Assemblea nazionale Cnvg: “Oltre il sovraffollamento… la pena della salute e degli affetti” Ristretti Orizzonti, 10 giugno 2013 Il 7 e 8 giugno si sono svolti a Roma i lavori dell’Assemblea Nazionale della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia dal titolo “Oltre il sovraffollamento: la pena della salute e degli affetti”. L’Assemblea ha aperto i lavori con alcune considerazioni in merito alla sentenza di primo grado su Stefano Cucchi. È stato rimarcato il valore dell’habeas corpus, che definisce tra i doveri dello stato quello di garantire l’intangibilità fisica delle persone, comprese quelle sottoposte ad esecuzione penale, affermando quindi il valore universale contro qualsiasi trattamento inumano e degradante; concetti che sono stati ampliati da Luigi Manconi, che nel suo ruolo di Presidente per la Commissione sui Diritti Umani intende implementare l’approfondimento del monitoraggio su tutti i luoghi privati della libertà, Cie compresi. La sentenza di Asti sulle violenze in carcere ha rimarcato l’esigenza di procedere urgentemente con l’approvazione del reato di tortura, battaglia su cui la Conferenza, insieme alle altre associazioni che sostengono la firma per 3 leggi, si impegna a raggiungere le firme previste. Al Ministero della Giustizia ed al Dap si è chiesto di applicare la massima vigilanza su questi eventi e di implementare la formazione del personale sul tema dei diritti umani. l’Assemblea, che ha visto la partecipazione di referenti del volontariato a livello nazionale, ha affrontato nella prima giornata il tema della salute negli istituti di pena la cui fruizione, in ottemperanza all’art. 32 della Costituzione, deve essere equiparata a quella dei cittadini liberi, con particolare approfondimenti sui temi dell’Opg e della salute mentale, ed agli strumenti giurisdizionali della tutela, con riferimento al ruolo di garanzia della Magistratura di Sorveglianza. Florido dibattito e confronto si è svolto con Cosimo Maria Ferri, Sottosegretario alla Giustizia, al quale sono state poste domande sulle politiche e le proposte del Ministero, sulle urgenze in tema di sovraffollamento, rimarcate dalla condanna della Cedu nel caso Torreggiani, e sulla tutela dei diritti, la cui inadeguatezza è testimoniata dalla drammatica vicenda di Stefano Cucchi, ed il suo esito giudiziario. Il Sottosegretario ha espresso parole di grande encomio per il ruolo e le funzioni del Volontariato, rendendosi disponibile alla reciproca collaborazione e dichiarando l’impegno a lavorare per garantire la certezza della rieducazione e tutelare salute e dignità di ogni persona. Al Sottosegretario Ferri è stata ribadita l’urgenza e la necessità della convocazione di una grande assemblea sull’esecuzione penale, che coinvolga tutti i Ministeri, gli EELL e i soggetti coinvolti nel sistema della esecuzione della pena, per poter definire proposte, progetti e linee guida, ed in particolare un “Piano sociale straordinario per le carceri” di sostegno al reinserimento sociale per coloro che escono o che potrebbero uscire dal carcere, attraverso la formazione, il sostegno lavorativo, l’attivazione del terzo settore e dell’associazionismo. Un Piano per garantire, allo stesso tempo, maggiore sicurezza ai cittadini e concrete opportunità per i detenuti. La piena collaborazione al rapporto con il Volontariato è stata ribadita dal Presidente del Dap Giovanni Tamburino, che oltre all’auspicio di improcrastinabili modifiche legislative da parte del Governo, necessarie per la deflazione delle carceri, ha prospettato come linee operative da parte del DAP la diffusione di modelli trattamentali sempre più aperti e conformi ad una esecuzione penale rispettosa dei diritti e del dettato costituzionale. Di elevatissimo interesse sono stati i workshop sul tema “Affettività e Genitorialità nei luoghi di reclusione” e sul progetto “scuola di libertà. “Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere”. Numerosissime le idee ed i progetti presentati nel primo workshop, orientati ad una maggiore tutela del diritto al mantenimento delle relazioni familiari. In questa direzione l’assemblea ha auspicato modifiche al quadro normativo ed organizzativo per migliorare e implementare i contatti con i familiari sia quantitativamente (più telefonate, incontri, etc.) che qualitativamente (spazi ed interventi volti ad attutire l’impatto traumatico dei familiari, in particolare i bambini). Il secondo, che ha delineato in modo preciso e stringente le fasi dell’operatività del programma tra carcere e scuole, la cui giornata nazionale è prevista per il 15 novembre, ha fornito materiali e metodologie sul corretto approccio da porre in essere nella realizzazione del progetto, che, come ha evidenziato Ornella Favero di Ristretti Orizzonti, è necessario non sia basato sull’improvvisazione, ma richiede invece una solida preparazione pratica e concettuale al fine di non vanificarne i risultati. Le straordinarie esperienze presentate, contrassegnate da grande spirito di inventiva permeato da solide professionalità e spirito etico, riconfermano una realtà di Volontariato che spesso si è posta anche come antesignana nell’individuazione di percorsi coraggiosi e difficili e che, pur subendo momenti di sconforto e disillusione derivati dall’immobilità delle situazioni non si è mai arresa: nel sollecitare le istituzioni verso una carcerazione più umana, nell’idea della pena non solo come retribuzione ma come opportunità di riscatto della norma infranta attraverso un sistema di esecuzione penale rispettoso dei diritti umani. Elisabetta Laganà, presidente Cnvg Studenti che pensano al carcere con occhi nuovi, liberi dai pregiudizi Il Mattino di Padova, 10 giugno 2013 Un progetto che ha coinvolto più di 6000 studenti delle scuole di Padova e di molte città del Veneto, 150 incontri con detenuti, ex detenuti, magistrati, operatori, nelle classi (260 classi hanno partecipato) e poi in carcere, organizzati dalla redazione della rivista del carcere, Ristretti Orizzonti, con il sostegno del Comune di Padova e della Casa di reclusione: ma i numeri non bastano a spiegare il senso e l’importanza del progetto “Il carcere entra a scuola, le scuole entrano in carcere”, che si è concluso martedì scorso in un cinema gremito di ragazzi. Forse meglio di tutto quel senso lo spiegano i testi con cui due studenti hanno vinto il concorso di scrittura collegato al progetto, uno per le medie inferiori, la lettera scritta da un ragazzo a un detenuto incontrato in classe, l’altro per le superiori. Anch’io stavo iniziando a prendere cattive abitudini di Kevin Deffogang, 3aB Falconetto Caro Rachid, mi chiamo Kevin e frequento la scuola media Falconetto. Martedì 9 aprile ho potuto ascoltarti mentre parlavi della tua storia e del perché sei finito in carcere. Tra le tante storie la tua è stata quella che mi ha colpito di più per due motivi: 1) perché l’avevamo già letta in classe, in un articolo del vostro giornale, e quindi è stato molto più coinvolgente sentirla raccontata da te, 2) perché mi ha spinto a riflettere sul fatto che tu sia partito da piccole abitudini negative prima di arrivare a compiere il reato. Il secondo motivo è quello che mi ha spinto a riflettere su me stesso. Anch’io stavo iniziando a prendere cattive abitudini che però dopo il tuo incontro sto cercando di eliminare. La più pericolosa è quella di non rispettare il codice stradale mentre vado in bici, e questo mio mancato rispetto del codice è dovuto alla “filosofia scatto fisso” (le scatto fisso sono bici con le quali devi pedalare sempre, sennò la bici frena). Perciò io, siccome non voglio frenare la mia corsa a causa di ostacoli (semafori, macchine, dare la precedenza), cerco sempre di aggirarli compiendo azioni che vanno assolutamente contro il codice stradale. Il brutto di queste azioni non è il fatto che io possa causare gravi incidenti, ma che esse mi diano una sensazione di libertà che mi spinge a compierle ancora e ancora. Così come a te il coltellino dava una sensazione di forza e di superiorità rispetto agli altri, e quindi per provocare queste sensazioni decidesti di portartelo sempre dietro. Rachid, la tua storia mi è stata molto di aiuto perché non so dove o come sarei finito continuando ad avere queste cattive abitudini. La parte che mi ha colpito di più è stata la descrizione del momento in cui eri latitante in Francia. Ciò mi ha fatto capire quanto difficile sia vivere da “fuorilegge”; con la paura di essere catturato 24 ore su 24, con il sospetto verso qualunque persona tu veda. Queste sono, secondo me, le cause della perdita della propria vita sociale. Non ha senso scappare tutta la vita per provare queste emozioni, tanto vale farsi arrestare, scontare la propria pena, uscire e godersi quel che ti resta da vivere. Infine questo incontro mi ha fatto riflettere sul fatto che voi carcerati siete persone normali, che hanno sbagliato commettendo errori, molto più gravi rispetto ad altri. Ma almeno voi vi pentite ogni giorno di quello che avete fatto, a differenza di altra gente, qua fuori, che sbaglia e se ne frega. Prima di incontrarvi io sinceramente non avevo nessuna aspettativa, zero emozioni, ma voi siete riusciti a mostrarmi la “retta via”. Rachid sono molto felice di averti incontrato e spero di rivederti ancora, ma da uomo libero. Dialogo immaginario tra due ragazze che hanno incontrato la Redazione di “Ristretti Orizzonti” di Sara Guerriero, classe 5I , liceo delle Scienze umane Duca d'Aosta “Certo che questi detenuti se le vanno proprio a cercare, eh!” “Ma cosa stai dicendo? Hai sentito le storie che hanno raccontato? Secondo te è colpa di Carmelo se è nato in una famiglia in cui non ha ricevuto alcuna forma di affetto?” “Secondo me sono tutte scuse per non prendersi le proprie responsabilità. Non mi fanno pena. Se rubi, vai in carcere. Punto. Se uccidi poi… dovrebbero rinchiuderti e buttare via la chiave!” “Non devono farti pena infatti. Dovresti solo provare un briciolo di empatia. Emma, ora ti chiedo… perché tu non sei in carcere?” “Che razza di domanda sarebbe? Non sono in carcere perché non ho commesso alcun reato”. “E perché non hai commesso alcun reato? Sei forse nata in una famiglia povera? Sei cresciuta in un ambiente in cui la delinquenza era la routine? Hai mai subito violenze da parte dei tuoi familiari? Nella tua famiglia ci sono persone che hanno problemi gravi e per questo sei costretta ad assumere farmaci a causa di un’instabilità psicologica?” “È inutile che continui così. Ho capito dove vuoi arrivare, ma non mi farai cambiare idea.” “Questo è il nostro problema: la chiusura mentale, l’egocentrismo. Se io vivo serenamente, non ho bisogno di alzare lo sguardo per conoscere altre realtà. Io sono nel giusto e ho i miei diritti. Se tu ti droghi vai in galera, senza vie di mezzo, senza scuse. E l’articolo 27 della nostra Costituzione potrebbe anche non esistere”. “Adesso ti improvvisi anche avvocato, Sara?” “No, cerco solo di tirarti fuori un qualche infimo represso istinto di umanità”. “Sì, eccola la santarellina! E di Marco cosa mi dici? È un tossicodipendente! Cosa c’era che non andava nella sua storia?” “Gli incontri sbagliati. Chi cerca la droga è insoddisfatto affettivamente, altrimenti non si rifugerebbe nella tossicodipendenza. C’è sempre una grande sofferenza dietro a un detenuto. È questo che non capisci. Vedi tutto in modo così rigido, ma non puoi permetterti di giudicare chi non conosci.” “Bene, allora lasciamoli tutti liberi! Viviamo in un mondo di assassini, ladri, stupratori, mafiosi, tossicodipendenti e criminali… Cosa vuoi che sia? Poverini, non hanno fatto niente, non è colpa loro! È questo che mi stai dicendo, no?” “Certo che no. Chi ha commesso un crimine deve pagare. Ma non deve rimetterci la propria esistenza, vivendo in una realtà carceraria piena di disagi, che non rieduca, che non ascolta. Tra coloro che scontano in carcere la propria pena, appena il 18% non ricade nella delinquenza. È come dare una sberla a un bambino perché ha detto una parolaccia. Non gli hai insegnato ad utilizzare altre parole, hai solo fatto in modo che non ricommetta lo stesso errore per la paura di essere nuovamente punito. Cosa ha imparato? A non dire le parolacce in tua presenza! Appena esci di casa, le ripete agli amici. Allo stesso modo, un carcerato come può capire il suo errore se lo si rinchiude ventiquattro ore al giorno in una cella senza far nulla? Io sinceramente darei di matto e, una volta scarcerata, vorrei solo vendicarmi per la tortura subita. Ma indubbiamente questa volta cercherei di non farmi scoprire.” “E un uomo che arriva a fare del male a moglie e figli? Ulderico non doveva finire in carcere secondo te?” “A volte penso che dovrebbe essere la società a finire in carcere. La società intesa come tutte quelle ingiustizie e sofferenze che ci portano ad avere come obiettivo la sopravvivenza anziché la vita. Ulderico ha conosciuto la depressione, una malattia di cui la società è responsabile. Ti auguro di non provarla mai.” “Dimmi una cosa, Sara. Se un uomo facesse del male alla tua famiglia, ti piacerebbe vederlo girare liberamente per la città? O faresti di tutto perché venisse arrestato? “Ovviamente vorrei che fosse arrestato, ma non per questo dovrebbe marcire tutta la vita in carcere. Le carceri ti soffocano, ti rendono peggiore. Non sempre, ma spesso. E adesso posso farti io una domanda? Se tuo padre venisse arrestato per un qualsiasi reato, vorresti che vivesse in terribili condizioni di sovraffollamento, lontano dai suoi affetti, chiuso in una cella, privato di ogni forma di umanità?” “A mio padre non potrebbe mai capitare.” “Ah già, dimenticavo che noi siamo le persone normali, giuste, la razza ariana. I detenuti invece sono bestie, gli ebrei di razza inferiore. Non è possibile che i nostri due mondi si incontrino. Siamo così diversi! Dico bene? Ma dove credi di vivere?! Nell’Empireo insieme all’Altissimo Onnipotente? Tu non sei perfetta. Nessuno lo è.” “Io lo sono più di loro sicuramente.” “Siamo tutti esseri umani.” “Cosa c’è di umano in un assassino?” “Gli errori”. “Un errore è voltare le spalle a un amico, ma per questo non si va in galera”. “Un errore è credere di poter risolvere le cose pugnalando tua moglie. Un errore è pensare di non farcela da solo, affidandoti ad una compagnia di spacciatori. Un errore è credere che tutto quello che fa tuo padre sia giusto, quindi se lui ruba, puoi farlo anche tu. Ma il peggiore di tutti gli errori è permettersi il lusso di giudicare. Non parlare di ciò che non conosci.” “E tu da quand’è che conosci un detenuto, scusa?” “Da quando abbiamo incontrato i detenuti che fanno parte della Redazione di “Ristretti Orizzonti”. Li ho guardati negli occhi uno ad uno. Ho ascoltato il loro dolore. Ho vissuto virtualmente le loro storie. Mi sono commossa, perché io non so se avrei trovato la forza di andare avanti. Li ho accolti con occhi nuovi, libera dai pregiudizi. C’eri anche tu