I permessi premio non sono un regalo, ma un modo per ritornare in famiglia “in punta di piedi” Il Mattino di Padova, 7 gennaio 2013 Paura, spaesamento, ansia di non essere adeguati, sensi di colpa: sono le sensazioni che provano le persone che, dopo anni di carcere, iniziano ad “assaggiare” un po’ di libertà uscendo per qualche giorno in permesso. A raccontare che cosa significano davvero i permessi premio nella vita di un detenuto è la testimonianza di una persona che dopo diciott’anni di carcere ha iniziato un percorso graduale per rientrare in famiglia, e poi è un magistrato di Sorveglianza, Linda Arata, a spiegare quanto i permessi non siano premi, ma tappe fondamentali di un difficile cammino per riallacciare i legami e ritrovare un proprio ruolo nella società. Noi e le nostre famiglie siamo degli sconosciuti, che devono “ri-conoscersi” In tutti questi anni trascorsi in carcere, non mi era mai passato per la testa di riuscire ad andare in permesso premio, e di poter vedere i miei famigliari fuori dal carcere, perché il reato che ho commesso è grave, e leggendo i giornali, ascoltando un po’ tutte le persone “libere”, convinte che in carcere c’è la spazzatura della società, pensavo che io sono parte di quella spazzatura e che non mi avrebbero mai fatto uscire. Quando sono entrato in carcere mia figlia aveva poco meno di due anni, io in Italia ho girato moltissime carceri, al nord, al sud, al centro, e lo stesso hanno fatto mia moglie e mia figlia, per starmi vicino quel poco che potevano. Noi non ci conoscevamo, parlavamo solo superficialmente, il nostro dialogo nelle sale colloqui era del tipo “Come va? State bene?”. Ma, dopo diciassette anni passati senza mettere piede fuori, il magistrato qualche mese fa mi ha concesso un permesso premio e mia moglie e mia figlia sono partite dal Piemonte per vedermi “da libero”. Quel giorno con i volontari siamo andati a pranzare in un bar, e dall’ombra del vetro ho visto mia figlia che correva veloce, sono uscito e l’ho abbracciata in mezzo alla strada, stava piovendo a dirotto ma io non sentivo la pioggia, il freddo, l’umido nelle ossa. Avrei anche voluto parlarle, ma non sapevo cosa dirle perché avevo dentro quel “groppo”, la paura di poter rovinare tutto quel momento. Poi loro sono tornate in Piemonte, io sono rientrato in carcere, ma sinceramente ero molto confuso, non ci ho capito niente: era veramente accaduto, era vero non era vero… Passato qualche tempo il magistrato mi ha concesso un permesso premio per andare direttamente a casa, una cosa bella che di più non c’è, proprio sono rimasto senza parole, anche perché mi è stato notificato una ventina di giorni prima della data prevista e nei giorni che precedevano l’uscita sono diventato nervoso, ma il vero motivo era che con la testa ritornavo sempre a quando sarei andato a casa, mi chiedevo come avrei fatto, come sarei ripiombato nella loro vita, perché poi mia moglie all’epoca del mio arresto aveva solo 26 anni, per cui molti di questi pensieri mi vorticavano dentro, tutte queste paure, che ad un certo punto mi sono chiesto: Cosa vado a fare!? Se resto in carcere non penso a niente, sto in branda, dormo così non mi pongo tutti questi problemi! Poi però sono andato a casa. Questa era la cosa più difficile, entrare in casa, così mi sono detto “No, entro piano, con cautela, devo capire cosa fare, riabituarmi e ritrovarmi con loro”. Loro comunque hanno compreso le difficoltà che stavo vivendo e hanno cominciato ad aiutarmi anche troppo, perché questo mi faceva sentire ancora di più la vergogna per tutto quello di prezioso che avevo perduto in questi anni. Mia figlia poi mi chiamava papà ogni due minuti, e io le chiedevo di cambiare parola… Ma lei continuava perché non capiva, era cresciuta senza il papà e adesso che poteva averlo li con lei… Ecco questa cosa mi faceva stare male, perché uno dovrebbe fare il padre per esserlo veramente, non è che padre si possa diventare dall’oggi al domani, non è che uno esce dopo anni di galera e diventa come per magia il papà, lei adesso compie 20 anni a marzo ed io l’ho lasciata che ne aveva due. Ma questo vale anche per mia moglie, io non la conoscevo più, di cosa avremmo dovuto parlare? Abbiamo cominciato un po’ a cercare di conoscerci ed abbiamo passato questi giorni così. Il terzo giorno addirittura mi è passato per la testa di tornare in carcere per “riposarmi” un po’… Ecco se è vero che per me quella è la mia famiglia, per tutti questi anni passati in carcere è inevitabile che siamo anche “sconosciuti”, dobbiamo anche ri-conoscerci, e devo stare attento a non fare qualcosa che possa ferire mia moglie e mia figlia. Dritanet Iberisha Preparare il detenuto alla vita reale significa prevenire il rischio di recidiva La rieducazione, anche in un contesto assai difficile, come la realtà carceraria, è un obiettivo che dobbiamo perseguire. Il mio lavoro si basa su questa speranza, che si concretizza attraverso la concessione dei benefici penitenziari, intesi non quale strumento per ridurre la presenza dei detenuti nelle carceri, ma quali strumenti per favorirne la rieducazione. Vorrei soffermarmi a parlare di taluni benefici penitenziari che invece vengono svalutati dall’opinione pubblica in nome della cosiddetta “certezza della pena”, convinzione recepita e alimentata dalla stampa, perché c’è sempre questa sorta di cortocircuito, tra notizie pubblicate e “comune sentire”. I benefici penitenziari non sono un regalo, ma sono l’esito di una faticosa e quotidiana conquista dei detenuti. Sono sottoposti a un rigoroso vaglio dei presupposti non solo di legittimità e ammissibilità, ma anche di meritevolezza, aspetto delicatissimo della discrezionalità del magistrato di Sorveglianza. Ai benefici accede una parte ridotta di detenuti, in parte per loro colpa, perché secondo la valutazione dei magistrati di Sorveglianza, non ne hanno diritto, in parte perché non hanno avuto la possibilità di accedere a quelle offerte rieducative che avrebbero consentito loro di maturare come persone e in questo contesto non può non essere considerata la drammatica realtà di vita nelle carceri che impedisce a molti detenuti di avere qualsiasi possibilità di un’effettiva rieducazione. Il beneficio penitenziario di cui vorrei sottolineare l’importanza è quello dei permessi premio, per concedere i quali deve essere valutato il percorso di riflessione compiuto dal detenuto sulle conseguenze della sua condotta delittuosa, nei confronti delle vittime dei reati, in relazione alla sua vita e a quella della sua famiglia, percorso che alcuni detenuti fanno e altri no. In questo cambiamento io ci credo, ci devo credere per la funzione che svolgo, ma sono convinta di avere appurato in numerose occasioni una presa di distanza genuina e non fittizia e strumentale per ottenere un benefico, da parte di alcuni detenuti, dall’ambiente in cui vivevano al momento della commissione del reato. Voglio però trasmettere anche il senso del permesso premio: nelle lettere e nei colloqui che ho avuto con i detenuti dopo il primo permesso, vengono riferiti sentimenti di gioia e di ringraziamento al magistrato che ha dato questa opportunità, ma anche sentimenti di profondo disagio, di disorientamento e a volte anche di paura. Perché la famiglia in cui “rientrano” le persone dopo molti anni di forzato allontanamento, è una famiglia inevitabilmente cambiata, in cui i ruoli sono cambiati, in particolare quello della donna, moglie o compagna, perché la donna è diventata la persona che gestisce in prima persona l’andamento della famiglia. Spesso i detenuti usano queste parole “Devo entrare in punta di piedi in casa”, espressione che denota un senso di rispetto, unito al senso di colpa e alla vergogna, che prova la persona, rimasta lontana dalla famiglia per sua responsabilità. Allora chi fa informazione potrebbe dire: ma noi dobbiamo anche occuparci dei rapporti affettivi o dei rapporti famigliari di un detenuto, di una persona che ha commesso reati? Si! Ed è un dovere, perché non è pensabile, per me, parlare di un reinserimento del detenuto nella società, nel lavoro, nella comunità se prima non vi è un reinserimento nella sua famiglia. Voglio anche parlarvi dell’esperienza dei permessi premio per i detenuti che invece non hanno alcun riferimento esterno al carcere. E per questi detenuti, a cui viene data la possibilità di partecipare a iniziative organizzate da volontari, oppure di accedere a case di accoglienza, il permesso premio è un’esperienza forse ancora più importante, perché gli permette un approccio con la realtà esterna, a cui nemmeno pensavano di poter arrivare prima della scarcerazione definitiva. La ratio dei permessi premio, come delle altre misure alternative è infatti quella di evitare che, a fine pena, una persona sia scaraventata nel mondo reale, di cui non sa nulla o sa quel poco che viene trasmesso dalla televisione. I benefici penitenziari rispondono quindi anche ad un interesse utilitaristico della società, perché preparare il detenuto alla vita fuori del carcere, in un contesto graduale e controllato dai vari Servizi, significa avere più sicurezza e quindi prevenire il rischio di recidiva. Linda Arata, magistrato di Sorveglianza Giustizia: se il carcere è senza dignità, un’agenda per i diritti di Samuele Ciambriello Ristretti Orizzonti, 7 gennaio 2013 Se vogliamo comprendere perché sia centrale il tema del carcere non dobbiamo separarlo dal tema della giustizia.. Noi (io e gli amici dell’Associazione Antigone) vorremmo dare un nostro contributo alla riflessione, indicando quali sono gli interventi da mettere in agenda (visto che il tema delle agende è di attualità). È impossibile negare che il carcere stia attraversando una fase di emergenza, considerato che questo stato di emergenza è stato ufficialmente proclamato dal governo. Numeri, storie e testimonianze descrivono una condizione di detenzione che viola i principi stessi