Giustizia: Breivik, Ciro e l’ipocrisia sulle carceri foriera di guai per detenuti e democrazia di Giuseppe Rossodivita (Consigliere della regione Lazio nella Lista Bonino-Pannella) Il Foglio, 4 gennaio 2013 Il senso della “Lista per l’amnistia, la giustizia la legalità”: tornare al dettato costituzionale e alle parole di Calamandrei. In Italia, a differenza della Norvegia, solo il trenta per cento degli ex detenuti hanno la fortuna di non tornare dentro. Anders Behring Breivik, l’attentatore di Oslo e spietato killer di Utoya sta scontando la sua pena nella Halden Prison in Norvegia. 252 celle dotate di ogni confort: tv, frigo e bagno con doccia, arte contemporanea alle pareti, palestra, laboratori, sovraffollamento inesistente, metà del personale costituito da donne, guardie disarmate. In questo che nonostante le apparenze è un carcere di massima sicurezza, i detenuti vengono privati della loro libertà personale, secondo quanto previsto dalla Costituzione e dalle leggi norvegesi. Su 100 detenuti che in questo carcere scontano la loro pena, solamente 20, al termine della stessa, torneranno a delinquere; 80 non lo faranno mai più. Ciro Esposito, scippatore di Scampia, sta scontando la sua pena nel carcere di Poggioreale. Nell’ottobre 2012 era rimpinzato di 2.694 detenuti per 1.420 posti disponibili, 1.280 in più del dovuto. Celle maleodoranti dove si ammassano 9 corpi quando potrebbero starcene 4, con l’umidità che fa cadere a pezzi l’intonaco che ancora resiste, un bagno per tutti, senza privacy persino nel momento intimo della defecazione, un bagno lurido che è anche cucina, dove l’odore del sugo o del caffè si mescola con quello delle urine e delle feci. Un’ora d’aria ogni 23 passate steso sulla branda perché per camminare non c’è spazio, un medico ogni 400 detenuti, 30 infermieri per tutto il carcere, 700 agenti, 18 educatori. Una pattumiera sociale. Ciro Esposito, terminato di scontare la propria pena - che non consiste nella privazione della libertà personale, ma anche nella privazione del diritto alla vivibilità e alla salubrità dei luoghi, del diritto alla salute, del diritto alla riservatezza, del diritto al vitto, del diritto alla dignità personale e del diritto scritto in Costituzione a essere rieducato - tornerà a scippare e a commettere reati. Con lui altri 69 ogni cento detenuti del carcere di Poggioreale e di tutte le carceri italiane, dove si conta un suicidio ogni 5 giorni (festivi compresi): solo il 30 per cento dei detenuti, finito il calvario, avrà la fortuna di non tornare più a commettere delitti. La forza di questi numeri - che danno conto di quanto la battaglia di Marco Pannella per il rispetto della legalità e dei diritti umani è una battaglia per la sicurezza dei cittadini liberi - sarebbe straordinaria; se solo fossero conosciuti dai più. Ma l’illegalità del sistema Italia, che è anzitutto illegalità del sistema dell’informazione pubblica in mano ai partiti, fa sì che i cittadini italiani siano lasciati all’oscuro - in quanto massa - di questi dati. Nei giorni più duri della lotta non violenta di Marco Pannella qua e là per la Rete si potevano leggere messaggi che addirittura inneggiavano alla morte di questo “vecchio” che è sempre stato, si poteva ancora leggere, dalla parte dei delinquenti e mai da quella dei “bravi cittadini italiani”. “Italiani brava gente”, ama dire Marco Pannella anche di quelli che lo hanno insultato, spintonato e persino sputato perché, durante una manifestazione della sinistra radicale, ritenevano, vittime della disinformazione, che i Radicali, quelli veri, avessero votato a favore del governo Berlusconi. Ha ragione Pannella. Quegli italiani non sono cretini o cattivi, sono solo, loro malgrado, ignoranti. Sono le vere vittime di un sistema di propaganda e di disinformazione - spettacolare la campagna contro l’indulto partita il giorno dopo la sua entrata in vigore - in mano a partiti lottizzatori. Partiti con classi dirigenti spregiudicate che negli ultimi vent’anni hanno mirato e mirano a tutt’oggi (basta vedere quel che ha combinato la Lega nord sul ddl per la messa alla prova) a mantenere il consenso, oltre che coi clientelismi territoriali e corporativi, cavalcando il tema della sicurezza con populismo e demagogia. Per un pugno di voti - necessari a continuare a ricoprire cariche istituzionali attraverso le quali saccheggiare il debito pubblico italiano a colpi di indennità stratosferiche, auto blu, ostriche e champagne, lauree in Albania, videopoker e feste con donnine semivestite asservendo giornalisti ed editori impuri - non esitano a mettere a repentaglio, quotidianamente, per le strade del nostro paese, la sicurezza degli italiani. Chissà quante rapine, quanti scippi, quanti omicidi, sono stati compiuti in questi decenni da quei 50 detenuti su cento che, in più rispetto alla Norvegia - il cui sistema carcerario garantisce una minima recidiva al 20 per cento - usciti dal carcere sono tornati a delinquere. Chissà quante vittime inconsapevoli dell’illegalità dello stato si sarebbero potute risparmiare. Perché quel che accade, in termini di minor sicurezza, è proprio il frutto dell’illegalità del sistema carcerario e del sistema della giustizia in Italia. Il nostro codice penale, al pari di quello norvegese, difatti, punisce con la reclusione gli autori dei delitti. La reclusione è privazione della libertà, non è anche privazione del diritto alla salute, del diritto al vitto, del diritto alla salubrità dei luoghi, del diritto alla riservatezza, del diritto alla dignità dell’uomo. L’ordinamento penitenziario, la nostra Costituzione e le convenzioni internazionali alle quali il nostro paese ha aderito, sanciscono il diritto alla rieducazione dei condannati, individuano percorsi carcerari per approdare al reinserimento del detenuto, vietano trattamenti inumani e degradanti. Carta straccia, la nostra Costituzione e le nostre leggi: per questo veniamo condannati, come stato canaglia, dalle giurisdizioni europee e internazionali, per lo spazio che ci divide tra le leggi che ci siamo dati, come collettività, e la loro applicazione pratica. Agli italiani che invocano la forca o la pena perpetua o che dicono che il carcere è una beauty farm (Grillo) e che dunque va bene così, lancio una sfida. Fate una Lista che espressamente punti a cambiare la Costituzione, il codice penale, l’ordinamento penitenziario e che punti espressamente a far uscire l’Italia dai trattati e dalle convenzioni internazionali. Abbiano il coraggio di uscire dall’ipocrisia i Di Pietro, i Bossi/Maroni, i Grillo, i Fini/Giovanardi, gli Storace, i Berlusconi, e dicano che i loro partiti e movimenti mirano a cambiare la Costituzione cancellando la funzione rieducativa della pena; dicano che i loro partiti mirano a sostituire nel codice penale la pena della reclusione, cioè la sola privazione della libertà, con la pena della reclusione accompagnata da quella della privazione del diritto alla salute, del diritto a vivere in ambienti salubri, del diritto al vitto decente, del diritto alla dignità dell’uomo. Spieghino, però, se ne hanno il coraggio, che con un sistema siffatto i detenuti tornano a delinquere nel 70 per cento dei casi, quindi sicurezza poca, ma tanta virilità e vendetta. Abbiano il coraggio, i Bersani, di cancellare l’art. 27 della Costituzione, che nello stabilire la presunzione d’innocenza dell’indagato/imputato fino a sentenza definitiva detta non solo una regola di giudizio processuale, ma anche una regola di trattamento di colui che viene sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere. Già, perché nel carcere di Poggioreale a ottobre del 2012, su 2.694 detenuti, solo 922 erano quelli condannati in via definitiva, con statistiche che ci dicono che degli innocenti in carcere trattati come bestie - 1.772 a Poggioreale - al netto dei suicidi, circa la metà verrà riconosciuta innocente in via definitiva. Abbia il coraggio Bersani, con i tanti magistrati in aspettativa eletti da decenni nelle liste del centrosinistra e che fungono da cinghia di trasmissione dei desiderata della più potente associazione italiana, l’Associazione nazionale magistrati, di scrivere in Costituzione e nel codice di procedura penale che la custodia cautelare in carcere è la regola perché ha la funzione di anticipare la pena; che un processo è giusto anche quando la sentenza arriva a 10 o a 20 anni dai fatti; che l’azione penale è obbligatoria solo se lo vuole il pubblico ministero; che l’amnistia la concedono i pubblici ministeri, a loro arbitrio, facendo prescrivere i reati sulle loro scrivanie prima dell’esercizio dell’azione penale nella misura del 70 per cento delle prescrizioni totali, pari a circa 170mila all’anno, a un milione e 700mila reati in dieci anni; che i magistrati sono gli unici cittadini italiani totalmente irresponsabili: civilmente, professionalmente e deontologicamente. Abbiano il coraggio tutti costoro di uscire dall’ipocrisia cui danno corpo le loro leggi, abbiano il coraggio di spiegare agli italiani - pronti a scendere nelle piazze se i servizi sanitari non funzionano, ma annichiliti e silenti di fronte alla bancarotta del servizio giustizia - come stanno le cose. Marco Pannella sa che questa ipocrisia è foriera di guai addirittura peggiori per la democrazia e la Lista per l’amnistia, la giustizia e la legalità ha il senso profondo di voler tornare alla Costituzione, al suo dettato. “Una delle più gravi malattie, una delle più gravi eredità patologiche lasciate dal fascismo all’Italia” - diceva Piero Calamandrei durante i lavori della Costituente - “è stata quella del discredito delle leggi: gli italiani lo hanno sempre avuto assai scarso, ma lo hanno quasi assolutamente perduto durante il fascismo, il senso della legalità (...) questa perdita del senso della legalità è stata determinata dalla slealtà del legislatore fascista, che faceva leggi fittizie, truccate, meramente figurative, colle quali si industriava di far apparire come vero ciò che in realtà tutti sapevano che non era vero e non poteva esserlo. (...) Bisogna evitare che nel leggere questa nostra Costituzione gli italiani dicano anch’essi: non è vero nulla”. Auspicio caduto drammaticamente nel vuoto, quello di Piero Calamandrei, con un legislatore repubblicano che si è dimostrato della stessa pasta di quello fascista. Ma la Costituzione ieri, meglio dei Di Pietro, dei Bossi/Maroni, dei Fini/Giovanardi, dei Grillo, dei Berlusconi/Bersani oggi, si è occupata non solo della salvaguardia dei diritti umani, ma anche della sicurezza di tutti noi. Ecco perché l’amnistia non è oggi un atto di clemenza, ma è un atto necessario per poter tornare alla Costituzione dando l’avvio a un necessario percorso di riforme dell’intero sistema giustizia. La “Lista per l’amnistia, la giustizia e la legalità” questo si propone. Gli altri, a patto di averne il coraggio, si facciano avanti senza ipocrisie con le loro di Liste, quelle per cristallizzare lo status quo in Costituzione e nelle leggi, con buona pace non solo dei diritti umani dei detenuti e dei fruitori del servizio giustizia, ma anche della sicurezza dei cittadini liberi e incensurati. Giustizia: lo scandalo senza fine delle carceri e i governi assenti di Giovanni Palombarini (Magistratura Democratica) Il Mattino di Padova, 4 gennaio 2013 Dopo l’indulto del 2006 più nulla per ridurre un sovraffollamento divenuto insostenibile. “Tutelare i più deboli”. Si fa presto a dirlo. Passare dalle parole ai fatti è molto più complicato. Si pensi alla questione del carcere. Mentre Pannella continua con coraggio la sua solitaria battaglia per un provvedimento di amnistia e indulto che, in attesa di riforme strutturali del sistema penale, attenui il sovraffollamento disumano degli istituti, la legislatura si va ormai concludendo senza che nulla di significativo sia avvenuto. Negli ultimi cinque anni al ministero della giustizia si sono