durante quell’incontro, ma non hai fatto altro che ripetere di essere spaventata perché uno di loro avrebbe potuto farti del male.” “E perché non dovevo avere paura? Erano carcerati!” “Sinceramente mi fai molta più paura tu. La tua chiusura mentale mi disgusta più di qualunque crimine. Non lasci spazio a nessun raggio di speranza, ma tutti questi pregiudizi un giorno ti si ritorceranno contro. Spero solo che, quando quel momento arriverà, troverai qualcuno disposto a cambiare opinione su di te.” Giustizia: detenuti a casa sei mesi prima e piano per 10mila posti in più nelle carceri di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 10 giugno 2013 La strategia di Cancellieri: progetto per Pianosa, raddoppia Gorgona. Per i piccoli reati obbligatorie le misure alternative. Un decreto legge per limitare gli ingressi in carcere e favorire le uscite di chi sta scontando l’ultima parte della pena. Apertura di nuove strutture per poter contare su 4.000 posti entro la fine dell’anno. Il piano carceri messo a punto dal ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri entra nella fase operativa per fronteggiare una situazione drammatica che con l’arrivo del caldo può soltanto peggiorare. E mira a recuperare in totale almeno 10.000 posti. Sono i dati forniti dalla stessa Guardasigilli durante la sua audizione al Senato e aggiornati al 15 maggio scorso, a dimostrarlo: quasi 65.891 detenuti, vale a dire circa 20 mila in più rispetto alla capienza, anche se l’associazione Antigone ne calcola almeno 30 mila. In particolare 24.697 sono in attesa di giudizio, 40.118 condannati e 1.176 internati. Un buon terzo (circa 23 mila) sono stranieri. Il provvedimento del governo potrebbe alleggerire i penitenziari, ma non sarà sufficiente. Per questo si sta valutando anche la riapertura di alcune strutture ormai in disuso. E in cima alla lista è stata inserita Pianosa, che può ospitare 500 persone. Già la prossima settimana Cancellieri potrebbe incontrare il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi per sondarne la disponibilità e per discutere il raddoppio della capienza di Gorgona. “Qui non si tratta di migliorare le condizioni - ha ripetuto due giorni fa il ministro durante la festa della polizia penitenziaria - ma di cambiare il sistema, riuscendo a dare piena concretezza al principio secondo cui la pena detentiva deve costituire l’extrema ratio. Il rimedio cui ricorrere quando si rivela impraticabile ogni altra sanzione. La reclusione potrebbe essere limitata ai reati più gravi, mentre per gli altri si dovrebbe fare più ampio ricorso alla detenzione domiciliare e al lavoro di pubblica utilità”. Il nuovo decreto “svuota carceri”. Sono proprio queste le linee guida del provvedimento che sarà portato in consiglio dei ministri entro la fine del mese. L’obiettivo è evitare il meccanismo delle cosiddette “porte girevoli” con i detenuti che entrano ed escono e, dicono gli esperti, determinano una presenza media in cella di 20 mila persone per soli tre giorni. Il decreto riguarderà i reati minori, cioè quelli che non destano allarme sociale. E si muoverà sul doppio binario. Per quanto riguarda gli ingressi, si renderà obbligatorio il ricorso alle misure alternative: detenzione domiciliare oppure affidamento in prova, a seconda dei casi. Per chi invece attende di uscire la scelta è portare da 12 a 18 mesi il residuo pena che i condannati in via definitiva potranno scontare a casa. Calcoli esatti non sono stati ancora completati, ma i tecnici di via Arenula stimano che nei primi mesi saranno migliaia i posti che potranno essere resi disponibili grazie a questo meccanismo. Il resto dovrà arrivare con misure specifiche che sono allo studio di due commissioni appena costituite. Una, guidata dal professor Francesco Palazzo, ordinario di diritto penale presso l’Università di Firenze, dovrà mettere a punto le modifiche alla legge in tema di depenalizzazione. L’altra, affidata a Glauco Giostra, componente laico del Csm, si concentrerà invece sulle misure alternative. Nuove strutture e padiglioni. Tra due settimane sarà inaugurato il nuovo carcere di Reggio Calabria che potrà ospitare fino a 318 detenuti. A metà luglio sarà invece la volta di Sassari con una struttura da 465 posti. Entro la fine dell’anno si interverrà poi in altre città: Biella con 200 posti, Pavia con 300, Ariano Irpino con altri 300 e Piacenza con 200. Nei giorni scorsi era stato il capo dello Stato Giorgio Napolitano a ribadire la necessità di arrivare a un “comune riconoscimento obiettivo della gravità ed estrema urgenza della questione carceraria, che rientra tra le priorità di azione del nuovo governo. Si richiedono ora decisioni non più procrastinabili per il superamento di una realtà degradante per i detenuti e per la stessa Polizia Penitenziaria”. Il piano messo a punto dall’Italia nella risposta alle sollecitazioni dell’Europa, prevede che entro il 2015 si trovino almeno 12mila nuovi posti per i reclusi, ma anche questo non può bastare. Il 24 giugno in Parlamento comincerà la discussione sul provvedimento firmato dall’ex ministro Paola Severino la discussione sulle misure alternative al carcere e la messa alla prova - che sospende il processo per chi rischia condanne inferiori ai quattro anni e opta per un percorso di rieducazione - ma la Lega ha già ufficializzato il suo ostruzionismo di fronte a quello che definisce “un indulto mascherato” e dunque appare difficile che l’approvazione definitiva possa arrivare in tempi brevi. Pianosa e le colonie sarde. Ecco perché al ministero della Giustizia hanno deciso di intervenire con un decreto che consenta di “regolare” subito entrate e uscite dalle carceri, ma hanno già avviato le istruttoria per rimettere in funzione strutture che finora erano rimaste inutilizzate. Su Pianosa ci sono svariati nodi da sciogliere, tenuto conto che il Sappe, il maggior sindacato di polizia penitenziaria, ha già espresso la propria contrarietà, eppure il progetto appare già in fase avanzata. Del resto la struttura è in buone condizioni, quindi potrebbe essere resa agibile senza spese eccessive. Interventi sono stati programmati anche per Gorgona, che già ospita detenuti-lavoratori. Quello di incentivare le possibilità di lavoro per chi si trova dietro le sbarre è uno dei punti chiave per Cancellieri che ha chiesto ai suoi uffici di valutare anche la possibilità di utilizzare le colonie che si trovano in Sardegna. Il problema riguarda però gli stanziamenti, visto che già adesso in molti penitenziari sono stati sospesi i programmi di impiego perché non ci sono i fondi sufficienti. Giustizia: l’Europa ci guarda, risolvere problemi delle carceri prima che arrivino sanzioni Famiglia Cristiana, 10 giugno 2013 “Entro un anno dobbiamo raccontare all’Europa cosa abbiamo fatto dei ventimila detenuti in più che ci sono nelle carceri italiane, soprattutto di quelli che sono in condizioni detentive che l’Europa considera tortura”. Il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri elenca i problemi delle nostre carceri, dai tanti suicidi agli atti di autolesionismo, al sovraffollamento, all’impossibilità, in molti istituti, di organizzare veri percorsi riabilitativi. “Pensate a persone che sono costrette a stare in una cella 24 ore su 24. Pensate a quale stato d’animo, a quali sentimenti di rabbia, di frustrazione può avere. Sappiamo invece che usare la cella solo per dormire facilita il recupero delle persone e che, quando si accede al lavoro esterno, l’80 per cento di chi ne beneficia non ha recidive”. Ma non si sofferma solo sulle cose che non vanno. “Abbiamo tanti esempi positivi, a cominciare dal carcere di Bollate a quello di Casal del Marmo che sembra quasi un college svizzero. Quello che funziona deve essere il modello che dobbiamo portare in tutta Italia”, insiste la Cancellieri. “Certo il problema è complesso e poggia su decenni di situazioni non risolte che vanno peggiorando. Ma dobbiamo subito metterci al lavoro e portare a compimento il lavoro già avviato dai miei predecessori. L’Europa non aspetta e, se non miglioriamo la situazione, quella che ci aspetta non è solo una sanzione morale”. Da Rebibbia, le detenute le regalano un foulard con le lettere dell’alfabeto ebraico. Uno dei tanti lavori realizzati dalle allieve del Corso di decorazione pittorica del Liceo artistico statale Enzo Rossi, sezione staccata presso la casa circondariale femminile di Rebibbia. Un progetto, che va avanti ormai da anni e che ha aperto le detenute al conseguimento del diploma e all’avviamento verso un lavoro da poter svolgere anche all’esterno. Con il sostegno anche dell’Associazione stampa romana - che ha istituito una borsa di studio per far proseguire i corsi alle allieve anche per il prossimo anno - i docenti del liceo romano si alternano all’interno del carcere per insegnare e lavorare con le detenute. “Ho ripreso a sognare dopo quattro anni”, spiega una di loro. “Questi foulard colorati sono un lavoro liberatorio”, aggiunge un’altra. I lavori del femminile di Rebibbia sono diventati anche grandi pannelli di mosaici. Due di questi pannelli, dal titolo frammenti, colorano le fermate della metropolitana di Rebibbia e di Santa Maria del soccorso, che è la fermata più vicina al liceo artistico. Giustizia: la Camera tenterà di risolvere l’emergenza carceri, ma senza indulto o amnistia di Matteo Mascia La Rinascita, 10 giugno 2013 Qualcosa si muove sul fronte del sovraffollamento carcerario. La commissione Giustizia di Montecitorio potrebbe presto affrontare l’esame delle proposte in grado di diminuire il numero di detenuti. Un procedimento ordinario che non avrebbe nulla a che vedere con la concessione dell’indulto o dell’amnistia, istituti per i quali è previsto il raggiungimento di una maggioranza qualificata dei 2/3 in entrambe le Camere. “Dobbiamo approvare entro l’estate delle misure urgenti per alleviare l’indegno disagio in cui versa la popolazione carceraria, sapendo che più ampie riforme di sistema interverranno nel medio e lungo periodo. C’è il massimo impegno da parte del Parlamento a lavorare sinergicamente con il Governo per risolvere il gravissimo problema del sovraffollamento carcerario, evitando un’ottica meramente emergenziale”, questa la dichiarazione di Donatella Ferranti, presidente della seconda Commissione della Camera. “Occorre - spiega la deputata del Pd - mettere in campo riforme che prevedano: un sistema di depenalizzazione, le pene alternative alla detenzione carceraria per reati di non particolare allarme sociale, la revisione della custodia cautelare in carcere, l’abolizione della ex Cirielli che attraverso i limiti imposti all’accesso ai benefici penitenziari per i recidivi reiterati è una delle cause del sovraffollamento, l’introduzione dell’istituto della messa alla prova degli adulti per reati di piccola entità, la revisione della legge Fini-Giovanardi, nuove modalità di trattamento come la custodia attenuata e l’attuazione del piano carceri”. “La Commissione giustizia della Camera - sottolinea la Ferranti - si è fatta carico sin dall’inizio dei suoi lavori di portare avanti alcuni di questi provvedimenti che sono stati calendarizzati in aula per fine giugno. Si tratta dell’atto Camera n.331, delega al governo in materia di pene detentive non carcerarie e disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili”. Le norme sono del tutto simili a quelle affossate negli ultimi giorni della XVI legislatura. Allora si preferì abbandonare al proprio destino i detenuti per concentrarsi sulla riforme della professione forense. Una scelta organizzativa al limite dell’oltraggio. Giustizia: nuove carceri ancora in stallo, centinaia di milioni bloccati e cantieri paralizzati di Patrizio Gonnella Italia Oggi, 10 giugno 2013 Ancora stallo nella costruzione di nuove carceri. Centinaia di milioni bloccati e cantieri che non vanno avanti. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) ha depositato alla Camera dei deputati la relazione annuale sullo stato dell’edilizia penitenziaria e sullo stato del Piano carceri, quest’ultimo oramai risalente al 19 marzo 2010. Fu allora approvato in pompa magna con ordinanza del consiglio dei ministri. Nel resoconto del Dap si distingue ciò che è fuori dal Piano carceri da ciò che vi è ricompreso. Tra i vecchi progetti ancora irrealizzati vi sono per esempio le carceri di Forlì, Rovigo e Savona. Le prime due sono state progettate e iniziate a costruire svariati anni fa. Ora si dice che Forlì e Rovigo non saranno aperte prima del 2015. Il carcere di Savona è addirittura ancora solo sulla carta. Il tutto per problemi con le imprese appaltatori. Quasi quindici anni quindi per costruire un carcere. Il caso di Rovigo è emblematico. L’area fu individuata nel lontano 2003. Due anni prima, il 30 gennaio 2001, il ministro della giustizia Piero Fassino con decreto dispose la dismissione di ventuno carceri, tra cui Rovigo, incaricando l’allora direttore del Dap di reperire le aree dove localizzare nuovi istituti penitenziari da costruire in sostituzione di quelli che sarebbero stati dismessi. La prigione vecchia di Rovigo sarebbe quindi da dismettere. Fu bandito un concorso per idee finalizzate all’elaborazione di un prototipo originale e inedito di istituto penitenziario di media sicurezza a trattamento penitenziario qualificato. Era la primavera del 2001. Veniamo al Piano carceri. Si legge nella relazione ministeriale che rispetto agli originari 11 istituti e 20 padiglioni si è passati, a causa dei tagli alle risorse, a 4 istituti (Torino, Catania, Pordenone e Camerino) e 16 padiglioni (Lecce, Taranto, Trapani, Milano Opera, Sulmona, Vicenza, Siracusa, Ferrara, Parma, Bologna, Roma Rebibbia, Trani, Bergamo, Caltagirone, Reggio Emilia, Napoli Secondigliano) per complessivi 5.400 posti letto e 368,7 milioni di euro. Nel Piano carceri si parla anche del completamento e del recupero di strutture non complete o chiuse. Le gare di assegnazione sono state perlopiù espletate ma neanche un carcere è avviato alla costruzione. Eppure sono passati tre anni dall’approvazione del piano carceri ed è stato dichiarato lo stato di emergenza determinato dal sovraffollamento. L’Italia entro il 27 maggio 2014, così come ha sentenziato la Corte europea dei diritti umani (Cedu), dovrà trovare 30 mila posti letto oppure scarcerare 30 mila persone, salvo non voglia incorrere in centinaia di condanne che le costeranno milioni di euro di risarcimenti. Oggi i detenuti sono più di 66 mila e i posti letto sono meno di 40 mila. Non è quindi la via della edilizia penitenziaria a poter essere una risposta alle richieste della Cedu: non una persona in più rispetto agli spazi vitali a disposizione. Giustizia: “Fine pena: mai”… vivere senza speranza nelle carceri italiane di Michele Brambilla La Stampa, 10 giugno 2013 Sono 1.500 i detenuti condannati all’ergastolo più duro che non prevede permessi né sconti. Come resistono? Sui certificati di alcuni