della nostra costituzione, che vuole che la pena non sia contraria al senso di umanità. Nel solo carcere di Poggioreale, ad esempio, i sono 2.700 detenuti, con otto - nove persone per cella, il doppio della capienza ufficiale. Non può bastare il grande e generoso sforzo dei volontari, sono necessarie risposte di sistema. Proponiamo quelle che vanno messe, a nostro avviso, in agenda, e che garantiscono un equilibrio tra la tutela dei diritti fondamentali e le esigenze di sicurezza sociale. Ci sono interventi che possono essere adottati subito, e che potrebbero alleviare le condizioni detentive e sono l’estensione dell’applicazione delle misure alternative esistenti, la diffusione del gratuito patrocinio, spesso sconosciuto ai detenuti stranieri, l’aumento delle risorse destinate al lavoro interno (che invece sono state completamente azzerate dalla legge di stabilità). Dovrebbe poi essere messa al centro della prossima legislatura, senza moralismi, l’abrogazione della legge Fini-Giovanardi sulle dipendenze e della Bossi-Fini sull’immigrazione. Queste due norme hanno riempito le carceri non di pericolosi mafiosi, ma di consumatori di sostanze e di migranti, a fronte di reati di ridotta gravità sociale che potrebbero essere sanzionati diversamente. Qualche numero per dare un’idea, su circa 90mila detenuti che ogni anno entrano in carcere, il 30 per cento sono tossicodipendenti. Dall’applicazione della Bossi-Fini quasi la metà dei nuovi ingressi è di stranieri. Tutto questo non garantisce maggiore sicurezza per i cittadini e affolla le aule dei tribunali con migliaia di processi che durano anni prima di arrivare ad una sentenza definitiva (se prima non arriva la prescrizione). Noi pensiamo, invece, che sarebbe opportuno ridiscutere le proposte che provenivano dal mondo delle associazioni per realizzare programmi terapeutici, e facilitare l’accesso alle misure alternative dei tossicodipendenti autori di reato, dando maggior peso al profilo terapeutico e sanitario, che dovrebbe avere invece rilevanza fondamentale, e aumentando le ipotesi per l’affidamento in prova. Un intervento che ridurrebbe i costi sociali della detenzione e anche quelli economici, considerato che è più costoso mantenere una persona in carcere che offrirle un percorso di assistenza da libera. Infine, ma è certo questo il nodo più importante, è indispensabile la riforma complessiva del codice penale, che superi il codice Rocco, approvato in pieno fascismo. Dobbiamo immaginare che la sfera dell’intervento penale non sia lo strumento privilegiato nella soluzione dei conflitti sociali . Dobbiamo tutelare realmente le vittime dei reati e, per farlo, nelle aule dei tribunali bisogna fare giustizia, non applicare vendette. Non si può dare legalità se non si da giustizia. I diritti fondamentali vanno tutelati in ogni luogo e per ogni persona, perché è difendendo i diritti di ognuno che garantiamo i diritti di tutti. Noi rispettiamo profondamente lo sciopero della fame di Pannella, ma pensiamo che più che l’amnistia (che pure sosteniamo), sia indispensabile la riforma strutturale del sistema giustizia. Come diceva Piero Calamandrei, a proposito della frase “la legge è uguale per tutti”, “è una bella frase che rincuora il povero quando la vede scritta sopra la testa di un giudice sulla parete dell’aula giudiziaria. Ma poi quando si accorge che per invocare l’eguaglianza della legge a sua difesa è indispensabile l’aiuto di quella ricchezza che egli non ha, allora quella frase gli sembra una beffa, una beffa alla sua miseria”. Ecco, a noi sembra che tutto questo dovrebbe essere al centro di una agenda della politica che voglia riportare dignità e giustizia in ogni luogo del nostro paese. A cominciare dalle carceri. Giustizia: Pannella scrive a Monti “insieme in coalizione, per amnistia e riforma carcere” Italpress, 7 gennaio 2013 “Ti avevo di già comunicato l’ipotesi - che come ti preciserò accoglievo con interesse positivo - di un mio, nostro scegliere la tua coalizione - e la scelta conseguente - per le imminenti elezioni. Mi avevi risposto che avresti riflettuto e fatto sapere la tua risposta - l’ho avuta quando hai annunciato ‘urbi et orbì quali fossero i tuoi alleati, i tuoi coalizzati”. Inizia così una lunga lettera “urgentissima” di Marco Pannella a Mario Monti. “Temo che tu non sia stato aiutato a valutare pienamente le nostre, mie storie - non solo italiane - e il conseguente valore di quella ipotesi - prosegue Pannella. Tu hai qualificato con un binomio - Europa e laicismo - la tua agenda. Dovresti almeno riflettere sugli “agenti” delle “agende”. Sul nostro federalismo militante (al quale Altiero Spinelli - poco prima di lasciarci - pubblicamente e solennemente dichiarò che senza il nostro apporto, che tu ben conosci, in particolare quello di Emma Bonino, sogno e opera comuni rischiavano di esser tragicamente perdenti, persi) non puoi - credo - avere dubbi. Noi li abbiamo avuti - invece - quando di recente tu pubblicamente dichiarasti che “Stati Uniti d’Europa non ci saranno mai e nessuno ne avrebbe sentito la necessità”. Siamo certi che in quella occasione la tua affermazione non esprimeva la sostanza delle tue convinzioni, ma - tranne noi - nessuno te ne chiese conto, per chiarire l’equivoco. Anzi, gli spinelliani (?!) del Parlamento europeo, Verhofstadt e Cohn-Bendit, ti applaudirono salutandoti come “un vero federalista al Consiglio europeo”!. “Ancora: noi chiediamo, esigiamo - qui ed ora - alle elezioni, così come in ogni momento della nostra vita politica e in quella personale, che l’Italia, questa Italia, esca dalla assoluta flagranza criminale nella quale da decenni e decenni insiste, persevera nei confronti delle giurisdizioni europee, internazionali e - in primissimo luogo - della Costituzione italiana - spiega ancora il leader radicale -. Non solamente, bada bene, caro Presidente, per i veri e propri aggregati consistenti, terrorizzanti, di shoah italiana, che ormai riguardano centinaia di migliaia di famiglie, di lavoratori, di volontari, di detenuti e detenute (di oltre 31 nazionalità). No, caro Presidente, siamo deplorati - incessantemente e a ritmo sempre più incalzante - non solo e non tanto per queste terrorizzanti carceri, quanto per il massacro (senza precedenti, fascisti, nazisti, comunisti) dell’Amministrazione della Giustizia (che è ormai denegata giustizia) contro lo Stato di Diritto e i Diritti Umani (ripeto: i Diritti Umani) dei residenti nel nostro territorio - infamandolo nella sua Storia! - con i suoi 10 milioni di procedimenti, penali e... “civili”. Noi ci “presentiamo” alle elezioni partitocratiche, antidemocratiche, con una “lista di scopo”. Priorità - per noi - assoluta, Presidente Monti: quella di interrompere la flagranza tecnicamente criminale della Repubblica italiana contro la Giurisdizione (costituzionalizzata) europea (della Cedu e non solo), fondata e sviluppata su quella dell’Onu e del suo Sistema. Anche chi sarà nominato dalla partitocrazia a nuovo nostro supremo magistrato condividerà con te la tremenda responsabilità nostra, italiana ed europea. Comunque noi chiediamo l’uscita dalla flagranza storica criminale e criminogena del nostro Paese - spiega Pannella. Tutto qua! La sola riforma strutturale dello Stato, della giustizia, concepita tanto quanto censurata, vietata, ignorata dal popolo e dalla democrazia italiani, è manifestamente, materialmente, quella dell’Amnistia. Riducendo in tal modo a 2 milioni i 5 milioni di procedimenti penali, la “non ragionevole durata” dei processi italiani”. Emma Bonino: mi auguro reazioni a lettera Pannella “La lettera di Pannella a Monti è un nuovo passo di iniziativa politica nell’ambito del settore di importanza capitale dello stato di diritto, del ripristino della legalità violata sistematicamente, ambito di iniziativa politica che è la caratteristica dell’ iniziativa radicale e che si è acuito negli ultimi tempi, anche perché si è acuito lo stato della malagiustizia con la conseguenza drammatica della situazione carceraria”. Lo ha detto a Radio radicale la vicepresidente del Senato Emma Bonino. “Questa analisi ad oggi sembra piuttosto solitaria visto che il grande tema dell’assenza totale di stato di diritto nel nostro Paese sembra preoccupare solo noi, anche nell’accezione dell’impatto sullo sviluppo economico che fa pagare al Paese l’1% di Pil in più. Ora questa lettera ripropone pubblicamente a Monti in particolare, ma in realtà a tutti gli schieramenti, questa offerta di fare propria con l’ ospitalità ad una lista radicale almeno una parte dell’analisi di cui parlavo e dei possibili rimedi che si debbono urgentemente prendere con la proposta dell’amnistia, che poi può essere accompagnata da una proposta di abrogazione delle leggi più criminogene nel nostro Paese, cioè quella sugli immigrati e quella sulle tossicodipendenze”. “Questa lettera è quindi un tentativo pubblico che fa riferimento a conversazioni più private che di tutta evidenza ci sono state fra Marco e Monti su questo aspetto particolare e si riferisce anche istituzionalmente agli altri due alleati di Monti, Fini e Casini, senza escludere questa offerta alle altre coalizioni che si preparano in modo abbastanza confuso a questa scadenza elettorale. Mi auguro - conclude - che ci saranno almeno delle reazioni di attenzione a questa lettera che è parte di questa campagna politica fatta di nonviolenza, denunce, convegni e mille altre attività, ma che ad oggi vede la galassia radicale fare un’analisi e proporre delle priorità e delle soluzioni che nello schieramento politico pochi altri condividono se non alcuni a titolo personale”. Andrea Olivero: Monti sta riflettendo su lettera Pannella “Credo che Monti stia leggendo attentamente la lettera di Pannella, e che ci stia riflettendo”. Lo ha detto Andrea Olivero, uno dei big della lista Monti, che sarà quasi sicuramente tra i capolista alle prossime elezioni, nel corso