convegno “Condotte suicidarie in ambito penitenziario in ambito penitenziario”, promosso nell’Aula Magna del Campus Luigi Einaudi, in Lungo Dora Siena 100, dall’assessorato alla Salute della Regione Piemonte, in collaborazione con l’Università degli Studi di Torino (Dipartimento di Giurisprudenza e Dipartimento di Neuroscienze), con il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria, il Centro Giustizia Minorile del Piemonte, Antigone e Unione delle Camere Penali. Giustizia: detenzione domiciliare? quando è meglio il carcere… che la vita domestica di Dario Colombo www.lettera43.it, 11 giugno 2013 Litigi con la moglie. E contrasti coi parenti. Ai domiciliari c’è chi preferisce il carcere. Alla faccia del sovraffollamento. C’è chi non vede l’ora di uscire. Ma pure chi, alle mura di casa, preferisce un’angusta cella di uno dei tanti carceri sovraffollati. Nell’Italia che si batte per ridurre il numero dei detenuti - gli ultimi dati forniti dal ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri indicano che ci sono circa 20 mila carcerati in più rispetto alla capienza (a maggio erano 65.891) - fuori dai cancelli delle prigioni c’è una schiera di persone costrette agli arresti domiciliari che preme per entrare - o rientrare - in cella. E non vede di buon occhio il decreto legge di Cancellieri che vuole limitare gli ingressi e favorire le uscite dalle carceri (si prevede che il provvedimento sia portato in Consiglio dei ministri entro fine giugno), rendendo obbligatorio il ricorso alle misure alternative, tra cui la detenzione domiciliare. Non tutti, infatti, sembrano apprezzare i progetti del ministro. Visto che tra un litigio con la moglie, la madre, il padre e le tensioni con altri parenti, per molti la casa si è trasformata in un luogo ben peggiore dei tre metri quadrati per detenuto disponibili nelle carceri italiane. Così, piuttosto che continuare a scontare la pena ai domiciliari, c’è chi ha deciso di far ricorso al giudice per tornare in galera, anche se per l’Unione europea il nostro Paese riserva un “trattamento inumano e degradante” ai condannati. L’ultimo caso è arrivato dalla Puglia che, ironia della sorte, è la regione con il più alto sovraffollamento d’Italia (secondo i dati Istat aggiornati al 31 dicembre 2011 l’indice è di 182,2): C. V., stufo di vivere sotto lo stesso tetto con i familiari, si è presentato dai carabinieri di Tricase già pronto per il trasferimento in carcere. Valigia alla mano, il 26enne ha chiesto di essere arrestato dopo la fuga dai domiciliari a cui era stato condannato a gennaio 2012 per la detenzione di sostanze stupefacenti. “La vita”, ha detto C.V. “è diventata insostenibile”. E così il procuratore della Repubblica di Lecce Carmen Ruggiero l’ha accontentato, spedendolo nel carcere di Lecce. Quelli che evadono per scappare dalla moglie La lista di chi preferisce scontare la pena in prigione piuttosto che in casa, però, è lunga. Tra le mura domestiche, infatti, la vita può essere difficile. Ne sa qualcosa N. T.: anche lui ha preferito evadere consegnandosi al commissariato di polizia di Crotone. Il suo problema era la moglie, con la quale i litigi erano diventati così frequenti che il 34enne - arrestato per guida senza patente e per essersi rifiutato di sottoporsi ai controlli sull’uso di stupefacenti - ha pensato di andare in carcere a scontare la pena. Anche G. B. non sopportava più la consorte. “Meglio la galera che mia moglie”, è stato lo sfogo dell’uomo residente ad Arenaccia, un quartiere di Napoli, che come gli altri è uscito di casa per andarsi a rifugiare dalle forze dell’ordine. Nel 2008, invece, un 45enne pregiudicato napoletano condannato agli arresti domiciliari per rapina aveva deciso addirittura di bussare al portone del carcere di Ponte San Leonardo di Isernia. Agli agenti aveva spiegato di non poter più sopportare le invettive della moglie. E, come C.V., anche lui era riuscito a entrare in cella, accogliendo con grida di gioia la decisione del giudice. A un pregiudicato di 51 anni di Afragola, invece, le cose non sono andate come sperava. L’uomo era evaso dai domiciliari perché sfinito dalla compagna. Peccato, però, che il giudice non abbia voluto sentire alcuna ragione e l’abbia condannato a otto mesi di reclusione, con il “ripristino degli arresti domiciliari”. Da scontare in compagnia della donna. In fondo, può aver pensato il giudice, mantenere un detenuto costa all’Italia, escludendo le spese mediche, 116,68 euro al giorno. Che, sommati ai carcerati, significano oltre 2,7 miliardi di euro ogni anno. Un conto piuttosto salato, se si considera che la Francia spende appena 92,16 euro al giorno e la Germania 109,38. Il rapinatore non sopporta la madre Nonostante le carceri siano piene e l’Ue abbia chiesto da settembre 2012 i dati aggiornati per bacchettare nuovamente l’Italia, c’è chi proprio non ne vuole sapere di restarsene a casa. Se sono tanti quelli che non sopportano la moglie, non va meglio per chi deve vedersela con i genitori. A.D., rapinatore recidivo (l’ultimo reato è stato a novembre 2011 quando ha svaligiato prima una pasticceria e poi un pub), ha addirittura chiamato i carabinieri chiedendo loro di andare a prenderlo per essere arrestato. “In quella casa non ci entro più”, ha detto ai militari il 21enne, scappato dall’abitazione durante l’assenza della madre. Secondo quanto riferito da A. D., infatti, il rapporto con la donna era diventato insostenibile. E anche la madre del giovane, in fondo, non ne poteva più di avere in casa quel figlio poco incline alle regole. Tanto che, quando i carabinieri sono arrivati per arrestarlo, la donna non si è affatto dispiaciuta. A La Spezia, invece, un 33enne condannato per rapina s’è arreso dopo le violente e continue liti con il padre. Finché il genitore non ha deciso di chiamare i carabinieri spiegando di non poter più vivere con il figlio e raccontando che il 33enne avrebbe preferito trascorrere gli 11 mesi di pena in carcere. Poi c’è chi litiga sia con la madre sia con il padre. È il caso di un giovane costretto agli arresti domiciliari dopo essere stato accusato di aver tentato di rapinare un minimarket. V. S. ha così deciso di evadere da casa e dopo essere passato dai carabinieri, è riuscito a ottenere un posto in cella. Lontano dagli odiati genitori. A novembre 2010 è andata ancor peggio a due fratelli di 21 e 22 anni, pizzicati a rubare computer e altre attrezzature informatiche per un valore di circa 8 mila euro da un negozio: i due sono stati condannati agli arresti domiciliari, ma piuttosto che tornare a casa dai genitori e chiedere loro scusa per il furto, hanno chiesto di rimanere in carcere. Anche perché, si è scoperto che i due fratelli erano già stati cacciati da casa. Nell’abitazione, però, i contrasti possono nascere anche tra fratelli. Ma pure con le sorelle, i cognati e gli zii. Un giovane a Milano, accusato di spaccio di droga, ha chiesto infatti al giudice di farsi trasferire in cella, al grido di “meglio il carcere che mia sorella”. “Piuttosto che i parenti, meglio la galera”, è stato l’appello di un pregiudicato di 55 anni costretto ai domiciliari a Traversetolo in casa del fratello. “Troppe liti, ci sto male”, ha detto l’uomo consegnandosi ai carabinieri. Un 25enne, invece, era riuscito a ottenere i domiciliari dopo 10 mesi di carcere. E per scontare gli ultimi 10 mesi di condanna era stato accolto nella casa dello zio. Peccato che tra i due le frizioni siano state subito immediate, tanto che il giovane ha raccontato ai militari, a cui si è riconsegnato, di essere continuamente richiamato per l’eccessivo consumo di acqua e luce. Il dramma di chi vive nella miseria ai domiciliari A fare richiesta di tornare in cella, tuttavia, ci sono anche quelli che fuori dal carcere non hanno niente. E alla miseria e alla solitudine preferiscono di gran lunga la prigione. Seppur piena di gente. Un albanese di 36 anni residente a Modica, in provincia di Ragusa, e condannato per aver ferito con un coltello un connazionale, era riuscito a ottenere il beneficio degli arresti domiciliari dopo alcuni mesi di prigione. Fuori dal carcere, però, l’uomo era costretto a vivere in un tugurio e, vista l’impossibilità di uscire, non poteva neppure guadagnare qualche euro con un lavoro. Piuttosto che rimanere in quelle condizioni, il 36enne aveva chiesto la revoca dei domiciliari, arrivando addirittura a preferire l’inasprimento della pena. I suoi appelli, però, erano rimasti inascoltati e per poter almeno vivere in condizioni sanitarie dignitose ha deciso di evadere. E, finalmente, ha potuto far rientro nel carcere da cui era partito. Anche un 65enne di Treviso ha preferito tornare in prigione piuttosto che restare a casa. “Lì mi facevano lavorare, mi sentivo apprezzato e valorizzato”, ha detto l’uomo uscito di cella con un anno e otto mesi da scontare ai domiciliari, ma che ha trascorso gran parte della vita in prigione per spaccio e rapine. “La mia vita aveva più dignità, fuori non ho nulla”. In realtà al 65enne, uscito di cella a giugno, rimane ancora una madre, che però è ricoverata in una struttura per anziani. Per andare a trovarla, l’uomo deve percorrere, secondo quanto ha raccontato il suo avvocato, una ventina di chilometri a piedi. E a casa non ha né acqua né energia elettrica. “La situazione purtroppo è di totale abbandono”, è stata la denuncia del suo legale. Per ora la richiesta al tribunale è stata avanzata e si attende una risposta. Ma non ci sono solo i litigi con i parenti o il dramma della povertà a convincere i condannati agli