detenuti c’è una scritta che dice così: “Fine pena: mai”. La leggono, accanto al proprio nome, uomini e donne che hanno commesso crimini terribili: spesso, che hanno ucciso. In Italia è aperto da tempo un dibattito. C’è chi dice che l’ergastolo è giusto perché se certi colpevoli sono condannati a stare in carcere tutta la vita, le loro vittime sono già sotto terra. Altri obiettano che l’ergastolo è contrario ai principi stessi della Costituzione, la quale prevede la rieducazione del reo e il suo reinserimento nella società. In Italia esistono due tipi di ergastoli. C’è quello cosiddetto semplice, che dà la possibilità al condannato di uscire, se ha mostrato di meritarlo, dopo trent’anni; e dopo quindici, a metà pena, per qualche permesso. Millequattrocento nostri detenuti hanno invece l’ergastolo “ostativo”: il più duro, quello che non prevede, fino alla morte, né permessi né semilibertà. Ho incontrato tre ergastolani nel carcere di massima sicurezza Due Palazzi di Padova. Due di loro, Musumeci e Cataneo, hanno l’ergastolo ostativo; Dinja quello semplice. Ho chiesto loro se si può vivere anche così, apparentemente senza speranza. Ecco le loro testimonianze. Il mafioso. “Se penso al suicidio? Tutti i giorni” Carmelo Musumeci, 58 anni, nato ad Aci Sant’Antonio in provincia di Catania, è stato condannato all’ergastolo ostativo - per associazione mafiosa e omicidio. Ha avuto un solo permesso, di undici ore, nel 2011, quando si è laureato in legge con una tesi intitolata “La pena di morte viva”. Su un braccio ha tatuato i nomi dei due nipoti. Mi riceve appoggiando sul tavolo un quaderno rosso con l’effigie di Che Guevara. “Sono dentro da 23 anni. Da qualche tempo partecipo al progetto con le scuole di Ristretti Orizzonti e per me è stato come aprire una finestra sul mondo. Incontrare i ragazzi fa fare i conti con la propria coscienza, ed è molto doloroso. I primi giorni non ce la facevo. Avevo perso l’abitudine a confrontarmi”. “Stare a marcire in cella ti fa sentire innocente di essere colpevole. Dici: anche chi mi ha messo dentro non rispetta le leggi. Così, ti auto-giustifichi. Il carcere in Italia è una fabbrica di delinquenti. “Avevamo il privilegio, noi dell’alta sicurezza, di stare in celle singole. Mi ero costruito, in quello spazio, il mio mondo. Chi ha l’ergastolo si attacca a certe piccole cose. Adesso mi hanno messo in cella un altro cadavere”. “Non sono uno stinco di santo. Ai miei figli dico sempre che ho sbagliato. Un giorno uno di loro due - aveva quindici anni - fu trovato dalla mamma con uno spinello. Allora io gli dissi, per la prima volta nella vita perché non lo sapeva, che stavo scontando un ergastolo. Gli spiegai che anch’io avevo cominciato con piccoli reati. Lui si mise a piangere e mi abbracciò. Se sono stato un buon padre, è perché non ho nascosto le mie responsabilità”. “Se penso mai al suicidio? Tutte le sere e tutte le mattine. Nella mia condizione, sarebbe da pazzi non pensarci. Chi si uccide qui dentro, è perché ama così tanto la vita che non sopporta di vederla appassire”. Il lavoratore. “Sono in un buco nero, ma ho scelto una via bianca” Questa è la storia di Bledar Dinja, 38 anni, albanese. Fu arrestato la prima volta nel suo Paese a 15 anni. Nel 2002 gli è stato inflitto l’ergastolo in Italia per omicidio, nel 2003èstato catturato. Dicono che era un pericoloso capobanda, e chi lo ha conosciuto qui in carcere racconta che fino a qualche anno fa faceva paura solo a guardarlo. Adesso i suoi occhi comunicano tutt’altro. Mi chiede di chiamarlo Giovanni: è il nome che ha scelto due anni fa, quando è stato battezzato qui all’interno del Due Palazzi. Il giorno del battesimo c’erano anche i suoi genitori, musulmani. Dissero: “Questo figlio era la nostra vergogna e ora è il nostro orgoglio perché ha trovato Dio. Non importa se è il Dio cristiano”. Bledar Giovanni lavora nella cucina e nella pasticceria con la Cooperativa Giotto. Siede di fronte a me a pranzo, nella piccola mensa. Si alza la bandana e mi fa notare che l’orecchio destro non c’è più: “Come vedi, non ho avuto una vita facile”, dice. “Per tanti anni qui dentro non ho voluto vedere nessuno. Questi della cooperativa che fanno lavorare in carcere mi prestavano molte attenzioni, ma io diffidavo. E poi mi chiedevo: perché si interessano proprio a me? Io sono uno che ha fatto molto male, non merito niente, non sono degno di niente”. “Con il passare del tempo ho capito che questi uomini non mi chiedevano nulla, e neanche si interessavano a quello che ho fatto. Per loro ero semplicemente una persona, e per loro ogni persona vale. Ho cominciato a lavorare al reparto biciclette, poi alla pasticceria. Ho cominciato anche a leggere la Bibbia, e i libri di don Giussani”. “Non so se uscirò mai dal carcere, ma ho capito che nella vita si può finire in un buco nero o su una via bianca. E anche se sei chiuso dentro con un ergastolo hai sempre la possibilità di prendere la via bianca”. L’omicida. “Dentro da 20 anni. La vita fuori ormai mi fa solo paura” Nella piccola mensa del carcere - mangiare in compagnia è il privilegio concesso ai detenuti che lavorano, qui a Padova 120 su 920 - incontro un altro siciliano condannato all’ergastolo ostativo per omicidio. Si chiama Emanuele Cataneo, compirà 45 anni in novembre, è nato a Noto in provincia di Siracusa. “Sono stato arrestato ventidue anni fa, quando ero un ragazzo. A volte mi viene da dire che chi sta scontando la pena è un’altra persona rispetto a quella che è stata condannata”. “Ho l’ergastolo ostativo perché al processo mi sono rifiutato di parlare. Se avessi parlato, sarei uscito il giorno dopo, con un premio di mezzo milione di euro e la protezione. Mi sono detto estraneo al reato che mi veniva contestato e ho deciso di non collaborare. La conseguenza è stata l’ergastolo”. “La mia scelta di ventidue anni fa ha provocato una condanna che si rinnova ogni giorno. Tutte le volte che chiedo un permesso, mi viene negato perché ventidue anni fa mi sono rifiutato di parlare. Che cosa vorrebbero da me oggi? Che parlassi per raccontare che cosa? Sono dentro da metà della mia vita e ormai, fuori, non conosco più nessuno. A Noto sono cambiate due generazioni”. “Mi sono sempre professato innocente, ma dopo tanti anni qua dentro si ripensa agli errori che si sono fatti. Credo che quando una persona riflette veramente, difficilmente poi ripeterà gli stessi errori che ha commesso”. “Da otto mesi lavoro all’interno del carcere, ed è una grande fortuna. Ma mi manca la speranza. Il pensiero di un domani fuori. Con l’ergastolo ostativo non ci saranno mai permessi né semilibertà. Mi dicono che devo pensare e vivere il presente, ma il presente è fatto anche di progetti, e io non posso averne”. “Però ogni tanto guardo al di là della finestra e penso che la vita fuori mi fa paura, più di quella dentro”. Giustizia: lavorare in carcere, quando la pena fa bene al detenuto di Michele Brambilla La Stampa, 10 giugno 2013 A Padova la Cooperativa Giotto dà un impiego in cella a 120 persone. In tutta Italia sono 800: “Cambiare si può”. All’ingresso del corridoio che porta ai laboratori è scritto “Fatti non foste a viver come bruti”. “Nessun uomo è fatto per perdersi”, mi dice il signore che mi accompagna in questa parte del “Due Palazzi”, carcere di massima sicurezza di Padova. Si chiama Nicola Boscoletto e con la sua Cooperativa Giotto fa lavorare, qui dentro, centoventi detenuti. Viver come bruti non è solo il rubare, l’uccidere, il fare tutto quello che porta in galera; è anche stare a marcire in cella tutto il giorno senza uno scopo, una speranza. Ci sono, sul muro, riproduzioni di dipinti celebri e alcune frasi di sant’Agostino. Una fa capire da quanto lontano arrivino i principi, purtroppo disattesi, che hanno ispirato i nostri padri costituenti: “La condanna deve estirpare il peccato e non annientare il peccatore”; un’altra sembra rivolta a placare certi istinti di oggi e, forse, di sempre: “La pena non deve avere il carattere di una vendetta, né di una incontrollata ed esorbitante scarica emotiva”. Ci sono anche foto delle reliquie di sant’Antonio che un paio di anni fa vennero portate qui dentro, e forse tanta roba cristiana in un posto del genere - pieno di assassini, mafiosi rapinatori e spacciatori - potrà scandalizzare qualcuno. Ma la prima Chiesa, probabilmente la migliore, non era un club per gente perbene. Quel che stiamo andando a visitare è lontano anni luce dal buonismo: chi sbaglia deve andare in carcere e le pene vanno scontate tutte. Ma c’è un punto fermo, l’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Mi dice Boscoletto: “Vede quella grande fotografia appesa al muro? È stata scattata nel 1951 nel carcere di Noto”. Sono ritratti alcuni agenti di custodia sotto la scritta “Vigilando redimere”, e in mezzo a queste due parole è disegnata una bilancia della giustizia in pareggio. “Solo se oltre a vigilare si lavora per redimere i conti tornano”, dice Boscoletto. Siamo lontani anni luce anche dall’idea dell’assistenzialismo, o di un vecchio concetto di carità. Quello che si fa qua dentro è lavoro vero. Si producono cose che vanno sul mercato e che quindi devono essere fatte bene per essere vendute. I detenuti sono assunti in regola e prendono uno stipendio di 900-950 euro al mese. Vanno però detratte naturalmente le tasse; poi un quinto per spese processuali ed eventuali sanzioni; quindi una quota per il vitto e l’alloggio in carcere perché non è giusto che chi ha sbagliato debba essere a carico della collettività: in Italia un carcerato che non lavora costa allo Stato circa 250 euro al giorno, 113 solo al ministero della Giustizia. E poi il detenuto deve abituarsi a essere responsabile: quando uscirà, si dovrà pagare l’affitto. Entriamo nel call center. Qui ventotto detenuti prendono le prenotazioni per gli esami in ospedale; rispondono per conto di una società che vende energia elettrica e gas; fanno da consulenti ai cittadini che non sanno come raccapezzarsi con l’Imu. Su una parete è riprodotta la cappella degli Scrovegni “perché il bello concorre al bene”. In un altro laboratorio si assemblano dalle 140 alle 200 biciclette al giorno: la sera, prima di tornare in cella, bisogna aspettare che le guardie facciano l’inventario di cacciaviti, lime, seghe, chiavi inglesi: se manca anche solo un pezzo, si sta tutti lì finché non salta fuori. “Ma non è mai successo niente”, mi dicono. Ecco il laboratorio dove si confezionano le chiavette elettroniche per la firma digitale, poi quello che serve una nota valigeria veneta. Quindi forse il più famoso: la pasticceria. I panettoni della Giotto sono apprezzati in tutto il mondo, e da tre anni il Papa li compra per fare i regali di Natale. Andiamo a pranzo. In carcere i detenuti devono mangiare ciascuno nella propria cella, ma quelli che lavorano possono stare insieme in una piccola mensa. Ho di fianco Armand Merkohasa, albanese. Deve scontare ventitré anni, è dentro da sette. Si è appena fatto battezzare e ha preso il nome cristiano di Davide. Tira fuori una lettera che ha scritto e la legge: è un ringraziamento per Boscoletto. “Mi ha cambiato la vita”, dice. Di fronte ho un siciliano che ha l’ergastolo ostativo, il più duro. Chiede come possa, uno come lui, avere una speranza. Boscoletto lo invita a vivere il meglio possibile il presente, poi disegna sulla tovaglia di carta un puntino in un piccolo cerchio: “Questo sei tu dentro il carcere”. Poi disegna un cerchio molto più grande, che occupa tutta la tovaglietta: “E questo è il mondo fuori. Anche quello è limitato, anche quello ha dei confini. Solo che tu non li vedi. Tutti siamo chiusi in un limite, per il solo fatto di essere uomini. Tutti siamo alla ricerca di un senso”. Come è possibile che queste persone, queste facce che mi sorridono, scherzano, parlano di figli e di genitori, com’è possibile che abbiano ucciso stuprato sequestrato rapinato spacciato? Perché guardandoli cade l’illusione che avevamo, che non fossero uomini come noi? “Non c’è una tendenza inestirpabile a delinquere. Quando dai loro una possibilità, nove volte su dieci prendono la strada giusta “, mi dice Boscoletto. “Il detenuto che fa un lavoro vero, e non una semplice occupazione di tempo, riacquista una sua dignità, si sente utile. Anche lo stipendio è importante. Prima chiedeva i soldi a casa, adesso è lui che li manda, e così si risente figlio, padre, marito”. Ci sono dati che fanno capire perché la vera soluzione all’emergenza denunciata da Napolitano sarebbe il lavoro. In Italia la recidiva è, ufficialmente, del 68 per cento: ma è una percentuale calcolata solo sui reati dei quali viene scoperto il colpevole, che sono solo il 21 per cento. Quindi, in realtà, la recidiva per chi esce di galera è attorno al novanta per cento. Per quelli che in carcere hanno avuto un lavoro vero, è invece attorno all’1-2 per cento. Eppure, su 66 mila detenuti, la stragrande maggioranza sta in cella tutto il giorno a morire lentamente. Ci sono i cosiddetti “lavori domestici” (pulizie e piccole manutenzioni in carcere) che occupano, ma molto saltuariamente, 11.700 persone: per loro, la recidiva è la stessa di chi non fa nulla. Solo ottocento hanno un vero lavoro in carcere. Altri sette-ottocento hanno il permesso di lavoro all’esterno. Perché così pochi? Il lavoro esterno ha oggettivi problemi di vigilanza: ma quello all’interno del carcere? Perché solo ottocento su 66 mila? Il dubbio è che certe opere virtuose siano come una piastrella bianca su un muro grigio, e quindi danno fastidio, perché la loro pulizia fa risaltare la sporcizia che c’è. Giustizia: Sottosegretario Ferri; carcere sia extrema ratio, più spazio a misure alternative Adnkronos, 10 giugno 2013 Carcere come extrema ratio, solo nei casi dei reati più gravi e di elevato allarme sociale, ampliare lo spazio di applicazione delle misure alternative e ridurre la custodia cautelare. Sono queste le linee su sui devono muoversi gli interventi per affrontare l’emergenza delle carceri italiane per il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri che, intervistato dall’Adnkronos, suggerisce una road map, che consenta al nostro paese di rispondere in modo adeguato anche ai molti richiami dell’Europa sulla drammatica condizione di sovraffollamento degli istituti penitenziari. Gli ultimi numeri forniti dal Dap, aggiornati al 31 maggio, fotografano infatti una situazione allarmante: i detenuti presenti in 206 carceri sono 65.886 a fronte di una capienza regolamentare di 46.995 posti. Tra questi 40.228 hanno una condanna definitiva, mentre 24.342 sono in attesa di giudizio. “Il carcere deve costituire extrema ratio - ammonisce Ferri - la pena detentiva deve essere riservata ai casi più gravi, i delitti di allarme sociale, e deve essere pena certa ed effettiva. Per il sottosegretario occorre de-burocratizzare la fase dell’esecuzione penale e penitenziaria, dando più spazio alle misure alternative, va ripensato il sistema di