succeduti tre ministri diversi per provenienza e collocazione politica. Ad Angelino Alfano, promosso da Silvio Berlusconi a segretario del Pdl, è succeduto il magistrato Francesco Nitto Palma, sostituito nell’ultimo anno da Paola Severino. Novità? Sostanzialmente nessuna. Il governo dei tecnici, nonostante le buone intenzioni e qualche misura marginale, lascia in eredità al futuro esecutivo e alla prossima legislatura la situazione che ha ereditato dall’ultimo Berlusconi: 67.000 detenuti per 45.000 posti letto. In molti deplorano questa situazione - fra gli altri lo stesso presidente della Repubblica, che ha auspicato un provvedimento di amnistia e indulto - e auspicano che possa presto cambiare. Però, nei vari programmi del dibattito preelettorale ormai iniziato, del carcere non si parla. Come è noto, vi è stato un periodo di alleggerimento della situazione dovuto all’indulto del 2006, per effetto del quale sono usciti dal carcere circa 26.000 detenuti dei 61.400 presenti a quel tempo (il 30% circa erano in custodia cautelare). C’era il tempo, volendo, per approvare un insieme di interventi, intanto sui presupposti e sulle forme della carcerazione preventiva, attraverso una riscrittura in senso restrittivo delle condizioni perla sua applicazione e con il potenziamento degli arresti domiciliari. C’era il tempo per ragionare sull’estensione del proscioglimento per la particolare tenuità del fatto o su una più ampia articolazione del ventaglio delle pene con il rafforzamento delle misure alternative, a cominciare dall’affidamento in prova, con riduzione di quella carceraria. Volendo, appunto. All’inizio della primavera del 2009, quando si era ancora al di sotto di quota 60.000, lo stesso ministro Alfano aveva dichiarato in occasione di un convegno che le nostre carceri sono fuori dalla Costituzione e la giustizia europea, più incisivamente, ha utilizzato in qualche sua sentenza anche il termine “tortura”. Ma gli anni sono passati inutilmente. Il numero dei detenuti, molti dei quali non sono neppure condannati in via definitiva, rimane altissimo, come quello dei suicidi. Di tanto in tanto capita che qualche esponente politico affermi la necessità di costruire nuove carceri. Nessuno si pone invece il tema del diritto penale minimo, e la questione del come ridurre il numero delle persone che oggi sono destinate al carcere. Forse la verità è semplice. Il carcere va bene a molti, se non a tutti. La politica criminale è oggi dettata dalla logica di un intervento repressivo continuamente crescente. Un terzo dei detenuti è tossicodipendente, un terzo della popolazione carceraria è costituita da stranieri, affiancati da poveri vecchi e nuovi. Quasi a voler dire: per ogni tipo di devianza marginale, comunque determinata, negli attuali assetti della società la risposta è una sola, il carcere, cioè reclusione. Non a caso s’è parlato di un passaggio dallo stato sociale allo stato penale. L’abbandono del welfare impone di governare in altro modo, più semplice, la criticità sociale. Di qui la criminalizzazione e la carcerazione crescenti. Giustizia: Pagano (Dap); l’emergenza carceri non è in agenda politica, adesso servono fatti Adnkronos, 4 gennaio 2013 “Il problema della giustizia e delle carceri deve essere inserito necessariamente nell’agenda politica, e invece non sembra essercene traccia. Se emergenza è, la si affronti come tale”. Lo dice all’Adnkronos Luigi Pagano, vice capo del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria. “È facile citare Voltaire (Lo Stato di civiltà di un paese lo si valuta dalle proprie carceri) ma alla fine - è il bilancio che traccia il vice capo del Dap - non si sono prodotti risultati concreti. Il sovraffollamento citato da tutti sembra sia dovuto a una causa naturale o costituisca una sorta punizione biblica e invece è qualcosa che si può e si deve risolvere con decisioni concrete e lavoro congiunto tra diverse forze in campo. Non tutto può essere lasciato sul tavolo del Dap”. Eppure, nell’emergenza, una leggera tendenza alla diminuzione c’è: nel 2010 i detenuti erano 67.961, nel 2011 si contavano 66.897 persone negli istituti penitenziari, oggi - dati Dap aggiornati al 31 dicembre 2012 - sono 65.717. Di questi, gli stranieri sono 23.486. I tossicodipendenti, dati al giugno 2012, sono invece il 24% dell’interna popolazione carceraria. Sempre nel 2012, i suicidi dietro le sbarre sono stati 57 (6 in meno rispetto al 2011). “Il piano carceri va portato avanti - aggiunge il vice capo del Dap - ma c’è molto da lavorare anche dal punto di vista normativo e amministrativo. E soprattutto servono risorse per attuarle. Da parte dell’Amministrazione, stiamo cercando di mettere a punto un’organizzazione efficiente realizzando l’idea dei circuiti: occorre diversificare i detenuti in base alla tipologia giuridica e alla pericolosità dei soggetti. Da un lato - ragiona Pagano - questo permetterebbe di innalzare i livelli di sicurezza dove è necessario, dall’altra di lavorare con il territorio e la società per l’inserimento dei detenuti di minore pericolosità sociale”. “Oggi - fa notare Pagano - abbiamo 10.500 detenuti che devono scontare ancora un anno di pena e quasi 20.000 che arrivano a massimo tre anni. Non diciamo certo che bisogna liberarli, ma ci sarà una differenza tra questi 10.500 e chi invece ha scritto sul proprio cartellino fine pena mai? Non si rinuncia al trattamento rieducativo neanche per un ergastolano, ma certo lavoriamo con maggiore concretezza e possibilità di interventi in tempi brevi sugli altri detenuti”. La ricetta dei circuiti permetterebbe inoltre di “graduare l’impiego del personale sia di polizia penitenziaria sia amministrativo, in relazione alla caratterizzazione dell’istituto, e soprattutto permetterebbe di aprire le porte del carcere alla società esterna per iniziare il trattamento all’interno e poi dandogli la possibilità di accedere a misure alternative quali l’affidamento in prova”. Altro capitolo sono i tossicodipendenti: “Oggi abbiamo dietro le sbarre il 24% dei detenuti - fa notare Pagano - che ha problemi di tossicodipendenza. Tutto ciò rispetto a una legge che prevede il percorso trattamentale quale alternativa alla detenzione. Ma se i Sert non hanno risorse disponibili per creare alternative, come si possono far partire tali misure? Il tossicodipendente subisce così una doppia penalizzazione: da una parte la detenzione per una legge controversa e dall’altra la mancata possibilità di accedere a un percorso riabilitativo proprio perché mancano i fondi. Questa, a mio giudizio, è pedagogia delle parole”. Lo stesso tema della carenza di risorse può in qualche modo giocare un ruolo anche nell’emergenza suicidi nelle carceri. “Bisogna attivare una maggiore collaborazione con le Asl -rimarca il vice capo del Dap - perché la conferenza Stato-Regioni ha indicano linee guida specifiche prevedendo un contributo determinante della sanità nell’attività di prevenzione. Dal 2008, come si ricorderà, la competenza sanitaria è affidata alle regioni”. Per il Dap, “il rischio è che la situazione di emergenza determinata da sovraffollamento, suicidi e tensioni negli istituti penitenziari, oltre che sui detenuti si scarichi poi sugli agenti di polizia penitenziaria, che rischiano di subire situazioni che non possono oggettivamente affrontare”. “Un agente che controlla 200 o 400 detenuti è una contraddizione in termini - è l’analisi di Pagano - chi rimane in sezione si trova ad affrontare pericoli spesso anche fisici oppure in condizione di non poter far fronte a eventi critici con i mezzi a disposizione. I baschi azzurri sono operatori oscuri della giustizia, che non si lamentano mai: oggi sono eroi quotidiani, viste le condizioni nelle quali si trovano ad operare, anche per la serie di tentativi di evasione o suicidi che riescono a sventare. Fatti che non si sanno perché fanno parte della quotidianità del carcere e non finiscono sotto i riflettori come i rari episodi negativi”. “Noi prevediamo una diversa modalità di lavoro - indica il vice capo del Dap - ma è auspicabile anche l’assunzione di nuovi agenti. Quando si ridefiniranno i circuiti si potrà vedere il bisogno reale di ampliare la pianta organica, non solo per i baschi azzurri ma anche per assistenti sociali, educatori e personale amministrativo”. “Anche la legge Cirielli andrebbe rivista - spiega Pagano - togliendo così uno sbarramento ostativo inutile e pericoloso, perché le misure alternative non vengono concesse in automatico ma devono passare il vaglio dell’equipe di trattamento e della magistratura di sorveglianza”. Eppure, “non a caso, chi esce in misura alternativa, ha una recidiva bassa, per il 70% non torna dietro le sbarre. La vera sicurezza è quando riusciamo a portare fuori un detenuto recuperato. Ma se non si finanzia una legge Smuraglia - che concedendo sgravi fiscali alle imprese, ha portato lavoro all’interno e all’esterno del carcere - come si può realmente pensare di ridare una possibilità ai detenuti? Anche la messa in prova, sollecitata dal Guardasigilli Severino, non è stata approvata. Ancora una volta è pedagogia della parola”. “Se questi problemi fossero inseriti nell’agenda politica e si intervenisse quotidianamente sui problemi - conclude Pagano - non si arriverebbe a pensare di affrontare il sovraffollamento solo con amnistia e indulto. Misure, queste, che poi rischiano anche di diventare necessarie per risolvere un’emergenza contro la quale tutti puntano il dito”. Giustizia: in Italia un detenuto costa 3.500 € al mese, in carceri private Usa e Ue costa 900 Redattore Sociale, 4 gennaio 2013 L’analisi dei budget contenuta nel periodico “Le due città” del Dap: Francia e Italia sulla stessa linea, mentre l’Inghilterra spende di più. Negli Usa, si spende più per il carcere che per l’istruzione. Ma a contenere i costi ci pensano i privati Ogni detenuto recluso in Italia nel 2012 è costato 3.511 euro mensili, di cui 3.104 destinati alle spese per il personale. Vitto, trasporto, attività trattamentali, servizio sanitario hanno assorbito 255,14 euro, mentre la gestione delle strutture ha richiesto 150,24 euro. Lo riferisce il Dap nel numero di ottobre del suo periodico “Le Due Città”, che propone un viaggio in Europa e nel mondo per confrontare le spese medie per la gestione del sistema carcerario. La Norvegia è uno dei paesi che investe di più, con circa 2 miliardi di euro all’anno. “Fiore all’occhiello del sistema è il penitenziario di Halden, dove è stata approntata una cella ad hoc per ospitare il terrorista di Utoya, Breivik - evidenzia il Dap. Ogni detenuto recluso nel penitenziario di Halden costa allo stato ogni mese 12.118 euro”. Dopo la Norvegia, secondo è il Regno Unito: lo stato destina 4.600 euro per ogni detenuto al mese. Restando in Europa, vicina alla media italiana è la Francia, con circa 3.100 euro al mese per detenuto. Molto al di sotto è la media spagnola, con 1.650 euro mensili (54,7 euro al giorno). Andando oltre l’oceano, gli Stati Uniti hanno la tendenza a destinare più fondi alle carceri piuttosto che all’istruzione. Qui la spesa per il sistema penitenziario in vent’anni è cresciuta del 570 per cento. Mediamente i governi federali stanziano per gli oltre due milioni di detenuti 75 miliardi di dollari all’anno: “Ogni detenuto costa in media al mese all’Amministrazione Usa 1.433 euro”. Ma le differenze tra stati sono notevoli: la California supera la media con una spesa di tremila euro. “Un ammontare anche più elevato lo registrano i penitenziari della città di New York - evidenzia il Dap, dove ogni recluso ha un costo medio annuale che supera i 40 mila euro”. Molto sopra la media italiana è anche il Canada, con 7 mila euro mensili, un dato simile a quello della lontana Nuova Zelanda, che sfiora la quota dei seimila euro mensili. Molto sotto la media è invece uno stato come l’Argentina, con 1.036 euro mensili. In America, come di