Giustizia: Associazioni; tre proposte legge di iniziativa popolare per legalità nelle carceri Redattore Sociale, 30 gennaio 2013 Reato di tortura, legalità e rispetto della Costituzione e modifiche alla legge sulle droghe. Questi i temi dei testi presentati oggi a Roma. Gonnella (Antigone): “Misureremo l’impegno civile del prossimo governo”. Introdurre il reato di tortura nel codice penale, ristabilire la legalità e il rispetto della Costituzione nelle carceri e modificare la legge sulle droghe. Sono questi i temi centrali delle tre proposte di legge di iniziativa popolare presentate questa mattina a Roma da un cartello di associazioni impegnate sul tema quali A buon diritto, Antigone, Arci, Ristretti Orizzonti, Volontari in carcere, Cnca, Acat Italia, A Roma insieme, Associazione nazionale giuristi democratici, Bin Italia, Cgil, Conferenza nazionale volontariato giustizia, Forum droghe, Forum per il diritto alla salute in carcere, Società della ragione, Unione camere penali italiane e Gruppo Calamandrana. I tre diversi testi, presentati oggi in Cassazione, riguardano temi cruciali del sistema penitenziario italiano, sottolineano le associazioni, ma rappresentano anche un primo passo per indicare la strada percorribile al futuro governo per risolvere una situazione “fuori controllo” che oggi ospita 22mila detenuti in più rispetto ai posti letto regolamentari. I detenuti al primo gennaio 2013 sono 65.701, contro una capienza regolamentare di 47.040 posti. Numeri che fanno registrare un tasso di affollamento penitenziario più alto di tutta l’Unione europea. La prima proposta riguarda l’introduzione del reato di tortura nel codice penale. “In Italia manca il crimine di tortura nonostante vi sia un obbligo internazionale in tal senso - spiegano le associazioni. Il testo prescelto è quello codificato nella Convenzione delle Nazioni unite. La proibizione legale della tortura qualifica un sistema politico come democratico”. Il secondo testo, invece, “vuole intervenire in materia di diritti dei detenuti e di riduzione dell’affollamento penitenziario”. Secondo le diverse associazioni, infatti, su questo tema, nonostante le promesse, non è ancora cambiato nulla. “Il 29 giugno 2010 è stato approvato il piano carceri dall’allora governo Berlusconi - spiegano, che prevedeva la realizzazione di 9.150 posti per un importo totale di 661 milioni di euro. Oggi i fondi sono calati a 450 milioni ma neanche un mattone è stato posto”. Tuttavia, spiegano le associazioni, “non è con l’edilizia che si risolve la questione carceraria ma intervenendo sui flussi in ingresso e in uscita, ovvero su quelle leggi che producono carcerazione senza produrre sicurezza pubblica”. Per tale ragione la proposta delle associazioni è quella di “rafforzare il concetto di misura cautelare intramuraria come extrema ratio” e intervenire “drasticamente sulle legge Cirielli in materia di recidiva ripristinando la possibilità di accesso ai benefici penitenziari e azzerando tutti gli aumenti di pena”. Il secondo testo prevede anche l’istituzione del garante nazionale dei detenuti, la revisione dei criteri di scelte delle misure cautelari, una conferenza annuale sulla pena e l’abrogazione del reato di ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello italiano. Secondo le associazioni, infatti, gli stranieri presenti nelle carceri italiane sono 24.179, “molti - spigano le associazioni - dentro a causa della criminalizzazione secondaria imposta dalla legge Bossi - Fini”. I detenuti che sono in carcere per aver violato la legge sulle droghe, invece, sono il 37 per cento della popolazione detenuta. E proprio di questo tema tratta la terza ed ultima proposta, che chiede di “modificare la legge sulle droghe che tanta carcerazione inutile produce nel nostro Paese. Viene superato il paradigma punitivo della legge Fini-Giovanardi, depenalizzando i consumi, diversificando il destino dei consumatori di droghe leggere da quello di sostanze pesanti, diminuendo le pene, restituendo centralità ai sevizi pubblici per le tossicodipendenze”. La raccolta delle firme inizierà non appena il testo verrà pubblicato sulla Gazzetta ufficiale, ha spiegato Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone. “Il nostro obiettivo è raccogliere 50mila firme come prevede la legge - ha aggiunto, ma abbiamo soprattutto un obiettivo politico, cioè quello di non dare alibi al prossimo governo. Anche perchè entro l’8 gennaio 2014, l’Italia deve rispondere alla Corte europea dei diritti umani sulla situazione delle carceri”. Una