preclusioni normative che limita la possibilità del giudice di valutare nel merito la possibilità di ammettere il detenuto a forme di espiazione della pena esterne al carcere, coniugando esigenze di sicurezza dei cittadini e finalità deflattive. E la possibilità di applicazione delle misure alternative va rafforzato da parte del giudice sia all’esito del procedimento di merito che in sede di esecuzione penale”. Quanto alla condizione di vita dei detenuti “devono essere elevati gli standard detentivi, tenendo conto delle raccomandazioni europee e delle decisioni della Cedu, limitato il flusso in entrata”. Per alcune tipologie di reato meno gravi, i reati definiti bagatellari, suggerisce Ferri, “si può pensare, nella fase cautelare, anche a un’istanza di parte subordinata a una cauzione, quando il giudice ritenga che non vi sia pericolo di fuga e che vi siano i presupposti per attenuare la misura”. Va aperta, infine, “una seria riflessione sulla carcerazione preventiva e sul fenomeno dei detenuti che statisticamente risultano permanere negli istituti penitenziari per pochi giorni”, il cosiddetto fenomeno delle porte girevoli, che riguarda il passaggio in carcere subito dopo l’arresto, sul quale è intervenuto il decreto “salva-carceri” dell’ex ministro della Giustizia, Paola Severino. Giustizia: Cancellieri; stato carceri minorili è eccellente, avvieremo riforma ordinamento Dire, 10 giugno 2013 “Lo stato delle carceri minorili in Italia è eccellente. Le strutture sono molto buone. L’attività che fanno i ragazzi detenuti è sicuramente molto positiva. Fanno di tutto, dallo studio allo sport. Casal del Marmo, soprattutto, l’ho trovato particolarmente bello. Ciò nonostante dobbiamo fare una forte riflessione sul tema della giustizia minorile alla luce delle nuove tecnologie e davanti a un crimine che si allarga”. Lo dice Annamaria Cancellieri, Ministro della Giustizia, a Radio Anch’Io nella puntata odierna sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza. In Italia, aggiunge, “sono circa una sessantina le madri detenute assieme ai propri figli piccoli. Stiamo lavorando perché vogliamo far sì che mai più bimbi in carcere. Questi bambini devono vivere accanto alle loro mamme in una condizione di tutela, di vigilanza ma in una sorta di carcere attenuato. Hanno diritto a un altro ambiente”. Avvieremo riforma ordinamento minorile “Avviare l’elaborazione di un ordinamento penitenziario minorile più moderno, accompagnato da un coerente corpo di norme sull’esecuzione delle pene”. È uno degli obiettivi che si è prefissa Annamaria Cancellieri, nel suo ruolo di ministro della Giustizia. Un obiettivo ribadito oggi, in occasione della presentazione della seconda relazione annuale dell’Autorità Garante dell’Infanzia e dell’Adolescenza, rispondendo all’appello venuto poco prima proprio dal Garante Vincenzo Spadafora. “Gli adolescenti - ha proseguito Cancellieri - sono spesso, certo, tristemente vittime di reati, ma non possiamo tralasciare i casi in cui sono, altrettanto tristemente, autori di reati. La nostra responsabilità verso questi ragazzi è grande - ha ricordato - perché nessuno di loro è irrecuperabile, nessun ragazzo ha scolpita nel proprio destino la delinquenza, il carcere. Per questo - ha aggiunto - intendo sviluppare al massimo le attività indirizzate al recupero dei minori e dei giovani adulti e realizzare concrete opportunità di reinserimento socio-lavorativo”. In generale, il ministro Cancellieri ha ricordato che “dobbiamo essere tutti consapevoli che un obiettivo prioritario sia quello di rafforzare la capacità che ha lo Stato di operare in una prospettiva costituzionalmente orientata alla costruzione di una società giusta. E non c’è società giusta se non c’è attenzione per le giovani generazioni, per i ragazzi, qualunque sia la loro condizione giuridica. È per questo che nel programma del mio mandato - ha ricordato - ho ritenuto di dover includere uno specifico settore di interesse e di studio che si occuperà di famiglia, minori, adozioni, ovviamente nella prospettiva della tutela giurisdizionale. La parcellizzazione delle istituzioni che si occupano di tutela dei diritti dei minori, di famiglia - ha quindi concluso - è da sempre un tema aperto sul fronte della giustizia e io credo utile avviare un confronto”. Giustizia: Osapp; filmare le fasi dell’arresto e della custodia nelle “camere di sicurezza” Italpress, 10 giugno 2013 “Sono anni che, in quanto Poliziotti Penitenziari subiamo, senza alcuna possibilità di smentita, illazioni e accuse di ogni genere per presunte percosse e persino per torture che sarebbero inflitte a chi perviene al carcere dalla libertà e per tali motivi abbiamo chiesto, tra l’altro al Presidente del Tribunale di Roma, l’installazione di telecamere nelle camere di sicurezza del palazzo di giustizia della Capitale”. Ad annunciarlo è Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) che aggiunge: “infatti, se le telecamere a Piazzale Clodio di Roma ci fossero state quattro anni fa, come anche noi come sindacato avevamo vanamente richiesto, è probabile che la verità sull’estraneità dei poliziotti penitenziari nella morte di Stefani Cucchi sarebbe venuta da tempo a galla”. “Ma più in generale, tenuto conto, che le accuse di violenze e di comportamenti irregolari vengono avanzate nei confronti di tutte le Forze di Polizia che svolgono attività di prevenzione e repressione del crimine sul territorio - prosegue il leader dell’Osapp - è opportuno che, come avviene in altri stati quali ad esempio gli Stati Uniti, sia valutata la possibilità di filmare le fasi sicuramente delicate dell’arresto e della permanenza nelle camere di sicurezza dei soggetti sottoposti a tali misure, prima dell’eventuale accompagnamento in carcere”. Giustizia: Boldrini-Cancellieri incontrano familiari vittime abusi subiti in stato detenzione Tm News, 10 giugno 2013 Domani Luigi Manconi, presidente della Commissione speciale per i diritti umani, guiderà una delegazione composta da Ilaria, Rita e Giovanni Cucchi, Lucia Uva, Grazia Serra Mastrogiovanni e altri familiari di vittime di illegalità e di abusi, subiti in stato di privazione della libertà, che incontrerà i rappresentanti di istituzioni pubbliche. Il gruppo di familiari verrà ricevuto dal Presidente della Camera, Laura Boldrini, dal Ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, e dai capigruppo parlamentari Renato Brunetta, Vito Crimi, Gennaro Migliore, Andrea Olivero e Luigi Zanda. Lo ha reso noto Manconi. Lettere: diario minimo semi-serio di un direttore di carcere di Antonio Gelardi (direttore Casa di reclusione di Augusta) www.leduecitta.it, 10 giugno 2013 Soffro sempre (dopo appena trent’anni di lavoro) il carcere di sera. Come oggi pomeriggio, uscendo dai reparti, dopo avere parlato al teatro con dei gruppi di detenuti. I corridoi semi deserti, senza quella animazione che c’è di giorno che mitiga l’innaturalezza, mettono una tristezza che non si può reggere. Ne vale la pena? la risposta va cercata oggi giorno, vedendo se siamo in grado di portare vita. E, ovviamente, riceverla. Dal 3 al 7 giugno andrà in scena lo spettacolo “Il carcere va a scuola” svolto in collaborazione fra la Casa reclusione Augusta ed il liceo Arangio Ruiz di Augusta. Con Teatro/detenuti/studenti il carcere si è aperto alla città e abbiamo 1200 persone autorizzate che verranno da noi, nel nostro teatro, nei cinque giorni. Ieri, sempre nella zona teatro, ho svolto una importantissima attività dirigenziale: con l’Assistente Capo della MOF e l’Ispettore addetto alle attività abbiamo fatto una importante verifica per sistemare un secondo servizio igienico nella zona. Ogni tanto mentre discutevamo di toilette e mattonellature, mi spuntava un sorriso e mi dicevo “certo, hai studiato giurisprudenza, hai fatto corsi di aggiornamento, fatto sforzi per migliorare la tua preparazione e ora metti a frutto, affrontando con piglio manageriale, questi problemi strategici”. Poi arriva il giorno della prima e il teatro comincia a riempirsi di ospiti esterni, è bello cogliere l’essenza di questi momenti, il chiasso dei ragazzi che con i loro compagni di teatro, ladri assassini spacciatori (ma sarà proprio vero?, mi sembra di leggere nei pensieri di questi studenti che nei detenuti riescono a vedere solo i loro compagni di scena) insieme trasportano sul palco mobili e parti della scenografia. Siamo così giunti al grande giorno, dietro le quinte si respira l’atmosfera frenetica che mescola nervosismo, ansia, incoraggiamenti reciproci, paura di dimenticare le battute, la ricerca di un dettaglio che in quel momento appare fondamentale. Gli attori, il regista, gli agenti, le insegnanti, gli educatori sembrano immersi in un gioco in cui tutti hanno scommesso su un’unica squadra, la squadra che deve vincere. E a me ritornano in mente le lunghe discussioni con gli agenti “Dottore ma sti saluti co sti bacetti???” e io che dico “senti Assistente, non c’è bisogno che voi vi mettiate dietro le quinte, sì ci sono delle ragazzine, ma che volete che facciano, ci stanno le insegnati comunque a controllare. E mi ripeto la frase di Danilo Dolci che mi porto sempre scritta nella mente “Vince chi non si illude”. E l’essenziale viene fissato dall’immagine di un detenuto e di un ragazzo seduti accanto, che aspettano il loro turno per entrare in scena, la mano del ragazzo poggiata sulla spalla del suo compagno. Lacrime e risate fanno parte della medesima intensità. E il problema è poi trovare la forza di vivere tutto con intensità. Oggi è stata una bella giornata, non solo perché il teatro era pieno di luce e l’area verde era luminosa, non tanto perché di giornalisti ne sono venuti, ma per la sensazione che le persone che collaborano con me, comunque rassegnate a questo via vai di gente, realizzassero che il via vai alla fine renda meno grigio, meno cupo ma si, anche più vivo, il loro lavoro. E le domande, serve, si riesce a costruire, a buttare dentro aria, luce, colore si può? si riesce? o si torna sempre, perennemente, punto e a capo e in balia dei tanti eserciti del nulla, oggi fronteggiati, ma domani? È la domanda (con risposta negativa) dello svedese di Roth. Per ora porto un pò a spasso i miei pensieri. Di oggi mi è rimasto negli occhi soprattutto la tenerezza dei ragazzi che, alla fine, si tenevano per mano con i loro compagni di scena, prendendosi gli applausi e i loro interminabili saluti dicendosi a domani, domani faremo ancora meglio... Comunque oggi è andata. Domani, prima replica per il pubblico esterno. Oggi 4 giugno, allo spettacolo del pomeriggio sono seduto nelle ultime fila per guardare e sentire tutto l’insieme. I pensieri stupiti delle persone che vengono da fuori devono restare intrisi nelle mura del teatro e del carcere, mi dico, perché esistono umori positivi e umori negativi, spiriti di vita che lottano contro il grigio e il nulla e si può solo buttare dentro aliti di vita e sentirne la risonanza. Domani e dopodomani gli spettacoli sono di mattina, con gli altri studenti del liceo come spettatori, farò una capatina sul tardi per vedere come gira, poi venerdì sera l’ultimo spettacolo. Di stasera mi è rimasta la luce negli occhi degli attori, un luccichio di vita. Oggi 7 giugno, con l’ultima replica è terminata questa esperienza. Cosa resta di questi cinque giorni? Una fra tutte, la convinzione che il carcere è un posto innaturale e che la presenza dei ragazzi può renderlo un po’ umano. Di questi ultimi tre giorni mi è rimasta l’immagine delle decine di motorini dei ragazzi delle scuole che venivano a vedere lo spettacolo dei loro compagni, nello spiazzo dove di solito c’è la presenza dolente dei familiari in attesa per i colloqui, del non detto fra i detenuti e gli studenti mescolati, insieme, di Giulia, la più giovane delle studentesse attrici, la più brava, 14 anni, che ogni giorno alla fine si avvicina e dice “Direttore, oggi come sono andata?”. Del giorno in cui c’erano i parenti dei detenuti mi resta la naturalezza con la quale una ragazza, figlia di uno degli attori detenuti, mi si è avvicinata e mi ha dato un bacio. E poi mi resta il fatto che c’erano studenti che gli anni scorsi avevano partecipato al progetto ed sono tornati per emozionarsi, e una che ha detto: “quest’anno ho saltato , ma l’anno prossimo voglio esserci!”. Penso che questa è la cultura della perseveranza, dello scavare un pò tutti i giorni, che è la sola che paga. Ma poi subito ricordo a me stesso che comunque vince chi non si illude ed è nel movimento delle giornate che attribuisco un senso alle mie giornate. Più di tutto soffro a mettere la parola fine a questa esperienza e ho voltato lo sguardo per non vedere i detenuti e gli studenti che si salutavano piangendo e che non volevano separarsi e ho salutato le Professoresse così: “Allora, a Novembre si ricomincia?”. Ogni domani è un altro giorno, ma oggi è stato un giorno luminoso, gioioso, amorevole, il buio non smette mai di aprirsi alla luce. Concludo questo diario minimo con la signora del pubblico che dice: “Bello, ma me ne vado con un’angoscia!” e l’assistente del block house che dice: “Dottore, anche oggi ce l’abbiamo fatta...”