di un filodiretto a Radio Radicale. “Credo - ha detto Olivero - che nella lettera di Pannella ci siano alcuni elementi interessanti, e credo che vadano valutati. Le culture politiche che compongono la lista per Monti e la coalizione sono certamente diverse, ma un elemento ci caratterizza tutti: quello di voler costruire un processo riformatore, di trasformazione del Paese, per toccare i nodi cronici dell’Italia. Nodi, come ha detto Monti nei giorni scorsi, che per troppo tempo si è considerato impossibile toccare. Penso alle carceri, alla durata dei processi, alla mancanza di diritti civili nel nostro Paese. Penso che si debba lavorare insieme, e che l’esperienza di questo mondo possa essere utile”, ha aggiunto Olivero. “La riforma della giustizia e provvedimenti straordinari, che penso debbano essere presi, come l’amnistia, una volta fatta la riforma della giustizia, credo siano temi cruciali”. Quanto ai temi “laici”, Olivero ha spiegato: “So altrettanto che su alcune tematiche ci sono posizioni radicalmente diverse. Parlo, da cattolico di quelli che a volte vengono definiti valori non negoziabili. Ma se si trovasse un metodo comune, rispettoso, che affronti le cose non in maniera ideologica, credo si potrebbe anche ragionare. Certo, sono sfide complesse, ma credo che dovremo affrontarle”, ha concluso Olivero. Pietro Ichino: Monti risponderà a Pannella e non ritualmente “Credo proprio che Monti risponderà alla lettera a lui indirizzata da Marco Pannella. È nel suo stile, nel suo registro personale, quello di non lasciare senza risposta una lettera così piena di contenuti, così accorata e urtante, in senso nonviolento, per motivi nobilissimi”. È Pietro Ichino a dirlo in un’intervista a Radio Radicale. “Non sono il portavoce di Monti - si premura di precisare il giuslavorista, comunque molto vicino alla proposta politica del Professore - ma, conoscendolo, mi sento di prevedere che una risposta ci sarà. E sarà una risposta di sostanza, non puramente rituale”. Giuliano Cazzola: alleanza Monti-Radicali sarebbe positiva “Io so che ci sono criteri molto restrittivi perché anche una nostra eventuale lista di ex Pdl non ha avuto un gradimento adeguato e quindi siamo in tre seduti su una stessa seggiola, in quanto non essendoci spazio alla Camera dovremo trovare spazio nella lista unica al Senato e così se qualche elettore deluso del Pdl volesse votare per la nostra posizione politica alla Camera farebbe fatica a trovarla. Ciò detto, io penso che allargare i consensi verso i Radicali che hanno una tradizione innervata nella storia del Paese e un discreto pacchetto di voti sarebbe una scelta utile e positiva”. Lo dice il deputato Giuliano Cazzola, aderente all’agenda Monti, commentando a Radio Radicale la lettera di Marco Pannella a Mario Monti e un eventuale apparentamento della lista Radicale “Amnistia, Giustizia e Libertà” alla coalizione del presidente del consiglio. “Mi sentirei di caldeggiare un’ipotesi di questo genere che sarebbe anche un sottrarre voti allo schieramento di sinistra che è un nostro competitore”, conclude. Giustizia: la legge sull’ingiusta detenzione c’è, ma le richieste di risarcimento sono rifiutate Intervista a Giulio Petrilli, a cura di Erminio Cavalli www.abruzzoweb.it, 7 gennaio 2013 Ha interrotto lo sciopero della sete ma non quello della fame Giulio Petrilli, classe 1958, aquilano, noto esponente politico, già segretario provinciale di Rifondazione comunista, presidente dell’Agenzia regionale edilizia territoriale poi transitato nel Partito democratico. La sua non è una scelta facile, ma è una battaglia irrinunciabile per la vita (la sua, quella di tanti come lui), oggi come sempre, ancora una volta. Nel suo passato il ricordo atroce di pochi metri quadri di cella. In isolamento totale e solo un’ora d’aria al giorno. L’angoscia di ritrovarsi da un giorno all’altro nelle viscere di un incubo, senza più sogni, senza più speranze. A scontare il martirio di una pena ingiusta, che solo dopo 6 anni - troppo tardi - gli verrà riconosciuto. Su di lui pendeva l’accusa infamante di aver partecipato ad una banda armata, nota allora con il nome di “Prima linea” Petrilli aveva appena 22 anni e dal 1980, quando il carcere fu la sua nuova casa, sono passati tanti anni. Ma non dimentica. Chiede dopo tanto, ancora adesso, che gli venga risarcito dallo Stato tutto quello che gli è stato tolto. È ancora in attesa, non si arrende, continua a lottare. AbruzzoWeb gli ha voluto rivolgere qualche domanda. E da una semplice chiacchierata, la storia di una “passione”, il ritratto di un dolore, i segni di una stimmate. Quali sono i motivi che la spingono a rifiutare il cibo? La mia è una battaglia iniziata da tempo perché mi venga riconosciuto il risarcimento per l’ingiusta detenzione che ho subìto dall’80 all’86. Ero stato accusato di aver partecipato a una banda armata nell’organizzazione denominata “Prima linea”. Fui condannato a 8 anni in carcere e in isolamento totale, e avevo solo un’ora d’aria al giorno. E poi cosa accadde? Successe che dopo 6 anni di prigione fui assolto. La sentenza definitiva risale al luglio del 1989. Nell’ottobre 1989 uscirono gli articoli che prevedevano un risarcimento per chi era stato assolto dopo il carcere. Era un modo per “riparare” l’accusa di ingiusta detenzione. Ma la legge non era retroattiva, come avrebbe dovuto essere. Feci la domanda per essere risarcito ma venne considerata inammissibile dalla Corte d’Appello di Milano. Da qui le sue prime battaglie? Sì, esatto. Feci una lunga battaglia perché la legge potesse diventare retroattiva, e ci fu una raccolta di firme a mio sostegno, che ebbe molto successo e che vide molti parlamentari parteciparvi. Nel febbraio dello scorso anno la legge è diventata finalmente retroattiva, tra i firmatari ci fu persino Luigi Lusi (poi arrestato nell’ambito di un’inchiesta sull’appropriazione indebita di fondi del suo vecchio partito la Margherita, ndr). Mi rincresce dirlo, ma è così. Ho allora presentato la domanda nel marzo 2012. Il 14 giugno successivo c’è stata l’udienza, ma poi hanno rigettato la mia richiesta perché, avendo frequentato gli ambienti dell’antagonismo, non potevo essere risarcito. Spieghi meglio... Sì, quando la richiesta viene rigettata i giudici si appellano al comma n. 1 dell’articolo 314 del codice procedura penale, che prevede che, anche in caso di assoluzione, se una persona ha avuto comportamenti non idonei, non va risarcita, perché ha tratto in inganno gli inquirenti. Nella sostanza si tratta di una spada di Damocle verso le 3.000 domande accolte, che così vengono ridotte fino a 800. Lei sta dicendo che si tratta nella sostanza di un giudizio morale? Esattamente. A 18 anni sono stato accusato di essere uno dei capi di una banda armata, vengo poi assolto dopo 6 anni di carcere ingiusto e dopo tanti anni neppure risarcito: trovo tutto questo assurdo. E adesso? Ora mi ritrovo con questa sentenza sulle spalle. Con il mio avvocato Francesco Camerini ho fatto ricorso in Cassazione e siamo in attesa. Ritengo che il comma 1 della legge citata sia anticostituzionale . La libertà viene garantita dall’articolo 2 della nostra Costituzione, quando si parla dei nostri diritti inviolabili. Esistono anche norme della Corte europea che garantiscono questi diritti. Quella di questi giorni è un’ulteriore battaglia di principio. Questi temi sono molto attuali. Le posizioni di Marco Pannella sono molto simili alle sue, pur venendo da un’estrazione culturale e ideologica ben diversa... Su questo tema io e lui ci ritroviamo perfettamente, come sui temi dell’amnistia e dell’indulto. Ho visitato tante carceri nella mia vita per rendermi conto se ci fossero principi di vivibilità. Ma purtroppo ho dovuto costatare che le condizioni delle prigioni oggi è seriamente peggiorata, soprattutto per il grosso problema del sovraffollamento. Per i diritti delle persone, ho solidarizzato molto in questi anni con i Radicali. Sono stati fatti è vero piccoli passi in avanti, ma il traguardo è ancora molto lontano. La mia è una battaglia di civiltà e di giustizia. Come ricorda la sua esperienza in carcere? Si immagini di vivere per 6 anni in dieci metri quadrati, in uno stato di sofferenza indicibile. Non parliamo poi delle condizioni igieniche pessime dovute al sovraffollamento, in condizioni di difficoltà inimmaginabili. È una dimensione invivibile per qualunque essere vivente. Tante persone che hanno problemi psichiatrici, psicologici, se vivono dentro uno stato di prigionia così duro rischiano seriamente di spegnersi, anche se continuano apparentemente a vivere. Le carceri oggi sono in uno stato medievale. Mi creda, non sto enfatizzando. Insomma, sembra di capire che il sovraffollamento sia il vero problema... Quando ero a San Vittore negli anni 80 eravamo 1.300 carcerati. Oggi lì ce ne sono almeno 1.800, con massimo 2 ore di aria al giorno. Le sembra trascurabile, possibile? Io poi ho vissuto un’esistenza come in una banca insonorizzata. L’isolamento è devastante. Si rischia di perdere anche la lucidità in quelle condizioni. Si ricorda di Giuseppe Gullotta, che ammise un reato pur non avendolo compiuto? La detenzione è una delle forme peggiori di violenza estrema. Sembra che lei non sia in fondo mai uscito da quella terribile prigione. Torna in quei luoghi, come per recuperare il suo tormento, che non riesce ad abbandonarla... Sì, è proprio così. Che cosa vuole farci? Quell’esperienza ti segna, ti rimane sulla pelle, si solidifica, ti ci abitui. Penso che l’unico elemento diciamo “positivo” è l’assuefazione a un certo livello di sofferenza, che ti fa trovare per certi versi maggiore equilibrio. Insomma, uno “stato di grazia” senza giustizia? In verità quando una persona si riduce a quello stato di sofferenza torna a uno stato primitivo, assoluto. E così l’uomo si avvicina più a se stesso, si riscopre fragile e dunque più vero, specie quando la sofferenza tocca