recente anche in Europa, a contenere i costi ci pensano i privati: la Corrections Corporation of America è “un colosso privato statunitense che si occupa proprio di gestione delle carceri - conclude il Dap. Questa azienda gestisce oggi 64 penitenziari all’interno della Ue e la sua gestione riduce il costo giornaliero medio per detenuto a 29,4 euro”. Giustizia: la Fp-Cgil denuncia; al Dap “liste di proscrizione” per gli iscritti al Sindacato Adnkronos, 4 gennaio 2013 “Giovanni Tamburino, capo del Dap, ha ufficialmente aperto la stagione della caccia contro chi ha avuto il coraggio di non piegarsi al potere che governa unilateralmente la Polizia Penitenziaria. Alla direzione generale del personale in questi giorni sono state fatte pervenire le prime liste affinché disponga i provvedimenti di allontanamento dalle proprie sedi di servizio di delegati e iscritti alla Fp-Cgil. Un atteggiamento padronale intollerabile”. È quanto afferma in una nota Fabrizio Fratini, segretario nazionale Fp-Cgil, denunciando “i vari episodi che si stanno susseguendo” ai danni di delegati e iscritti alla propria organizzazione, a suo dire oggetto di una “pulizia sindacale”. “Se questa è una risposta alle nostre denunce sull’immotivato ricorso del Dap a provvedimenti di distacco di personale di Polizia penitenziaria - aggiunge Fratini - allo stato attuale carente di circa 7000 unità, è molto scomposta. Continueremo a dar seguito alle nostre richieste specie in una fase di grave crisi del sistema penitenziario”. “Mai prima d’ora era stata così ferocemente messa in discussione la democrazia, il sistema di garanzie e partecipazione sindacale nell’amministrazione penitenziaria - spiega Francesco Quinti, coordinatore nazionale del comparto sicurezza per l’Fp-Cgil - mai avremmo potuto pensare che i delegati e gli iscritti alla Cgil potessero essere perseguitati dal loro capo, un magistrato nominato da un governo tecnico. Chiediamo al ministro della Giustizia Severino e a tutte le istituzioni preposte - concludono i due sindacalisti - di intervenire affinché si interrompano subito queste odiose pratiche intimidatorie”. Giustizia: Beltrandi (Radicali); sulle carceri denunciamo Rai a Corte europea diritti umani Agi, 4 gennaio 2013 Una denuncia nei confronti della Rai all’autorità giudiziaria italiana e alla Corte europea per i diritti umani di Strasburgo è stata annunciata oggi in commissione di Vigilanza da Marco Beltrandi, dei Radicali Italiani, per inosservanza di una delibera dell’Agcom sul tema delle carceri. Beltrandi lo ha detto nel corso dei lavori che da questa mattina vede impegnata la commissione presieduta da Sergio Zavoli nell’esame della bozza del regolamento attuativo della par condicio per il servizio pubblico in vista della prossima tornata elettorale. L’esponente radicale ha sottolineato che tutto nasce dal fatto che nell’agosto scorso l’Authority garante per le comunicazioni aveva approvato una delibera che imponeva alla Rai di mandare in prima serata una trasmissione dedicata alla questione carceri, e invece c’è stato solo un “Porta a porta” in onda alle 23 e 30. Di qui la decisione di denunciare l’azienda di viale Mazzini sia all’autorità giudiziaria nazionale che a quella europea. Giustizia: un altro Capodanno a Rebibbia… anche quando l’illegalità è divenuta la norma di Matteo Mecacci (Parlamentare Radicale) Europa, 4 gennaio 2013 Rebibbia, 31 dicembre 2012. Mentre arrivo in macchina, un’ambulanza esce dal carcere a sirene spiegate. Capirò dopo il perché. In carcere a Capodanno non si fanno brindisi con lo spumante, solo con il caffè, offertoci da dietro le sbarre dai detenuti, come è capitato a noi. Volti e sorrisi stentati, di immigrati, di tossicodipendenti, di povera gente in attesa di giudizio, che normalmente vive ai margini della nostra società. Storie di chi sta in carcere per scontare una pena di due mesi (invece che fare un lavoro socialmente utile), o di chi aspetta da cinque mesi un’operazione ad un orecchio che fa male. Cinque mesi con un orecchio che fa male, pensiamoci un attimo. Storie di un kosovaro di Mitrovica, dove ci sono ancora i soldati italiani della Nato, che mi racconta di un giornalista italiano che durante la guerra si travestiva da “albanese” in mezzo ai profughi in fuga da Milosevic, per meglio raccontare al mondo quelle atrocità: era Antonio Russo di Radio Radicale, poi ucciso mentre seguiva la guerra in Cecenia. O la storia di un ragazzo che non riesce a parlare con la madre in Romania perché non sa che per chiamare un numero di cellulare si deve fare la domandina. Visi stanchi, non solo perché alle 23 si chiudono le celle e ci si stende in branda, anche a capodanno, e molti si sono alzati dal letto per farei gli auguri, ma perché la speranza sembra essere sparita da quegli occhi, troppo spesso annebbiati da anni di abuso di droghe e che il carcere spegne ancora di più. Poco prima che arrivassimo un detenuto tossicodipendente ha ingoiato 4 lamette da barba. È stato ricoverato in ospedale con l’ambulanza che ho visto arrivando. L’ispettore Giannelli gli aveva parlato pochi minuti prima, sembrava si fosse tranquillizzato, poi, invece, l’ennesimo disperato gesto per solitudine ed abbandono. Mentre si avvicina la mezzanotte, dagli spioncini vedo i detenuti arrampicarsi, come bambini, alle finestre con le sbarre per cercare di vedere, non solo sentire, i botti e i fuochi d’artificio. Un ragazzo senegalese tira fuori un sorriso: io sto bene, cerco solo di non pensare a lì fuori. Adriano Sofri ha raccontato molto bene cosa significa passare le festività in carcere. Anche una stretta di mano, il sorriso, qualche sigaretta possono cambiare la notte o la giornata di un detenuto. Solo questo abbiamo fatto, oltre che cercare di ascoltare. L’ho fatto anche a Natale a Sollicciano, dove in alcune celle piove sui letti e dove l’umidità fa venire la bronchite anche ai bambini delle detenute che, senza nessuna colpa, vivono dietro le sbarre. Da quasi tutti i detenuti è venuto un gesto: portarsi una mano sul cuore quando chiedevano della salute di Pannella, e poi un sospiro quando sentivano che la sua vita non è più a rischio, per ora. Lo ha fatto anche Totò Cuffaro, che in questi giorni ha costruito con gli altri detenuti un bel presepe di cartapesta e ritagli di giornale con le facce dei politici, dove Gesù Bambino è dietro le sbarre con la coperta marcata “Polizia penitenziaria”. Due giorni fa il magistrato di sorveglianza non gli ha consentito di assistere ai funerali del padre. Grazie all’ispettore Giannelli che da 29 anni passa le feste con quella che ha definito la sua famiglia, e che ci ha accompagnato in questo viaggio. La giustizia non è giusta in Italia, ma è grazie a persone come queste se il nostro paese riesce ancora ad andare avanti, chissà ancora per quanto, anche quando l’illegalità è divenuta la norma. Siamo potuti entrare in carcere perché deputati; è probabile che tra qualche settimana non ci saranno più parlamentari radicali in parlamento, com’è invece avvenuto per gran parte della storia repubblicana. Ci sarà, invece, il Movimento di Beppe Grillo, che descrive queste carceri come centri di bellezza, e forse anche il dottor Ingroia, il nuovo interprete della vecchia tradizione giustizialista. Se i diritti degli ultimi non potranno più essere fatti valere nelle istituzioni italiane, grazie al decennale impegno dei radicali, a soffrirne, ne sono certo, sarà non solo la cultura politica di nostro paese, ma tutta la società. Buon 2013 a tutti. Giustizia: Toto Cuffaro e “le sue prigioni”… la rieducazione carceraria è una leggenda di Bruno Vespa Panorama, 4 gennaio 2013 “Lo sai che le cornacchie una volta erano bianche e bellissime? Apollo ne scelse una come custode della sua amante Coronide, una principessa arcade. Ma l’indole umana portò Coronide a innamorarsi di un guerriero greco. Apollo furioso uccise con un dardo Coronide che prima di morire gli confessò di aspettare un bambino da lui. Apollo, pentito, estrasse dal ventre della donna il bambino che sarebbe diventato Esculapio, dio della medicina, e punì la cornacchia facendola diventare nera e con la voce sgraziata”. Totò Cuffaro alza lo sguardo; “Qui intorno a Rebibbia il cielo è pieno di cornacchie. Ma in fondo cornacchie siamo anche noi detenuti. Un tempo eravamo belli e puri come l’uccello di Apollo. Poi ci siamo sporcati e la società ci ha affidato a un custode incolpevole, il carcere. La rieducazione carceraria è una leggenda. Il carcere non ha i mezzi e le strutture. Ma ti dà il tempo per incontrarti con te stesso, se hai voglia di farlo. Allora parli con la tua anima, con la tua coscienza e trovi dentro di te il clima giusto. Se accetti il carcere, ce la fai. Altrimenti la vita qui dentro è devastante. E bada, per farcela non devi avere rancori, risentimenti. Se io li avessi coltivati, il carcere sarebbe stato un inferno...”. Cuffaro ha raccontato la storia dell’uccello punito da Apollo in un bel libro (Il candore delle cornacchie) che mi dedica scrivendo accanto alla firma “detenuto in Rebibbia”. “Volevo una copertina rigida, ma in carcere un libro così non sarebbe entrato. Si teme che dento la rilegatura possa nascondersi droga. Qui la droga ente nascosta nei posti più impensabili, la biancheria dei bambini, i reggiseni delle nonne...”. Ha scontato due anni dei sette inflittigli per associazione mafiosa: ha detto a un amico di non andare a casa di un sospettato di mafia perché sarebbero stati intercettati. Carcere semiduro: niente permessi, meno colloqui, meno telefonate degli altri detenuti. Più di 100 parlamentari sono andati a trovarlo in carcere: il senso dì colpa della classe politica per una vicenda assurda. “La mia cella? Lina stanza 4 metri per 5 che divido con 3 compagni: un ergastolano per duplice omicidio e alni due condannati per traffico di stupefacenti, rapina e truffa. Andiamo d’accordo, altrimenti la vita sarebbe complicata. Giuseppe, il “truffatore”, cucina la cena. A pranzo usiamo il vitto del carcere. La sera, alle 6 del pomeriggio, integriamo. Io lavo i piatti, pulisco la cella e il bagno. Ci mettono a disposizione i detersivi, ma se qualcuno tenta il suicidio bevendo candeggina, magari non ce la passano per un mese. Un altro compagno una volta alla settimana fa le pulizie di fondo. Il quarto lavora nella cucina del carcere. Io dormo 2 o 3 ore per notte. Quando mi sveglio, mi accendo una lucetta avvolta nella carta igienica per non disturbare gli altri e leggo, scrivo, rispondo alle lettere: 170 in 15 giorni dopo che il Corriere della sera ha fatto una bella recensione al mio libro. Perché scrivo a matita? Hai mai provato a scrivere sdraiato con la biro? Dopo un minuto l’inchiostro non scende più. Sono medico, ma ho deciso di studiare legge. Sono al terz’anno, ho dato 11 esami, la media è molto alta. Vengono i professori dalla Sapienza. Oliviero Diliberto, il leader dei Comunisti italiani, mi ha dato 30 e lode all’esame di istituzioni eli diritto romano. Il professor Cerri per darmi la lode in diritto costituzionale mi ha fatto un’ultima domanda sui conflitti di attribuzione tra Stato e regioni a statuto speciale. Capirai, sono stato 7 anni presidente della Regione siciliana... Eppure, sembra incredibile, Cerri non mi ha riconosciuto. Quando approfondivo, lui mi ha chiesto: ma lei queste cose come le sa? E io: le ho lette sul suo libro, professore. Lui: ma nel mio libro non ci sono scritte... Non so se poi qualcuno gli abbia chiarito il mistero, ma per me è stato meraviglioso questo ritorno nella normalità dell’anonimato, dopo tanti anni sotto i riflettori. D’altra parte i detenuti alla normalità ti abituano subito: qui non si fanno sconti, sei subito uno come gli altri. Dicevamo della mia giornata. Alle 8 e mezzo esco dalla cella con il mio k-way rosso e vado a correre per un’ora e mezzo, la mia razione d’aria. Mi vedi in forma? Nei 2 anni di detenzione ho perso 31 chili. Prima cenavo all’una di notte, andavo a letto alle 2, alle 7 già ricevevo gente. E ingrassavo. Dopo la corsa, doccia e studio. Nel pomeriggio altra “aria” e poi 3 ore di studio e di lezione. Cena e televisione, solo la sera per evitare gli eccessi. Una volta alla settimana, c’è il colloquio con la famiglia. Per il detenuto la festa non è Natale o Pasqua: è il colloquio. Quando in fondo al corridoio urlano il tuo nome e dicono di prepararti al colloquio entri in una specie di incantesimo. Passi davanti alle celle dei tuoi compagni e loro si affacciano dalle sbarre e dicono: “Buon colloquio!”