arresti domiciliari a voler far ritorno in cella. A volte bastano anche motivi ben più futili per chiamare il giudice e chiedere un posto in prigione. In Nuova Zelanda, un 19enne condannato a 11 mesi di reclusione ha deciso di chiamare la locale stazione di polizia perché stufo di rimanere segregato in casa. Il giovane, infatti, ha svelato di aver giocato con tutti i giochi della sua console e quindi, ha chiesto di poter scontare l’ultimo mese di pena in galera. Giusto per distrarsi un po’. Le autorità neozelandesi hanno accettato la particolare richiesta del 19enne e gli hanno trovato un posto a Ngawha Prison, nel Nord del Paese. Chissà se anche da quelle parti c’è un don Raffaè come quello cantato da Fabrizio De André con cui bere un caffè. Perché in fondo, “pure in carcere ‘o sanno fa”. Giustizia: sigaretta elettronica vietata a detenuti “contiene troppa nicotina, rischio suicidi” La Provincia Pavese, 11 giugno 2013 Sigaretta elettronica vietata in carcere. Il parere del magistrato alla richiesta di un detenuto, che voleva usarla in cella: “Può contenere dose letale di nicotina, è un rischio per i suicidi”. Il fumo fa male. Ma la sigaretta elettronica può essere perfino più pericolosa. Almeno in carcere. Perché i flaconi di nicotina utilizzati per la ricarica delle cartucce possono arrivare a contenere una dose da un grammo, che è letale. Insomma, in una cella la “bionda” elettronica potrebbe essere utilizzata per togliersi la vita. E aumentare, dunque, il rischio dei suicidi in carcere. Sembra essere questo il ragionamento seguito dal magistrato Gustavo Cioppa, che ha dato parere negativo alla richiesta presentata da un detenuto del carcere di Pavia. L’uomo, fumatore che soffre di patologie respiratorie, ha chiesto di poter utilizzare in cella la sigaretta elettronica come alternativa al tabacco, che i medici gli hanno del tutto vietato. Il magistrato per esprimere il suo parere (che potrebbe ora indirizzare la decisione finale del magistrato Marco Odorisio, a cui spetta l’ultima parola sul caso), si è avvalso di una circolare dell’Istituto superiore di Sanità, che spiega come esistano due tipologie diverse di sigaretta elettronica, che può “contenere nicotina oppure esserne priva”. Il primo prodotto, cioè quello che contiene nicotina, è stato pensato per imitare il sistema di inalazione della nicotina della sigaretta convenzionale senza avere però gli effetti dannosi provocati dalla combustione del tabacco. “Proprio per questo per questi sistemi sono raccomandate nei luoghi pubblici le stesse restrizioni previste per ridurre il fumo convenzionale di seconda mano”, si legge nella circolare dell’Istituto superiore di sanità. In altre parole, anche la sigaretta elettronica contiene i rischi legati al fumo passivo, che andrebbero quindi scongiurati. Ma in carcere (dove peraltro il fumo di sigaretta è consentito) c’è, secondo il magistrato, un’aggravante ulteriore. Gli istituti penitenziari, infatti, hanno anche l’obbligo della tutela della persona e devono porsi il problema di tutto ciò che potrebbe mettere a rischio l’incolumità del detenuto o essere utilizzato come metodo per portare a termine un suicidio. “In carcere vanno vietati tutti quei comportamenti che possono portare a gesti autolesivi”, è il ragionamento del pubblico ministero Cioppa. Ma in che modo la sigaretta elettronica potrebbe essere utilizzata per togliersi la vita? Al quesito risponde ancora la circolare dell’Istituto superiore di Sanità: “Particolarmente pericolosi risultano i flaconi contenenti nicotina, la cui ingestione può aumentare il rischio di overdose e di morte. I flaconi possono contenere fino a un grammo di nicotina, mentre la dose letale è stimata tra i 30 e il 60 milligrammi. Si dovrebbero pertanto valutare gli effetti sulla salute pubblica derivanti dal facile accesso a dosi letali di nicotina che sono vendute in un prodotto gradevolmente aromatizzato”. A questo punto sulla richiesta del detenuto dovrà decidere il magistrato Odorisio, che già nei prossimi giorni potrebbe sciogliere la riserva. Giustizia: emergenza femminicidio? no… fenomeno strumentalizzato da media e politici Davide Maria De Luca Il Post, 11 giugno 2013 Gli omicidi di donne in Italia non sono in aumento, anzi. I dati falsi e quelli reali su un fenomeno endemico e di lunga durata strumentalizzato da media e politici. In Italia le statistiche e i dati ufficiali mostrano che non esiste un’emergenza “femminicidio”. L’omicidio di donne da parte di partner o conoscenti non è diventata “un’epidemia” e in realtà non è nemmeno in aumento. In Italia si uccidono meno donne rispetto al resto d’Europa e agli altri paesi sviluppati. Negli ultimi mesi politici, giornalisti e statistiche e ricerche quanto meno opinabili hanno contribuito a creare una percezione del fenomeno molto diverso dalla realtà. Come nel caso della disoccupazione giovanile, la bontà della causa - sensibilizzare l’opinione pubblica sull’omicidio di donne e incoraggiare il governò a prendere misure per contrastarlo - ha fatto come prima vittima la correttezza dei dati statistici. Diversi articoli, usciti nelle ultime settimane, hanno sostanzialmente posto fine al dibattito - Sabino Patruno, sul blog Noise from Amerika, Fabrizio Tonello e Nadia Somma e Mario de Maglie sui rispettivi blog sul Fatto Quotidiano. Questi articoli mostrano come i numeri diano completamente torto alla tesi dell’escalation e come ci troviamo piuttosto di fronte a un fenomeno endemico - cosa forse persino peggiore. I numeri hanno mostrato come molte ricerche siano state fatte con il solo scopo di ottenere un titolo sul giornale e come molti giornalisti abbiano pensato più a scrivere articoli sensazionalistici che al rigore dei dati. I politici si sono adattati a questi fenomeni e hanno detto - e fatto - ciò che il sentimento del momento chiedeva che si facesse. La tesi dell’emergenza femminicidio è stata appoggiata da diverse ricerche che gli hanno dato un alone di scientificità. Una delle principali è quella della Casa delle donne condotta prendendo in esame i casi di femminicidio riportati sulla stampa. In questa ricerca viene mostrato un crescente numero di omicidi di donne, a partire dalle 84 del 2005, fino al 124 del 2012 - un’altra ricerca, elaborata dalla Fondazione David Hume sembra che abbia riportato gli stessi dati, ma non siamo riusciti a trovarla su internet. I numeri riportati sono impressionanti, ma basta una riflessione piuttosto breve per rendersi conto che non si tratta di dati significativi. Una ricerca condotta sulla base degli articoli pubblicati sulla stampa non ha nessuna serietà scientifica: non è altro che una ricerca su quanto la stampa si è occupata di quel fenomeno. I dati affidabili sono quelli forniti dalle fonti ufficiali (Istat e ministero dell’Interno, in questo caso) oppure quelli presenti nelle ricerche indipendenti, sottoposte a un processo di peer review e pubblicate su riviste scientifiche affidabili. Questi dati ci mostrano che gli omicidi nei confronti delle donne sono rimasti stabili o sono leggermente diminuiti. Secondo l’ultimo rapporto Istat il tasso di donne assassinate è rimasto sostanzialmente costante a 0,5 ogni 100 mila abitanti dal 1992 al 2009 (ultimo anno di riferimento). Lo stesso Istat scrive: “A fronte di una stabilità dei delitti complessivamente denunciati, va notata la forte riduzione rispetto al 1992 dell’incidenza di omicidi, tranne quelli ai danni delle donne”. Anche i conti sulla percentuale totale di omicidi di cui sono vittime le donne rispetto al totale degli omicidi, hanno poco senso. Dai primi Anni ‘90, quando gli omicidi ebbero un’impennata a causa delle guerre di mafia e camorra, gli omicidi sono costantemente diminuiti. Ma ad essere uccisi di meno erano gli uomini, le vittime principali delle guerre di mafia. A fronte di un calo degli omicidi di uomini, quelli di donne restavano stabili e questo ha portato la loro incidenza sul totale ad aumentare (anche se il loro numero in assoluto non aumentava). Il tasso di omicidio di donne non è la stessa cosa del numero di femminicidi - nell’accezione comunemente accettata un femminicidio è un omicidio di una donna da parte di un partner o di un conoscente. Può essere che mentre il totale di omicidi sia rimasto costante, il sottoinsieme dei femminicidi veri e propri sia aumentato. Può essere, ma non esistono dati per affermarlo e, come sostiene Tonello nel suo articolo, gli indizi fanno pensare che non sia così. Il femminicidio sembra essere un fenomeno en: demico: costante e uniforme nel tempo e più o meno immune dalla gran parte delle influenze esterne (almeno quelle che si possono misurare su una scala di vent’anni). Criminologi e sociologi sono sostanzialmente d’accordo con questa tesi: molte ricerche effettuate in vari paesi mostrano che il tasso di omicidi tende a fluttuare molto più del tasso di omicidio femminile - potete leggere le argomentazioni a supporto di questa tesi nell’articolo di Patruno. Un solo omicidio è un fatto grave e spiacevole, da condannare. Un fenomeno endemico non è meno grave di uno epidemico, anzi. La malaria in certe zone dell’Africa non va sottovalutata solo per la sua natura endemica. Per capire di quale portata sia il costante “femminicidio” che c’è stato in Italia può essere utile comparare i tassi italiani con quelli degli altri paesi. Sorprendentemente l’Italia è uno dei paesi dove vengono uccise meno donne al mondo. Secondo il rapporto dell’Onu sugli omicidi in base al sesso in quasi tutti i paesi europei il tasso di omicidi