. Problemi Assistente? “No, dottore, meglio queste giornate che c’è cchiu movimento...” Lettere: questione di maiuscola... la differenza tra vivere e Vivere di Carolina Saporiti www.thetamarind.eu, 10 giugno 2013 Chi c’è in carcere? Me lo sono chiesto molte volte, convinta che i carcerati fossero vittime piuttosto che carnefici o meglio che spesso la pena a cui sono condannati fosse sproporzionata al reato commesso. Non mi interessa in questo momento parlare delle assurdità commesse dalla magistratura italiana, mi riferisco a una serie di pregiudizi ancora esistenti e a un concetto di pena che continua a esistere nel mondo, non solo in Italia. Se lo scopo della condanna e del carcere deve essere educativo, viene spontaneo chiedersi quanto sia formativo il carcere di oggi in cui viene tolta ogni possibilità di Vivere. Un Vivere che vuol dire altro rispetto al semplice respirare. Vivere nel senso più vero e, forse, anche più scontato per noi: significa andare al cinema, scegliere cosa mangiare, decidere a che ora andare a letto, di che colore vestirsi e molte altre cose più importanti. Lo scorso giugno e poi di nuovo in autunno ho avuto la possibilità, anzi la fortuna, di entrare nella casa di reclusione di Bollate (Milano) come volontaria durante il cineforum, e ne sono uscita sconvolta. Mi sono trovata di fronte a ragazzi della mia età, che non si capacitavano del fatto che dei loro coetanei scegliessero di passare il sabato pomeriggio con loro invece che in giro con i propri amici. Sono ragazzi che faticano a parlare di loro stessi, ma che allo stesso tempo sono toccati dai film che vedono e che non rinunciano a commentare senza paura e senza imbarazzo, ma con la voglia di mostrare le loro emozioni, le loro conoscenze e le loro impressioni. Ragazzi che salutandoti alla fine ti guardano negli occhi e sinceramente ti dicono “grazie”. Un grazie diverso da quello a cui sono abituata: sincero, profondo, che ti obbliga a tornare da loro un’altra volta e a ripensare a quel pomeriggio nei giorni seguenti. Ecco questi sono i ragazzi a cui tocca scontare una pena che, staccandoli totalmente dal mondo, dovranno pagare a vita. Proprio perché ho avuto a che fare con alcuni di loro direttamente (e ne sono stata positivamente colpita), mi ha stupito aver trovato un concorso d’arte aperto a tutti i residenti in Italia esclusi tutti coloro che fossero stati condannati per un reato a danno di persone. Precludere la possibilità di partecipare ad una competizione artistica è paradossale dal momento che l’arte non ha mai chiuso le porte in faccia a nessuno. Per essere artisti non è certo necessario essere fuorilegge, ma discriminazioni di questo genere sono da considerarsi reati. I crimini contro le persone sono deplorevoli, ma questo non significa che persone che hanno sbagliato non possano cambiare e imparare dai propri errori. Il carcere di Bollate è un’isola felice in Italia e molti dei reclusi che hanno in precedenza provato altri carceri lo confermano. Tutto ciò è possibile grazie ad una gestione attenta alla persona e rispettosa di essa. Se questo precetto venisse messo sempre in pratica le carceri sarebbero diverse: il concetto dell’occhio per occhio, dente per dente non ha alcun senso e azzera la funzione centrale del carcere, ossia quella educativa. Cosa può imparare una persona che ha sbagliato se subisce maltrattamenti e se, una volta scontata la pena in carcere, si trova a doverne affrontare una altrettanto dura? Mi riferisco soprattutto al fatto che, recuperata la libertà, mancano i mezzi per ricominciare a Vivere. L’ex-carcerato difficilmente trova lavoro, spesso non ha i soldi non solo per l’affitto, ma nemmeno quelli per mangiare. La dignità viene a mancare. Avere un contatto diretto con i carcerati è una fortuna, muove qualcosa dentro chi fa questa esperienza e mostra come spesso si ragioni vittima di pregiudizi o almeno di luoghi comuni. Durante le riflessioni dopo la visione dei film, gli interventi dei carcerati - soprattutto i più giovani - fanno tacere e pensare: pronunciano poche parole, semplici, ma appropriate ed intense; si accorgono di dettagli per noi banali, scavano a fondo i caratteri dei film e sono critici nei confronti di loro stessi senza paura né di dire quello che pensano né di riconoscersi in qualche personaggio ammettendone gli sbagli. In quei pomeriggi avviene uno scambio (non equo): il volontario dona un pò del suo tempo e i carcerati in cambio gli donano le loro speranze, le loro delusioni, i loro sogni e soprattutto i loro insegnamenti. Ecco questi sono i ragazzi che vivono in carcere, sono i miei, i nostri coetanei che hanno sbagliato e che stanno pagando per quello che hanno fatto. Auguriamoci che il futuro sia comprensivo con loro o meglio auguriamo a noi stessi di essere capaci di riaccoglierli nel mondo e renderli partecipi alla Vita. Sardegna: Casa dei Diritti; pensiamo anche ai detenuti sardi reclusi oltre il Tirreno… www.castedduonline.it, 10 giugno 2013 Detenuti mafiosi in Sardegna? Perché nessuno pensa mai però anche alla sorte dei carcerati sardi reclusi oltre Tirreno? Lo chiede in una nota la Casa dei Diritti, a firma degli avvocati Renato Chiesa e Pierandrea Setzu: “L’opinione pubblica sarda è continuamente sollecitata sulla questione del trasferimento, negli istituti penitenziari dell’isola, di detenuti “continentali” per reati di criminalità organizzata. I commentatori paventano il rischio di un contagio criminale da parte dei reclusi “eccellenti” e scrivono che, così facendo, la Sardegna si trasformerebbe in una nuova isola di Cayenne. Il problema è in realtà ben più articolato. Accanto ai problemi di sicurezza ed ordine pubblico che suggeriscono all’amministrazione penitenziaria lo splendido isolamento in Sardegna per i detenuti di mafia, e nonostante le manifeste perplessità di parte del mondo politico isolano per questi trasferimenti, ci si dimentica dei tanti detenuti sardi reclusi oltre Tirreno che hanno “diritto di precedenza” rispetto agli altri ristretti, per far ritorno nell’isola. Tanti detenuti “continentali” vengono trasferiti nell’isola: ma quanti reclusi sardi sono ristretti oltremare? L’istituto di Spoleto, tanto per fare un esempio, ospita decine di detenuti sardi che da anni chiedono un avvicinamento. Secondo le ultime stime ministeriali, i reclusi con residenza anagrafica in Sardegna sono 1.222 al 31.12.12, di cui 193 distribuiti nella penisola. Fra costoro, 88 sono in attesa di giudizio. Dati sconcertanti, se si pensa che la capienza negli istituti di pena isolani è, ad oggi, di 2.257 unità e che i detenuti presenti nell’isola sono 2.021. Perché allora, dati alla mano, non si consente ai reclusi sardi della penisola il contatto con le proprie famiglie? E perché si privilegia, al contrario, il trasferimento nell’isola dei reclusi non sardi? Giungono a “Casa dei diritti” numerose richieste d’intervento in questo senso: i detenuti sardi reclusi nella penisola non riescono a mantenere alcun contatto con la propria famiglia d’origine, costretta ad affrontare viaggi di giornate intere per ogni colloquio. Se, poi, il detenuto si trova recluso in istituti lontani da scali navali o aeroportuali, il disagio è amplificato da viaggi interminabili e spese insostenibili. La situazione è ancor più drammatica per chi ha parenti e genitori anziani: di fatto, chi è detenuto oltre Tirreno deve rinunciare alla propria famiglia. Una condanna doppia. L’esecuzione della pena sottostà ad un principio chiaro, quello della sua territorializzazione. Secondo l’art. 42 ord. pen., “nel disporre i trasferimenti dev’essere favorito il criterio di destinare i soggetti in istituti prossimi alla residenza delle famiglie”. La giurisprudenza sovranazionale e gli atti comunitari condannano questo fenomeno: la Raccomandazione del Comitato dei Ministri della Comunità Europea del 12 febbraio 1987 impone agli stati membri di “mantenere e rafforzare i legami dei detenuti con i membri della loro famiglia e con la comunità esterna, al fine di proteggere gli interessi dei detenuti e delle loro famiglie (parte IV, art. 2, lett. c)”. Altre disposizioni, sempre nella parte IV, ribadiscono e specificano tale principio giuridico. La politica nazionale è però insensibile alla codificazione del principio della territorializzazione della pena. Il disegno di legge 1185/06 tendente ad inserire nell’ordinamento penitenziario l’art. 13 bis ed a modificare l’art. 42 comma 2, è, infatti, miseramente naufragato. Le intese finora siglate fra la Regione Sardegna ed il Ministero della giustizia sono d’altronde restate lettera morta: i detenuti sardi permangono ancora negli istituti d’oltremare e la loro pena è, di fatto, un supplizio per le rispettive famiglie. Il mondo politico sardo si è pressoché disinteressato al rispetto di tale principio, malgrado alcune timide voci in tal senso (v. la mozione 15/2009 del consigliere regionale M. Meloni e la risoluzione 15/2010 del Consiglio regionale sardo d’iniziativa degli on.li Zuncheddu - Uras - Sechi - Zedda). L’associazione “Casa dei diritti” ha perciò deciso di agire in concreto e di assistere quanti vogliano far rientro nell’isola e siano illegittimamente detenuti oltre Tirreno: non fermandosi ai timidi proclami, ma confrontandosi giuridicamente sui diritti dei detenuti sardi nelle aule di giustizia e sostenendo in giudizio le legittime pretese dei propri aderenti. Toscana: il progetto “Frescobaldi per Gorgona” è un buon esempio di economia sociale Dire, 10 giugno 2013 “Quello che sta avvenendo sull’Isola di Gorgona è la dimostrazione che l’economia sociale non è un’ipotesi remota e rappresenta un risultato molto lusinghiero per la Toscana”. Gianni Salvadori, assessore regionale all’agricoltura della Regione Toscana, commenta così il progetto “Frescobaldi per Gorgona”, l’iniziativa sociale (nata lo scorso agosto) realizzata grazie alla collaborazione tra la Direzione della casa di reclusione di Gorgona e l’azienda toscana che da oltre 700 anni produce vini famosi in tutto il mondo. Il risultato di questa iniziativa è il vino ‘Gorgonà, un vino bianco a base di vermentino e ansonica nato grazie al lavoro dei detenuti del penitenziario nell’ettaro di vigna che Frescobaldi ha impiantato sull’isola nel 1999. La presentazione dell’iniziativa avverrà nel penitenziario alle ore 12 di mercoledì 12 giugno. “Una prestigiosa azienda, la Marchesi de’ Frescobaldi, dimostra con lungimiranza che si può fare impresa e nel contempo rispondere positivamente a importanti istanze sociali e territoriali- continua l’assessore- inoltre, ciò rappresenta una conferma operativa dell’idea di agricoltura sociale che si concretizzano nel bando con il quale si finanziano progetti di accoglienza di persone svantaggiate o con disabilità per il miglioramento della loro autonomia e capacità tramite lo svolgimento di esperienze in attività rurali”. In questi giorni, “le bottiglie di Gorgona arrivano sulle tavole dei ristoranti e nelle migliori enoteche italiane - conclude Salvadori - auspico, quindi, che la produzione di vino sull’isola di Gorgona possa aumentare, anche grazie al fatto che la casa di reclusione ha recentemente beneficiato di un diritto di reimpianto pari ad un ettaro di superficie prelevato dalla riserva regionale, nell’ambito di un programma valido per le isole dell’arcipelago toscano”. Pianosa (Li): il Dap sta studiano la riapertura del carcere, per 40 detenuti in semilibertà Ansa, 10 giugno 2013 Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria “ha approvato e condiviso l’ipotesi presentata” dal Provveditorato regionale della Toscana “di destinare l’isola di Pianosa a territorio che ospita detenuti lavoranti all’esterno”. È quanto si legge in un documento dello stesso Provveditorato toscano che prevede la riapertura parziale del carcere, nello specifico la diramazione cosiddetta “Sembolello”, per ospitare fino a 40 detenuti in regime di semilibertà. Il progetto sarà discusso in una riunione il 19 giugno. Il progetto del governo, in realtà, è più ampio e mira a riaprire tutta la struttura di Pianosa, che può ospitare fino a 500 persone, coinvolgendo anche privati per le attività lavorative dei detenuti. Ma si tratta di un progetto in fase di studio e non ancora varato, mentre in fase ben più avanzata è appunto la riapertura della diramazione Sembolello, dove al momento operano dai tre ai sette detenuti solo per la manutenzione delle strutture. L’ipotesi è di portarli “fino a quaranta unità - riporta il documento del Provveditorato, firmato dal provveditore Carmelo Cantone - che costituisce la capienza regolamentare della diramazione”. “Il significativo aumento di presenze ha alla sua base un accordo, definito nei suoi contenuti, ma non ancora sottoscritto tra le parti, che coinvolge l’Amministrazione penitenziaria regionale, il Comune di Campo nell’Elba e l’ente Parco dell’Arcipelago toscano”, si legge ancora nel documento, che specifica come l’intesa “mira a rivitalizzare l’isola, attraverso la collaborazione tra le varie istituzioni e la relativa suddivisione dei compiti”, visto che i detenuti saranno impegnati “nella bonifica e nella manutenzione delle aree praticabili dell’isola”. Per quanto riguarda gli agenti penitenziari, “dopo la firma dell’accorso sopracitato sarà necessario prevedere un rafforzamento del presidio di polizia penitenziaria presente sull’isola”, per “attività di coordinamento”, “controllo sugli accessi dell’isola durante il giorno, con turno notturno su Sembolello”, dove risiederanno i detenuti. “Si ipotizza pertanto di aggiungere alle attuali 4 unità distaccate a Pianosa ulteriori 4 unità, provenienti dalla Regione”, specifica il documento, che è stato inviato alle organizzazioni sindacali degli agenti. Pisa: carcere Don Bosco sovraffollato, in cella cento detenuti in più rispetto alla capienza di Candida Virgone Il Tirreno, 10 giugno 2013 Sovraffollamento, tagli alle risorse e carenza di misure alternative alla detenzione sono stati al centro dell’incontro sul problema carcere promosso dalla Camera penale pisana e dall’osservatorio. L’incontro è stato ospitato nell’aula magna all’istituto alberghiero Matteotti dopo la visita di un gruppo di avvocati nel cuore segreto del Don Bosco, nelle celle per due stipate da cinque persone, piene di letti e senza spazio, in una prigione con profonde carenze strutturali, a diretto contatto con i reclusi e i loro drammi. Al termine, però, e dopo la proiezione di un film sull’orrore sul degrado delle carceri italiane, più che di questioni annose, si è parlato finalmente di come affrontarle. “Questa visita - ha detto Ezio Menzione, avvocato pisano nella giunta nazionale delle Camere penali - si inserisce nell’obbligo che i cittadini possono sentire nel dover fare quello che lo Stato non fa”. E lo Stato, alle prese con tagli sempre più ferrei sui servizi e i diritti, di fatto ha nella situazione carceraria una delle sue più gravi falle. Sono i numeri che ogni volta vengono forniti a far paura, e così, se a Pisa ci sono 356 detenuti, attualmente, in un carcere che ne potrebbe ospitare solo 250 (una cifra tutto considerato accettabile se si pensa che ci sono stati e di certo torneranno momenti in cui si sono sfiorate le 400 presenze), a livello nazionale si parla di 68mila persone in prigione contro una capienza di 45mila, situazioni fotocopia di troppe altre, in cui la percentuale di stranieri si attesta sul 60% (a Pisa si arriva anche all’80%) e quella in attesa di giudizio sul 40%, in cui latitano efficaci misure alternative perché magari pullula di clandestini che non hanno una casa in cui scontare i domiciliari. All’incontro c’erano il presidente della Camera penale pisana, Mario De Giorgio, quello nazionale dell’osservatorio carcere delle camere penali, Manuela Deorsola, Ezio Menzione, la responsabile dell’osservatorio pisano, Serena Caputo, il direttore del Don Bosco, Fabio Prestopino. “Il sovraffollamento - ha rilevato Caputo - è uno dei maggiori ostacoli alla funzione rieducativa per il reinserimento sociale ed è un problema sia per gli ospiti che per chi in carcere lavora, cioè agenti e operatori in numero sempre più ridimensionato per la crisi. Infine si rivela una pena aggiuntiva e la funzione di queste visite, fatte dalle Camere penali nelle carceri italiane, non è certo ispettiva o di denuncia ma si pone come opportunità di doverose sinergie”. “L’Unione delle camera penali - ha aggiunto Deorsola - ha deciso di occuparsi anche dei Cie, vere vergogne in cui i cosiddetti trattenuti sono di fatto dei detenuti, senza i diritti garantiti invece nella detenzione”. “Il Don Bosco - ha detto il direttore - rientra nella media delle carceri italiane. Ho mostrato come mi è stato chiesto il peggio, la fatiscente sezione