. Io, condannato per mafia, ho diritto a 4 ore di colloquio al mese, 2 meno degli altri. E 2 telefonate al mese, contro 4 o 6 degli altri. Utilizzo le telefonate per parlare con i miei genitori, soprattutto con mio padre che sta morendo. A ottobre mi hanno consentito di vederlo un’ultima volta a Raffadali. (Il papà di Cuffaro è morto il 31 dicembre, ma al figlio non è stato possibile assistere ai funerali del 2 gennaio perché il giorno di Capodanno non c’era nessun magistrato di turno che leggesse la richiesta di permesso, ndr). Qui ogni venerdì vengono mia moglie e i miei figli. Potrebbero venire una volta per 4 ore, o 2 volte per 2 ore. Mia moglie vuole venire ogni settimana: è medico, paga questi viaggi con le notti in ospedale e parte da Palermo per stare un’ora sola con me. Il regolamento ci consente di tenerci per mano. Una telecamera ci filma, senza audio. E appena lei mi lascia, ricomincia l’attesa per il venerdì successivo. Vengono anche i due figli, il maschio che studia medicina e la femmina che si è laureata a luglio in legge. Ho letto l’indomani sul Corriere della sera che aveva avuto la lode con encomio pubblico. Nonostante quello che mi è successo, mia figlia continua nella sua vecchia idea di fare il magistrato e s’è già iscritta ai corsi preparatori. È una nemesi storica e sono molto contento di avere fatto capire ai miei figli il valore delle istituzioni”. “Dove ho sbagliato? Di una cosa sono certo: non ho mai favorito la mafia. Sono stato condannato con l’accusa di avere detto a Mimmo Miceli, candidato del mio partito, l’Udc, alle elezioni del 2001: perché vai a casa di Giuseppe Guttadauro che è intercettato? (Guttadauro, poi rivelatosi un boss mafioso, è medico ed era collega di Miceli, anch’egli medico, nell’ospedale civico di Palermo). In primo grado mi diedero 5 anni per favoreggiamento e violazione del segreto d’ufficio. In appello l’accusa sostenne che Guttadauro, grazie alla soffiata, aveva scoperto le microspie che aveva in casa vanificando anni di indagine e fui condannato a 7 anni per avere favorito l’intero fenomeno mafioso. La Cassazione ha confermato, nonostante il parere contrario del procuratore generale. Quando mi si accusa di rapporti con Michele Aiello (manager della sanità condannato a 15 anni per associazione mafiosa) si dimentica che Aiello andava a cena con Antonio Ingroia. Entrai al ristorante, li vidi insieme e me ne andai perché Ingroia mi aveva indagato. Ho raccontato queste cose da Santoro, Ingroia mi ha querelato e il processo è in corso. Le foto con i cannoli? L’accusa di avere voluto festeggiare la condanna di primo grado perché non mi avevano riconosciuto colpevole di avere favorito la mafia? La sentenza era stata pronunciata sabato e io avevo indetto per lunedì mattina una conferenza stampa per annunciare le mie dimissioni. Entrato nella sala delle riunioni con i giornalisti, vidi un vassoio di cannoli sul tavolo, portato come ogni lunedì da un signore di Agrigento. Invece di dire a un commesso di spostarlo, lo feci io come un cretino. I giornalisti sono testimoni che non ho offerto cannoli a nessuno, ma i flash dei fotografi mi fissarono col vassoio in mano e l’effetto fu devastante. Gli errori che mi riconosco? Troppo disponibile ad abbracciare e baciare la gente, a stingere qualche mano sbagliata senza accorgermene. Quello che è stato definito cuffarismo, clientelismo sfrenato era ricevere fino alle 2 di notte persone che magari aspettavano dalle 2 del pomeriggio e alla fine non mi chiedevano niente, se non di potere dire di avere bevuto un caffè col presidente della Regione. Se scendi tra la gente, in Sicilia corri sempre il pericolo dì sbattere contro la persona sbagliata. E io sono andato a sbattere contro la mafia senza avere mai voluto favorirla. Perciò auguro a Rosario Crocetta che non gli succeda quello che è capitato a 13 su 15 dei suoi predecessori. Se anche lui inciampasse in qualche guaio giudiziario, sarebbe un ulteriore colpo mortale per la Sicilia. Mi auguro che abbia voglia di governare e lo faccia bene. Io? La politica è stata la mia vita fin da quando ero ragazzo, la seguo anche adesso, scontando la legge del contrappasso”. “Eppure la politica è molto cambiata. La De e il Pei avevano le correnti, ma sui temi di fondo erano unitissimi. Adesso i partiti si stanno aggregando più su un’idea economica della rappresentanza che su un ideale. In ogni partito c’è tutto e il contrario di tutto. E scegliere è più complicato. Crocetta è stato eletto con un sesto dei voti con cui sono stato eletto io. Avevo previsto che più di metà dei siciliani non sarebbe andata a votare e ho azzeccato. Prendi mia madre, democristiana da sempre. Se votava Udc dava il voto a Crocetta, ma se votava Pdl votava Nello Musumeci, che viene dall’estrema destra. A livello nazionale, speravo che Mario Monti mettesse insieme tutti i moderati, dall’Udc al Pdl e invece adesso il moderato che vota Udc rischia di vedere il suo partito alleato di Nichi Vendola. Eppure, se potessi, mi ributterei in politica con i rischi che comporta. Vuoi mettere l’arricchimento che ti dà stare in mezzo alla tua gente? E invece sto qui, col peso di una interdizione perpetua dai pubblici uffici che mi impedirà perfino di fare il medico dentro un ospedale. A proposito del carcere che reinserisce nella società. Aspetto l’autunno per chiedere che venga attenuato il rigore della pena per mafia ed eventualmente essere poi ammesso ai servizi sociali. Quando uscirò, rimarrò vicino ai detenuti e tornerò alla mia azienda agricola vicino a Piazza Armerina. Le arance, i fichi d’india. Ah, i fichi del secondo fiore”. Lettere: la mia protesta per le persone che dopo il carcere ingiusto non vengono risarcite di Giulio Petrilli Ristretti Orizzonti, 4 gennaio 2013 Sospendo lo sciopero della sete ma proseguo quello della fame. La mia è una protesta per una profonda ingiustizia non solo verso di me, ma anche verso tantissime altre persone, che dopo il carcere ingiusto non vengono risarcite. Il principio che passa è che dopo essere arrestato, anche se poi vieni assolto, rimani per sempre il carcerato. Dopo cinque giorni sospendo lo sciopero della sete, in quanto le condizioni fisiche non consentono ulteriormente di andare avanti, ma proseguo lo sciopero della fame per protestare contro l’ordinanza della corte d’appello di Milano che nel giugno scorso ha rigettato la mia istanza per il risarcimento per ingiusta detenzione , adducendo il motivo che frequentando ambienti politici dell’antagonismo ho tratto in inganno gli inquirenti. Ho scontato dal dicembre 1980 sei anni di carcere per il reato di partecipazione a banda armata con funzioni organizzative (Prima Linea), per poi essere assolto in appello nel 1986. La sentenza definitiva di assoluzione in cassazione è del 1989. Questa mia protesta, non riguarda solo il mio caso ma tantissimi altri. Oggi solo a un terzo delle persone assolte dopo un periodo detentivo viene riconosciuto il risarcimento. All’incirca su tremila domande annue solo ottocento vengono accolte, per gli altri, come nel mio caso c’è il rigetto. Questo perché nella legge sul risarcimento c’è un comma, che stabilisce che una persona anche se è stata assolta, ma con il suo comportamento ha tratto in inganno gli inquirenti non va risarcita. Questo vuol dire, che chi assolto dopo la carcerazione preventiva, ma viveva in quartieri pieni di pregiudicati e magari li frequentava, o semplicemente li conosceva, non va risarcito. Chi assolto per il reato di eversione, ma conosceva persone dell’area dell’antagonismo ugualmente non va risarcito. Questo mio sciopero della fame prosegue per abolire proprio questo comma, il n. 1 dell’articolo 314 del codice procedura penale, che prevede che anche in caso di assoluzione, ma una persona ha avuto comportamenti non idonei non va risarcita. Non si valutano più le sentenze assolutorie, ma si dà una valutazione sulle frequentazioni delle persone. Essere assolti o condannati non cambia nulla, il giudizio per concedere il risarcimento è solamente morale. Un comma completamente anticostituzionale e in aperto contrasto con lo statuto della Corte Europea e quella dei Diritti Civili delle Nazioni Unite, che difendono l’inviolabilità della libertà personale e il risarcimento per chi ne è stato privato ingiustamente. Sicilia: il Garante, Salvo Fleres, ci racconta lo stato in cui sopravvivono i detenuti siciliani di Lanfranco Palazzolo La Voce Repubblicana, 4 gennaio 2013 “Ci sono stati alcuni decessi di ammalati di tubercolosi. Chi conosce la malattia sa che c’è bisogno d’aria. Il contrario delle carceri italiane”. In Sicilia i detenuti non sono curati come dovrebbero. Lo ha detto alla “Voce Repubblicana” il senatore di Coesione nazionale Salvo Fleres che ricopre l’incarico di Garante per i diritti dei detenuti in Sicilia. Senatore Salvo Fleres, con un’ordinanza dei giorni scorsi la magistratura ha chiesto all’Istituto Pagliarelli di rendere la condizione dei carcerati più umana... “Un recluso del carcere Pagliarelli si è rivolto a me in qualità di Garante dei detenuti in Sicilia per chiedere di risolvere il problema dell’invivibilità nel carcere. Ci siamo rivolti all’associazione forense di Catania che si occupa di questi casi per conto dell’ufficio del Garante. E la magistratura ha intimato al carcere Pagliarelli di cambiare le condizioni in cui vivono i detenuti. Quello di questi giorni è solo uno degli ultimi ricorsi presentati dai detenuti. Nei giorni scorsi c’era stata un’ordinanza della magistratura che aveva notificato questo atto anche al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e al ministro della Giustizia Paola Severino. Ma il ministero della Giustizia non ha fatto nulla per cambiare le condizioni del carcere di Catania. In questo secondo caso faremo ricorso per ottenere quanto aveva già chiesto il giudice di sorveglianza con un’ordinanza”. Cosa è stato chiesto nell’ordinanza relativa al detenuto del carcere Pagliarelli? Il magistrato aveva chiesto di dare al detenuto uno spazio adeguato di almeno 7 metri quadrati, in una cella per non fumatori. Ma l’ordinanza non riguarda solo l’utilizzo delle celle. I detenuti sono costretti a turni bisettimanali per fare le docce. Credo che questa ordinanza tracci una linea di legalità per chi è adibito alle funzioni dell’esecuzione della pena”. Lei ha ricordato lo stato delle docce che, soprattutto d’estate, diventa un grave problema. Ci sono mai state delle epidemie particolari in qualche penitenziario? “Per fortuna no. Però ci sono stati decessi di detenuti ammalati di tubercolosi e non curati adeguatamente. Alcuni malati di tubercolosi sono stati lasciati nelle celle. Chi conosce questa malattia sa benissimo che una delle condizioni per curare la tubercolosi è il continuo ricambio dell’aria, condizione che non può esserci in una cella dove convivono, in spazi ristrettissimi, numerosi detenuti. Fenomeni di questo genere, legati alla sanità penitenziaria, ce ne sono tantissimi in Sicilia. Anche perché la Sicilia è ancora l’unica regione che non ha adempiuto al rispetto del decreto del 2008 che prevede il trasferimento della cura dei detenuti al Sistema sanitario nazionale”. Di chi è la colpa? “Credo che il problema sia legato all’amministrazione della Regione Sicilia. Con la