di donne è maggiore rispetto a quello italiano. In rapporto alla popolazione vengono uccise più donne che in Italia in Austria, Finlandia, Francia, Germania, Svizzera, Svezia. Austria e Finlandia hanno tassi quasi tre volte superiori a quelli italiani. Le conclusioni a cui giungono i vari articoli che abbiamo segnalato sono diverse. Patruno e Tonello sostengono che sia inutile prendere misure straordinarie, prevedere nuove categorie di reati e istituire task force ministeriali. Somma e De Maglie invece ritengono che l’Italia sulle politiche di prevenzione sia ancora molto indietro e che quindi il tasso di omicidi potrebbe essere abbassato con adeguati investimenti. Che queste misure straordinarie esistano o meno fa poca differenza. Se ci sono andranno prese sulla base dei dati che possediamo, che indicano la presenza di un fenomeno endemico e di lunga durata. Quelle prese in maniera emotiva sulla base della percezione di un’emergenza, rischiano invece di combattere un fenomeno che non esiste. Toscana: sulla riapertura del carcere a Pianosa regione disponibile e collaborativa Ansa, 11 giugno 2013 “Sulla riapertura del carcere nell’isola di Pianosa la Regione ha una posizione collaborativa purché l’isola rimanga turisticamente accessibile e si intervenga per ridurre la pressione carceraria sulle altre strutture presenti in Toscana”. Lo ha detto il presidente della Regione, Enrico Rossi, durante il consueto breafing con i giornalisti, rispondendo ad alcune domande in merito all’ipotesi di tornare ad utilizzare lo storico e ormai abbandonato carcere esistente su una delle perle dell’Arcipelago Toscano. “Nella nostra regione - ha detto Rossi - ci sono oggi circa 4.200 detenuti contro una capienza massima delle strutture carcerarie di 3.200. Il 30 per cento di sovraffollamento è francamente eccessivo. Mi piacerebbe molto poter costruire con il governo un rapporto tale in grado di risolvere in modo strutturale il problema del sovraffollamento delle nostre carceri. E se su questo il Governo fa sul serio, anche noi siamo disposti a fare sul serio e non intendo mettere vincoli regionalistici rispetto all’esigenza reale di sfoltire gli altri istituti perché si tratta di una questione nazionale”. Il presidente Rossi ha ricordato poi che tra le altre misure da prendere rispetto al “pianeta carcere” c’è l’esigenza di andare verso la custodia attenuata per una parte dei detenuti e sfruttare le risorse e i servizi presenti sul territorio in funzione del recupero dei giovani carcerati e in particolare dei tossicodipendenti. Lensi (Radicali): riapertura di Pianosa controproducente e inutile Il consigliere provinciale con l’Associazione Tamburi: “Unica soluzione utile un provvedimento di amnistia. Via a raccolta di firme su sei referendum”. “La decisione del Presidente della Regione Enrico Rossi di riaprire il carcere di Pianosa non solo è inutile ma anche controproducente”, dichiarano il consigliere provinciale radicale, nel Gruppo Misto, Massimo Lensi e il segretario dell’Associazione Tamburi Maurizio Buzzegoli. “Come radicali - spiegano - consideriamo che l’unica soluzione utile per risolvere il problema della giustizia e del carcere sia un provvedimento di amnistia. Nei prossimi giorni inizieremo una raccolta firme su sei referendum che riguarderanno temi inerenti alla giustizia come abolizione dell’ergastolo e della custodia cautelare”. L’eterna condanna di Pianosa, di Sandro Bennucci (La Nazione) Raccontano che, soprattutto nelle notti di tempesta, le raffiche di vento si abbattono sul vecchio penitenziario di Pianosa con effetto devastante, tipo colpi di cannone. Accompagnati da sibili sinistri: i lamenti dei condannati che spensero la disperazione fra quelle mura. Ora ridotte in macerie. E sulle quali, da venticinque anni, dopo il trasferimento dell’ultimo detenuto, sono stati fatti cento progetti diversi. Invece, da ieri, c’è una certezza: quel fortino decrepito tornerà a essere carcere per almeno 500 detenuti. Enrico Rossi, presidente della Regione, ha annunciato di voler accogliere la richiesta di Anna Maria Cancellieri, ministro della giustizia. Il motivo della scelta, per nulla scontata, l’ha spiegato così: “In Toscana ci sono 4.200 detenuti contro una capienza massima delle strutture carcerarie di 3.200. Il 30% in più: inaccettabile. Mi piacerebbe costruire col governo un buon rapporto per ridurre il problema del sovraffollamento. Non ci saranno vincoli regionali, a patto che Pianosa non torni carcere di massima sicurezza per il 41 bis”. Pianosa, dunque, riprenderà l’antica vocazione di reclusorio, conservata per 140 anni: dal 1858 al 1998. Durante il ventennio fascista venivano fatti sbarcare i detenuti politici: nel 1932 anche Sandro Pertini, futuro presidente della Repubblica, fu chiuso fra quelle mura. Negli “anni di piombo”, Pianosa ospitò una zona di massima sicurezza, chiamata Agrippa, su suggerimento del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Arrivarono Francis Turatello, Pasquale Barra, Renato Curcio. Difficile il compito degli agenti di custodia: le aggressioni da parte dei reclusi erano all’ordine del giorno. Il “sì” della Regione rappresenta un passo decisivo. Rossi, però, mette le mani avanti: “Niente penitenziario, ma carcere dal volto umano, per il vero recupero dei detenuti. E isola aperta alla gite turistiche guidate. Non c’è bisogno di isolamento. Del resto, Sollicciano sorge in mezzo alle case, proprio sul confine fra Firenze e Scandicci”. Quattro anni fa, l’allora guardasigilli, Angelino Alfano, annunciò l’intenzione di riaprire Pianosa. Ma il giorno dopo, a quanto pare viste le reazioni non positive contro il governo Berlusconi, il ministro dell’ambiente, Stefania Prestigiacomo, disse che non se ne sarebbe fatto nulla: l’isola non sarebbe ridiventata carcere. Anche stavolta non mancano segnali contrari. Appena qualche ora dopo il briefing di Rossi con i giornalisti, è stato Umberto Mazzantini, responsabile di Legambiente per le isole, ad attaccare: “Riaprire e gestire un carcere a Pianosa sarebbe molto costoso e pericoloso. Meglio ristrutturare edifici continentali e usare le carceri nuove, quelle mai completate”. Fra i primi a dare la notizia della possibile riapertura di Pianosa era stato, nei primi giorni di giugno, il sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe). Partendo dalla comunicazione della “Casa di reclusione di Porto Azzurro”, che proponeva il “riassetto organizzativo navale con l’apertura del presidio di Pianosa”. Proposta che, secondo il segretario del Sappe, Donato Capece, “non avrebbe senso se non nell’ottica di un ripristino del vecchio istituto penale”. I tempi? Si parla di incontro imminente fra Rossi e la Cancellieri. Il progetto di restauro di Pianosa sarebbe già pronto nei file del ministero. Il vecchio carcere potrebbe diventare presto un cantiere. Così le tempeste marine finiranno per smorzare i loro sibili contro nuovi, impenetrabili strati di cemento armato. Piemonte: Camera penale “Vittorio Chiusano” contro abolizione del Garante dei detenuti Notizie Radicali, 11 giugno 2013 Dichiarazione di Igor Boni (presidente Associazione radicale Adelaide Aglietta) e Giulio Manfredi (Comitato nazionale Radicali Italiani): “Dopo l’autorevole presa di posizione di Enrico Costa (coordinatore regionale Pdl) contro la soppressione del garante regionale, è arrivata un’altra importante dichiarazione pro garante da parte della Camera Penale del Piemonte Occidentale e della Valle d’Aosta. Importante perché gli avvocati penalisti sono coloro che ogni giorno toccano con mano sia lo stato comatoso dell’amministrazione della giustizia sia lo stato vergognoso in cui versano le carceri; i due fenomeni negativi sono fra loro connessi, anzi si alimentano a vicenda. Domani il Consiglio Regionale del Piemonte ha tutti gli elementi in mano per accantonare il PDL n. 188 “Pedrale e altri” (cosiddetto “ammazza garanti”) e per procedere alla nomina del garante regionale delle carceri, a tre anni e mezzo dall’approvazione della legge istitutiva. Sarebbe, oltretutto, un bel modo per corrispondere al recente, ennesimo, grido di dolore levato dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sulla situazione delle carceri italiane”. Segue il comunicato stampa odierno della Camera Penale: Camera penale “Vittorio Chiusano” del Piemonte occidentale e V.D.A.: La regione vuole abolire il garante per i detenuti. Un primato per le regioni italiane che fa offesa alla tradizione garantista piemontese. La decisione della maggioranza di governo della Regione Piemonte di non procedere alla nomina del Garante per i Detenuti e di eliminarne di fatto la figura è un atto di grave irresponsabilità a fronte della situazione drammatica in cui versano gli istituti carcerari piemontesi, di cui l’ultimo segnale di allarme è la recente morte di un detenuto anziano che è andata ad accrescere il numero nazionale dei decessi inframurari che conta già 71 vittime dall’inizio dell’anno. Affidare le competenze del Garante per i Detenuti al Difensore Civico non solleva il governo regionale da questa mancanza di responsabilità ed anzi ne aggrava le conseguenze, essendo chiaro che un carico di lavoro così imponente e così eterogeneo in capo ad un’unica istituzione non può che renderne del tutto inefficace l’azione concreta, a grave discapito delle emergenze che vengono proprio dal mondo carcerario. Stupisce amaramente che un settore d’intervento così rilevante e delicato, come la tutela dei diritti delle persone in stato di detenzione, venga pregiudicato