questi livelli. Come si vive il tempo e lo spazio in carcere? Il carcere è una sofferenza che ti porti 24 ore su 24, la indossi sempre. La percezione del tempo diventa relativa: né lunga né corta, così come lo spazio. E me ne accorsi quando ritrovai la libertà: avevo paura degli spazi aperti, la visibilità era diventata ai miei occhi terribile. Mi creda, ci si riduce ad aver paura della propria libertà. È una sensazione indescrivibile, che non auguro a nessuno. Ed è per questo che continuo a lottare. Comunicato stampa di Giulio Petrilli Alla luce dell’incontro avuto oggi a Roma, nella sede del Partito Radicale con l’On. Rita Bernardini e con il Segretario nazionale dello stesso Partito Mario Staderini per discutere con loro i motivi della mia protesta, che sono quelli del riconoscimento a tutti del risarcimento per ingiusta detenzione, sospendo dopo otto giorni lo sciopero della fame. Ho avuto rassicurazioni di un impegno sentito anche su questo tema, che è tutto interno alla battaglia di una giustizia più giusta e all’affermazione dei diritti delle persone. Ringrazio le tante persone che in questi giorni, mi hanno espresso la loro solidarietà, compreso gli organi di informazione che hanno reso visibile i motivi della mia protesta. Sospendo lo sciopero della fame, ma proseguirò in altre forme la battaglia per il riconoscimento a tutti di questo diritto inalienabile. Giulio Petrilli Giustizia: Fp-Cgil; domani presidio al Dap contro trasferimenti punitivi e distacchi agenti Asca, 7 gennaio 2013 Presidio domani a Roma, a partire dalle 10, della Fp-Cgil che terrà davanti alla sede centrale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di Largo Luigi Daga 2, per protestare contro i trasferimenti di sede che hanno colpito diversi delegati e iscritti all’organizzazione sindacale. I provvedimenti, definiti “punitivi” dalla Funzione Pubblica Cgil Nazionale, giungono in seguito alle denunce riguardanti il distacco di personale di Polizia Penitenziaria presso altri servizi e uffici centrali, piaga antica e irrisolta che continua a essere messa in atto dal Dap. Distacchi, si sottolinea, che pesano ulteriormente su un organico che dovrebbe contare su circa 45mila poliziotte e poliziotti, così come stabilito dal Dm dell’8 febbraio 2001 pensato per una popolazione di circa 37-38 mila detenuti contro gli attuali 68mila. A oggi sarebbero, invece, solo 37.500 unità quelle effettivamente in servizio nell’amministrazione penitenziaria, 8mila agenti in meno a fronte di 30mila detenuti in più. Tra quelli in servizio 4.000 circa sono attualmente impegnati in compiti istituzionali diversi da quelli svolti nelle carceri, dal Ministero della Giustizia al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Un fenomeno questo, sottolinea la Cgil, che “riduce di fatto a poco più di 24mila gli agenti che operano in carcere. Per supplire alle forti carenze il personale di Polizia Penitenziaria è obbligato a effettuare un numero eccessivo di ore di lavoro straordinario, molto spesso - aggiunge il sindacato - con doppi turni, subendo un ulteriore stress psicologico e fisico oltre a quello, già opprimente, causato dal sovraffollamento. Una situazione insostenibile a cui va posto rimedio”. Giustizia: l’ex commissario e il caso Dozier… “così torturammo i brigatisti” di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 7 gennaio 2013 Finora si trattava di ricostruzioni giornalistiche, interviste più o meno esplicite, mezze ammissioni anonime. Adesso invece è tutto scritto in un atto giudiziario, un interrogatorio di cui il testimone si assume la piena responsabilità. Sapendo di poter incorrere, qualora affermasse il falso, in una condanna fino a quattro di galera. È il rischio accettato dall’ex commissario di polizia, nonché ex deputato socialdemocratico, Salvatore Genova, uno degli investigatori che trentuno anni fa partecipò alla liberazione del generale statunitense James Lee Dozier, sequestrato dalle Brigate rosse. Il 30 luglio scorso Genova ha deposto davanti a un avvocato che lo ascoltava nell’ambito di proprie indagini difensive, svelando le torture inflitte ad alcuni sospetti fiancheggiatori delle Br per arrivare alla prigione di Dozier; metodi “duri” avallati dal governo di allora, aggiunge l’ex poliziotto, con una dichiarazione tanto clamorosa quanto foriera di reazioni e (forse) ulteriori accertamenti giudiziari. “È stato tutto disposto dall’alto - ha detto Genova all’avvocato Francesco Romeo, difensore dell’ex brigatista Enrico Triaca, uno dei presunti torturati. C’è stata la volontà politica, che poi scompare sempre in Italia, che è stata quella del capo della polizia, d’accordo con l’allora ministro Rognoni... E infatti noi facemmo”. L’avvocato lo interrompe: “Mi sta dicendo che l’autorizzazione a fare quel tipo di tortura...”. E Genova: “Non poteva non essere, non era cosa personale di Ciocia (il poliziotto chiamato “De Tormentis” che secondo il suo ex collega dirigeva i “trattamenti”, ndr)... Fu De Francisci che fece una riunione con noi. Lui era il capo dell’Ucigos e ci disse “facciamo tutto ciò che è possibile”. L’Ucigos era l’organismo responsabile delle indagini antiterrorismo sull’intero territorio nazionale, e nel ricordo di Genova il prefetto De Francisci che la guidava dette il “via libera” a sistemi d’interrogatorio poco ortodossi: “Anche usando dei metodi duri, disse così, perché ovviamente eravamo veramente allo stremo come Stato...”. L’alleato americano premeva per ottenere risultati, “tant’è che durante queste indagini noi fummo sempre seguiti, non ovviamente con interferenza ma con la loro presenza, da agenti della Cia”. Il sistema d’interrogatorio attraverso tortura, al quale il testimone sostiene di aver assistito personalmente, è chiamato waterboarding: il prigioniero viene legato mani e piedi a un tavolo, un imbuto infilato in bocca e giù litri di acqua e sale per dare la sensazione dell’annegamento. “Era una tecnica molto usata dalle squadre mobili”, denuncia Genova; ecco perché fu chiamato il “professor De Tormentis”, al secolo Nicola Ciocia, poliziotto di dichiarate simpatie mussoliniane che a Napoli e in altre regioni del Sud aveva combattuto la criminalità comune e organizzata. “Di quella tecnica io a quel momento non ne conoscevo l’esistenza”, precisa Genova. Davanti ai suoi occhi, al waterboarding fu prima sottoesposto un presunto fiancheggiatore delle Br, poi il futuro “pentito” Ruggero Volinia. Lo arrestarono insieme alla fidanzata, “semi denudata e tenuta in piedi con degli oggetti, mi sembra un manganello che le veniva passato, introdotto all’interno delle cosce, delle gambe”. Dopo aver ingurgitato acqua e sale, racconta Genova”, Volinia “alzò leggermente la testa e la mano, chiese un attimo per poter parlare: “E se vi dicessi dov’è Dozier?”. Così, nel gennaio 1982, si arrivò alla liberazione del generale. Alla quale seguirono i maltrattamenti sui suoi carcerieri, che vennero alla luce grazie a indagini giudiziarie e disciplinari su alcuni poliziotti. Genova, che poté usufruire dell’immunità parlamentare garantitagli dal seggio socialdemocratico, oggi ha deciso di riparlarne. Prima al quotidiano ligure II Secolo XIX e ora col difensore di Triaca, l’ex br arrestato nel 1978, all’indomani dell’omicidio Moro, che denunciò di essere stato torturato e per questo fu condannato per calunnia. Oggi l’avvocato Romeo ha presentato un’istanza di revisione di quel processo, basata anche sulle rivelazione di Genova. Il quale racconta di aver saputo che ad occuparsi di Triaca fu proprio De Tormentis-Ciocia, l’esperto di waterboarding che si muoveva - a suo dire - con tanto di garanzie ministeriali. “Non ci fu alcuna copertura - ribatte l’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni. Anzi, i comportamenti “duri” accertati furono prontamente perseguiti. C’era una certa esasperazione degli investigatori, questo sì; gli Stati Uniti volevano mandare le loro “teste di cuoio” per liberare Dozier, e io mi impuntai per difendere le nostre competenze. Ma non ho mai avallato alcun genere di tortura”. E il prefetto in pensione De Francisci replica alla testimonianza di Genova: “Sono tutte bugie. Io non ho torturato nessuno né tollerato niente di ciò che luì dice. È un bugiardo, lo citerò in giudizio”. Dopo trent’anni e più, un capitolo rimasto oscuro e ora riaperto della storia dell’antiterrorismo italiano promette nuovi sviluppi. Lettere: a proposito della diminuzione del numero di detenuti stranieri…. di Salvatore Palidda (Università Genova) Ristretti Orizzonti, 7 gennaio 2013 Gentili Redattori di “Le Due Città”, a proposito della vostra recente analisi dei dati riguardanti gli ingressi di stranieri, permettetemi di segnalarvi qualche elemento derivante dalle ricerche svolte recentemente a livello europeo e nazionale da alcuni di noi ricercatori che dal 1994 ci occupiamo di questo campo di studi. Prima lo stallo e poi il calo del numero di stranieri arrestati, incarcerati e quindi presenti negli istituti governati dal Dap è un fenomeno già osservato da alcuni di noi sin dal 2008. Ma è del tutto discutibile dire che “I principali motivi sono legati alla crisi economica, che ha reso l’Italia meno attrattiva e ridotto del 40% l’affluenza complessiva degli stranieri”, e alla Direttiva europea 2008/115 sui rimpatri che ha di fatto messo in questione la sussistenza del reato di mancata ottemperanza all’obbligo di allontanamento dal territorio dello Stato”. (anche se è ovvio che gli ingressi dalla libertà per reati legati al testo unico sull’immigrazione sono passati dai 10.125 del 2008 ai 2.480 del 2011 e nel primo semestre gli ingressi per violazione del testo unico sull’immigrazione si sono fermati a quota 410). Affermare che c’è diminuzione di arresti e incarcerazioni perché diminuiscono gli arrivi equivale a stabilire una equazione aritmetica fra questi due dati che è smentita dalle stesse statistiche ufficiali. Infatti: il totale complessivo dei reati in Italia è rimasto quasi lo stesso o è anche diminuito (e sono fortemente diminuiti i reati gravi quali gli omicidi che come si sa sono soprattutto un “affare famigliare degli italiani”). Lo stesso tasso di arresti e incarcerazioni di stranieri è ovviamente diminuito (poiché il denominatore è considerevolmente aumentato, calcolando questo solo per i maschi di 18-65 anni regolari e irregolari -sulla base delle stime affidabili a proposito di quest’ultimi). Si potrebbe persino dire che l’aumento della presenza degli stranieri regolari e irregolari non ha fatto aumentare i reati e neanche quelli complessivamente attribuiti agli stranieri, malgrado la sostituzione di italiani con una piccola minoranza di stranieri in alcune attività illecite quali lo spaccio e alcuni furti. Allora, se la percentuale degli stranieri sul totale degli arrestati e incarcerati permane alto è sfacciatamente perché si riproduce la sovrapposizione di tre principali aspetti: 1) alcuni giovani immigrati - ma solo una piccola minoranza del totale - sono inevitabilmente indotti ad attività illecite se non alla delinquenza (spaccio e furti) sia perché i processi di destrutturazione culturale e sociale nei paesi di origine favoriscono le illusioni di ascesa sociale attraverso l’illecito (come del resto fanno buona parte dei politici e anche persona del pubblico impiego -vedi anche delle polizie - e personalità mediatizzate), sia perché le possibilità di inserimento e integrazione regolare e pacifica sono ridotte quasi a nulla; 2) una parte dei giovani immigrati è oggetto di una particolare attenzione e a volte di un vero e proprio accanimento repressivo da parte di alcuni operatori delle polizie e dei vari razzisti nostrani sino a una vera e propria criminalizzazione razzista che spesso colpisce anche giovani del tutto estranei a comportamenti illeciti (la discrezionalità di una parte di alcuni operatori delle polizie diventa facilmente discriminazione e da qui si scivola facilmente verso il libero arbitrio e la criminalizzazione razzista ahinoi approvata da una parte dei cittadini italiani). 3) Infine, la questione cruciale è che l’Italia è il paese dove per gli immigrati e soprattutto per alcuni (vedi giovani del Maghreb, dei paesi dell’Est e del sud America) c’è meno certezza del diritto e più discrezionalità se non libero arbitrio da parte degli attori dominanti o più forti (vedi alcuni operatori delle polizie, “caporali”, affittuari etc.). Chi protegge i rom e gli stranieri da abusi, discriminazioni, violenze e razzismo? Quanti sono le vittime di criminalizzazione razzista? Forse se si riuscisse a verificare quanti innocenti sono finiti in carcere scopriremmo che il tasso degli stranieri che delinquono è sicuramente da trenta a dieci volte inferiore a quello dei nostri politici, del personale delle polizie, della pubblica amministrazione e degli attori sociali dominanti (vedi caporalato e imprenditori delle economie sommerse). Un’ultima segnalazione: perché invece di alimentare il business della costruzione delle nuove carceri non si favorisce il lavoro che potrebbero svolgere i detenuti nella ristrutturazione o restauro delle carceri esistenti a cominciare anche dai piccoli lavori per evitare condizioni di indigenza inaccettabili e per creare spazi vitali indispensabili soprattutto in tanti istituti iper-sovraffollati? Sardegna: alla fine saranno 189 detenuti in regime di 41bis trasferiti nelle carceri nell’isola di Pier Luigi Piredda L’Unione Sarda, 7 gennaio 2013 Il Dipartimento di amministrazione penitenziaria ha previsto 94 reclusi pericolosissimi a Sassari e altri 94 a Uta, mentre nella struttura di Badu ‘e Carros ne resterà solo uno: il boss Antonio Iovine. Saranno 189 i detenuti di altissima pericolosità, quelli reclusi con il rigido regime del 41 bis, che arriveranno in Sardegna durante l’anno. A ospitarli saranno le nuove carceri di Sassari-Bancali e Cagliari-Uta e anche il vecchio ma ristrutturato penitenziario nuorese di Badu ‘e Carros. Per i reclusi in regime di 41 bis sono infatti in fase di ultimazione 94 celle singole a Bancali e altre 94 a Uta. Celle molto particolari e superattrezzate, realizzate rispettando tutti i requisiti di sicurezza previsti per quel tipo di detenzione dura riservata ai criminali più pericolosi: soprattutto mafiosi e camorristi. Il detenuto numero 189, ma sarebbe più logico definirlo numero 1 vista la sua altissima pericolosità, è il boss dei Casalesi Antonio Iovine: è l’unico recluso con il 41 bis a Badu ‘e Carros da due anni. Nelle due carceri di Bancali e Uta dove saranno reclusi i 41 bis non sono invece previsti detenuti identificati con il regime di alta sicurezza: questa è una misura preventiva fondamentale predisposta dal Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) per evitare che i boss possano entrare in contatto con più facilità con la loro manovalanza e quindi mantenere rapporti con l’esterno. Una condizione necessaria anche per garantire la sicurezza del territorio sul quale gravita tutta l’attività legata ai penitenziari. Il pericolo di infiltrazioni della criminalità organizzata è il rischio maggiore di un carcere che ospita tanti detenuti di altissimo spessore criminale, ma il Dap e il ministero della Giustizia hanno sempre escluso, per quanto riguarda la Sardegna, questa possibilità con la spiegazione che la Sardegna sarebbe assolutamente impermeabile a eventuali collegamenti con questo genere di criminalità. Una valutazione confermata dagli studi fatti proprio in funzione della nuova dislocazione della popolazione carceraria sul territorio nazionale e su quello regionale. Il ministero della Giustizia ha previsto per i detenuti con il 41 bis, che in tutta Italia sono oltre 600, l’isolamento. Un termine che però è molto più ampio di come viene solitamente inteso: isolamento per il ministero e per il Dipartimento carcerario significherebbe anche portare più criminali pericolosi possibili in penitenziari dai quali sia quasi impossibile la fuga e ancora più difficili i collegamenti con l’esterno. Quindi, quale posto migliore di una terra con il mare intorno come la Sardegna? Proprio partendo da questa idea-base, era stata prospettata dal ministro della Giustizia, Paola Severino, la possibile riapertura del carcere nell’isola-parco dell’Asinara. Un penitenziario di altissima sicurezza, comunque inserito nell’isola-parco. Idea morta sul nascere, ma non sepolta visto che il progetto sarebbe comunque in cima alla lista delle misure da adottare in caso di inasprimento dell’attività della criminalità organizzata. Nel frattempo, in Sardegna stanno continuando ad arrivare detenuti dalla penisola. Anche durante il periodo natalizio ne sono stati trasferiti alcune centinaia, immediatamente accompagnati nei due nuovi penitenziari appena entrati in attività: quello di Nuchis, in Gallura, che ha sostituito la vecchia “Rotonda” di Tempio e quello di Massama, nell’Oristanese, che ha sostituito la fatiscente struttura di “Piazza Mannu”. Tra i nuovi arrivati non ci sarebbero sardi, neppure quelli considerati di alta pericolosità, e sarebbero pochissimi quelli riportati in questi mesi nell’isola per scontare le loro pene. Nonostante le richieste dei reclusi e dei familiari, costretti a lunghe trasferte e ad affrontare spese sempre più impegnative per potere vedere anche solo per pochi minuti i loro cari. Una scelta che risulta inspiegabile, quella del Dap, che non avrebbe finora fornito alcuna spiegazione ufficiale sul mancato trasferimento di sardi in Sardegna, trascurando così anche la petizione con migliaia di firme a sostegno della cosiddetta “territorialità della pena”: cioè che i detenuti debbano scontare le condanne all’interno della loro terra di origine. Sul futuro delle carceri isolane la situazione sarebbe comunque ancora in fase di studio da parte del ministero della Giustizia e del Dipartimento di amministrazione penitenziaria. L’unica certezza, almeno per il momento, è soltanto sul numero dei detenuti con il 41 bis visto che nei due nuovi penitenziari di Bancali e Uta sono in fase di ultimazione le 188 (94+94) celle singole nei quali dovranno trascorrere i loro giorni fino all’espiazione della pena. Per il resto della popolazione carceraria ci sono soltanto ipotesi, ma senza numeri precisi. Sembra comunque certo che a Massama-Oristano e a Nuchis-Tempio saranno destinati in gran numero reclusi di alta-altissima sicurezza. Nuchis è stato infatti classificato dal Dap come As3, che significa alta sicurezza. A regime può ospitare 150 detenuti e la metà di loro (già arrivati) sono criminali molto pericolosi: mafiosi e camorristi di notevole spessore criminale, alcuni dei quali ergastolani. A Massama sono invece previsti 250 detenuti, oltre la metà dei quali dovrebbero essere di altissima sicurezza. Ma i penitenziari isolani, nuovi e vecchi, oltre che ai detenuti sardi sembrano vietati anche alle guardie carcerarie. Nonostante l’inizio dell’attività di due nuove strutture e l’imminente apertura di Sassari e Uta, sono stati pochissimi gli agenti sardi riportati a casa a fronte di oltre 650 richieste presentate e le carenze di personale un po’ ovunque. Sardegna: Pili (Pdl); e nel carcere di Oristano 125 detenuti ex 41bis, ora nel regime di AS1 Agi, 7 gennaio 2013 “Potrebbe essere imminente nell’isola l’ennesimo sbarco di mafiosi. Ad Oristano fervono in queste ore preparativi per il terzo piano nel carcere di Massama dove dovrebbero trovar posto 125 ex 41 bis, capi mafia, transitati nel regime di Alta sicurezza 1. Un nuovo trasferimento che sarebbe l’ennesimo dopo le omertose dichiarazioni e le smentite da parte dei vari dirigenti del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria”. Lo afferma il deputato sardo del Pdl Mauro Pili. Secondo Pili il Dap “nelle scorse settimane è venuto in Sardegna ad imbrogliare istituzioni e non solo, dichiarando di