femminile, la sala colloqui, il giudiziario, e il meglio, tutte le iniziative, a partire dalla scuola col progetto Prometeo, che si fanno. Questo è un carcere a forte valenza trattamentale, ma è vecchio e anche le idee lo sono: ci vogliono regole nuove e contributi che vedano il detenuto come persona”. Prestopino ha concluso proponendo per gli avvocati uno stage in carcere come prevede il tirocinio dei magistrati. Menzione ha concluso proponendo scelte radicali: “taglio alle leggi cosiddette “carcerogene” sugli extracomunitari e sulla droga, forme di perseguimento non carcerario, un ripensamento della custodia cautelare che oggi vede un terzo dei detenuti in attesa di giudizio, maggiore ricorso alla semilibertà”. Al carcere pisano andrà il ricavato della cena seguita nel salone della scuola, opera degli allievi e dei loro docenti sotto la guida del preside Salvatore Caruso. Sono stati presentati piatti tratti dal libro “Ricette al fresco”(Ets), scritto dai detenuti del Don Bosco. Firenze: “Lav(or)iamo insieme”; lavanderia a Solliccianino, laverà biancheria centri Caritas Redattore Sociale, 10 giugno 2013 I detenuti del carcere di Solliccianino lavano la biancheria ai centri d’accoglienza di Firenze. È l’innovativo progetto “Lav(or)iamo insieme”, unico in tutta Italia, promosso da Istituto Gozzini (più comunemente chiamato Solliccianino) e Caritas, che permette il lavaggio delle lenzuola di 420 posti letto (70 del carcere e 350 dei centri d’accoglienza Caritas sparsi sul territorio fiorentino), oltre alla biancheria del servizio docce della Caritas stessa, che conta circa 80 utenti al giorno. Il progetto, al quale lavorano già tre detenuti, è reso possibile grazie alla ristrutturazione totale della lavanderia di Solliccianino, predisposta dalla Caritas con l’acquisto di due lavatrici, un essiccatoio, un produttore di acqua preriscaldata a metano, un’imbustatrice per l’imballaggio, carrelli per la movimentazione della biancheria. Il trasferimento della biancheria dai centri d’accoglienza al carcere di Solliccianino è affidato ai dipendenti della cooperativa sociale San Martino, che quotidianamente si recano a Solliccianino dopo aver riempito i propri furgoni delle lenzuola dei centri d’accoglienza. La nuova lavanderia è stata inaugurata questa mattina alla presenza del provveditore toscano del Dap Carmelo Cantone, della presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze Antonietta Fiorillo, del direttore della Caritas di Firenze Alessandro Martini, della direttrice dell’istituto Gozzini Margherita Michelini. I tre detenuti - un italiano, un marocchino e un tunisino - lavorano part time e guadagnano 500 euro al mese. “Questo progetto mi ha cambiato la vita - spiega Abdel, tunisino da quattro anni in carcere - Mi permette di stare attivo durante la giornata e mi consente di guadagnare soldi da mandare a mia moglie e al mio figlio di 4 anni”. Percorso professionale per 3 detenuti, gestiranno la lavanderia del carcere Dalla collaborazione tra Caritas di Firenze e istituto penitenziario “Gozzini” di Firenze nasce il progetto “Lavoriamo insieme”: un servizio di lavanderia interno al carcere, gestito dalla Cooperativa sociale di tipo B “San Martino”, promossa dalla Caritas, darà un lavoro part-time a 3 detenuti. Il progetto parte affidando alla lavanderia del “Gozzini” il lavaggio della biancheria dei propri centri d’accoglienza (350 posti letto) e del servizio docce (80 utenti al giorno). Il laboratorio di lavanderia sarà inaugurato domani, lunedì 10 giugno, alle 10.00, all’interno dell’istituto penitenziario “M. Gozzini” di Firenze. Partecipano al taglio del nastro: Antonella Coniglio, Assessore Politiche Sociali Provincia Firenze, Carmelo Cantone, Provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria (Prap), Alessandro Martini, direttore della Caritas Diocesana di Firenze, Margherita Michelini, direttore dell’istituto “M. Gozzini”, Francesco Grazi, responsabile dell’Area Carcere della Caritas Diocesana di Firenze. Catania: carcere di Piazza Lanza. detenuti in rivolta contro il sovraffollamento www.cataniatoday.it, 10 giugno 2013 Da tre giorni, all’ora dei pasti, battono le stoviglie contro le sbarre della cella per protestare contro il sovraffollamento e le carenti condizioni della struttura. Sull’emergenza sono intervenuti Fleres, Garante dei diritti del detenuti e il sindacalista Nicotra. Ieri, i detenuti del carcere di Piazza Lanza hanno messo in atto una protesta. Già da tre giorni, all’ora dei pasti, battono le stoviglie contro le sbarre della cella per protestare contro il sovraffollamento e le carenti condizioni della struttura. Intanto, il parlamentare Salvo Fleres, Garante dei diritti del detenuti, esprime “piena solidarietà. I reclusi - dice - stanno svolgendo una composta azione di protesta contro il gravissimo fenomeno del sovraffollamento presente in quel carcere e in molti altri della Sicilia. L’iniziativa dei detenuti non stupisce affatto a causa della note problematiche legate alla conduzione di quella struttura che presenta profonde anomalie. Le stesse sono state oggetto di numerosi provvedimenti della magistratura di sorveglianza, in parte disattesi dalla direzione, soprattutto in materia di assistenza sanitaria. Nei prossimi giorni presenterò un dettagliato dossier riguardante Piazza Lanza e chiederò al capo del Dap di accertare quanto è già stato oggetto di una relazione inviatagli circa due settimane fa”. “Cosi stando le cose - conclude - non c’è da stupirsi se a Piazza Lanza qualcuno si suicida ma, stranamente, non sono disponibili i rilievi video del luogo nell’ora e nel giorno in cui il suicidio è stato perpetrato”. A prendere la parola sulla questione anche il Segretario generale aggiunto Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria), Mimmo Nicotra, che in una nota dichiara: “Le cause dell’attuale status quo dell’Istituto etneo non sono in nessun modo riconducibili alla Direzione della struttura. Infatti, la situazione del carcere di Piazza Lanza non dipende dall’attuale attività gestionale, ne dalle precedenti poste in essere dal Direttore e dal Comandante del Reparto”. “Piuttosto - prosegue Nicotra - tale situazione è probabilmente discendente dall’incapacità di una classe politica di dare i necessari input per cercare di risolvere il cronico sovraffollamento delle patrie galere. A questo, si deve aggiungere la poca azione incisiva da parte dei garanti di tutta Italia che, oltre ad essere stati nominati tali solo per volontà politica, si sono limitati alla sola predisposizione di relazioni per le carceri senza mai realizzare azioni legislative che potessero dare sollievo agli Istituti Penitenziari d’Italia”. “Infine - conclude il sindacalista - se l’intera classe politica e con essa tutti i garanti dei detenuti non porranno in essere urgenti provvedimenti, senza limitarsi alle mere passerelle elettorali di “ferragosto”, difficilmente si potrà risollevare la grave situazione delle carcere italiane. Mi permetto di aggiungere che fortunatamente l’Europa ha messo un paletto alla classe politica italiana, ponendo il prossimo maggio come data ultima per risolvere il sovraffollamento delle carceri o almeno ripristinare delle condizioni dignitose per chi le vive e per chi ci lavora e seppur è vero quello che dice l’On. Fleres, la colpa non è da imputare agli operatori o ai Dirigenti, poiché anch’essi vivono il disagio dovuto all’emergenza carceri, mai rientrata”. Il Procuratore Salvi: avviato percorso virtuoso Riaccesi in queste ore i riflettori sul problema del sovraffollamento carcerario soprattutto a Piazza Lanza. La procura di Catania, da quando si è insediato Giovanni Salvi, ha avviato una serie di interventi, come chiudere il reparto Nicito e accelerare i riti per direttissima, allo scopo di arginare queste problematiche. Le carceri, in particolare le condizioni della casa circondariale di Piazza Lanza, è uno dei temi su cui la Procura di Catania, e in particolare Giovanni Salvi sin dal suo insediamento, ha agito e continua ad agire. A fari spenti si è dato avvio a un percorso virtuoso che potesse generare cambiamenti profondi per il sistema penitenziario di Catania. Alla fine dello scorso anno, durante un convegno dedicato al Piano Carceri alla presenza del prefetto Angelo Sinesio, Giovanni Salvi aveva annunciato come al di là delle normative messe in atto dal Ministro Fornero i magistrati inquirenti catanesi avessero approntato un’azione volta proprio ad arginare il sovraffollamento e il cosiddetto fenomeno delle “porte girevoli” (Cioè detenuti che stanno in carcere due o tre giorni). “Abbiamo avviato - aveva affermato a margine dell’incontro - un meccanismo virtuoso grazie alla collaborazione tra Dap, Procura e Istituto penitenziario di Piazza Lanza che evita di far andare in carcere per pochi giorni quando questo non è necessario, e questo mette un’accelerazione ai procedimenti e si iniziano a svuotare le carceri che sono drammaticamente in sovraffollamento”. L’importante parentesi al tema delle carceri il Procuratore Giovanni Salvi l’aveva riservata anche nella sua conferenza sul consuntivo dell’attività dell’ufficio per il secondo semestre 2012 poche settimane fa. Il procuratore ha raccontato come appena insediato ha visitato i due istituti penitenziari di Catania: e se Bicocca presentava livelli di civiltà e decenza, Piazza Lanza versava in condizioni “al limite”. Subito avviati i primi interventi: Il reparto Nicito, quello riservato all’isolamento dei detenuti, è stato chiuso e in attesa di essere riqualificato è utilizzato lo spazio dell’infermeria. Salvi ha anche annunciato l’apertura di un nuovo padiglione. “Finalmente si risolverà - ha dichiarato - il problema del sovraffollamento”. Il Procuratore ha anche sottolineato l’importanza della prossima inaugurazione del reparto detentivo nell’Ospedale Cannizzaro. “Un importante traguardo - ha sottolinea - anche per i pazienti che non dovranno venire a contatto con malati detenuti”. Salvi sul tema della detenzione ha evidenziato un importante principio: “In carcere ci deve entrare solo chi nel carcere ci deve restare”. Su questo punto è stato dato avvio a una accelerazione dei riti direttissimi che hanno permesso di contrastare il fenomeno delle “porti girevoli” nelle carceri catanesi. Un analisi questa che va affrontata anche per “rispondere” a chi in queste ore denuncia “l’abbandono di queste problematiche”, ma in realtà le risposte ci sono e arrivano direttamente dalla magistratura. Per dimostrare che chi indaga per assicurare la sicurezza collettiva, agisce anche per portare avanti un sistema di civiltà e rispetto della persona: e questo non ha confini neanche se questo significa limitare la libertà personale perché si è rei di un reato. La civiltà di un Paese si misura nella sua totalità e non ha i confini, neanche se questi sono delineati dalle sbarre di un carcere. Cagliari: Sdr; al Tribunale di Sorveglianza pochi magistrati, per esorbitante carico lavoro Ristretti Orizzonti, 10 giugno 2013 “La nomina del dott. Paolo Cossu alla presidenza del Tribunale di Sorveglianza di Cagliari e la nuova distribuzione del lavoro sono notizie rassicuranti ma non sufficienti. La sproporzione tra numero di magistrati e lavoro è esorbitante”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” che, “nel formulare al neo presidente gli auguri di buon lavoro, sottolinea l’inadeguatezza di tre magistrati per la mole di lavoro della realtà cagliaritana e non solo”. “I Magistrati di Sorveglianza di Cagliari - sottolinea Caligaris - devono occuparsi non solo dei cittadini privati della libertà di Buoncammino, affidati al dott. Angelo Lucio Caredda ma anche di quelli di Iglesias, Massama e Lanusei, assegnati alla dott.ssa Elisabetta Mulargia, senza dimenticare le colonie penali di Isili e Is Arenas. Anche se l’attività verso i detenuti riguarda solo quelli diventati definitivi la quantità dei compiti e delle competenze è tale da rendere indispensabili almeno altri due magistrati. Il Tribunale di Sorveglianza è un’Istituzione che opera collegialmente nelle Camere di Consiglio per l’esame dei ricorsi e con i singoli magistrati per vigilare sull’organizzazione delle carceri, con particolare riferimento alla rieducazione dei detenuti, e alla tutela dei loro diritti”. “Il Magistrato di Sorveglianza - evidenzia la presidente di SdR - ha il compito di approvare il programma di trattamento rieducativo individualizzato, che l’amministrazione penitenziaria deve predisporre per ogni detenuto. Spetta a lui inoltre concedere dei permessi o ammettere al lavoro esterno o assumere una decisione sulla liberazione anticipata (45 giorni ogni 6 mesi per il detenuto che positivamente partecipa all’azione rieducativa). Ha l’obbligo di recarsi frequentemente in carcere e di effettuare colloqui con i detenuti che chiedono di parlargli ma ciò diventa impresa ardua quando, com’è nel caso di Buoncammino, i detenuti sono sempre in numero crescente e le incombenze sul fronte sanitario straordinarie o per gli altri tre Istituti ubicati in tre Province diverse dove le distanze chilometriche costituiscono un ostacolo difficile da superare” “Il numero dei Magistrati di Sorveglianza di Cagliari è rimasto invariato praticamente da 15 anni mentre sono aumentati i loro compiti ed è notevolmente cambiata la tipologia dei detenuti. Attualmente infatti sono cresciuti in maniera esponenziale i tossicodipendenti con problematiche psichiatriche e gli immigrati extracomunitari. Negli ultimi 4 anni, inoltre, sempre lo stesso numero di addetti, ha dovuto far fronte al sovraffollamento e dare gambe alla cosiddetta “svuota carceri”. Con la legge che consente al detenuto di espiare l’ultimo anno e mezzo di pena agli arresti domiciliari, in particolari condizioni (tipo di reato, casa, famiglia e relativa disponibilità economica), si è ulteriormente gravato l’Ufficio di Sorveglianza di incombenze costringendolo a una serie di indagini e verifiche per poter concedere un beneficio peraltro destinato a pochi “privilegiati” quelli con una famiglia in grado di accudirli e una casa. Non si può infine dimenticare - conclude Caligaris - che il Magistrato di Sorveglianza è esposto ad alto rischio di errore di giudizio sulla persona alla quale deve concedere i benefici. Ha quindi necessità di un Ufficio adeguato soprattutto nella prospettiva dell’apertura del carcere di Uta dove aumenterà ulteriormente il numero dei ristretti”. Genova: tentano di portare droga in carcere, arrestata italiana e denunciata sudamericana Ristretti Orizzonti, 10 giugno 2013 “È costato caro a due donne ammesse a colloquio con altrettanti detenuti il tentativo di introdurre eroina nel carcere di Genova Marassi. Una delle due, italiane, trovata in possesso di cocaina e hashish dai cani del Nucleo Cinofili della Polizia Penitenziaria, è stata arrestata e condotta nel penitenziario di Pontedecimo. L’altra, trovata in possesso di subutex, è stata