per ragioni di “economia” che potrebbero trovare migliore e più ampia soddisfazione con la riduzione di costi davvero superflui, come le recenti cronache paiono indicare. La Camera Penale “Vittorio Chiusano” del Piemonte Occidentale e V.d.A. non può che stigmatizzare la posizione assunta dalla maggioranza del Consiglio Regionale del Piemonte che, se tradotta in fatti, porterà la nostra Regione a distinguersi negativamente dalle maggiori regioni italiane che hanno da tempo istituito e reso funzionante un ruolo essenziale di civiltà sociale. Un primato che fa offesa alla tradizione piemontese, storicamente all’avanguardia nel rispetto e nelle garanzie dei diritti, e che si auspica non debba essere raggiunto: per questo la Camera Penale rivolge appello a tutti i consiglieri affinché nei fatti, non a parole, riconoscano e sappiano dare attuazione ai valori di civiltà di un Paese democratico e liberale. Spoleto (Pg): il carcere di Maiano, struttura di eccellenza in un sistema pieno di difficoltà di Daniele Ubaldi www.spoletonline.com, 11 giugno 2013 L’Osservatorio carceri e l’Unione nazionale delle Camere penali hanno fatto visita alla casa di reclusione spoletina. Sovraffollata, ma gestita con intelligenza ed elasticità. “Per la sicurezza nel Paese non servono più carceri, ma dei programmi seri di reinserimento dei detenuti”. È il monito lanciato oggi (10 giugno) dall’Osservatorio carceri dell’Unione nazionale delle Camere Penali, che proprio questa mattina ha fatto visita alla casa di reclusione di Maiano. Della delegazione, guidata dal coordinatore nazionale dell’Osservatorio Alessandro De Federicis e dal membro della giunta nazionale delle Camere Penali Emanuela De Orsola, hanno fatto parte il presidente della Camera Penale di Spoleto Salvatore Finocchi e i consiglieri Morichelli, Aiello, De Iaco e Pastorelli. “Uno degli obiettivi più importanti dell’Osservatorio - ha spiegato De Federicis - è quello di visitare le carceri in Italia, per avere le idee chiare sulle condizioni in cui vivono e lavorano detenuti e operatori. Quello di Spoleto è il 30esimo carcere che visitiamo nel giro di due anni: Maiano è una realtà importante, che si differenzia dal resto delle altre case di reclusione in quanto comprende tutti i regimi carcerari previsti dal nostro ordinamento”. Dei circa 770 detenuti di Maiano, ben 80 sono cosiddetti 41 bis (carcere duro), 273 sono reclusi in regime di alta sicurezza, 83 protetti mentre i restanti scontano la pena in media sicurezza. “È un carcere strutturato un pò come le bambole russe - ha aggiunto il coordinatore dell’Osservatorio -, con il settore dei detenuti in media sicurezza che contiene quello dei protetti, al cui interno c’è il posto per gli alta sicurezza e poi i 41 bis. È evidente che gestire regimi differenti di detenzione non è mai cosa semplice, poiché comportano condizioni psicologiche e stati d’animo troppo dissimili tra un detenuto e l’altro. Ciò complica maledettamente il lavoro delle seconde e terze vittime del sistema carcerario, vale a dire gli agenti e gli impiegati del carcere”. Sotto questo aspetto gli avvocati hanno speso parole d’elogio nei confronti della direzione di Spoleto: “I nostri complimenti al direttore e al comandante della polizia penitenziaria di Spoleto. Il buon carcere è reso tale dal direttore e dal comandante degli agenti di custodia, dalla loro elasticità e sagacia. Per esempio, anche il carcere di Maiano soffre di sovraffollamento, al punto che in 9 metri quadri (bagno e posti-letto compresi) devono convivere due persone giorno e notte. Il direttore può decidere di aprire le celle e lasciare i detenuti liberi di circolare all’interno del proprio braccio: a Spoleto ciò è realtà, altrove non è così”. Ad ogni modo, il fatto che il carcere di Maiano sia un esempio di gestione illuminata non basta certo a sopperire a tutti i problemi di questa come delle altre carceri in Italia. “La Camera Penale - ha concluso De Federicis - esprime apprezzamento per la gestione del carcere di Spoleto, ma allo stesso tempo denuncia un sistema, quello delle carceri italiane, che pone la dignità dei detenuti e la dignità e professionalità degli operatori all’ultimo posto nella scala delle priorità”. “A fronte di 700 detenuti - ha spiegato Emanuela De Orsola - nel carcere lavorano soltanto 307 agenti di custodia, dei quali circa 25 fanno parte del nucleo traduzioni, dunque non fanno mai servizio all’interno della casa di reclusione. A ciò aggiungiamo che i turni sono di sei ore ciascuno, ed ecco che nel carcere difficilmente si trovano più di 70-80 agenti contemporaneamente. È chiaro che il loro numero è del tutto insufficiente. Un altro elemento di rammarico deriva dal fatto che nel carcere di Maiano esistono strutture interessanti come la falegnameria o la sartoria, ma purtroppo mancano i fondi per impiegare un numero sufficiente di detenuti. Spesso un solo detenuto opera per un paio d’ore circa, per poi ricevere il cambio da un altro detenuto, malgrado i posti disponibili siano molti. Il Ministero non eroga le risorse necessarie, di fatto impedendo che i detenuti imparino un mestiere che potrebbe, una volta usciti dal carcere, aiutarli a rifarsi una vita senza tornare a delinquere”. Un altro aspetto importante è la scolarizzazione dei reclusi di Maiano. “Grazie all’impegno del direttore - hanno spiegato gli avvocati - i detenuti possono partire dalle scuole elementari fino a raggiungere l’università. Alcuni ex mafiosi, ergastolani, si sono laureati. Ovviamente lo studio è il miglior antidoto alla delinquenza, dato che con l’apprendimento il detenuto si rende conto di come abbia gettato al vento tutta la prima parte della sua vita”. Non è un caso, del resto, che la recidività degli ex detenuti diminuisce di oltre il 30% se alla detenzione si affianca un percorso rieducativo e di reinserimento. “A Spoleto - hanno confermato gli avvocati - c’è qualità del trattamento e varietà di attività da svolgere all’interno del carcere: sono gli stessi reclusi a dirlo. Maiano è un’eccellenza pur nelle difficoltà del sistema carcerario italiano. Un sistema che, a detta del Ministero, avrebbe bisogno di altri 10mila posti, con diverse nuove case di reclusione da realizzare. “Ma non ci sono le risorse - concludono i rappresentanti di Osservatorio e Camera Penale - e questo il Ministero lo sa bene. Basterebbe riaprire qualcuno dei molti reparti attualmente chiusi nelle carceri già esistenti per migliorare sensibilmente, e a costi contenuti, le condizioni di detenuti e operatori”. Firenze: Garante detenuti in digiuno, chiede decreto legge per risolvere sovraffollamento Ansa, 11 giugno 2013 Digiuno, a partire da domani, per sollecitare una riforma strutturale, in funzione anti sovraffollamento delle carceri italiane. È quanto ha annunciato il garante per i diritti dei detenuti del Comune di Firenze, Franco Corleone che ha spiegato: “L’unico che oggi parla della drammatica situazione dei penitenziari italiani è il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: ho pensato di dargli una mano, con questa iniziativa, per cercare di suscitare un minimo di attenzione politica sul tema”. Per Corleone, una “riforma vera del sistema carcerario non è più rinviabile: Governo e Parlamento devono prendere decisioni immediatamente, prima dell’estate. Serve un decreto legge che affronti i nodi strutturali, legge su recidiva, droghe, le norme sulla custodia cautelare, la nomina di un soggetto, a livello governativo, incaricato di gestire la politica sulle droghe al di là di un mero profilo di ordine pubblico; serve un provvedimento che riduca la popolazione carceraria di almeno 25mila unità, a fronte degli oltre 66mila detenuti reclusi attualmente nelle strutture del nostro paese”. Il Garante ha spiegato anche di aver chiesto “un incontro al ministro della Giustizia Cancellieri, ai presidenti delle Camere, e delle commissioni Giustizia dei due organismi”. Quanto alla raccolta firme per legge popolare contro il sovraffollamento delle carceri, promossa da un cartello di numerose associazioni di settore e supportata dal garante dei detenuti, Corleone ha detto che è arrivata a 25mila sottoscrizioni, ricordando anche la manifestazione che vi sarà il 26 giugno (giornata mondiale contro la tortura) in tutta Italia per sostenere la campagna. Livorno: la Cgil sostiene il “Progetto Granducato” a favore dei detenuti della Gorgona Agenparl, 11 giugno 2013 Dopo la conferenza stampa dello scorso 30 maggio, le iniziative progettuali della Casa di Reclusione di Gorgona trovano nell’evento di Martedì 11 Giugno un secondo momento di presentazione delle attività. Già prima del progetto “Frescobaldi per Gorgona” le attività in favore dei detenuti dell’isola nascono con il “Progetto Granducato” che vede la Cgil tra i soggetti promotori. Oltre l’impegno diretto nell’organizzazione e promozione delle attività, l’apporto della Cgil ha trovato nell’elaborazione del corso di formazione Femag e nell’erogazione dei servizi offerti dalla Camera del Lavoro di Livorno, ulteriori momenti di incremento e sviluppo dei servizi: L’apporto delle competenze delle singole categorie coinvolte (Fillea, Flai, Fp), ha infatti consentito di proporre corsi finanziati per la formazione di 20 detenuti (Progetto Femag per la ristrutturazione edilizia, elettrica ed idraulica), così come di aprire uno sportello per attività di patronato assistenziale, fiscale e previdenziale aperto a detenuti, operatori e residenti. Nel suo insieme il Progetto Granducato mira inoltre a fare dell’isola un esempio