non sapere quando e se sarebbero arrivati detenuti mafiosi nell’Isola. Hanno fatto dichiarazioni false sapendo di dire il falso”. “Un turismo penitenziario mafioso - ha detto Pili - con costi esorbitanti e una gestione davvero scandalosa considerato che questi personaggi dovranno trasferirsi nella penisola per tutta l’attività processuale nella quale sono solitamente coinvolti direttamente o indirettamente. Una scelta scellerata frutto di una visione perversa che vede nell’Isola una maggiore sicurezza del detenuto. A niente valgono le argomentazioni di illustri esperti che dichiarano questa scelta folle sia sul piano tecnico che politico”. “Il rischio infiltrazioni - ha detto Pili - è chiaro a tutti e la stessa circolare del ministero della Giustizia che istituisce l’alta sicurezza sostiene che il pericolo maggiore di questi detenuti sia l’infiltrazione esterna al carcere. Questo è scritto nelle circolari ufficiali. Le smentite di questi dirigenti di Stato sono destituite di ogni credibilità”. “Le loro rassicurazioni sono ridicole e offensive. - ha proseguito Pili - E a questo si aggiungono anche le falsità. Quando affermano che non sanno quanti ne arriveranno, dichiarano il falso proprio come hanno fatto nei giorni scorsi ad Oristano. Hanno dichiarato di non saperlo e in realtà esiste un comunicato ufficiale che preannunciava l’arrivo di 125 AS1 proprio ad Oristano. Questo piano deve essere fermato - ha concluso Pili - per chiedere di fermare questa nefasta scelta di trasformare la Sardegna in una discarica mafiosa”. Toscana: informazione e carceri; l’Ordine dei Giornalisti approva la “Carta di Milano” Ansa, 7 gennaio 2013 Tutelare i diritti dei detenuti e quelli dell’informazione, grazie all’approvazione di un codice deontologico nazionale: è questo l’obiettivo della “Carta del carcere e della pena”, detta “Carta di Milano”, approvata dal Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti della Toscana nell’ultima seduta del 2012. La Carta di Milano è un codice deontologico in 12 punti che regola i rapporti tra detenuti e media: tra i principi affermati c’è quello del diritto all’oblio (per cui un condannato, una volta scontata la pena, ha il diritto a non essere indeterminatamente esposto all’attenzione dei media per quanto fatto in passato), l’invito a tutelare l’identità del detenuto che sceglie di parlare con la stampa e ad usare termini appropriati in caso di misure detentive alternative al carcere (ricordando che non si tratta di libertà). Il documento riguarda tutti i tipi di informazione, da quella cartacea a quella online, per la quale viene richiesta un’attenzione particolare data la prolungata esposizione delle notizie su internet. Inoltre nella Carta di Milano viene chiesto all’Ordine Nazionale dei Giornalisti di impegnarsi per favorire la diffusione di una cultura dei diritti e doveri del giornalista in tema di carceri, tramite la creazione di una sezione apposita per l’esame di Stato e la promozione di seminari di approfondimento sul tema. “La Carta di Milano è un documento importante che vuole mettere ordine su un tema delicato complesso - ha commentato Carlo Bartoli, presidente dell’Ordine dei giornalisti della Toscana, che- come il rapporto tra informazione e mondo delle carceri. È importante infatti ricordare che il carcere dovrebbe rappresentare per molti detenuti l’occasione per prepararsi ad una nuova vita sociale: per questo è necessario tutelare i loro diritti, coniugandoli però con quello dei cittadini ad essere informati. Grazie all’adozione di questo documento ci auguriamo che sia possibile. Di sicuro, si tratta di un tema che non può essere eluso o ignorato dalla nostra categoria: anche per questo nei mesi scorsi avevamo inviato una lettera ai direttori delle testate locali richiamando la loro attenzione sul tema delle carceri”. Lecce: detenuto di 38 anni s’impicca nell’infermeria del carcere, è il secondo da inizio anno www.lecceprima.it, 7 gennaio 2013 Un detenuto somalo 38enne, da un anno nel carcere di Borgo San Nicola, per reati contro il patrimonio. Avvisato il consolato. Il sindacato nazionale Osapp della penitenziaria rilancia i temi caldi: sovraffollamento e personale carente Mohamed Abdi, un detenuto somalo di 38 anni, è morto suicida ieri pomeriggio nel penitenziario di Borgo San Nicola, a Lecce. L’uomo era detenuto da circa un anno per reati contro il patrimonio. La salma è stata trasportata presso l’ospedale “Vito Fazzi”. Le autorità locali hanno avvisato il consolato, perché sembra che l’uomo non abbia parenti in Italia. Il fatto è avvenuto alle 18 di ieri, nel giorno dei festeggiamenti per l’Epifania, nell’infermeria del carcere. L’uomo si è suicidato per impiccagione in una delle celle, come rende noto l’Osapp, uno dei sindacati dei “baschi azzurri”. Che, in una nota, a firma del vicesegretario nazionale, Domenico Mastrulli, spiega: “Anche se immediati, i soccorsi dei pochi agenti lasciati nella programmazione dei servizio nella serata festiva di ieri, non sono serviti”. L’ultimo suicidio nel carcere di Lecce, come noto vessato da vari problemi, fra cui un sovraffollamento mai risolto, risale al 30 luglio dello scorso anno. Fu un detenuto campano a togliersi la vita, nella sua cella. Ma diversi sono stati anche i tentativi, per fortuna stroncati in extremis, di tanti altri detenuti di togliersi la vita. “L’Osapp - scrive nel comunicato Mastrulli - condivide la recente presa di posizione esternata dall’arcivescovo di Lecce, monsignor Domenico D’Ambrosio, che nell’omelia di Natale ha parlato del sovraffollamento delle carceri pugliesi, esternando concreta preoccupazione per le pessime condizioni degli istituti di pena e della vita interna. Una preoccupazione ampiamente condivisa dal sindacato e dai poliziotti aderenti all’Osapp, che rilancia la carenza di uomini e donne nell’ organico nei reparti detentivi delle carceri e dei nuclei traduzioni e piantonamenti che operano sotto scorta nell’accompagnamento dei detenuti nelle aule di giustizia, per il trasferimento di sede e per urgenti ricoveri esterni”. E ricorda “gli episodi di questi mesi a Foggia e Lecce, che sembrano scambiarsi la staffetta in negativo sui suicidi, tentativi di suicidio, aggressione ai poliziotti”. Proprio per stigmatizzare tutte le problematiche, il sindacato, che punta l’indice su ministero e dipartimento, si dice pronto a dichiarare anche uno stato di agitazione, con l’astensione dalla mensa di servizio e proteste nelle strade pugliesi. “A Lecce - dice Mastrulli - la conta sfiora e supera di giorno in giorno quota mille e 400, a Bari quota 650 e a Taranto, tra 650 e i 700 detenuti. Qui, accadono sempre fatti incresciosi che certamente gettano amarezza e sgomento su chi esternamente apprende le notizie dal calvario del penitenziario”. L’ultimo suicidio nel carcere di Lecce risale al 29 luglio 2012 con Antonio Giustino, il camorrista di Casoria, detenuto napoletano di 52 anni. Il camorrista era recluso nella sezione di massima sicurezza del carcere leccese da circa quattro mesi, in una cella che divideva con altri tre detenuti. Stando a quanto comunicò il sindacato di polizia penitenziaria Osapp, l’uomo si sarebbe strangolato utilizzando le lenzuola. Il suicidio avvenne, mentre gli altri detenuti erano fuori per l’ora d’aria. A nulla è valso l’intervento dei poliziotti penitenziari e il trasporto in ospedale. Salerno: Radicali; il Reparto detenuti dell’ospedale Ruggi è in condizioni da Terzo mondo La Città di Salerno, 7 gennaio 2013 Critiche alla dirigente dell’Ospedale Ruggi: “Faccia il suo lavoro”. Lei replica: “Siamo un’eccellenza”. “Condizioni da terzo mondo”… così i consiglieri regionali Gianfranco Valiante e Dario Barbirotti, accompagnati dal segretario dei radicali salernitani Donato Salzano, dopo aver ispezionato ieri mattina la sezione detentiva dell’ospedale. “Siamo convinti che tutti debbano pagare i propri debiti con la giustizia - ha premesso Valiante - ma ciò deve avvenire in condizioni dignitose e umane e questo non è il caso dei detenuti ospitati al Ruggi. Il reparto è in uno stato pietoso: scarse condizioni igieniche, mancanza di docce, non c’è televisione e la struttura stessa è carente, vecchia. Invito la Lenzi a venire a rendersi conto di persona, considerato che non è mai venuta a far visita a questo reparto”. I consiglieri chiedono alla manager di calarsi nei problemi vissuti dal reparto evitando lo scaricabarile: “La Regione non finanzia - ha detto Valiante - ma ognuno faccia il proprio lavoro”. Sono sei le celle a disposizione nel reparto ma, ha precisato Salzano, “al momento ne sono utilizzate solo quattro, con l’evidente difficoltà di dare spazio a tutti e di curarli in maniera adeguata. Bisogna recuperare queste gravi carenze con urgenza”. Ma la Lenzi non ci sta e rispedisce le accuse al mittente: “Il consigliere Valiante - ha ribattuto la manager - ha potuto constatare come il reparto sia eccellente, anche perché collocato in un padiglione ristrutturato. In più il medico di guardia è presente 24 ore su24, cosa che non accade altrove in quanto l’intervento dei medici è richiesto a un sanitario convenzionato e non è tempestivamente garantito come nella nostra azienda”. I consiglieri regionali hanno chiesto un incontro al direttore generale dell’Asl, Antonio Squillante, al fine di “recuperare questa situazione di scarsa efficienza”. Rieti: Fp-Cgil; dalle ore 21 alle 8 non c’è assistenza sanitaria per i detenuti e per gli agenti www.rassegna.it, 7 gennaio 2013 La denuncia del sindacato: “L’assistenza per detenuti e agenti è garantita dalle 8 alle 21, ma la legge la prevede per tutta la giornata. Già molti ricoveri d’urgenza”. I motivi: carenza di personale e risorse. “La Regione Lazio è totalmente assente” Nel carcere di Rieti l’assistenza sanitaria ed infermieristica per i detenuti e per gli agenti di polizia penitenziaria è garantita dalle 8 alle 21, nonostante la legge la