nuova amministrazione non è ancora cambiato nulla. Si tratta di recepire un decreto trasformato in legge”. Emilia Romagna: il Garante dei detenuti solo in tre città, per il resto vale quello regionale Redattore Sociale, 4 gennaio 2013 Il mandato era scaduto la scorsa estate e Alberto Gromi aveva rassegnato le dimissioni. Ora è stato nominato di nuovo. Oltre a Piacenza, è presente solo Ferrara e Bologna. Per tutti gli altri il punto di riferimento è la garante regionale, Desi Bruno. Dopo 6 mesi di “vacanza”, il Comune di Piacenza ha riassegnato il posto di garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Sarà di nuovo Alberto Gromi a ricoprire l’incarico dopo che, la scorsa estate aveva rassegnato le dimissioni per scadenza del primo mandato (in concomitanza con la scadenza del mandato del sindaco). Con la nomina di Gromi arrivano a 3 i garanti comunali presenti in regione: oltre a Piacenza c’è solo a Ferrara e Bologna. Nel primo caso, Federica Berti è anche garante provinciale, mentre nel secondo Elisabetta Laganà è stata nominata garante comunale per la seconda volta nel luglio 2012 dopo che il Tar aveva dichiarato illegittimo il primo mandato su ricorso dell’associazione Papillon per incompatibilità. Papillon ha presentato un altro ricorso contro la nomina di Laganà su cui il Tar deve ancora esprimersi. Per tutti gli altri detenuti (sono 3.480 nei 13 istituti regionali, su una capienza regolamentare di 2.464 - dati ministero della Giustizia al 30 novembre 2012) la figura di riferimento è il garante regionale: dal febbraio del 2012 il ruolo è ricoperto da Desi Bruno, già garante del Comune di Bologna fino al commissariamento dello stesso. In alcuni casi, come Ravenna e Parma, si è parlato di nominare il garante, ma poi non se ne è fatto nulla. A volte, la scelta dell’amministrazione dipende anche dalla situazione del carcere, come a Forlì dove c’è una struttura molto piccola. Insegnante e dirigente scolastico, Alberto Gromi vanta una lunga esperienza nel volontariato, come assistente carcerario alle Novate, come direttore della comunità “Villa dei gerani” (una sperimentazione del ministero nell’ambito delle carceri minorili e come consulente del Tribunale per i minorenni dell’Emilia-Romagna. Si è, inoltre, occupato di disagio giovanile, formazione, istruzione e integrazione sociale, collaborando con la facoltà di Scienze della formazione dell’Università Cattolica. Lo scorso 11 luglio 2012 dopo aver rassegnato le dimissioni, Gromi aveva fatto sapere che avrebbe potuto ricandicarsi ma solo se fosse stata riconosciuta la funzione del garante sul piano istituzionale. A livello regionale, infatti, c’è una legge che tutela il garante, ma non è lo stesso per quelli comunali e provinciali. La sua rielezione però è stata fortemente voluta. Lo scorso ottobre nel corso di una riunione prima del consiglio comunale la maggioranza aveva espresso la necessità di “ripristinare al più presto il garante dei detenuti, magari con poteri aumentati”. L’idea era proprio quella di riaffidare l’incarico a Gromi. Un’ipotesi sostenuta anche dagli stessi carcerati che avevano fatto pervenire al sindaco Paolo Dosi una lettera firmata in cui chiedevano la conferma di Gromi per l’ottimo lavoro svolto. Nell’atto di designazione firmato dal sindaco vengono richiamate le funzioni del garante: “Promuovere l’esercizio dei diritti e delle opportunità di partecipazione alla vita civile e di fruizione dei servizi comunali delle persone che sono attualmente in una condizione di restrizione, con particolare riferimento ai diritti fondamentali della casa, del lavoro, della formazione, della tutela della salute, della cultura e, per le altre attribuzioni riguardanti il Comune, nell’ambito dei servizi alla persona. Promuovere inoltre iniziative di sensibilizzazione sui diritti umani delle persone private delle libertà personale, anche in coordinamento con altri soggetti pubblici”. La presenza del garante favorisce l’umanizzazione nei rapporti tra società civile e carcere, un rapporto che, secondo Gromi, va completato: “Per ridefinire e perfezionare il ruolo e le funzioni del garante, in particolare per ciò che riguarda il diritto a entrare nel carcere senza autorizzazione, come sancisce l’articolo 67 dell’Ordinamento penitenziario, e i possibili interventi sul fronte della scuola interna e della formazione professionale in funzione dell’inserimento dei detenuti nel mondo del lavoro”. Lucca: la Casa di accoglienza per i detenuti si sposta a San Pietro a Vico di Enrico Pace www.luccaindiretta.it, 4 gennaio 2013 Cambia sede la Casa di accoglienza del Gruppo Volontari Carcere di Lucca. Un trasloco in qualche modo forzato dalla riqualificazione dell’area di piazza San Francesco e che è stato possibile in tempi rapidi grazie all’impegno della Diocesi di Lucca e al contributo di 950mila euro della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca. Dai prossimi giorni, dunque, tutta l’attività si sposta in via del Ponte a San Pietro a Vico, alle spalle della vecchia struttura del Molino Pardini e a due passi dalla stazione ferroviaria della frazione lucchese. La sede, già a disposizione della Parrocchia di San Pietro a Vico dopo un lascito testamentario, un cascinale colonico su tre piani, è stato completamente ristrutturato grazie al progetto elaborato dall’architetto Stefano Dini: 540 metri quadri di superficie, con 15 posti letto, 10 bagni, sei docce, un ufficio, la cucina con forno a legna e spogliatoio, l’ascensore a norma per i disabili. Ampia, poi, la resede esterna ed il terreno che dovrebbe essere trasformato in spazio coltivabile per i detenuti che scontano una pena alternativa al carcere, dando loro anche un’opportunità di formazione e lavoro per il fine pena. Ma l’intervento non è finito, perché potrebbe essere acquisito, sempre grazie alla fondazione bancaria, anche un altro cascinale, di fronte a quello ristrutturato, da adibire a officina e falegnameria, oltre che a spazio per le attività sportive degli ospiti della struttura. “Occorrono menti, braccia e gambe - ha detto la presidente dei Volontari Carcere, Silvana Giambastiani - per continuare nella nostra attività a sostegno di detenuti ed ex detenuti. Ringraziamo per questo chi ci ha sostenuto, principalmente la Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca e tutta l’attività dei volontari fra i quali accoglieremo anche a breve il presidente del Tribunale di Lucca, dottor Ferro”. “Abbiamo subito accolto l’idea - dice il presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, Arturo Lattanzi - di concedere una soluzione dignitosa per il dopo San Francesco e pensiamo di esserci riuscito. L’obiettivo raggiunto, comunque, non ci impedirà di proseguire il nostro interessamento anche nel futuro, nel senso di un sostegno al Gruppo Volontari Carcere ma anche per l’occupazione di detenuti ed ex detenuti per il loro reinserimento in società”. A questi ultimi si rivolge direttamente l’Arcivescovo Italo Castellani: “Quello cui assistiamo - ha detto - è un mezzo miracolo anche se il miracolo vero sarà quello del cuore dei volontari che ogni giorno si impegnano in questo compito che dimostra come ci sia un futuro per tutti. Un ringraziamento particolare a don Mario, assistente del Gruppo Volontari Carcere e a Don Giuseppe, parroco di San Pietro a Vico, che ha messo a disposizione la struttura e che è anche cappellano del carcere di Lucca”. “Sono felice di inaugurare formalmente - ha detto il sindaco Alessandro Tambellini - questa casa dedicata agli operatori e a chi si spende per il prossimo. Un’azione meritoria con la possibilità di associazione alla casa l’opportunità di formazione lavorativa per chi è stato in carcere. Il lavoro rappresenta il modo, per ciascuno, di contribuire alla crescita del nostro territorio. Singolare che, nella ristrutturazione, sia rimasto l’acronimo di San Bartolomeo, Iesus Hominum Salvator, come a significare che dove non arriverà l’opera dell’uomo agirà la Provvidenza che ognuno di noi porta dentro di sé”. La descrizione tecnica dei locali è toccata all’ingegner Piero Mungai della Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca che, nel ringraziare i tecnici e la ditta Limpresa che ha concluso i lavori in meno di un anno ha spiegato alcune caratteristiche tecniche dell’immobile: “Non c’è nessun lusso, come qualcuno ha detto - spiega - solo cose funzionali per la fruibilità del luogo. Da sottolineare, oltra al riscaldamento radiante sotto il pavimento, che il materiale dello stesso è stato acquistato da una ditta delle zone terremotate dell’Emilia. Siamo riusciti così anche nella costruzione a inserire una finalità sociale”. Del futuro parlano altri due componenti del Gruppo Volontari Carcere, Piergiorgio Licheri e Walter Ciaponi: “Speriamo - dicono - di poter usufruire presto anche della struttura di fronte per permettere agli ospiti di utilizzare il tempo qui per l’attività di formazione lavorativa e sportiva. Quando termina la pena, infatti, spesso questi ragazzi devono abbandonare la struttura e, trattandosi per la maggior parte di migranti, hanno problemi con il permesso di soggiorno. Il nostro obiettivo deve essere il loro reinserimento, cosa che stiamo già facendo dalla nascita dell’associazione 25 anni fa. Lo stiamo facendo, anche se servono molti volontari per questo scopo. Abbiamo anche rimandato due ragazzi a scuola: uno di questi quest’anno sosterrà la maturità al Pertini, l’altro fa le scuole serali e ogni sera uno di noi va a Viareggio per riportarlo a casa. A questo punto è chiaro che una scelta di una struttura solo volontaria non basta. Occorrerebbero figure professionali anche perché ormai il nostro centro è molto richiesto come misura alternativa alla pena in carcere da tutta Italia. Speriamo di poter offrire ai detenuti sempre maggiori servizi e opportunità”. Già, perché non sempre la realtà risponde con storie dai contorni limpidi. Dopo il soggiorno in casa di accoglienza, infatti, c’è la vita, il lavoro, la legge. E non dappertutto la sensibilità è quella della gente che si è ritrovata questa mattina per il simbolico taglio del nastro. E fuori da lì, purtroppo, l’alternativa più semplice resta quella di tornare a delinquere. Anche per evitare questo, per la comunità e non solo per i detenuti ospiti, il lavoro da fare è ancora tanto. Ma almeno un cammino, fatto di lavoro e fatica, di regole e di comunità, è stato tracciato. Padova: tunisino morto in carcere, la famiglia non crede a suicidio e presenta una denuncia Il Mattino di Padova, 4 gennaio 2013 La famiglia non crede al suicidio in carcere e si prepara a presentare una denuncia alla procura della Repubblica. Secondo loro, il decesso del congiunto Ben Mohamed Ezzedine Sebai, 49 anni, noto come il serial killer delle vecchiette, è stato un omicidio. Spiega l’avvocato veneziano Luciano Faraon che, ieri, ha partecipato a Tunisi alle esequie di Sebai con rito musulmano: “Attraverso di me i familiari sono decisi a presentare la denuncia in seguito alle valutazioni espresse dai nostri consulenti di parte, il professor Vincenzo Mastronardi, criminologo dell’Università La Sapienza di Roma, e il medico legale Massimiliano Mansutti di Udine. Per i due esperti si è trattato di un omicidio. Sospettiamo che Ezzedine Sebai sia stato strozzato”. La mattina del 14 dicembre scorso, intorno alle 7,30, l’uomo è stato trovato incosciente da un inserviente all’interno della cella situata nella sezione comune della casa di reclusione Due Palazzi, la struttura penitenziaria per i condannati in via definitiva. All’apparenza si era impiccato con un lenzuolo fissato alle grate. Al momento dell’allarme respirava ancora, ma in ospedale è arrivato in condizioni disperate e poco dopo è spirato. Condannato a quattro ergastoli per altrettanti omicidi di anziane donne in Puglia, avvenuti tra il 1995 e il 1997, aveva confessato di essere l’autore di 14 