denunciata all’Autorità Giudiziaria”. Ne dà notizia Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. “Nelle carceri italiane il 25% circa dei detenuti è tossicodipendente, in quelle liguri la percentuale è nettamente superiore, attorno al 35%. Alcuni recenti fatti di cronaca, come avvenuto a Genova, hanno dimostrato e dimostrano che è sempre più frequente il tentativo, anche da parte dei detenuti appena arrestati o di familiari e amici di ristretti ammessi a colloquio, di introdurre sostanze stupefacenti all’interno degli istituti penitenziari. Spesso, come a Marassi, la professionalità della Polizia Penitenziaria consente di individuare i responsabili e di arrestarli e denunciarli all’autorità giudiziaria, ma ciò non è sufficiente. Se per un verso è opportuno agire sul piano del recupero sociale, è altrettanto necessario riformare il sistema di giustizia criminale nei confronti delle persone tossicodipendenti (e cioè affetti da una vera e propria malattia quale è la dipendenza da sostanze stupefacenti) che abbiamo commesso reati proprio in relazione al loro stato di malattia. Questo per evitare la carcerazione attraverso interventi alternativi, da attivare già durante la fase del processo per direttissima, di cura e riabilitazione “controllate e gestite” in regime extracarcerario con l’ausilio dei servizi pubblici e delle comunità terapeutiche.” Bari: Coosp; ragazzo albanese evade dal carcere minorile di “Fornelli”, ricerche in corso Ansa, 10 giugno 2013 Un ragazzo albanese è evaso ieri dall’istituto detentivo per minorenni Fornelli di Bari. Il giovane era nel campo sportivo, per l’ora d’aria, quando ha fatto perdere le sue tracce. Lo rende noto il segretario generale del Coordinamento sindacale penitenziario (Coosp), Domenico Mastrulli, il quale aggiunge che sono in atto su tutto il territorio da parte della polizia penitenziaria minorile le ricerche dell’evaso. Nell’istituto per minorenni di Bari sono rinchiusi 25 ragazzi, molti dei quali extracomunitari. Nei giorni scorsi - secondo Mastrulli - vi si sarebbero verificate anche aggressioni da parte di detenuti ai poliziotti penitenziari. “Adesso, come sempre accade nella nostra Amministrazione Penitenziaria, non si cerchino responsabilità - ha commentato - tra gli anelli più deboli della catena penitenziaria lasciata in sotto organico di almeno 15 unità nei diversi turni di servizio, alcuni anche di nove e dodici ore consecutivi in violazione all’art. 15 Ccnl Forze di Polizia”. Per il Coosp, sarebbe invece opportuno “adeguare e rinnovare nella gestione come nella sicurezza il Minorile di Bari”. Situazione insostenibile sicurezza a rischio Continuano senza sosta le ricerche del ragazzo albanese evaso ieri dall’istituto detentivo per minorenni Fornelli di Bari. Il giovane avrebbe saltato il muro di cinta del campo sportivo interno al Carcere durante l’ora d’aria. Nel frattempo, Domenico Mastrulli, a capo del Coordinamento Sindacale Penitenziario, denuncia la carenza di personale e lancia una proposta provocatoria: ridurre di 7 parlamentari ogni singolo partito del Governo e dell’opposizione e pagare con i soldi risparmiati gli stipendi 1.200 nuovi Poliziotti Penitenziari da assumere tra quelli già risultati idonei dai Concorsi vigenti. “Deve far riflettere - dichiara Mastrulli in una nota diffusa dal sindacato - che un extracomunitario o un cittadino straniero in Italia prende un sussidio di 1.400,00 euro mensili, con fitto gratuito, pranzo e cena spesati, mentre un poliziotto penitenziario rischia la vita ed affronta le difficoltà anche disciplinari e penali oltre alla sospensione dal servizio per Vigilare, controllare e redimere un recluso rinchiuso in Carceri fatiscenti”. E proprio in riferimento agli istituti penitenziari, il segretario denuncia “sono scarsamente elettrificati, igiene e salubrità da terzo mondo e sanità scadente”. “Adesso come sempre accade nella nostra Amministrazione Penitenziaria - si legge ancora nel comunicato - non si cerchino responsabilità tra gli anelli più deboli della catena penitenziaria lasciata in sotto organico di almeno 15 unità nei diversi turni di servizio alcuni anche 9 e dodici ore consecutivi”. Il comunicato rende noto che “Il Coosp ha chiesto al Dipartimento l’assegnazione di appartenenti al Ruolo dei Commissari del Corpo al Comando degli istituti Penali Minorenni al pari dignità di ruolo e responsabilità e funzioni svolta negli Adulti” “oggi - infatti come si legge ancora - quelle sedi minorili sono comandati dal Ruolo Ispettori e proprio all’Ipm di Bari ne risultano in un numero sufficienti a discapito del ruolo agenti, assistenti e sovrintendenti in netta carenza numerica”. “Oggi più che mai, - prosegue il comunicato - è indispensabile la costruzione di un nuovo e più moderno istituto Penitenziario”, “ tutto ciò al fine di eliminare il pendolarismo giornaliero da e per le udienze, da e per gli Ospedali esterni e visite mediche”. “Ho avanzato - conclude Mastrangelo - specifica mirata richiesta al Capo del Dipartimento Presidente Amburino ed al Ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri affinché si valuti, d’urgenza, l’allargamento dell’attuale Bando di concorso per solo 170 Vfp1 E Vfp4 a 1.200 unità Idonei dai Concorsi in atto stante la carenza di almeno 8.000 poliziotti penitenziari, ed il caso dell’Ipm di Bari deve farci scuola”. Il Coosp denuncia poi che i già risicati fondi per pagare i detenuti che svolgono lavori interni, garantendo che il carcere funzioni, sono stati tagliati ulteriormente: da 620mila a 500mila euro. Cosenza: detenuto, padre di bambina disabile, ottiene trasferimento vicino alla famiglia Ansa, 10 giugno 2013 Natalia Cristina, la bambina calabrese di 10 anni costretta su una sedia a rotelle ha di nuovo accanto il padre detenuto che non vedeva da oltre quattro mesi. A darne notizia è Franco Corbelli, del Movimento Diritti Civili, che si è occupato del caso assieme all’avvocato Enzo Paolini. L’uomo, Pietro D., che era detenuto dall’inizio di febbraio nel carcere di Lanciano in Abruzzo, dopo essere rimasto per cinque anni nella casa circondariale di Rossano, è stato trasferito nella casa circondariale di Cosenza dove si trova da ieri sera. La bambina, che soffriva per l’allontanamento del padre, aveva chiesto un intervento per consentire il riavvicinamento del genitore in Calabria. Pietro D. aveva già scontato cinque anni di detenzione a Rossano e gli resta un anno di detenzione. “Mi ha telefonato la signora Tamara, mamma della bambina e moglie del detenuto - afferma Corbelli - per darmi la bella notizia e per ringraziarmi. Sono felice e commosso per essere riuscito ad aiutare la piccola Natalia Cristina a vedere esaudito il suo desiderio: riavere vicino e accanto il suo papà. Sono queste le cose importanti della vita per cui vale la pena continuare a combattere ogni giorno”. Bologna: Garante Desi Bruno “Liberiamo i diritti, impariamo a conoscere i nostri doveri” Ristretti Orizzonti, 10 giugno 2013 “Liberiamo i diritti, impariamo a conoscere i nostri doveri”, è il titolo del progetto promosso dal Garante per le persone private della libertà personale e dal Garante per l’infanzia e l’adolescenza della Regione, rispettivamente Desi Bruno e Luigi Fadiga. Gestito dall’Associazione U.V.A.P.Ass.A. - in collaborazione con il Centro di giustizia minorile dell’Emilia-Romagna, le direzioni dell’Istituto penale minorenni, della Comunità ministeriale e dell’Ufficio servizio sociali minorili - il progetto è finalizzato a sensibilizzare i ragazzi ristretti alla cultura dei diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione, ma anche al tema dei doveri e delle responsabilità. Venerdì scorso, all’Istituto penale minorile di via del Pratello, a Bologna, Desi Bruno ha parlato dei diritti dei minori detenuti nel contesto del procedimento penale minorile; venerdì prossimo - 14 giugno - la Garante parlerà del medesimo tema ai ragazzi collocati nella Comunità ministeriale e nel Centro di prima accoglienza. Alla data del 7 giugno, risultavano essere presenti all’Istituto penale “Pietro Siciliani” 17 ragazzi, di cui 8 giovani adulti (in età compresa fra i 18 e i 21 anni, che hanno commesso il reato da minorenni). Permane la volontà condivisa fra Garante e direzione del Pratello di collaborare ai fini dell’istituzione presso l’Istituto di uno sportello giuridico-informativo dedicato all’ascolto e all’informazione dei ragazzi, con una particolare attenzione alla condizione degli stranieri - per la gran parte senza una solida rete di riferimento e senza un titolo di soggiorno valido - per i quali si pone il problema della difficile regolarizzazione (nell’anno 2012 la percentuale degli ingressi in istituto dei cittadini stranieri è stata del 77,7%, di cui l’88,75% extracomunitario). Notizie positive sul fronte dei lavori di ristrutturazione dell’area cortiliva e della parte esterna dell’Istituto: dopo un decennio dall’inizio dell’opera di riqualificazione dell’intera struttura, questi lavori non sono ancora completati ma, secondo quanto riferito dal direttore Alfonso Paggiarino, lo saranno alla fine dell’estate. A margine dell’incontro, i ragazzi del Pratello sono stati premiati con una telecamera: hanno vinto una sezione del “Concorso di idee per non professionisti”, ideato e promosso dall’Assemblea legislativa dell’Emilia-Romagna, con il video “Tracce costituenti”, che affronta in maniera originale il tema dei diritti per chi si trova nella condizione di minore privato della libertà personale. Siracusa: la barca a vela degli ex detenuti ai campionati mondiali d’altura Corriere della Sera, 10 giugno 2013 L’hanno rimessa a nuovo nell’ambito di un progetto di reinserimento sociale. Nel gruppo anche ex tossicodipendenti. Sono tutti ex detenuti ed ex tossicodipendenti i protagonisti di una scommessa che ora si trasforma in avventura imprenditoriale e sportiva ai massimi livelli. Hanno infatti rimesso completamente a nuovo una barca a vela (Nerina, un Rodman 42) che lunedì prenderà il mare da Ortigia, a Siracusa, con destinazione Ancona, per partecipare ai Campionati Mondiali di Vela d’Altura (Orc International World Championship). Un appuntamento riservato ai grandi nomi della vela internazionale con equipaggi provenienti da tutto il mondo. In gara ci sarà anche “Nerina” con tutta la storia che si porta dietro. L’imbarcazione è il segno concreto della scommessa che porta la firma dei 18 ragazzi, ex detenuti ed ex tossicodipendenti, del progetto di inclusione sociale “Liberi di… liberi da…”, realizzato dalla cooperativa “Tandem” di Siracusa e finanziato dalla Regione Siciliana. Obiettivo, appunto, dare un’opportunità di reinserimento sociale a persone che hanno vissuto l’esperienza del carcere o della dipendenza dalla droga. I giovani, selezionati dal Sert dell’Ausl 8 di Siracusa, per circa due anni sono stati formati e successivamente inseriti nei cantieri nautici di Siracusa, al fianco di maestranze con una lunga esperienza e di skipper che hanno trasmesso loro l’amore per il mare e per le barche. “I cantieri navali li hanno inseriti nel loro ciclo produttivo - spiega il direttore del progetto Concetta Carbone - e l’esperimento è andato anche al di là delle nostre aspettative. Oggi questi giovani sono diventati talmente esperti da essere ormai parte integrante del gruppo di lavoro di ciascun cantiere”. Alcuni di loro hanno anche sperimentato l’esperienza della navigazione a fianco di maestri skipper e sperano di poter continuare a lasciarsi spingere dal vento. Agrigento: Progetto Fas; corsi rivolti a persone svantaggiate, diversamente abili e detenuti Ristretti Orizzonti, 10 giugno 2013 Si è svolto ieri ad Agrigento nei locali dell’ex Collegio dei Filippini un interessante convegno dove sono stati discussi i risultati finali dei progetti Forgio - Fas-Fp nell’ambito dell’avviso 20/2011 organizzato dalla dott.ssa Giuseppina Brancato, direttore provinciale dell’Anfe. Alla manifestazione hanno preso parte con una serie di interventi, oltre alla direttrice Brancato, il direttore regionale dell’Anfe Monica Greco, il capo dell’area educativa della Casa circondariale Petrusa Giovanni Giordano, Giovanni D’Angelo, la responsabile Cta a Cristina Camilleri, Francesco Montalbano e Antonello Nicosia. Giustificata e meritata la soddisfazione espressa dalla direttrice dell’Anfe Giuseppina Brancato grazie ai risultati più che positivi ottenuti nel corso dell’avviso 20/2011. I progetti erogati dall’Anfe hanno interessato tre diversi ambiti. Il progetto Fp (formazione permanente) che garantisce all’individuo corsi di riqualificazione e di perfezionamento per tutto l’arco della vita; il progetto Forgio (formazione per i giovani) riguarda corsi che coinvolgono i giovani che devono svolgere ruoli di primo inserimento lavorativo, qualificazione e specializzazione come estetista, parrucchiere/a, esperto in estetica, tecnico del fotovoltaico, animatore turistico. Elevata la professionalità di ogni iscritto alla fine del corso tanto da rappresentare un vero e proprio fiore all’occhiello; infine il progetto Fas (formazione ambiti speciali). Si tratta di corsi rivolti a persone svantaggiate, diversamente abili e detenuti. “Tutti gli obiettivi sono stati raggiunti - ha dichiarato Giuseppina Brancato - e con grande soddisfazione abbiamo formato 250 allievi. Nonostante il grande rumore che in questi tempi si stia facendo attorno alla formazione io non finirò mai di dire che formazione vuol dire cultura e come tale deve essere tutelata. È un vero e proprio fiume in piena la direttrice dell’Anfe che continua: “Le istituzioni ed in particolare la Regione che esercita la potestà legislativa, come recita l’art. 117 della Costituzione, ha il dovere di finanziare i progetti nel pieno rispetto delle molteplicità delle proposte formative”. Estremamente toccante l’intervento del dott. Antonello Nicosia, Pedagogista ed esperto in trattamento penitenziario e direttore del Centro Studi Pedagogicamente, che con pacatezza ed equilibrio ripercorre un percorso di vita in cui la formazione è riuscita a determinare una reazione costruttiva ad una detenzione (ingiusta secondo Nicosia) alimentando una vera e propria cultura del rispetto del detenuto-persona che in quanto tale ha esigenze, bisogni, prospettive che il sistema carcerario e i suoi addetti non possono ignorare. I fatti però spesso denunciano un sistema che si rivela ossimoro nell’ affermare la natura rieducativa della pena carceraria e nel discriminare al tempo stesso un soggetto che è stato sottoposto a questa misura impedendogli, di penetrare nell’istituzione carceraria per formare ed orientare, come si evince dall’esperienza riportata dallo stesso Nicosia. Ricordi densi di emozione quelli di Antonello Nicosia che esprimono il valore del lavoro degli operatori dell’Anfe, non riconducibile ad un semplice intervento pedagogico - didattico ma ad un vero e proprio supporto psicologico per chi chiede, come il detenuto di essere