preveda per l’intero arco della giornata. È la denuncia che arriva oggi (7 gennaio) dalla nota della Fp-Cgil di Roma e Lazio. “È già accaduto - racconta il sindacato - che operatori e detenuti siano stati costretti a ricorrere alle cure della guardia medica o, nei casi più gravi, al trasporto presso l’ospedale tramite il 118”. La mancanza dell’assistenza notturna è causata dalla carenza di personale e di risorse finanziarie, racconta la categoria. Infatti a Rieti “è presente personale sufficiente a coprire un bacino di detenuti pari a 150 unità, del tutto inadeguato a fronte dei 300 che normalmente si avvicendano in quella struttura, in linea con il sovraffollamento delle carceri della Regione, che oggi ospitano 6.986 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di poco più di 4mila”. Da parte sua, la Regione Lazio “che dovrebbe garantire l’assunzione di figure professionali per risolvere il problema, è assolutamente assente. Ma tant’è: sappiamo che in questo momento alla Regione sono dediti ad altri ‘impegni urgentì, come quello di acquistare 70 tritacarte al modico prezzo di 14mila euro o come assumere i soliti amici a spese della comunità”. Il sindacato reputa dunque “intollerabile il protrarsi di questo stato di cose che, peraltro, potrebbe avere anche risvolti di carattere penale. Chiediamo che tutte le istituzioni interessate si attivino per consentire che anche nel carcere di Rieti sia ripristinata la legalità anche alla luce del dettato costituzionale. In ogni caso - conclude - saremo a fianco dei lavoratori laddove dovessero insorgere problemi a carico di essi”. Milano: Sappe; arrestata sorella detenuto, portava hascisc nel carcere minorile Beccaria Adnkronos, 7 gennaio 2013 Denunciata ed arrestata per spaccio dal personale di Polizia Penitenziaria la sorella maggiorenne di un detenuto del carcere milanese Beccaria che ha tentato di portare droga al fratello minorenne durante il colloquio di inizio anno. Lo riferisce Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. “Su di lei - spiega - il personale di Polizia Penitenziaria del carcere minorile di Milano aveva già i sospetti che introducesse sostanze stupefacenti. È bastato, infatti, aspettare il momento giusto e le indagini hanno avuto i riscontri attesi. Così sabato scorso B.Y., perquisita al momento dell’ingresso per sostenere il colloquio visivo col fratello minorenne ospite è stata trovata in possesso di alcuni grammi di fumo che occultava nel reggiseno”. “Nelle carceri italiane il 25% circa dei detenuti è tossicodipendente - ricorda Capece - Se per un verso è opportuno agire sul piano del recupero sociale, è altrettanto necessario disporre di adeguate risorse per far fronte alla possibilità che all’interno del carcere entri la droga. Alcuni recenti fatti di cronaca, come avvenuto al carcere minorile di Milano, hanno dimostrato e dimostrano che è sempre più frequente il tentativo, anche da parte dei detenuti appena arrestati o di familiari e amici di ristretti ammessi a colloquio, di introdurre sostanze stupefacenti all’interno degli istituti penitenziari. Spesso, come a Milano, la professionalità della Polizia Penitenziaria consente di individuare i responsabili e di denunciarli all’autorità giudiziaria, ma ciò non è sufficiente”. Secondo Capece, si devono trovare soluzioni concrete per far scontare la pena ai detenuti tossicodipendenti fuori dal carcere, presso le comunità di recupero o in istituti a custodia attenuta. Vi è la necessità di riformare il sistema di giustizia criminale nei confronti delle persone tossicodipendenti (e cioè affetti da una vera e propria malattia quale è la dipendenza da sostanze stupefacenti) che abbiamo commesso reati in relazione al loro stato di malattia. Questo per evitare la carcerazione attraverso interventi alternativi, da attivare già durante la fase del processo per direttissima, di cura e riabilitazione “controllate e gestite” in regime extracarcerario con l’ausilio dei servizi pubblici e delle comunità terapeutiche”, conclude il segretario del Sappe. Palermo: Chinnici (Dgm); le nostre carceri minorili sono un modello per altri Paesi Ansa, 7 gennaio 2013 “Il nostro sistema penale minorile è molto apprezzato all’estero, rappresenta un modello per questi Paesi che sono ancora indietro e si stanno attrezzando. Ho avuto modo di constatarlo partecipando a una riunione del ministri della Giustizia. Come dipartimento l’indirizzo che stiamo dando è quello di aprire le strutture di detenzione all’esterno, per coinvolgere sempre di più associazioni e istituzioni nell’obiettivo fondamentale della rieducazione e nella formazione, con lo scopo di aprire il mondo del lavoro ai ragazzi”. Così il Capo Dipartimento Giustizia Minorile del ministero, Caterina Chinnici, che stamattina ha visitato il carcere “Malaspina” di Palermo. Assieme a Chinnici, c’erano il presidente dell’Assemblea regionale, Giovanni Ardizzone e l’assessore regionale alla Famiglia Ester Bonafede. Il procuratore presso il Tribunale per i minori, Amalia Settineri, ha fatto appello alle istituzioni affinché assegni maggiori fondi alle associazioni e ai centri che si occupano dei ragazzi quando escono dal carcere. Il direttore del Malaspina, Michelangelo Capitano, ha sollecitato l’Assemblea e la Regione a intervenire “per alleggerire la burocrazia che spesso rallenta i programmi dell’amministrazione” e dotando il sistema di maggiori risorse, “non chiediamo grandi impegni, ma piccole cifre da 500 a mille euro”. Capitano ha illustrato i progetti sui quali sta lavorando l’amministrazione del Malaspina: nuovi corsi professionali, teatro, musica, l’idea di siglare accordi con le case editrici per portare dentro il penitenziario scrittori grandi e piccoli per la presentazione dei lori libri davanti ai ragazzi. Palermo: presidente Ars visita carcere minorile e regala pay per view Da oggi gli oltre trenta detenuti del carcere minorile Malaspina di Palermo potranno guardare la televisione Pay per view e potranno giocare le loro partitelle di calcio con tute, scarpe da ginnastica a palloni nuovi di zecca. A donare all’istituto minorile l’abbonamento tv a pagamento e l’abbigliamento sportivo è stato questa mattina il Presidente dell’Assemblea regionale siciliana Giovanni Ardizzone (Udc) in visita al carcere insieme con l’assessore regionale alla Famiglia Ester Bonafede. Un incontro nell’Aula magna del carcere guidato da Michelangelo Capitano. Tra i ragazzi detenuti, tra i 16 e i 18 anni, ci sono anche giovani che stanno scontando una pena per omicidio. Per il Presidente dell’Ars Giovani Ardizzone, stare al Malaspina è anche un modo per “interrompere un circuito vizioso”. “Faccio politica da tanti anni e spesso noi politici veniamo accusati di essere tuttologi. Pensiamo di conoscere tutto. E quindi si cammina per categorie. Si fa una divisione manichea fra ciò che è bene e ciò che è male - dice Ardizzone a lungo applaudito dai ragazzi. Da esterno chi pensa al Malaspina, pensa al male. Dall’interno è il bene. Non basta mandare segnali di testimonianza ma anche operare. Se si interviene in questa fase, si interrompe il circuito vizioso che fra trent’anni avrà ancora effetti”. Presente anche l’ex assessore alla Famiglia della Sicilia e oggi Capo del Dipartimento per la giustizia minorile, Caterina Chinnici: “Ho trascorso parte della giornata di Natale qui con i ragazzi del Malaspina. Un giorno particolarmente intenso anche perché si celebrava il battesimo della bimba di uno dei ragazzi ospitati qui”. E aggiunge: “È qui che comincia il percorso di reinserimento nella società che deve essere un percorso stabile. Per questo il Dipartimento ha stretto un accordo con il Ministero dell’Istruzione per formarli e consentire loro un vero riscatto con il reinserimento lavorativo successivo al periodo di pena”. L’assessore alla famiglia della regione siciliana Ester Bonafede cita Eschilo e il vaso di Pandora, ma anche la Madonna. E alla fine tutti a fare visita ai laboratori, il refettorio. Il presidente dell’Ars ha anche assaggiato qualche panella (prodotto con farina di ceci ndr) fatto dagli stessi ragazzi. Francia: 60 imam in servizio nei penitenziari, per arginare l’estremismo islamico Adnkronos, 7 gennaio 2013 Obiettivo, arginare la diffusione dell’estremismo islamico di stampo jihadista nei penitenziari francesi. La Francia prende di petto l’integralismo e lo fa scegliendo la strada dell’integrazione e della libertà di culto. L’ultima proposta del presidente Francois Hollande va proprio in questa direzione e prevede l’assunzione a tempo pieno, da parte dello Stato, di decine di imam da spedire nelle carceri del Paese per tenere lezioni di Islam ai detenuti musulmani. Ad oggi, si legge su “Le due Città”, la rivista del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, dei 200 penitenziari francesi circa 60 hanno già una guida ufficiale per la pratica del culto islamico; di conseguenza il governo ha previsto già dal prossimo anno l’assunzione di decine di imam che inizieranno a lavorare prima in 30 penitenziari, e poi in altri 30 l’anno successivo. La filosofia che ha ispirato questa scelta è stata spiegata dal Ministro della Giustizia Christiane Toubira: “È necessario - ha detto - che il culto nelle prigioni sia svolto in conformità con i valori e le leggi della Repubblica. Già per il 2013 il governo ha chiesto di mettere a bilancio le prime 30 assunzioni”. L’idea è quella di non lasciare spazio a un proselitismo incontrollato, ma di affidare la gestione della dottrina a imam di professione, seguiti e pagati dallo Stato, senza permettere che alcuni detenuti, magari arrestati per reati di terrorismo, si improvvisino predicatori. La decisione dell’esecutivo di Parigi è arrivata dopo alcuni studi che hanno dimostrato come la maggiore presenza di imam ufficiali abbia contribuito a ridurre negli ultimi anni il fenomeno del proselitismo islamico. In ogni caso la decisione del