assassini su alcuni dei quali non è ancora stata detta la parola fine. Massa Carrara: l’emergenza economica sta mettendo in ginocchio anche il carcere Il Tirreno, 4 gennaio 2013 Pochi agenti, porzioni di cibo ridottissime e riscaldamento spento per buona parte della giornata. A segnalare i disagi sono i familiari di chi si trova in cella e lo fanno chiedendo l’anonimato per paura di ritorsioni: “Mio marito esce alla fine di febbraio - spiega una donna in lacrime -, ma mi ha detto che non ce la fa più a resistere”. Ma quest’estate era stato il coordinatore vicario del Pdl Riccardo Migliori a lanciare l’allarme: “I detenuti del carcere di Massa hanno fame, si servono porzioni minime per colpa della burocrazia”. Migliori aveva incontrato, oltre alla dirigenza e ai sindacatidi polizia, anche alcuni rappresentanti dei detenuti che si erano lamentati proprio per le porzioni dei pasti troppo piccole. In pratica vengono cucinati 175 pasti quelli previsti come massima capienza del carcere quando poi dietro le sbarre ci sono 260 persone. “Siamo al limite della decenza umana”, aveva tuonato il deputato azzurro. Il carcere dovrebbe avere 189 guardie per 175 carcerati. In realtà gli agenti sono solo 120 e i carcerati sono più di 250. Ma nella casa circondariale di via Pellegrini esistono altre criticità. Nell’ambulatorio da 13 posti, per esempio, ne vengono ricoverati mediamente più di venti e nelle celle vengono ammassati 7-8 detenuti. “Resta grave - aveva detto Migliori - il fatto che dal punto di vista sanitario sia disattesa la legge e gli impegni presi dalla Regione nel 2008: se un detenuto ha bisogno di una visita specialistica adesso bisogna che venga accompagnato fuori negli ospedali con i problemi logistici e di personale del caso. La situazione al carcere di Massa è di eccezionale gravità. Anche i sindacati di polizia penitenziaria non sanno più come dire di correre ai ripari: “Siamo troppo pochi, la situazione è davvero drammatica”. Novara: Camera Penale; una cella in piazza per parlare dell’emergenza carceri Novara Today, 4 gennaio 2013 L’iniziativa è organizzata dagli avvocati della Camera Penale di Novara, in collaborazione con il Comune. L’appuntamento è per il prossimo fine settimana in piazza delle Erbe. Una prigione in piazza per denunciare la situazione delle carceri italiane e le condizioni in cui vivono i detenuti. È questa l’iniziativa organizzata dagli avvocati della Camera penale di Novara, e che farà capolino il prossimo fine settimana in piazza delle Erbe a Novara. Da venerdì 11 a domenica 13 gennaio, infatti, i novaresi potranno entrare in una vera e propria cella, di dimensioni reali, e conoscere da vicino la condizione dei carcerati italiani. La manifestazione è promossa in collaborazione con l’amministrazione comunale novarese e l’associazione “La Fraternità” di Verona. Siracusa: un detenuto scaglia un tavolo contro un Ispettore di polizia penitenziaria www.siracusanews.it, 4 gennaio 2013 Ieri, un detenuto ristretto presso la Casa Circondariale di Siracusa, originario della Tunisia, chiamato a presenziare davanti al consiglio di disciplina a seguito di un precedente evento, non appena aperta la cella inaspettatamente innalzava un tavolo e lo scaraventava contro un Ispettore della Polizia Penitenziaria, il quale strattonato da altro personale ivi presente fortunatamente è stato colpito dal tavolo solo alle spalle e comunque andava a sbattere, procurandosi un trauma contusivo allo zigomo, alla spalla e al ginocchio, la prognosi è di giorni 3. Nel frattempo, il Sovrintendente e l’Assistente Capo di Polizia Penitenziaria, intervenuti al momento per bloccare il detenuto, hanno rispettivamente riportato: uno, trauma contusivo e distorsivo al ginocchio, l’altro un evidente graffio al volto, nonché un trauma al ginocchio. L’episodio ci viene segnalato da Maurizio Sigari, V. Segretario Provinciale della Fsa-Cnpp - Coordinamento Nazionale Polizia Penitenziaria - sindacato rappresentativo della Polizia Penitenziaria, rilevando che episodi del genere un tempo sporadici oggi appaiono divenuti sempre più soventi all’interno degli istituti penitenziari. Rimarcando inoltre, che l’esplosione di rabbia e aggressività dei detenuti sia pur a volte dovuta da cause caratteriali, spesso viene imposta principalmente al sovraffollamento che impedisce una gestione più consona della popolazione detenuta, per di più per l’insufficienza di Poliziotti, mezzi, che più volte questa organizzazione sindacale ha denunciato. Catania: una raccolta di libri da destinare ai detenuti della Casa circondariale di Bicocca La Sicilia, 4 gennaio 2013 Libri e cultura per aiutare chi ha sbagliato, ma deve essere aiutato a ricominciare, anche così. Nemmeno la copiosa pioggia caduta ieri ha fermato i ragazzi che, per l’intero pomeriggio, in piazza Stesicoro, hanno raccolto libri da destinare ai detenuti della casa circondariale di Bicocca. Si chiama “Il sapere rende liberi” l’iniziativa che vede in prima linea studenti liceali ed universitari di Catania nell’aiutare i carcerati, che stanno scontando una pena detentiva per i reati più disparati, a reinserirsi nella società attraverso la cultura: “Vogliamo fare un fronte comune contro l’ignoranza che genera degrado ed emarginazione - spiega Rosario Mirone, studente del liceo “Principe Umberto” - un piccolo segnale per dare una speranza a tanta gente che ha commesso degli errori nella vita. Si tratta di un progetto rieducativo che passa attraverso una rinascita per coloro che, scontata la pena, desiderano reinserirsi nella nostra società”. Gli studenti proseguiranno la loro iniziativa in piazza Stesicoro ogni pomeriggio fino a domenica. In seguito la raccolta si sposterà prima nella facoltà di Ingegneria e poi in quella di Medicina. Successivamente comincerà il “tour” itinerante per tutte le altre facoltà universitarie di Catania. Questo almeno è il programma dei promotori dell’iniziativa fino a metà gennaio, quando tutti i libri raccolti saranno consegnati ai detenuti del carcere di Bicocca. “Abbiamo lanciato questa iniziativa per cominciare un percorso nuovo - afferma Alberto Leotta, studente universitario di Ingegneria - il libro è il simbolo della cultura, il mezzo principale per combattere l’ignoranza. Molti ragazzi nascono e crescono in ambienti degradati - aggiunge lo studente - dove il crimine rappresenta l’unica strada percorribile. Il sapere può servire a dare un’altra “chance” a tanti detenuti, mostrargli un mondo diverso da quello che sin qui hanno conosciuto, dove esiste legalità e rispetto per il prossimo”. Ad appoggiare questa iniziativa tanti ragazzi dell’associazione “Arché”, fedeli al pensiero di Socrate che sottolineava come “il sapere rende liberi è l’ignoranza che rende prigionieri”. Da qui la possibilità di permettere ai detenuti, attraverso la cultura, di ricevere una seconda possibilità, capire il loro sbaglio e impegnarsi per tentare di reinserirsi nella società. Per arricchire la biblioteca, all’interno della casa circondariale, saranno presi in considerazione testi in buone condizioni e che riguardano soprattutto la grammatica italiana, inglese e francese. Non solo, spazio anche ai libri di storia per permettere ai detenuti di paesi lontani di conoscere le radici su cui si basa il nostro paese: “Migliorando la conoscenza della nostra lingua i ragazzi extracomunitari possono essere accolti più facilmente dalla società - prosegue Leotta - per loro si potrebbe prospettare un futuro diverso rispetto a quello che la strada molte volte gli ha offerto finora”. Cosenza: una delegazione del Comune in visita alla Casa circondariale di via Popilia www.infooggi.it, 4 gennaio 2013 “Una delegazione del Comune di Cosenza, composta da amministratori e consiglieri comunali, farà visita ai detenuti della casa circondariale di via Popilia la mattina dell’Epifania”, si legge in una nota del Comune di Cosenza. Un’iniziativa che coinvolge le istituzioni cittadine ma non solo. “Con loro il giovane attore cosentino Emanuele Gagliardi che intratterrà - prosegue la nota - con una delle sue divertenti performance cabarettistiche”. L’amministrazione comunale evidenzia gli importanti aspetti socio-culturali della visita grazie alla presenza dell’attore “Non è nuovo a questo tipo di esperienza Emanuele Gagliardi che sposa la sua verve di cabarettista all’impegno nel sociale. Ospite in una recente riunione della Commissione Cultura, di quelle dedicate ai talenti locali, lo stesso Gagliardi ha raccontato degli spettacoli e dei laboratori teatrali tenuti proprio nelle carceri, dove ha avvicinato a classici del teatro dialettale anche tanti detenuti stranieri.” Volterra: nuovi detenuti-attori della Compagnia della Fortezza reclutati dal cinema di Francesca Suggi Il Tirreno, 4 gennaio 2013 Ancora una volta il mondo del cinema bussa alla porta dell’etrusca Fortezza del Maschio di Volterra. Dopo il maxi-successo di Aniello Arena e il suo esordio da protagonista nel film Reality di Matteo Garrone, il grande schermo si va avanti nuovamente per “provinare” - come si dice in gergo - Giovanno Langella, Rosario Campana e Franco Felici tutti detenuti attori della fucina decennale della Compagnia della Fortezza creata 25 anni dal regista Armando Punzo, esperienza teatrale dietro le sbarre conosciuta ormai in tutto il mondo. È direttamente il regista Stefano Sollima a restare colpito da Langella e Campana, durante gli spettacoli di questa estate della Compagnia e a chiedere alla direzione del carcere di poterli coinvolgere in Gomorra, la nuova fiction tv (prodotta da Fandango per Sky) tratta dall’omonimo libro di Roberto Saviano già trasposto al cinema in un lungometraggio diretto da Matteo Garrone e che vantava tra i suoi interpreti l’attore Toni Servillo. Già regista di due stagioni di Romanzo Criminale, Sollima inizierà le riprese alla fine del mese. Per Franco Felici, invece, c’è la chiamata del regista MarcoSimon Puccioni. Il detenuto-attore ha già girato, nella parte, proprio, di un detenuto-attore. Il film si chiama “Come il vento”, nel cast anche Valeria Golino e parla della vita di Armida Miserere, direttrice del carcere di Parma, la sua esperienza nei carceri di Lodi, Pianosa, Ucciardone fino a Sulmona, dove si suicida delusa dalla giustizia e per la disperazione della perdita dell’uomo amato, ucciso dalla mafia. “Per prima cosa - afferma il padrino di tutti questi successi, Armando Punzo - sono felice per gli attori della Compagnia della Fortezza che riescono a trovare anche prestigiose conferme esterne”. Punzo non può non fare un riferimento al “suo” progetto di Teatro Stabile, ancora in stand by, in attesa di risposte concrete sulla reale fattibilità. “Inutile dire che si tratta di un altro segnale che rimarca quanto sarebbe importante concretizzare il progetto, oppure trovare comunque fondi per la formazione, in modo che questa esperienza abbia le basi per diventare un vero e proprio mestiere per i detenuti”, chiude lui che nei giorni scorsi, insieme a Aren è stato premiato a Capri, Hollywood con il Peppino Patroni Griffi 2012. Immigrazione: dopo 25 anni di politiche emergenziali ora serve una legge più amichevole di Ugo De Siervo La Stampa, 4 gennaio 2013 Anche il recente censimento conferma quanto era già chiaro sulla base delle tante ricerche sulla realtà dell’immigrazione nel nostro Paese: ormai essa si è profondamente trasformata, sia in termini quantitativi che in termini sociali, da quando si è presa consapevolezza che il nostro Paese era divenuto un Paese di immigrazione. Se poco più di trent’anni fa un primo tentativo di quantificazione determinava la presenza di un numero di immigrati fra trecento e quattrocentomila, nel 1988 ci poteva riferire a circa un milione, nel 2004 si dava atto che i permessi di soggiorno erano oltre due milioni e trecentomila, mentre da alcuni anni ci si riferisce alla presenza di circa cinque milioni di immigrati