ascoltato e riconosciuto nella sua umanità. Considerazioni che illuminano sulla necessità di istituire profili professionali all’interno del carcere con competenze specifiche per restituire efficacia e successo di risultati agli interventi operati. Una formazione orientata ai bisogni dei detenuti ed accessibile agli operatori carcerari che hanno bisogno non solo di risorse ma soprattutto di strumenti per poter capire ed interpretare in modo adeguato le problematiche con le quali quotidianamente si confrontano. Non c’è polemica nelle parole di Antonello Nicosia ma a bassa voce sembra di sentire l’urlo di chi invoca di dare la possibilità di vivere dignitosamente il presente a chi dall’altra parte si sente condannato ad aspettare di vivere un incerto futuro. Solo un sistema sociale in grado di ascoltare la voce dei detenuti, monitorare le loro aspettative, percepire e misurare i loro bisogni può creare i presupposti per costruire progetti di formazione significativi in grado di motivare i soggetti sottoposti a detenzione ad auto- creare una prospettiva di vita credibile. Libri: detenute-madri; noi la legge l’abbiamo violata, qualcun altro volutamente la ignora di Maria Ausilia Boemi La Sicilia, 10 giugno 2013 Il libro di Cristina Scanu “Mamma è in prigione” è un viaggio nel girone infernale dei penitenziari italiani, che per le donne - madri nel 90% dei casi - aggiunge pena alla pena. “Noi la legge l’abbiamo violata, qualcun altro, volutamente, la ignora. C’è differenza? Il prezzo del riscatto è la nostra stessa vita? “. Si conclude così - racchiudendo tutta la problematica delle carceri italiane - una lettera appello delle detenute della casa circondariale di Lecce (costruita per ospitare 600 persone, ma che oggi ne ospita 1.450), riportata nel libro di Cristina Scanu “Mamma è in prigione” (Jaca Book). Un libro che è un viaggio nel girone infernale dei penitenziari italiani, che per le donne - specie per le madri (il 90% delle detenute) - aggiunge dolore a dolore, pena a pena, disperazione a disperazione. Perché, nonostante le leggi preservino la maternità e la paternità dei reclusi, il diritto dei bambini a mantenere rapporti significativi coi genitori, il rispetto dei diritti dei detenuti, lo Stato - che deve fare i conti con l’allarme sociale sulla criminalità e la crisi che riduce i fondi per la manutenzione dei penitenziari, il personale, le attività, le associazioni, ma anche per la fornitura di riscaldamento, acqua, luce, sapone e dentifricio ai detenuti - spesso se ne dimentica. Vengono così calpestati dignità degli adulti e, ciò che è peggio, dei bambini, vittime innocenti di un sistema: sia che vengano rinchiusi, fino a tre anni, con le madri detenute (erano 70 nel 2009), sia che vengano a queste strappati, magari in cambio di una pietosa bugia che però lascia comunque dentro un vuoto che un’intera vita non basterà a colmare. Un disagio che dietro le sbarre “può manifestarsi - come testimonia Cristina Scanu - con un peggioramento nel rendimento scolastico o dei rapporti con adulti e coetanei. Ma la cosa più difficile da indagare resta la ferita che la carcerazione provoca a livello emotivo”. E, anche se non esistono ricerche prolungate sui figli di genitori detenuti, gli studi - per la Scanu - mostrano come i piccoli che trascorrono un periodo in carcere manifestino irrequietezza, crisi di pianto, inappetenza, difficoltà a dormire. La detenzione può portare i bambini a sviluppare difficoltà ad apprendere, parlare, camminare. E un terzo dei bimbi che hanno un genitore in carcere è destinato a essere a sua volta incarcerato. Una sorta di predestinazione fatale. Per loro, d’altra parte, il mondo non è altro che “un’enorme scatola a sbarre piena di regole e di divieti. Dove bisogna piangere piano, correre piano, strillare piano. Come può diventare grande - si chiede Lia Sacerdote, presidente dell’associazione Bambinisenzasbarre - un bimbo il cui sguardo non può andare oltre i muri di una cella? “. Ma anche per chi in cella non entra, il trauma è incancellabile: “Quando tua madre entra in carcere - confida Alberto - ti rendi conto di avere perso il tuo punto di riferimento. Ti senti solo, smarrito. E non sai se è più forte la rabbia per quello che ha fatto o il senso di abbandono per non poterla più avere accanto”. Quando il portone di ferro si chiude dietro le spalle, “tutto quello che hai lasciato fuori - gli affetti, il lavoro, la casa - non c’è più”, sottolinea Elena. Le enormi porte di ferro erigono una barriera tra chi è dentro e chi è fuori: e dentro resta il niente, o meglio, il caos: “Passavamo tutto il giorno chiuse in cella, tranne che nell’ora del passeggio. Non c’erano corsi, attività, laboratori. Niente - racconta Miriana. Hai idea di cosa vuol dire dividere uno spazio così piccolo giorno e notte? Una canta, una vuol dormire, l’altra guarda la tv. Non si riesce nemmeno a leggere. È un miracolo se non diventi matta”. Il sovraffollamento (la legge impone uno spazio di 9 metri quadrati a testa, più 3 per ogni detenuto in più: la realtà è fatta di celle di 12 persone), la conseguente paradossale solitudine, l’ozio, l’indifferenza uccidono. “Eravamo in 8 in cella - racconta Rosaria -. Impossibile non litigare. Ma per me la cosa peggiore è stare qui senza fare niente”. E si muore dentro: “Maternità negata, affettività negata - racconta una detenuta di Rebibbia. Sessualità negata. Accessori negati. Mi sarei più sentita una donna in carcere? Avrei più sentito la mia identità? Un’identità che solo il pacco degli assorbenti, incluso nel kit distribuito a nuovi giunti, continuava a ricordarmi. Fino a che una mattina, mi sono svegliata e mi sono guardata allo specchio. Una faccia gonfia, due sopracciglia folte, una ricrescita bianca: ero un mostro! “. E per le detenute straniere - il 43% delle detenute: al 30 giugno 2012 erano 1.124, non perché delinquano di più ma solo perché per loro è più difficile accedere alle misure alternative - è peggio, abbandonate a loro stesse, con l’ostacolo della lingua, l’ignoranza dei propri diritti e la famiglia lontana. Marcella ha 4 figli: uno di 23 che vive in Romania, Giovanni di 5 anni e Alessandro di 4 in un istituto in Italia e Maria Giulia, 20 mesi, con lei in cella: “Non posso neanche chiamarli al telefono. Una mamma non può vivere senza i suoi figli”. Donne costrette a vivere mortificate nel loro diritto alla salute, senza igiene. Le denunce in proposito sono tante: “In cella noi donne non abbiamo il bidet e spesso non possiamo neanche farci la doccia perché manca l’acqua calda. Vogliamo solo pagare con dignità i nostri errori”, scrivono un gruppo di detenute. “Dentro ogni cella - sottolineano - siano costrette a vivere in 10, con un solo bagno. Passiamo 20 ore chiuse in questa cella”. Immigrazione: Federazione Sinistra; Cie chiusi per sempre… cominci l’Emilia-Romagna Dire, 10 giugno 2013 La chiusura dei Cie cominci dall’Emilia-Romagna. È l’esortazione di Roberto Sconciaforni, capogruppo Fds in Assemblea legislativa. “Da sempre - scrive Sconciaforni in una nota- abbiamo contestato l’esistenza di queste vere e proprie carceri, in cui i detenuti si vedono sempre più spogliati di ogni tipo di diritto e umanità, senza essere mai stati giudicati o accusati di nessun crimine”. E “già un anno fa - aggiunge il consigliere - sollevammo, attraverso un’interrogazione alla giunta regionale, la nostra contrarietà alla logica del massimo ribasso con cui si era deciso di impostare l’appalto per la gestione della struttura di Bologna, appalto poi vinto, come è noto, dal Consorzio Oasi”. Ora “riteniamo quindi positivo che in questi giorni il prefetto di Bologna abbia deciso la rescissione del contratto d’appalto a Oasi”. Ma adesso, è il pressing di Sconciaforni, “diventa indispensabile che le istituzioni, a partire dalla Regione Emilia-Romagna e dalla sua giunta, intervengano con tutti gli strumenti a loro disposizione affinché questo sia solo il primo passo verso la chiusura definitiva di queste inumane strutture sul nostro territorio regionale e per la loro soppressione a livello nazionale”. Immigrazione: Habeshia; la Libia costruisce lager con fondi ricevuti dall’Unione europea La Repubblica, 10 giugno 2013 L’appello accorato di don Moses Zerai direttore di Habeshia Agency Cooperation for Development, un’agenzia di informazione eritrea, al mondo politico dell’Unione Europea, affinché si ponga fine al martirio dei profughi africani, in fuga dai paesi subsahariani e dalle regioni occidentali del continente, assiepati nei gulag libici, costruiti con i fondi della commissione europea. Il 20 Giugno prossimo verrà celebrata la “Giornata mondiale dei rifugiati”. “Ma cosa c’è da celebrare?” - si domanda in una nota diffusa da Habeshia Agency Cooperation for Development, diretta da don Moses Zerai - nei ultimi anni, complice anche la crisi morale e sociale del continente europeo, dove si nota una forte regressione dei diritti umani, dove avanzano sempre più le politiche meno propense all’accoglienza, abbiamo ascoltato discorsi apertamente xenofobi. La verità - prosegue il documento - è che c’è in giro una forte insicurezza, volutamente disseminata nei ultimi anni, amplificando a dismisura notizie di cronaca che vede coinvolti gli extracomunitaria, addirittura inventando un reato inesistente, come quello della ‘clandestinità’, facendo così allarmare maggiormente l’opinione pubblica, per un tornaconto elettorale”. Nella galera con la targa della Commissione Europea. Si tratta, in verità di una tendenza in atto un pò in tutta l’Europa, “compresa la ‘civilissimà Svizzera - sottolinea Zerai - si appresta a celebrare un referendum per tentare di modificare la legge sul diritto di asilo, praticamente per tentare di chiudere le porte in faccia, a migliaia di richiedenti asilo. Cosi l’Europa preferisce finanziare paesi come la Libia, affinché trattenga nei suoi lager centinaia di profughi in fuga dai loro paesi come la Somalia, l’Eritrea, il Sudan. Ecco - dice il direttore di Habeshia - ho ricevuto due segnalazioni dalla libia da gruppi di profughi eritrei che sono trattenuti nei lager, dove è affissa la targa della Commissione Europea e quello del Iom” (l’Organizzazione mondiale delle migrazioni). Bersagli da tiro a segno per militari ubriachi. “I profughi - dice ancora Zerai - mi chiedevano il perché si trovassero in una struttura costruita con fondi europei, dove 54 eritrei di fede cristiana sono costretti a vivere ammassati, e dove ogni giorno vivono l’incubo a causa dei militari ubriachi o drogati che sparano all’impazzata, o si divertono a tirare i sassi per colpire nel mucchio”. Tutto questo accade ogni sera, secondo molte testimonianze, nel centro di Burshada, targato Iom e Commissione Europea, strutture nate con fondi europei usati per costruire galere dove i profughi subiscono torture e umiliazioni inimmaginabili. “È questo l’uso che si voleva fare di quelle strutture? - si chiede il direttore di Habeshia - in cosa consiste la ‘via libera alla cooperazione tra Ue e Libia per combattere l’immigrazione clandestina?” Tra i detenuti anche 15 bambini. In un altro centro, a Suman (Libia), sono trattenute donne africane, di cui 95 eritrei, 10 etiope, altre 10 di diversa provenienza dalle regioni occidentali del continente. Ci sono 10 donne in avanzato stato di gravidanza, alcune stanno quasi per partorire, all’ottavo e nono mese, che non hanno mai visto un medico, nessuna assistenza o controlli preventivi per evitare rischi legati al parto, in luoghi non idonei per le pessime condizioni igienico sanitarie delle strutture e per il sovraffollamento. Con loro ci sono anche 15 bambini, di età variabile, dai 7 mesi ai 5 anni, tutti costretti a vivere in detenzione senza nessuna colpa. Devono subire sofferenze inspiegabili, e tutto - a quanto pare - in nome della protezione della “fortezza Europa”. “Le donne - afferma ancora Zerai - mi hanno riferito che tra loro ci sono anche delle malate bisognose di cure, che soffrono al cuore, che hanno gravi problemi all’utero, altre ancora asmatiche. Tutte faticano a sopravvivere in quelle condizioni di violenza e sporcizia”. “Che uso si sta facendo dei fondi in Libia?”. “Quello che ci chiediamo - scrive ancora nel suo documento Moses Zerai - è chi deve proteggere i profughi e rifugiati, se le persone bisognose di protezione internazionale sono stipate in questo modo nei lager, sulla facciata dei quali ci sono le targhe dell’Ue o dell’Iom, istituzioni che dovrebbero rappresentare per molti profughi e rifugiati la salvezza, la protezione, l’accoglienza, invece di vivere in un incubo che sembra non finire mai. Faccio appello all’Unione Europea - conclude la nota - di cooperare con la Libia per combattere le violazioni dei diritti umani, contro le discriminazioni di cui sono vittime le comunità Cristiane e quelli di origine Sub-Sahariana. L’Unione Europea dovrebbe combattere i motivi che spingono i popoli dell’Africa Orientale a lasciare la loro terra, per cercare un posto più sicuro dove vivere. Serve una seria lotta contro la fame, contro le guerre e le dittature. l’Ue non deve diventare complice degli abusi, dei lager dove le persone vengono massacrate di botte fino alla morte. L’Ue rischia di spingere questa gente nelle mani dei trafficanti, spesso in divisa militare e per questo chiedo ai politici europei di chiarire che uso si sta facendo dei fondi europei in Libia”. Israele: esperto Onu chiede inchiesta su diritti umani dei palestinesi detenuti da Israele Asca, 10 giugno 2013 “Il trattamento di migliaia di palestinesi detenuti da Israele continua ad essere estremamente preoccupante”, per questo le Nazioni Unite devono “formare una commissione d’inchiesta per indagare sulla situazione dei diritti dei cittadini palestinesi”. A dichiararlo è l’esperto delle Nazioni Uniti sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi, Richard Falk, durante la presentazione del suo rapporto annuale al Consiglio dei diritti umani dell’Onu a Ginevra. Le autorità israeliane attualmente tengono in custodia quasi 5.000 palestinesi, ha dichiarato Falk, ricordando che dalla occupazione dei territori, iniziata nel 1967, Israele ne ha trattenuti più di 750.000. Lo stato ebraico, denuncia Falk nella sua relazione, starebbe compiendo violazioni su vasta scala, compresa la detenzione senza accuse formali, diversi isolamenti ingiustificati nei confronti di bambini e l’utilizzo della “tortura e di altre forme di trattamento disumano e umiliante”. Falk, professore presso l’Università di diritto internazionale di Princeton, ha anche chiesto la fine del blocco nei confronti dei territori di Gaza, che l’esperto ha descritto come una “punizione collettiva per 1,75 milioni di palestinesi”. “Con il 70% della popolazione che dipende dagli aiuti internazionali per sopravvivere e il 90% dell’acqua non potabile, è necessario un drastico cambio di rotta per tutelare i più elementari diritti dei palestinesi” ha concluso Falk.