di sviluppo non solo per il trattamento penitenziario (sull’isola tutti i detenuti sono avviati a percorsi di formazione e lavoro) ma anche di sostenibilità in equilibrio tra i valori ambientali, sociali e di reinserimento. L’apertura dell’isola ad insediamenti produttivi da parte di soggetti d’impresa, del privato sociale e delle istituzioni del territorio, potrà infatti rappresentare per l’Isola una doppia opportunità: per il sistema penitenziario, costituire un modello di eccellenza che sappia coniugare recupero sociale del detenuto e sviluppo di un’economia sul territorio come realtà unica del patrimonio ambientale, restituire una delle aree meno conosciute dell’intera toscana alla fruibilità dei cittadini. L’impegno della Cgil non si esaurisce peraltro nella conclusione di quanto già realizzato ma prosegue, anche attraverso la presenza del sindacato nelle sue articolazioni territoriali e di categoria; nella giornata odierna il Segretario della Camera del lavoro, unitamente ai Segretari Fillea provinciale e Regionale, al Direttore Ires, ed ai Segretari alle attività produttive della Cgil di Livorno e della Toscana, attraverso un sopralluogo sul territorio hanno potuto verificare quanto già realizzato e le prospettive per avanzare nuovi e maggiori progetti di sviluppo per l’Isola. Particolare interesse è stato mostrato dalla Delegazione verso la “Torre pisana”, oggetto architettonico di particolare pregio del 1.200, per il quale appare auspicabile la realizzazione di un idoneo programma di recupero e di restituzione alla fruibilità turistico-culturale. È quanto rende noto la Cgil Livorno. Pordenone: Zanin (Pd) interroga governo per sollecitare la realizzazione del nuovo carcere Ansa, 11 giugno 2013 Un’interrogazione al Ministro della Giustizia per sollecitare la realizzazione del nuovo carcere di Pordenone e al contempo chiedere soluzioni per arginare lo stato di emergenza della struttura esistente, è stata presentata dall’on. Giorgio Zanin (Pd). Il piano governativo - rende noto il parlamentare - prevedeva la costruzione di un nuovo istituto, il cui luogo non è ancora stato deciso in via definitiva, con una capienza di 450 posti per un costo di circa 45 milioni di euro. Ma attualmente nulla ancora è stato avviato per risolvere questa grave piaga provinciale, che attualmente vede una struttura carceraria inserita all’interno del vecchio castello della città, nata per ospitare un massimo di 53 reclusi, ma che attualmente ne raccoglie ben 96. Già nel mese di marzo, insieme a Piero Colussi, ho visitato la struttura in delegazione con i Radicali guidati da Stefano Santarossa, riscontrando i limiti noti, sui quali si rinnova perciò - conclude Zanin - l’urgenza di un intervento risolutivo. Gorizia: al via lavori di ristrutturazione del carcere Sono iniziati oggi i lavori per il recupero delle sezioni detentive del carcere di via Barzellini, a Gorizia. Ad annunciarlo la direttrice della Casa circondariale del capoluogo isontino, Irene Iannucci. L’intervento, che sarà ultimato nell’aprile del prossimo anno, prevede la ristrutturazione degli spazi che ospitano i detenuti e il recupero dell’ex alloggio del comandante di reparto, destinato ad accogliere gli uffici amministrativi dell’istituto di pena. Per la messa in sicurezza del carcere goriziano è previsto un investimento di poco superiore al milione di euro. Roma: Cancellieri; stiamo studiando misure alternative per bambini che vivono in carcere di Barbara Gobbi e Flavia Landolfi Il Sole 24 Ore, 11 giugno 2013 Come casa hanno il carcere romano di Rebibbia, braccio femminile, sezione “Nido”. I lettini sono sistemati nelle celle, accanto a quelli delle madri. Né detenuti né liberi. Né carcerati né semplicemente ospiti. Almeno nella pratica, perché per la legge italiana sono a tutti gli effetti cittadini liberi. Ma a uno, due o tre anni la tua libertà coincide con quella di tua madre. O di tuo padre. Sono i piccoli ospiti dell’Istituto di detenzione romano che, fino ai tre anni di età, sono rinchiusi insieme alle mamme detenute nella struttura di via Bartolo Longo. Il Sole 24 Ore Sanità è andato a vedere come vivono e come sono assistiti. E ha incontrato il personale di Rebibbia, i medici e anche loro, le mamme. Il nido di Rebibbia è considerato in Italia una best practice. E l’agenda dell’assistenza sanitaria, arricchita con il passaggio di consegne dal ministero della Giustizia a quello della Salute e quindi alla Asl di competenza, ne è la riprova. La figura del neuropsichiatra infantile è storia recente e la stessa convenzione con l’azienda sanitaria del V Municipio di Roma ha garantito la presenza continuativa, a chiamata, di un pediatra di base. Ma i problemi sono tanti. Molti durissimi per i bambini, che vivono in simbiosi con le proprie mamme per esserne separati a tre anni, quando la legge dispone che a quell’età debbano necessariamente uscire. “Sia per la madre che per il bambino, quel momento è molto traumatico”, spiega Carlo Di Brina il neuropsichiatra infantile che da due anni a questa parte assiste, per quattro ore a settimana, le detenute e i loro figli. Lo shock avviene fin dall’ingresso: “La perquisizione della madre, l’approccio dell’agente al minore, la fase in cui la donna entra in sezione e il piccolo viene affidato a una figura vicariante: tutti questi step - continua Di Brina - sono delicati ed è per questo che stiamo lavorando a procedure standardizzate a tutela della salute mentale dei più piccoli”. Ora però all’orizzonte c’è a gennaio l’entrata in vigore della legge 62/2011 sulla quale non c’è accordo tra gli operatori. La norma dispone un innalzamento di età dei bambini “accompagnatori” delle mamme detenute (fino a 6 anni, recita). Ma qualcuno esclude che questo innalzamento sia riferito al carcere e lo sposta sulle misure alternative, e qualcun altro invece pensa che il rischio di estendere la “platea” dei piccoli ospiti dietro le sbarre sia molto concreto. Quando invece bisognerebbe risolvere il problema alla radice. E come? “Prevedendo le case famiglia che la legge indica come residenza privilegiata - salvo casi eccezionali - per le mamme con figli minori, soprattutto in tenera età”, recitano in coro le associazioni di volontari che lavorano nei Nidi di tutta Italia. Perché nella Penisola c’è un piccolo e sconosciuto esercito di 50 bambini, anche di pochi mesi, che “abita” le patrie galere. E che forse meriterebbe soluzioni meno drastiche. Non solo sulla carta. “Stiamo lavorando perché vogliamo far sì che non ci siano mai più bimbi in carcere”. Lo ha detto il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, in un intervento radiofonico. Il ministro ha detto che è allo studio un provvedimento che consenta ai bambini di “vivere accanto alle mamme detenute in una situazione di tutela ma in una sorta di carcere attenuato. Hanno diritto a un ambiente che non sia il carcere - ha aggiunto - bisogna dunque sottoporre le madri a un regime detentivo diverso dal carcere”. Piacenza: in vendita piante coltivate da detenuti, ricavato per far ripartire corsi orticoltura Redattore Sociale, 11 giugno 2013 Il ricavato servirà per far ripartire i corsi di orticoltura tenuti dai docenti dell’Istituto di agraria a settembre e per acquistare semi e materiale. Piante di peperoncini, zucchine, pomodori e anche il raro fiordaliso, tutte in vendita a offerta libera: quello del 12 giugno alle 18 in Galleria del Sole a Piacenza non sarà un mercatino qualunque, ma un’iniziativa del Centro per le Famiglie con la collaborazione del Comune e dell’assessore al Nuovo Welfare Giovanna Palladini, che coinvolge i detenuti della casa circondariale Le Novate e le insegnanti dell’Istituto di agraria Raineri-Marcora. Da molti anni il Raineri-Marcora organizza corsi di orticoltura con i reclusi delle 3 sezioni: “comuni”, “protetti” e “alta sicurezza”, spiega l’insegnante Orietta Zanrei. I corsi rispecchiano esattamente il piano di studi del biennio delle superiori, con lezioni teoriche in “classe” e pratiche in laboratorio. “Certo, non c’è un’aula insegnanti né laboratori scientifici - continua - ma ogni anno troviamo il modo per organizzarci al meglio”. A differenza dell’Istituto d’agraria, però, non tutti quelli che fanno teoria in classe partecipano poi ai laboratori, infatti a Le Novate la serra è aperta solo per i detenuti “comuni”. Le insegnanti delle superiori si occupano dunque di spiegare loro come seminare, piantare e coltivare in serra. Anche se “in realtà non si tratta di una vera e propria serra - racconta Zanrei - perché non disponiamo del riscaldamento e di conseguenza possiamo usufruirne da marzo a giugno quando va bene”. L’insegnante rivela che “sarebbe importante dare continuità alle attività anche durante l’inverno”, e anche per questo che “i ricavi dalle offerte libere della vendita del 12 giugno potrebbero essere utilizzati proprio in questo senso: acquistando materiale e sementi”. Inoltre, la distribuzione delle piantine ha come obiettivo garantire la loro sopravvivenza, dato che la scuola chiude e in carcere non si possono tenere. I detenuti del carcere hanno la possibilità di frequentare così i primi 2 anni, ma se vogliono ottenere la qualifica del terzo anno o il diploma del quinto, sono costretti a prepararsi autonomamente senza nessun tipo di lezione. “Noi cerchiamo di aiutarli, diamo loro i libri e del materiale didattico, ma purtroppo non possiamo fare lezione, comunque capita di frequente che, terminati i primi due anni, alcuni vogliano preparare l’esame del terzo per ottenere la qualifica - aggiunge Zanrei - invece è successo solo una volta che un detenuto sia riuscito a diplomarsi come se avesse fatto 5 anni di superiori”. Parlando delle lezioni e del rapporto con i propri studenti, Zanrei sottolinea quanto sia “emozionante vedere la soddisfazione nei loro occhi mentre osservano crescere le piante e i risultati dei loro sforzi, o quando annusano il basilico e li vedi tornare bambini”. Purtroppo i corsi in serra a Le Novate potrebbero non svolgersi più a settembre, a causa del rinnovamento del piano di studi. “Non sappiamo ancora cosa succederà l’anno prossimo - conclude - ma se vengono dimezzate le ore di laboratorio sarà un problema, perché per noi il laboratorio è l’attività in serra: è lì che otteniamo i risultati migliori e anche l’attenzione e la voglia dei detenuti è maggiore, piuttosto che a far lezione di teoria”. Insomma, tra mancanza di fondi e stravolgimenti del piano di studi, i corsi di orticoltura in carcere a Piacenza potrebbero essere a rischio, e secondo l’insegnante “è un vero peccato, perché il rapporto tra noi e questi studenti merita di essere coltivato al meglio, esattamente come le piante che seminiamo”. Grosseto: Ciuffini (Cisl); per il carcere servono interventi strutturali, non demagogie… www.gonews.it, 11 giugno 2013 La situazione è di gran lunga meno grave di quelle che si vivono in quasi tutti gli Istituti Penitenziari della Toscana. Il Segretario Generale della Fns Cisl toscano Fabrizio Ciuffini ha inviato questo comunicato stampa sulla situazione del carcere di Grosseto: “Prendiamo atto che anche la Asl 9 - dopo che del Carcere di Grosseto segnaliamo da anni le carenze e le disfunzioni - interviene con alcune prescrizioni cui il Ministero della Giustizia dovrà adempiere per mettere a norma struttura ed impianti. In verità quanto ha segnalato la stessa Asl 9 per il Carcere di Via Saffi è di gran lunga meno grave delle situazioni che si vivono in quasi tutti gli Istituti Penitenziari della Toscana, se nella nostra regione ci sono oltre 4.000 detenuti, ristretti in quelli che invece sarebbero i 3.000 posti previsti. Basta per tutti l’esempio del carcere di Firenze-Sollicciano, dove a fronte di circa 450 posti anche oggi le presenze di detenuti superano le 1.000 persone. E per questo non ci pare che la Asl 10 di Firenze abbia posto prescrizioni per cui o si rimedia o si chiude il carcere. Ma basta altresì segnalare quanto affermato dal Presidente della Repubblica Napolitano lo scorso 7 giugno, denunciando che la condizione penitenziaria italiana è drammatica, con oltre 66.000 detenuti presenti nelle celle italiane, contro i 40.000 posti disponibili. Su Grosseto la Cisl Fns da anni sostiene dover intervenire, tanto che anche le Amministrazioni Locali - Sindaco in testa - hanno addirittura previsto un’apposita area dove eventualmente edificare il nuovo carcere. Ma visti i tempi di crisi del Paese quella soluzione è oggi impraticabile, mentre invece il Ministero della Giustizia ha avviato - su ripetuta sollecitazione - un progetto di ristrutturazione che confidiamo possa a breve termine avviarsi speditamente. Questo consentirà di restituire alla Città di Grosseto un Carcere adeguato ai bisogni del Territorio dove - giova ricordarlo - questa pur piccola Struttura Penitenziaria ha dimostrata negli anni la propria efficacia ed efficienza, senza mai clamori al negativo, senza mai rischi eccessivi né per gli Operatori, né per l’utenza che per i Cittadini”. Palermo: avviato Tavolo di lavoro tra Comune e carcere, per scolarizzazione detenuti Redattore Sociale, 11 giugno 2013 Incontro tra l’assessore alla Cultura Giambrone e la direttrice del carcere Barbera. Confermato l’impegno comune a lavorare insieme per il reinserimento e l’inclusione sociale dei detenuti. Lavorare insieme per studiare nuove possibilità di reinserimento e inclusione sociale di detenuti a partire dalla cultura e dalla scolarizzazione. È questo l’impegno comune che l’assessore comunale alla cultura di Palermo Francesco Giambrone ha preso insieme alla direttrice del carcere Ucciardone Rita Barbera. L’assessore alla Cultura Francesco Giambrone si è recato domenica scorsa, presso il carcere dell’Ucciardone, incontrando la direttrice Rita Barbera, per confermare l’impegno dell’amministrazione comunale per l’attuazione del Protocollo d’intesa sull’inserimento lavorativo dei detenuti e per concordare anche l’organizzazione di un tavolo di lavoro per i prossimi giorni per studiare ulteriori iniziative da realizzare in favore degli stessi detenuti in particolare nel settore della cultura e della scolarizzazione. “Gli interventi cui stiamo lavorando - ha concluso Giambrone - non riguardano solo il carcere dell’Ucciardone, ma anche gli altri istituti penitenziari della città compreso quello minorile, così come le famiglie dei detenuti”. Ricordando l’incontro avuto del sindaco Orlando con i direttori degli istituti penitenziari della città nelle scorse settimane, Giambrone ha detto che “l’amministrazione comunale è impegnata con quella penitenziaria per favorire progetti di inclusione sociale e per far sì che la detenzione non abbia solo una funzione punitiva ma anche rieducativi”. Reggio Calabria: Castorina (Gd); risolviamo la drammatica situazione delle carceri… www.strettoweb.com, 11 giugno 2013 Di seguito la nota diffusa da Antonino Castorina, esponente della Segreteria Nazionale dei Giovani Democratici del Pd: “Abbiamo avvertito da diverso tempo il disagio rispetto alla drammatica situazione che si vive dentro le carceri nel nostro paese. La situazione che oggi emerge, non degna di un paese civile e democratico, rappresenta nei fatti una sorta di emergenza umanitaria che va affrontata immediatamente. Al ministro Cancellieri chiediamo di ridefinire il perimetro della funzione rieducativa, pensando ad ampliare le misure alternative alla detenzione per favorire un nuovo inserimento sociale dei detenuti o pensando ad un osservatorio che coinvolga associazioni di categoria in modo tale da coinvolgere i carcerati in percorsi di formazione e lavoro necessari per costruire loro un nuova vita nel post detenzione. Vanno rivisti i tempi della custodia cautelare perché se una grossa dei detenuti, il 50%, è in attesa di processo, il 30% poi viene dichiarato innocente, e questo non solo fa sprecare risorse e spazi inutili ma vengono violati anche i diritti umani dell’individuo. L’Italia è il terzo paese d’Europa per sovraffollamento, anche la spesa giornaliera per detenuto è superiore alla media europea; in questo quadro ,la Corte Europea impone allo stato di risolvere l’emergenza e per risolverla serve che il governo si impegni a ragionare ad una riforma del processo penale come parimenti è necessario che i beni confiscati vengano trasformati in una vera e propria risorsa per il nostro paese perché praticare la legalità porta sviluppo, crescita e lavoro. Noi difendiamo anche i diritti dei detenuti, per un Italia più civile perché le condizioni delle carceri italiane esigono un immediata risposta da parte delle istituzioni. Torino: in un anno muoiono suicidi padre e figlio, erano indagati per mafia Corriere della Sera, 11 giugno 2013 Un anno dopo il suicidio di Giuseppe Catalano, uomo della ‘ndrangheta che gli inquirenti consideravano il capo della “locale” di Siderno a Torino, ieri si è tolto la vita suo figlio Cosimo, 40 anni e anche lui, come il padre, coinvolto nella vicenda Minotauro, il processo per le infiltrazioni della ‘ndrangheta in Piemonte. “È un suicidio connesso all’aggressione del patrimonio di famiglia” rivela Carlo Romeo, il legale che difendeva nel “processo Minotauro” l’imputato suicida ieri mattina nel Torinese. “Per ora - precisa il legale - non posso aggiungere altro perché si tratta di una questione molto delicata”. Cosimo Catalano si è lanciato da un ponte pedonale che attraversa la superstrada Torino-Pinerolo. Lo hanno trovato alcuni automobilisti di passaggio. Sulla dinamica dei fatti indagano gli agenti della polizia stradale e della squadra mobile. I primi accertamenti non sembrano sollevare dubbi sul fatto che si tratti di suicidio. Cosimo Catalano era accusato di far parte della “locale” dei sidernesi a Torino di cui era capo il padre, n processo Minotauro è l’esito della più grande inchiesta degli ultimi 15 anni sulla presenza della ‘ndrangheta a Torino. Nuoro: per Graziano Mesina prima notte nel carcere Badu e Carros, rischia revoca grazia Ansa, 11 giugno 2013 La prima notte nel carcere nuorese di Badù e Carros a Nuoro l’ha trascorsa in una cella assieme a altri due detenuti non sardi. Graziano Mesina, di 71 anni, è stato arrestato ieri nel corso di una clamorosa operazione dei carabinieri, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Cagliari, e che ha portato all’arresto anche di altre 25 persone. L’ex primula rossa del banditismo sardo è ritenuto dagli inquirenti il capo di un’organizzazione criminale dedita al traffico di droga, estorsioni, furti, rapine e pronta a mettere a segno anche sequestri di persona. “Grazianeddu” è rinchiuso nel braccio AS3 dell’istituto di pena barbaricino, di recente restaurato. Si tratta di una parte del carcere dove sono collocati anche personaggi di rilievo della criminalità organizzata. L’interrogatorio di garanzia da parte del Gip di Cagliari si dovrebbe svolgere a Nuoro fra oggi e domani alla presenza del suo storico difensore l’avv. Giannino Guiso. Al lavoro i legali per definire la linea difensiva. Per ora non si sa se risponderà alle domande del magistrato o preferirà avvalersi della facoltà di