governo ha sollevato un dibattito acceso in Francia sull’opportunità di inserire degli imam di Stato nelle carceri. Da un lato i critici hanno messo in guardia sul fatto che non basta un titolo francese per rendere un imam un servitore dello Stato; dall’altro, i fautori della legge hanno invece ribadito che, proprio nel momento in cui si fa più forte il proselitismo islamico nelle carceri, la possibilità di guidare questo fenomeno su una strada di integrazione e convivenza, sia il modo migliore per evitare il rischio terrorismo. “E il dibattito si è fatto ancora più acceso - scrive ancora la rivista del Dap - dopo che la polizia francese ha ucciso un giovane che preparava attentati alle sinagoghe di Parigi e che aveva conosciuto l’islam radicale in prigione. Il suo nome era Jèrèmy Louis-Sidney e quando è stato trovato dalle forze dell’ordine ha impugnato la sua Magnum 357 e ha iniziato a sparare”. “Quello che preoccupa di più le forze dell’ordine, però - si legge ancora su Le Due Città - sono le origini sociali di questi giovani, tutti cresciuti nell’emarginazione e in quelle periferie cittadine che già molte volte sono finite al centro di brutti episodi di cronaca. Secondo gli investigatori, la loro battaglia non c’entra nulla con Al Qaeda. Si tratta di una violenza e di una rabbia sociale che si saldano con l’integralismo islamico appreso proprio nella marginalità, spesso del carcere”. La Francia non riconosce né finanzia in modo diretto alcun culto, e anche se non ci sono statistiche ufficiali, è noto che la minoranza islamica è ad oggi la più numerosa e può essere stimata in 6-7 milioni di persone, circa il 10% del totale della popolazione francese. “In questo quadro - fa notare l’approfondimento ospitato sulla rivista del Dap - l’organismo di rappresentanza creato dallo Stato, il Consiglio francese del culto musulmano, si è rivelato poco adatto a controllare la base dei credenti e i fenomeni di integralismo sono proliferati. Oggi, di fronte alla polveriera rappresentata dal mondo delle carceri - conclude Le Due Città - dove l’emarginazione è di casa ancor di più che nelle banlieue, il governo Hollande ha scelto di dare una risposta concreta: arginare l’estremismo cercando di guidare il proselitismo lungo una strada tracciata dallo Stato”. Cina: addio ai lavori forzati, dopo 55 anni sparirà la pena amministrativa del “laojiao” Agi, 7 gennaio 2013 Niente più lavori forzati in Cina: dopo 55 anni spariranno i famigerati campi di rieducazione e il cosiddetto “laojiao”, inflitto da una commissione amministrativa senza alcun processo. La notizia è stata anticipata dall’agenzia Xinhua. La pratica dovrebbe essere abolita del tutto entro il 2013, secondo quanto comunicato dal capo della Commissione centrale politica e legale del Partito comunista, Meng Jianzh, nel corso di una conferenza sul lavoro. Il “laojiao” è un tipo di pena considerato da molte Ong come una violazione dei diritti umani e una fonte di abusi da parte delle guardie carcerarie che gestiscono i campi. In particolare viene contestato il fatto che a infliggerla sia una commissione amministrativa interna alla polizia, che la commina senza un processo o un coinvolgimento dell’autorità giudiziaria. A ottobre nel Libro bianco sulla riforma giudiziaria cinese era stata annunciata una modifica ma non l’abolizione del sistema della rieducazione attraverso il lavoro. Pensato nel 1957 per gli oppositori del Partito comunista, ora il laojiao è diventato soprattutto un deterrente contro la microcriminalità e in particolare contro i reati legati alla prostituzione e alla tossicodipendenza. Nei campi di rieducazione finiscono però anche i colpevoli di crimini “contro lo Stato” e di “terrorismo”, quindi anche dissidenti e agenti di Paesi e gruppi ostili o al bando, da Taiwan ai separatisti dello Xinjiang, fino ai Falun Gong. Fuori dalla Cina si usa il termine “laojiao” come sinonimo di “laogai” che in realtà è stato abolito nel 1997 e sostituito dal termine “carcere”. Il “laogai” era una vera e propria pena detentiva inflitta da un tribunale e comportava la sospensione dei diritti politici e l’obligo di lavorare senza un salario. L’odierno regime di laojiao, invece, prevede un modesto stipendio, il mantenimento dei diritti politici e comunque una durata massima di tre anni, anche se spesso questo tetto viene aggirato con il pretesto di piccoli reati commessi durante la detenzione. Secondo il Consiglio per i Diritti umani dell’Onu, attualmente sono circa 190 mila i cinesi rinchiusi in 320 campi di lavoro, anche se i media ufficiali ne ridimensionano il numero a 60mila. A settembre erano state raccolte poco più di 7 mila firme per l’abolizione dal sistema penale cinese della rieducazione attraverso il lavoro. Iran: blogger morto in carcere, commissione parlamentare chiede punizione responsabili Ansa, 7 gennaio 2013 Perseguire i responsabili della morte in carcere di un oppositore e controllare maggiormente i centri di detenzione. Sono le proposte di una commissione del parlamento iraniano che ha indagato sulla morte in carcere a Teheran del blogger Sattar Beheshti. L’uomo, di 35 anni, era morto nella famigerata prigione di Evin nel novembre scorso, quattro giorni dopo l’arresto per “crimini informatici” (la pubblicazione di testi critici nei confronti del Paese) e dopo aver scritto di aver ricevuto minacce di morte da parte di uomini del regime. Secondo un controverso esposto, Beheshti avrebbe anche denunciato di essere stato torturato in carcere, ipotesi rilanciata da siti d’opposizione e avallata da Amnesty International. Il caso aveva fatto scalpore e aveva spinto governi e organizzazioni per i diritti umani a chiedere alle autorità di Teheran di far luce sul decesso. Come riferiscono media iraniani, il rapporto presentato oggi dalla commissione al parlamento (Majlis) avanza tre proposte: perseguire i presunti responsabili della morte di Behesht, esortando la magistratura a supervisionare simili casi più seriamente; rendere a norma di legge i centri di detenzione, dotandoli anche di telecamere a circuito chiuso; invitare i procuratori ad ispezionare con regolarità le carceri. Il rapporto sposa la tesi della perizia medico-legale, secondo la quale non è stato possibile individuare una causa specifica per la morte del blogger: quest’ultimo però potrebbe essere deceduto per uno shock dovuto a colpi ricevuti in “parti sensibili” o a una “pesante pressione psicologica”. Viene precisato che sono stati sette i funzionari di polizia arrestati per far luce sulla vicenda (tre sono ancora detenuti) e che il capo della Polizia informatica di Teheran, il generale Mohammad Hassan Shokrian, ‘è stato destituitò per un illecito procedurale nella detenzione di Beheshti e per il mancato controllo sul trattamento che gli veniva riservato, in un centro “al di sotto dei minimi standard legali”. Nel carcere non c’era videosorveglianza e la pressione fisica o psicologica secondo la commissione è stata esercitata senza motivo, dato che l’uomo aveva già confessato. Kuwait: 2 anni di carcere per un tweet critico verso l’emiro Agi, 7 gennaio 2013 Un tribunale del Kuwait ha condannato a due anni di carcere un giovane attivista che su Twitter aveva criticato l’emiro Sabah Al Ahmad Al Sabah. Ayyad Al Harbi, questo il suo nome, ha più di 13.000 followers sul social network. Si tratta del secondo caso in due giorni: domenica la stessa pena era toccata a Rashid Saleh Al Anzi per aver “attaccato i diritti e i poteri dell’emiro”, che governa il Paese dal 2006. L’avvocato di Al Harbi, Muhammad Al Humidi, si è detto “sorpreso” dalla condanna “perché il Kuwait è sempre stato conosciuto internazionalmente e nel mondo arabo come un Paese che ama la democrazia”. Gli avvenimenti di questi giorni si inseriscono in un contesto di crescente repressione nei confronti dei dissidenti, che criticano il governo e la famiglia reale. In particolare, l’emirato vive una fase di tensione da quando, nel dicembre scorso, si sono svolte elezioni boicottate dall’opposizione, che contestava la legge elettorale perché favorirebbe i candidati vicini al governo. L’opposizione considera illegittimo il nuovo Parlamento. Bahrain: Alta Corte conferma condanne per 13 leader rivolta Aki, 7 gennaio 2013 L’Alta Corte del Bahrain ha confermato le sentenze di condanna a carico di 13 leader della rivolta antigovernativa del 2011, esplosa sulla sia della Primavera araba. Lo riporta la tv satellitare al-Jazeera, ricordando che i 13 erano stati condannati nel 2011 da un tribunale militare e la sentenza era stata confermata lo scorso settembre da un tribunale civile di primo grado. Le condanne vanno da 5 anni di carcere all’ergastolo. La decisione dell’Alta Corte potrebbe riaccendere le proteste della maggioranza sciita del paese, governato da una monarchia sunnita. Brasile: catturato gatto “complice” dei detenuti… portava in carcere lime e cellulari Ign, 7 gennaio 2013 Il micio bianco e nero era stato utilizzato per far entrare nella prigione di Arapiraca gli strumenti da utilizzare per la fuga. Adesso sarà accolto da un centro di accoglienza per animali. Con passo lieve entrava indisturbato nel penitenziario del nord-est del Brasile, nascondendo sulla pancia un cellulare e delle lime, legati con del nastro adesivo. Per giorni il bel micio bianco e nero, riporta il Mail Online, era passato inosservato dietro le sbarre della prigione di Arapiraca finché un agente penitenziario ha notato che il felino sembrava essere appesantito. Il secondino ha fermato il gatto e ha scoperto il trucco, utilizzato dai alcuni carcerati per far entrare il materiale da utilizzare per una eventuale fuga. Non si sa chi abbia inventato l’ingegnoso sistema. “Sarà difficile individuare i responsabili. Di certo il gatto non parla” commenta con un pizzico di ironia il portavoce dell’istituto penitenziario. Il micio adesso sarà accolto da un centro di accoglienza per animali.