regolari, malgrado tutti i pesanti effetti prodotti dalla crisi economica. E tutto ciò ovviamente oltre il grande pianeta degli immigrati in situazione irregolare, in grande prevalenza originato dall’ impropria utilizzazione dei flussi turistici, piuttosto che tramite i tragici afflussi irregolari tramite il Mediterraneo. Contemporaneamente è mutata la provenienza degli immigrati, se attualmente gli immigrati provenienti da Paesi dell’Europa centro-orientale, ivi compresi anche Paesi aderenti all’Unione europea (da soli i romeni sono poco meno di un milione) superano il numero degli immigrati da tutti i Paesi africani e ancora più nettamente quello degli immigrati da tutti i paesi asiatici. Ma ancora più significativo è rilevare la sostanziale stabilizzazione sul territorio e nell’attività professionale di parti significative degli immigrati, malgrado tutte le notorie difficoltà in fasi di crisi economica, mentre chiaramente distinte sono le aliquote degli immigrati temporanei, se non stagionali. Ed a tutto ciò corrisponde evidentemente il fatto che gli immigrati svolgono in modo tendenzialmente stabile tutta una serie di lavori e di attività in alcuni settori, nei quali si registra una forte carenza di attività professionale da parte dei cittadini italiani (come ben noto, non solo nel settore dei servizi, ma in alcuni ambiti delle attività di tipo agricolo, industriale o nel settore edile). Ma allora si comprende come mai l’immigrazione debba essere affrontata, alla luce dei valori personalistici che caratterizzano la nostra Costituzione, come una grande questione nazionale che contribuisce a ridurre i problemi prodotti dalla accentuata denatalità del nostro Paese, con un anomalo suo notevole invecchiamento, e dalla stessa “fuga” di molti italiani da varie attività lavorative, tuttora importanti. Una piena consapevolezza è tanto più necessaria in quanto finora sono state assai carenti le politiche nazionali di accompagnamento del fenomeno migratorio, mentre addirittura non sono mancati strumentali allarmismi (per di più venati da gravi discriminazioni di tipo razzista) e legislazioni fortemente ostili. È evidente che grandi e rapidi fenomeni del genere, non adeguatamente supportati, producono anche fenomeni di degrado sociale: al di là di giusti interventi a tutela della legalità, gli italiani dovrebbero però essere ben consapevoli, sulla base della storia delle nostre emigrazioni, delle enormi fatiche e delle grandi difficoltà connesse all’inserimento in società diverse di soggetti provenienti da situazioni di sottosviluppo e di pauperismo. Ormai il problema che si pone in modo impellente è quello della sistematica rivisitazione sia della legislazione sull’ingresso nel Paese che della legislazione sulla cittadinanza. Da una parte si è constatato che in realtà sono differenziate le categorie di immigrati e molteplici le normative internazionali o sovrannazionali da rispettare; dall’altra si continua a dover prendere atto della larga inefficacia di tante procedure di contenimento e di rifiuto degli immigrati irregolari. Ma poi appare ormai evidente quanto sia arrivata fuori tempo la riforma della legislazione sulla cittadinanza in senso largamente favorevole ai meri discendenti degli emigrati italiani (a prescindere da ogni loro attuale legame sostanziale con l’Italia) ed il riconoscimento dei diritti elettorali politici ai cittadini residenti all’estero, mentre la legislazione sull’attribuzione della cittadinanza agli immigrati appare molto restrittiva ed affidata a inidonee e lente procedure burocratiche (d’altronde i modestissimi dati quantitativi relativi alle nuove cittadinanze di questo tipo ne sono una prova del tutto evidente). Ma il perdurare di linee del genere non può che incrementare la dannosa, se non molto pericolosa, formazione nella nostra società di vastissime sacche di persone prive dei pieni diritti civili e politici e quindi neppure integralmente vincolabili ai doveri di solidarietà sociale e politica. Né l’uscita da tutto ciò può essere garantita dalla sola (seppur ovvia) previsione del riconoscimento della cittadinanza ai giovani nati in Italia da genitori stranieri e che qui si sono formati: se è giusto ricordare il dato assai significativo degli oltre settecentomila figli di immigrati che frequentano i vari gradi scolastici, occorrerebbe farsi carico pure della condizione sociale e dello stato giuridico dei genitori di questi ragazzi. Ciò che quindi appare ineludibile è la previsione di un vero e proprio diritto a conseguire, senza inutili burocratismi, la cittadinanza a chiunque sia regolarmente presente in Italia da un periodo determinato, senza che abbia posto in essere comportamenti gravemente illeciti. In altri termini, mi sembra che non basti neppure un atteggiamento più aperto verso politiche di integrazione, ma sia necessario passare ad una legislazione più amichevole verso le diverse categorie dei migranti e che apra prospettive di stabile inserimento nel nostro contesto nazionale agli immigrati che qui si sono utilmente stabilizzati. Repubblica Ceca: amnistia per un terzo dei detenuti ma per chi esce c’è il “deserto sociale” di Jakub Hornacek Il Manifesto, 4 gennaio 2013 “Cari concittadini, sono passati vent’anni dalla nascita della Repubblica ceca e in quest’occasione ho deciso di promulgare un provvedimento di amnistia parziale, che entrerà in vigore a partire dal 2 gennaio”, così il presidente della Repubblica ceca Vaclav Klaus ha annunciato l’amnistia parziale, la quarta nella storia del paese. L’amnistia parziale riguarderà circa 7.500 detenuti sui 23mila complessivi, a fronte di una capienza ufficiale delle carceri di circa 19mila persone. “Il sovraffollamento delle carceri ceche è evidente con un tasso di 230 detenuti ogni 100 mila abitanti. Tuttavia la maggioranza dei detenuti è formata da condannati per l’”ostruzione alle decisioni degli organi pubblici” e per il non pagamento degli assegni famigliari. Ma, come racconta al manifesto Borek Slezácek della Rubikon Centrum (una delle poche associazioni attive nelle carceri ceche), “rinchiudendo queste persone non si otterrà il rinnovo dei pagamenti degli assegni famigliari ma solo un aumento dei debiti del detenuto. Una soluzione sarebbe quindi un uso più esteso delle pene alternative”. Il sovraffollamento tuttavia non è l’unico male, che affligge le prigioni ceche. Neanche l’Amministrazione penitenziaria è riuscita a sfuggire ai tagli della spesa pubblica, che hanno portato a ridurre sia gli stanziamenti per i programmi di risocializzazione dei detenuti sia i fondi per le spese comuni. Da alcuni anni è così stata tagliata anche la dotazione della carta igienica e dell’acqua calda, per cui i detenuti possono fare una doccia con acqua non gelida soltanto due volte alla settimana. Intorno alla carceri ceche c’è poi un grande deserto sociale, che non è minimamente scalfito dal meritorio lavoro delle poche associazioni di volontariato presenti tra le mura dei luoghi di restrizione. Una situazione resa ancora più difficile dalla mancanza di un impiego che oltre a dotare il detenuto di un reddito possa servire anche da esperienza di lavoro qualificante per la vita oltre le sbarre. Tutto ciò pesa inevitabilmente e determina per la stragrande maggioranza dei detenuti l’assenza di un percorso di recupero, che possa dare degli orizzonti concreti dopo la fine della pena. Il post-pena è anche reso difficile da alcuni fattori peculiari della situazione ceca. “Un importante problema per il reintegro dei detenuti è rappresentato dai debiti accumulati prima e dopo la pena”, sottolinea Lenka Ourednícková, vicepresidente della Rubikon Centrum. Il problema dei debiti viene poi aggravato dal costo di soggiorno, addebitato al detenuto per ogni giorno passato in carcere. Non di rado i detenuti scarcerati si ritrovano sul groppone un debito di decine o centinaia di migliaia di corone verso l’Amministrazione penitenziaria. Una situazione decisamente poco sostenibile per molti detenuti non agiati. Scontro sulla fine dei processi L’amnistia presidenziale, controfirmata dal premier Petr Necas, non porta solo alla scarcerazione di un terzo dei detenuti cechi ma anche alla conclusione dei provvedimenti penali con una durata superiore agli otto anni e per delitti sanzionati con meno di dieci anni di reclusione. Una norma, che è stata fortemente criticata dalla società civile e dalle forze di opposizione, in quanto getta un colpo di spugna su alcuni grandi processi per le malversazione avvenute negli anni 90 e all’inizio di questo secolo. “Il presidente Klaus e il premier Necas danno l’impressione di voler cancellare le tracce e di amnistiare coloro che in passato hanno detenuto un’importante potere economico, e che avevano forti legami con l’Ods (il partito da cui provengono entrambi i politici, ndr)”, ha dichiarato Bohuslav Sobotka, il segretario del maggior partito dell’opposizione, la Cssd, che perciò tenterà di sfiduciare alla Camera il già traballante governo di centro-destra del premier Petr Necas. Molti processi, che andranno alla conclusione forzata, riguardano infatti il periodo di privatizzazioni selvagge, quando l’allora premier Vaclav Klaus sosteneva che bisognasse spegnere la luce della legge per costruire con successo la nuova economia capitalistica. E suscita forti dubbi anche il metodo con cui è stato preso un provvedimento necessario per rimediare almeno parzialmente a uno “stato di antidemocrazia” vigente nelle carceri ceche, come direbbe un Marco Pannella in versione praghese: l’amnistia è scaturita con un accordo non pubblico tra il presidente e il premier, che non hanno ritenuto di coinvolgere in questa decisione né il Parlamento né la società ceca. Una procedura costituzionalmente corretta ma degna più di due monarchi assoluti e temporaneamente illuminati che di due uomini politici di uno stato democratico. L’amnistia parziale è arrivata così come un fulmine a ciel sereno, che non è certo servito ad aumentare l’attenzione della società verso le condizioni di detenzione nelle carceri ceche. I benefici concessi solo caso per caso Con l’amnistia parziale del Presidente ceco Vaclav Klaus vengono liberati i detenuti che hanno subito una condanna di reclusione di 12 mesi, estesi a 24 mesi nel caso della sospensione condizionale della pena. Vengono amnistiati anche i condannati ai lavori forzati e al domicilio coatto. Condizioni più favorevoli invece per i detenuti anziani: verranno messi in libertà i detenuti over 75 qualora la loro condanna preveda una pena con meno di dieci anni di reclusione e gli over 70 che sono stati condannati con la sospensione condizionale della pena. Vengono, invece, esclusi dall’amnistia i condannati per violenza sessuale, per i delitti di sangue e i recidivi. II provvedimento più contestato è quello che riguarda i provvedimenti penali in corso. L’amnistia prevede la conclusione dei provvedimenti, che durano da più di otto anni, e con delitti sanzionati con pene inferiori ai dieci anni di reclusione. Il diritto di godere degli effetti dell’amnistia sarà valutato caso per caso da delle corti formate ad hoc presso i penitenziari cechi. Nei primi due giorni sono state liberate circa un migliaio di persone sugli oltre 7.500 detenuti che dovrebbero uscire a partire dai prossimi giorni dalle carceri ceche. Slovacchia: 753 i detenuti scarcerati con l’amnistia decretata dal presidente Gašparovic www.lavoce.sk, 4 gennaio 2013 Sono stati ben 753 i detenuti che sono stati scarcerati in seguito all’amnistia concessa dal presidente Ivan Gašparovic nella giornata di martedì. Così ha dichiarato il portavoce del Ministero della Giustizia, Jana Zlatohlavkova. Secondo le parole del portavoce del presidente, Marek Trubac, l’amnistia verrà concessa solo a coloro che sono stati condannati ad una pena di massimo 18 mesi rinchiusi in prigioni di bassa sicurezza ed a coloro le