non parlare in merito alle tante accuse degli inquirenti come è stato scritto nelle circa 150 pagine dell’ordinanza che ha portato all’arresto dei componenti di due bande dedite al traffico di droga. Ora è anche in bilico la grazia del 2004 che fece riacquistare la libertà all’ex ergastolano, firmata dall’allora presidente della Repubblica, Azeglio Ciampi. Il provvedimento era subordinato alla condizione che il beneficiario, entro i successivi dieci anni, non subisse ulteriori condanne. Questo significa che se Mesina entro il 2014 venisse condannato, anche per i fatti che lo hanno riportato ieri in cella, il beneficio decadrà e riacquisterebbe lo status di ergastolano. Droghe: il consumo in gruppo non è reato penale, non c’è cessione a terzi ma ripartizione di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 giugno 2013 Il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti non è reato. Al massimo costituisce una violazione sanzionata sul piano amministrativo. Anche dopo le modifiche introdotte nella Fini-Giovanardi dalla legge n. 49 del 2006. Lo chiariscono le Sezioni unite Penali con la sentenza n. 25401 depositata ieri che ha sciolto un contrasto tra diverse pronunce delle sezioni “semplici” della Corte in materia. A rivolgersi alla Cassazione era stata la moglie di un uomo deceduto dopo l’assunzione di eroina acquistata in compagnia di un amico. Nei confronti di quest’ultimo la donna aveva chiesto la condanna penale, sostenendo che, per effetto delle modifiche del 2006, l’uso di gruppo di droghe è colpito sia nella fattispecie del mandato all’acquisto sia nella fattispecie dell’acquisto in comune. L’irrilevanza penale sarebbe cioè circoscritta ai soli casi in cui l’acquisto e la detenzione sono finalizzati al solo esclusivo uso personale di chi è trovato in possesso di un minimo quantitativo di stupefacenti. Le Sezioni unite non sono però state di quest’avviso e hanno invece fatto notare che, per corroborare la posizione sull’ampliamento del penalmente rilevante, non è convincente aver fatto leva sull’avverbio “esclusivamente” (la norma penale sanziona ora “l’uso non esclusivamente personale”), prima assente. Per le Sezioni unite si tratta di un elemento che prova troppo poco e che non può essere alla base di una nuova ipotesi di reato o comunque essere in grado di far venire meno il presupposto su cui si basava il diritto vivente. E cioè che, nell’acquisto finalizzato all’uso di gruppo, non si verifica alcuna cessione a terzi, ma una semplice divisione interna, di cui la consegna è fase esecutiva che permette a ogni appartenente al gruppo di venire in possesso “del solo quantitativo di reciproca pertinenza fin dall’inizio e già da quel momento destinato al rispettivo uso personale”. Per la sentenza non possono essere considerate invece superate, per effetto della nuova versione della legge Fini-Giovanardi, le conclusioni cui arrivarono nel 1997 le stesse Sezioni unite, nel senso di ritenere esenti dal rischio penale tutte quelle condotte immediatamente precedenti e collegate al consumo personale. Inoltre, la scarsa chiarezza della norma porta a ritenere più opportuno prendere la strada più coerente con i principi più volte sottolineati dalla Corte costituzionale di precisione della disposizione penale, in maniera tale da non lasciare al giudice la determinazione della misura incriminatrice. Infine, a seguire l’orientamento più severo, la legge di conversione n. 49 del 2006 avrebbe introdotto nel testo del decreto legge n. 272 del 2005 una nuova norma penale, che trasforma da illeciti amministrativi in reati le condotte di acquisto e detenzione di sostanze stupefacenti finalizzate all’utilizzo collettivo, che potrebbe apparire estranea alla materia e alle finalità del decreto, che aveva per oggetto “Misure urgenti per garantire la sicurezza e i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali, nonché la funzionalità dell’Amministrazione dell’interno. Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi”. Stati Uniti: i “destini svizzeri” degli ex detenuti di Guantánamo di Stefania Summermatter e Peter Siegenthaler www.swissinfo.ch, 11 giugno 2013 Rinchiusi illegalmente per otto anni, tre ex prigionieri di Guantánamo hanno trovato rifugio in Svizzera. Altrettanti si sono invece scontrati con il veto dell’amministrazione federale. Cosa ne è stato di questi uomini? swissinfo.ch si è messa sulle loro tracce, dal canton Giura fino a un carcere in Algeria. Sono trascorsi più di tre anni da quando i due fratelli uiguri e l’ex detenuto uzbeco hanno lasciato Guantánamo. Su richiesta degli Stati Uniti, la Svizzera ha offerto loro una seconda casa, un posto sicuro dove ricominciare una nuova vita. Oggi il trasferimento dei prigionieri di Guantánamo torna d’attualità, dopo le rinnovate promesse del presidente Obama di voler chiudere questo simbolo del non diritto. L’attenzione è focalizzata sui 166 detenuti ancora sulla base militare americana. E gli altri? Cosa è accaduto a quei prigionieri liberati, il cui destino si è incrociato con la Svizzera? La storia inizia nel 2008. Attraverso il Center for Constitutional Rights di New York e Amnesty International, tre detenuti in attesa di liberazione presentano domanda d’asilo in Svizzera. Respinti, si appellano al Tribunale amministrativo federale (Taf). Nel 2009, i giudici accolgono un primo ricorso. Si tratta di quello di Abdul Aziz Naji: detenuto numero 744, algerino. L’Ufficio federale della migrazione (Ufm) è chiamato a rivalutare il caso. Un anno più tardi, arriva il verdetto positivo anche per Abdul Ràouf Abu al Qassim, matricola 709, libico. Nelle rispettive sentenze, i giudici federali rimproverano in particolare all’Ufm di non aver rispettato il diritto dei richiedenti di essere sentiti. La terza domanda d’asilo, relativa ad Adel Noori - di etnia uigura, detenuto numero 584 - è invece definitivamente affossata. Oggi, a quattro anni di distanza, i dossier di Naji e di Abu al Qassim sono tuttora pendenti. “Questi casi sono particolarmente complessi”, afferma Michael Glauser, portavoce dell’Ufm. Invocando il diritto alla protezione dei dati e della personalità, Glauser rifiuta di spiegare le ragioni che hanno portato a una prima decisione negativa e le misure intraprese per rispettare la sentenza del tribunale e chiudere i due casi. Nel frattempo questi tre richiedenti l’asilo un pò speciali non si trovano più a Guantánamo. Dopo otto anni di carcere, senza mai essere stati formalmente accusati né processati, sono rilasciati tra la fine del 2009 e il 2010. L’uiguro, oggi 44enne, è stato accolto dallo Stato insulare di Palau (Oceano pacifico) e - secondo Denise Graf, di Amnesty International - è riuscito a ritrovare lavoro e famiglia. Il 48enne libico, invece, è stato trasferito in Albania, ma secondo l’ONG la sua integrazione è stata piuttosto difficile, anche a causa della situazione economica del paese. Dopo la caduta di Gheddafi, ha fatto tutte le pratiche necessarie per rientrare in Libia e da allora ha fatto perdere ogni traccia. Ad Abdul Aziz Naji, nato nel 1975, è andata di male in peggio. Rimpatriato contro la sua volontà in Algeria, oggi si trova nuovamente dietro le sbarre, condannato a tre anni di carcere per terrorismo. Le accuse sono le stesse avanzate dagli Stati Uniti, ma mai comprovate. “Il suo stato di salute mentale e psichica continua a deteriorarsi”, afferma la sua avvocata algerina Hassiba Boumerdassi. “È una persona molto introversa e guardinga. Non parla volentieri di Guantánamo, un’esperienza che l’ha profondamente traumatizzato. In carcere, inoltre, non riceve le cure necessarie. È isolato dagli altri detenuti e, come tutti i presunti terroristi, viene trattato in modo più duro dalle guardie”. Un biglietto di sola andata per Guantánamo L’odissea di Abdul Aziz Naji inizia nel 2001 in Pakistan, secondo il racconto di diverse ONG tra cui Amnesty International e Human Rights Watch (Hrw). Il giovane viene assunto da un’organizzazione umanitaria locale, attiva nel sostegno alle comunità cristiane e musulmane più povere del Kashmir. Una notte, mentre porta cibo e bevande ai villaggi più discosti, finisce su una delle tante mine ancora inesplose. Ferito a una gamba, è ricoverato all’ospedale di Lahore, dove gli viene impiantata una protesi sotto il ginocchio. Dopo diversi mesi di riabilitazione, nel maggio 2002 si reca a Peshawar (nel nord del Pakistan) in visita a un connazionale. Qui viene arrestato dalla polizia pachistana e consegnato alle truppe americane di stanza nella regione. È accusato di legami con un movimento radicale islamista. La sua attività di volontariato sarebbe solo una copertura, dicono gli Stati Uniti. Abdul Aziz Naji viene così trasferito a Guantánamo e torturato, come denunceranno più tardi i suoi avvocati. Dopo sei anni di carcere, nel 2008 Naji fa appello alla tradizione umanitaria svizzera. Le autorità americane lo hanno infatti dichiarato “cleared for release” (approvato per il rilascio). “Un modo politicamente corretto per dire che alcuni detenuti non sono più considerati “nemici” degli Stati Uniti, senza però ammetterne ufficialmente l’innocenza”, spiega la giurista Andrea J. Prasow, del programma antiterrorismo di Hrw. “Gli Stati Uniti fanno particolare attenzione al linguaggio che utilizzano”. Naji può dunque lasciare Guantánamo, ma è costretto a portarsi appresso questo dossier dalle macchie indelebili. Ed è proprio sulla base delle informazioni trasmesse dagli americani, che le autorità svizzere respingono la sua richiesta di asilo, ritenendolo un pericoloso combattente. Una versione che non convincerà però le organizzazioni a difesa dei diritti umani, né il Tribunale amministrativo federale. Rinviato in Algeria, contro la sua volontà Naji è ancora rinchiuso a Guantánamo quando il 18 dicembre 2009 i giudici svizzeri accolgono il suo ricorso. Non per molto però. Nel luglio 2010 viene rispedito in Algeria. “Naji avrebbe preferito restare a Guantánamo piuttosto che tornare nel suo paese, dove temeva di essere arrestato e torturato”, spiega Rachid Mesli, direttore della Fondazione Alkarama, una Ong con sede a Ginevra che si batte per il rispetto dei diritti umani nei paesi arabi. I suoi timori si dimostrano fondati. Appena atterrato ad Algeri, è arrestato dai servizi segreti militari, portato in luogo ignoto e interrogato. E questo nonostante le garanzie che Washington aveva ricevuto dal governo algerino. Grazie all’intervento dei suoi avvocati e delle organizzazioni a difesa dei diritti umani, dopo venti giorni di detenzione segreta, Naji viene rilasciato e trasferito nella sua casa, a Batna. “È rimasto però sotto costante sorveglianza dei servizi segreti algerini. Doveva recarsi periodicamente alla caserma militare per essere interrogato”, spiega Rachid Mesli. Nel gennaio 2012, Naji si ritrova nuovamente dietro le sbarre. Nessuna prova aggiuntiva è stata presentata dall’accusa, assicura la sua avvocata algerina Hassiba Boumerdassi. L’ombra di Guantánamo non sembra dargli tregua. “Ora stiamo aspettando il giudizio in appello. Se la condanna a tre anni sarà confermata, chiederemo la libertà provvisoria per ragioni di salute, perché ha bisogno di una nuova protesi. La legge prevede questa possibilità una volta scontata metà della pena”, spiega la legale. Quello di Naji non è un caso isolato. Tutti gli ex detenuti di Guantánamo rimpatriati in Algeria sono stati arrestati dai servizi segreti: alcuni sono rilasciati dopo una serie di interrogatori, altri sono in attesa di giudizio, afferma Katie Taylor, dell’Ong britannica Reprieve, attiva nella lotta contro la tortura e l’illegalità di Guantánamo. La questione della responsabilità La chiusura di Guantánamo è una priorità per l’Amministrazione Obama. La liberazione dei detenuti non li protegge però da eventuali ritorsioni nel paese in cui saranno trasferiti. Abbiamo chiesto all’ambasciata americana in Svizzera quali responsabilità si assumono gli Stati Uniti nei confronti di questi ormai ex detenuti e quali misure vengono prese per assicurarsi che il loro reinsediamento non riproduca nuove violazioni dei diritti umani e delle Convenzioni di Ginevra. Interrogativi ai quali la diplomazia statunitense ha risposto con un “no comment”. Andrea J. Prasow di Hrw sottolinea che gli accordi politici tra Stati relativi al trasferimento di ex detenuti di Guantánamo sono confidenziali. “È però prassi degli Stati Uniti cercare di monitorare la situazione, in modo da sapere dove si trovano gli ex detenuti, cosa stanno facendo, se hanno lasciato il primo paese in cui sono stati ricollocati e soprattutto se hanno svolto nel frattempo attività illegali”. È sulla base di un accordo politico con Washington che, nel 2010, la Svizzera ha accolto a titolo umanitario tre ex detenuti di Guantánamo, due fratelli uiguri e un uzbeco. Una procedura di tutt’altra categoria rispetto alla lunga e tortuosa richiesta d’asilo dei loro tre compagni di sventura. Quelle ferite che non si rimarginano I due fratelli uiguri - Arkin e Bathiyar Mahmut, detenuti numero 103 e 277 - hanno trovato casa nel Giura, un cantone francofono nel nord-ovest della Svizzera. Incontrarli è praticamente impossibile: dopo una prima apparizione davanti ai media, oggi respingono sistematicamente le decine di richieste di interviste che ricevono ogni mese. Secondo Endili Memetkerim, presidente dell’associazione Turkestan orientale (ufficialmente Xinjiang), che riunisce un centinaio di persone di etnia uigura in Svizzera, nella vita di tutti i giorni i due fratelli Mahmut se la cavano piuttosto bene. Il più giovane, 37 anni, ha dapprima trovato lavoro come giardiniere e poi in una ditta orologiera. L’altro è ancora alla ricerca di un impiego. Nel frattempo seguono dei corsi di francese, non senza qualche difficoltà, sottolinea Endili Memetkerim. Le ferite di Guantánamo sono però difficili da rimarginare. Il fratello maggiore è particolarmente traumatizzato, sottolinea Denise Graf, di Amnesty International. “A Guantánamo ha vissuto esperienze indescrivibili. Ha osato denunciare le pratiche detentive e per rappresaglia è stato messo a lungo in isolamento. Inoltre, soffre a causa della separazione da moglie e figli. Le autorità svizzere hanno autorizzato il ricongiungimento famigliare, ma quelle cinesi non li lasciano uscire dal paese”. Un ritorno dei fratelli Mahmut nel Turkestan orientale resta fuori discussione. “Noi esuli uiguri siamo considerati come terroristi dalle autorità cinesi”, sottolinea Endili Memetkerim. “Con l’attuale regime, i due fratelli potrebbero incorrere nella pena di morte o in una lunga detenzione”. Dell’ex detenuto uzbeco, invece, si sa poco o nulla. Di formazione pasticciere, è stato il primo a giungere in Svizzera. Le autorità del canton Ginevra che lo hanno accolto hanno scelto di mantenere l’assoluto riserbo sulla sua identità e sulla sua situazione in Svizzera. “Si tratta di rispettare il diritto all’oblio”, afferma la portavoce dell’ufficio cantonale di giustizia Caroline Widmer. Una scelta condivisa da Katie Taylor, dell’Ong britannica Reprieve. “Ciò non toglie che i casi di violazione dei diritti umani - come quello di Naji - devono essere denunciati anche per evitare che altre persone finiscano allo stesso modo”. Norvegia: altro che sovraffollamento, le prigioni sono di lusso di Ilaria Sulla www.laperfettaletizia.com, 11 giugno 2013 Sorge sull’isola di Bastoy, in Norvegia: è una prigione ma non ha nulla a che fare con le nostre carceri sovraffollate e al limite della decenza. Qui i prigionieri “soggiornano” come fossero in un hotel a 5 stelle dotato di ogni comfort . In un periodo di grande difficoltà per le carceri italiane (ricordiamo che l’Italia è stata condannata dalla Corte di Strasburgo per le condizioni di trattamento inumano di 7 detenuti), è molto sorprendente apprendere dell’esistenza di una prigione norvegese che sembra tutto fuorché un luogo in cui scontare una pena. La prigione sorge sull’isola di Bastoy, a un chilometro dalla terra ferma, nei pressi di Oslo. Lunghe passeggiate in mezzo alla natura, saune e sdraio su cui prendere il sole: sono solo alcune delle possibilità offerte ai detenuti del carcere, che vivono in piccole casette indipendenti nel bel mezzo della natura norvegese. Sono 115 detenuti che in Italia (e nella stragrande maggioranza del mondo) vivrebbero isolati e strettamente sorvegliati perché rei di crimini molto gravi, ma in Norvegia non funziona così, perché i detenuti non hanno nessun motivo per fuggire o opporre resistenza: lavorano dalla mattina fino al primo pomeriggio, prendono 10 euro al giorno con cui si comprano da mangiare al mercato dell’isola (anche se la cena è offerta dal carcere e comprende un menù variegato), e hanno vitto e alloggio (a 5 stelle) pagato dallo Stato. Se non bastassero tutte queste notizie a stupire, bisogna ricordare che, nonostante l’esistenza di prigioni come questa, la Norvegia è uno dei Paesi con il più basso tasso di criminalità. Il quotidiano britannico “Guardian” si è recato sul posto e ha intervistato i detenuti di Balstoy. “È come vivere in un villaggio, in una comunità - racconta Petter, un detenuto del carcere - Ognuno ha il suo lavoro. Ma abbiamo anche del tempo libero, quindi possiamo pescare o nuotare. Sappiamo di essere prigionieri, ma ci sentiamo delle persone”. “L’idea - spiega un altro detenuto - è quella di tenerci abituati alla vita fuori dal carcere”. E in effetti in Norvegia non è solo il tasso di criminalità ad essere basso, ma anche quello di recidività (minore del 30%), che è praticamente il più basso di tutta l’Europa. Il giornalista di “Guardian”, Erwin James, così commenta la sua esperienza: “La perdita della libertà sembra l’unica cosa che affligge queste persone. Ed è comprensibile che alcune persone possano trovare questo sistema carcerario piuttosto controverso: nell’immaginario collettivo, una prigione è il posto delle rinunce, e il comfort domestico non è previsto. Ci vuole coraggio per diffondere la filosofia di Bastoy fuori dalla Norvegia ma, allo stesso tempo, i politici dovrebbero prendere nota della rivoluzione riabilitativa che avviene su questa piccola isola”. Arabia Saudita: pena di morte, decapitato un siriano accusato di narcotraffico Aki, 11 giugno 2013 È stata eseguita per decapitazione in Arabia Saudita la condanna a morte comminata a un cittadino siriano accusato di essere un narcotrafficante. Lo riferisce l’agenzia di stampa ufficiale saudita Spa, che riporta una nota del ministero dell’Interno di Riad. La condanna è stata eseguita nella provincia settentrionale di Jawf. L’uomo, si legge nel comunicato, era stato condannato alla pena capitale con l’accusa di aver tentato di ‘contrabbandare un grande quantitativo di pasticche nel regno. Da gennaio in Arabia Saudita sono state eseguite almeno 51 condanne a morte, l’ultima solo la scorsa settimana. Nel 2012, secondo Human Rights Watch, nel regno sono stati messi a morte almeno 69 detenuti. Omicidio, stupro, apostasia, rapina a mano armata, oltre al traffico di droga, sono i reati che nel Paese vengono puniti con la pena di morte.