cui sentenze sono state sospese. Il presidente ha inoltre deciso di estendere l’amnistia ai cittadini degli stati membri dell’Unione Europea espulsi dalla Slovacchia prima del 1 agosto 2004, ma anche alle persone che hanno commesso crimini durante il servizio militare obbligatorio. Anche i minori condannati a meno di 18 mesi di prigione dovrebbe essere rilasciati. Secondo la Zlatohlavkova, per decidere se ogni detenuto dei 753 in lista potesse effettivamente essere rilasciato, sono stati interpellati oltre 60 giudici in tutta la Slovacchia. Le carceri slovacche ospitano un totale di 10.862 detenuti, con 9.559 che stanno scontando la pena decisa in base al processo che hanno subito. I detenuti nei penitenziari di bassa sicurezza sono 5.160, rappresentando quindi quasi la metà dei detenuti in tutta la nazione. Di questi cinquemila, 1.198 sono condannati a pene inferiori a 18 mesi. Di conseguenza, più della metà è stata rilasciata grazie all’amnistia di Gašparovic. Secondo la decisione del presidente, l’amnistia non si applica a condannati ai seguenti reati: quelli per omicidio, per lesioni personali gravi o danni su larga scala, quelli accusati di abbandono o maltrattamento di minore, traffico di droga, vendita di alcolici a minori e reati commessi sotto l’effetto di droghe o alcool. Inoltre, tra gli aventi diritto all’amnistia ci potrebbero essere alcuni gruppi di persone che non soddisfano i criteri di cui sopra, comprese le persone che soffrono di malattia estremamente contagiose o incurabili, persone di età superiore ai 65 anni, donne in stato di gravidanza, e genitori che si prendono cura dei bambini piccoli da soli. Tali amnistie prevede anche che chi ne usufruirà, vedrà ripulita la propria fedina penale. Turchia: deputati curdi visitano fondatore del Pkk Ocalan in carcere, per pace nel Paese Tm News, 4 gennaio 2013 Visita storica in Turchia, dove due deputati curdi e un avvocato sono stati ammessi a visitare Abdullah Ocalan, fondatore del Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, organizzazione armata separatista, considerata terrorista da diversi stati e organizzazioni internazionali, che lotta per la creazione di uno stato indipendente curdo in territorio turco e indiscusso capo spirituale della minoranza. Ocalan si trova detenuto sull’isola di Imrali, in mezzo al Mar di Marmara, dove sta scontando l’ergastolo. L’incontro è considerato il primo passo per riprendere le trattative fra governo e curdi per risolvere una volta per tutte l’annoso problema della minoranza. La visita è avvenuta nella mattinata di ieri, ma le autorità turche ne hanno dato conferma solo ieri in tarda serata. “Il nostro governo - ha spiegato il ministro della Giustizia, Sadullah Ergin - è stato informato della visita e ha deciso di autorizzarla. Lo consideriamo un gesto di aiuto al Paese. Ma questo processo non continuerà se ne abuserà”. Stando a Hurriyet, la delegazione tornerà sull’isola in futuro. I due parlamentari sono Ahmet Turk, deputato indipendente ed Ayla Akat Ata, deputato del Bdp, il Partito curdo per la democrazia e la pace. Il colloquio è durato circa 5 ore. Stando a quanto riportano i quotidiani della Mezzaluna, il leader curdo avrebbe detto di essere “l’unica autorità” in grado di portare il Pkk alla deposizione delle armi, aggiungendo che, se non si vuole sabotare il processo di pace “nei prossimi mesi bisogna passi importanti”. “L’obiettivo - avrebbe concluso Ocalan - è quello di creare un ambiente dove non ci sia bisogno di armi. Ognuno deve essere sensibile e attento”. Il messaggio è rivolto al governo islamico-moderato dell’Akp, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, guidato dal premier Recep Tayyip Erdogan. Proprio in questi giorni infatti, sono tornate a circolare voci di crisi sulla nuova Costituzione, nella quale i curdi dovrebbero vedere finalmente riconosciuti i loro diritti, soprattutto quelli etnici e linguistici. L’Akp e i nazionalisti del Mhp sono contrari a questa soluzione e la questione curda, insieme con i sogni di presidenzialismo del premier Erdogan, avversati dall’opposizione laica e dagli stessi curdi, sono i due motivi per cui i lavori sono in fase di stallo. A fine dicembre il premier Erdogan in persona aveva detto in diretta televisiva che gli incontri con il leader curdo andavano avanti perché la Turchia “aveva assolutamente bisogno di trovare una soluzione”. Hakan Findan, il capo del Mit, il servizio segreto turco, lo stesso che nel 2009 incontrò a Oslo alcuni dirigenti del Pkk, ha detto al quotidiano Zaman: “Siamo in contatto con Ocalan ed è importante che le visite continuino. Il nostro obiettivo è proseguire con questo processo in modo trasparente. L’opposizione alla lotta armata continuerà senza sosta”. Afghanistan: rilasciati 80 talebani da carcere Bagram, impegno per la pace Aki, 4 gennaio 2013 Sono un’ottantina i detenuti Talebani rilasciati dal governo afghano dalla base militare americana di Bagram dov’erano detenuti. Un atto che mira a sostenere gli sforzi di riconciliazione tra i ribelli e le autorità di Kabul. La maggior parte di loro è stata arrestata senza un’accusa formale, come ha spiegato un’alta fonte del Consiglio supremo di pace, iniziativa lanciata dal governo afghano per giungere alla pace con i ribelli talebani. “Molti sono stati incarcerati su base politica. Speriamo che il loro rilascio possa rafforzare l’impegno per la pace”, ha detto all’agenzia di stampa Dpa l’esponente del Consiglio Ismail Qasimyar. “Vogliamo che coloro che sono stati rilasciati si impegnino per la pace”. Sono in tutto 275 i detenuti già liberati dal carcere di Bagram, dove si trovano circa tremila prigionieri e che da settembre è sotto controllo afghano. Nei prossimi giorni torneranno in libertà altri 585 detenuti, ha detto il generale Ghulam Farooq Barakzai, comandante del carcere di Bagram, anticipando che nei prossimi mesi saranno rilasciati 1.200 prigionieri. Lo scorso anno una commissione d’inchiesta incaricata dal governo afghano ha individuato “molti casi di violazione” della legge afghana e dei diritti umani nel carcere di Bagram, che si trova a nord di Kabul. Il governo afghano ha anche accusato l’esercito americano di aver tenuto in cella alcuni prigionieri per oltre due anni senza alcuna accusa. Stati Uniti: Obama firma legge che rende più difficile chiusura del carcere di Guantánamo Tm News, 4 gennaio 2013 Prima ancora di inaugurare ufficialmente il suo secondo mandato, il presidente Barack Obama ha messo a rischio la possibilità di portare a termine uno dei suoi propositi: chiudere il carcere di sicurezza di Guantanamo, a Cuba. Insieme alla legge per evitare il fiscal cliff, Obama ha infatti firmato il National Defense Authorization Act, una legge federale valida un anno che stabilisce il budget e il programma di spesa del Pentagono. Mettendo a disposizione del Dipartimento di Difesa 633 miliardi di dollari, la legge prevede, tra le altre cose, un rafforzamento della sicurezza nelle missioni diplomatiche (alla luce dell’attentato al consolato di Bengasi) e un rafforzamento delle sanzioni contro l’Iran. Inoltre, e questo è il punto che renderebbe ancora più difficile per Obama chiudere Guantanamo, vieta che i detenuti vengano trasferiti sul territorio statunitense, e limita fortemente anche il loro spostamento altri Paesi. Pur avendo minacciato di non firmare la legge annuale proprio per questa ragione, Obama ha ceduto sollevando le critiche degli attivisti per i diritti umani. “L’amministrazione Obama non può continuare a dare la colpa al Congresso” ha detto Andrea Prasow, ai vertici dell’organizzazione Human Rights Watch. “Il presidente deve portare a termine il suo proposito e farsi valere sui limiti del trasferimento dei detenuti”. Stati Uniti: annullata esecuzione detenuto che uccise una guardia durante tentativo fuga 9Colonne, 4 gennaio 2013 La Corte Suprema del Dakota ha annullato la condanna a morte che era stata inflitta a Rodney Berget, il prigioniero 50enne che, circa due anni fa, aveva ucciso una guardia carceraria durante un tentativo di fuga non riuscito. Come riporta il quotidiano Usa Today, la decisione di ieri invalida la precedente sentenza, a causa della non corretta interpretazione da parte del giudice delle dichiarazioni fornite da Berget a uno psichiatra. Il giudice che sentenziò la pena capitale aveva fatto leva sulla valutazione psichiatrica del detenuto che, al medico incaricato di periziare il suo stato mentale, aveva dichiarato “di meritare la pena di morte per aver ucciso la guardia e aver così distrutto una famiglia”. L’omicidio, avvenuto nell’aprile del 2011, era stato compiuto da Berget e da un altro prigioniero del penitenziario di stato del South Dakota, Eric Robert. I due avevano ucciso la guardia Ronald Johnson nel giorno del suo 63esimo compleanno. Entrambi si erano dichiarati colpevoli ed entrambi condannati a morte, con Robert già giustiziato lo scorso ottobre. Ergastolo anche per un altro detenuto che aveva fornito i materiali utilizzati sia per la fuga sia per l’omicidio. Arabia Saudita: Sbai (Pdl); offensiva feroce contro libertà espressione, arresti continui Adnkronos, 4 gennaio 2013 “In Arabia Saudita è in corso una reazione feroce e senza precedenti contro i liberali e in generale contro la libertà di espressione. Prima il blogger dissidente Raif Badawi e qualche giorno fa anche lo scrittore Turki al-Hamad. Fatali l’apertura di un blog e alcuni tweets ritenuti blasfemi”. Questo l’allarme lanciato da Souad Sbai, parlamentare del Pdl e profonda conoscitrice del mondo arabo, sull’offensiva delle autorità saudite contro i pensatori liberali. La Sbai ricorda le parole che sono costate il carcere ad al-Hamad, ovvero che “la primavera araba deve ancora venire. I Fratelli Musulmani hanno recentemente acquisito il diritto di esprimersi, ma ne fanno cattivo uso e hanno perso il credito che avevano accumulato”. “Per queste parole che prefigurano la nascita di una nuova dittatura nel mondo arabo, al-Hamad oggi è in carcere e rischia di fare una brutta fine - denuncia la Sbai. Siamo arrivati al punto di una censura che non si limita alle reprimende o alle fatwe, ma arriva subito alle maniere forti, con arresti indiscriminati e deportazioni fulminee per apostasia o blasfemia, senza alcun genere di contraddittorio. I media stranieri sono sempre sul pezzo, ma in Italia vige il silenzio nel denunciare un regime, chiuso e oscurantista, che gli intellettuali tentano di far emergere da sempre, pagandone spesso con la vita le conseguenze”. In cinquecento hanno firmato ieri la petizione per chiedere il rilascio di al-Hamad. Indirizzato al principe Salman bin Abdul Aziz, il testo chiede il rilascio immediato e incondizionato di Turki al-Hamad. “Speriamo, chiediamo e ci aspettiamo una decisione rapida in merito a questo grave errore commesso contro Hamad, recita la petizione, che definisce il suo arresto ingiusto, inaccettabile, vergognoso, da condannare”. Mauritania: un anno di carcere per chi usa sacchetti plastica, misura a tutela bestiame Ansa, 4 gennaio 2013 Mano pesante del governo mauritano contro chi produce, commercializza e usa sacchetti di plastica. Con l’inizio dell’anno è entrata in vigore la legge che vieta la produzione e l’uso dei sacchetti di plastica, ritenuti importante causa di mortalità per il bestiame e le specie marine, dal momento che la maggior parte dei contenitori di questo tipo non vengono raccolti, ma abbandonati nell’ambiente naturale, terrestre e marino. La legge prevede, in caso di violazione, condanne sino ad un anno di reclusione, oltre a pesanti ammende. Secondo il ministro mauritano dell’Ambiente, nello stomaco dell’80 per cento dei bovini abbattuti nei mattatoi del Paese sono stati trovati sacchetti di plastica, materiale che rappresenta il 25 per cento delle 56 mila tonnellate di rifiuti prodotti, ogni anno, nella capitale mauritana, Nouakchott.