questione, quella tracciata dai tre testi, su cui “misureremo l’impegno civile di quello che sarà il prossimo governo”, ha chiosato Gonnella. Alla raccolta delle firme parteciperanno tutte le organizzazioni promotrici, ma la raccolta, ha aggiunto Gonnella, avverrà anche all’interno degli istituti di pena, coinvolgendo detenuti e operatori che vivono sulla propria pelle il sovraffollamento delle carceri italiane. Per don Armando Zappolini, presidente del Cnca, le tre proposte sono un “primo passo”. Obiettivo strategico, ha concluso, è quello di “mettere alla prova dei fatti questo timidissimo segnale di cambiamento che attraversa il Paese”. Giustizia: intervista a Mauro Palma; Campagna per introdurre in Italia il reato di tortura Radio Vaticana, 30 gennaio 2013 Ripristinare la legalità nel sistema carcerario italiano. Con questa finalità sono state depositate oggi presso la Corte suprema di Cassazione tre proposte di legge di iniziativa popolare per introdurre in Italia il reato di tortura, ridurre l’affollamento penitenziario e riformare la legge sulle droghe. L’iniziativa rientra nell’ambito della Campagna “Tre leggi per la giustizia e i diritti. Tortura, carceri, droghe” promossa da varie organizzazioni, tra cui Antigone e Volontari in carcere. Sulle tre proposte, cominciando dalla prima sul reato di tortura, Amedeo Lomonaco ha intervistato Mauro Palma, portavoce della Campagna. R. - L’Italia ha ratificato, nel lontano 1988, la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e ormai sono passati più di venti anni. Le varie legislature non sono riuscite a introdurre questo reato. È vero che l’Italia ha sempre detto di perseguire quei comportamenti con altri reati, tipo le lesioni, le lesioni aggravate, e via dicendo. Però, è altrettanto vero che, anzitutto, dare al reato il nome di tortura ha effetto nel far capire l’unicità di questo tipo di azione. E poi, è anche vero che le figure con cui i reati sono attualmente perseguiti sono figure penali deboli, che vanno in rapida prescrizione. Tanto è vero che quest’anno, per esempio, per almeno tre volte ci siamo trovati di fronte a sentenze in cui il giudice diceva: questo è configurabile come tortura, però dal momento che devo perseguirlo come violenza, lesioni, lesioni aggravate e via dicendo, tutto è andato prescritto. Questo è grave perché lancia un messaggio di impunità e non è rispettoso anche di chi ha subito simili comportamenti. D. - La seconda delle proposte di legge riguarda i diritti dei detenuti e temi cruciali come la riduzione dell’affollamento penitenziario… R. - Su questo tema abbiamo, da un lato, il supporto del presidente della Repubblica e, dall’altro lato, anche le parole dello stesso Pontefice rispetto alla dignità delle carceri. Ciò nonostante abbiamo un parlamento che - se mi si permette il termine - è stato “balbettante” nei provvedimenti. Qualche piccolissima cosa è stata fatta. Le intenzioni espresse dall’ultimo ministro della Giustizia, il ministro Severino, sono intenzioni largamente condivisibili. Ma i provvedimenti sono inadeguati rispetto alla gravità del problema. L’Italia continua a essere anche condannata in sede internazionale - dalla Corte di Strasburgo, la Corte per i diritti umani - per le strutturali deficienze del sistema detentivo e il suo sovraffollamento. Lacune che fanno sì che, a volte, le condizioni di detenzione diventino offensive della dignità delle persone che vi sono rinchiuse. Allora, bisogna intervenire riducendo i flussi in ingresso e riportando il carcere a quel termine “extrema ratio”. Poi, invece, si fanno sempre leggi che sembrano dare al carcere la prima scelta. Viene subito preferita questa misura. Io ricordo che il termine “extrema ratio” rispetto al carcere venne introdotto, nel suo intervento nel 1996, in un convegno proprio di Antigone, dal cardinale Martini che utilizzò questo tipo locuzione che poi molti hanno ripreso. Si deve quindi ridurre il ricorso al carcere, facilitare la possibilità per chi è meritevole delle misure alternative, abolendo la legge cosiddetta “ex Cirielli” - legge che dà l’impossibilità di concedere misure alternative a chi ha commesso più di un reato, a chi è stato recidivo - istituire un garante sulle condizioni di detenzione che sia anche di monitoraggio continuo e anche di supporto alla stessa amministrazione per affrontare i problemi strutturali. D. - Per ridurre il ricorso al carcere e anche per prevedere pene detentive meno severe, la terza proposta vuole modificare la legge sulle droghe… R. - La legge sulle droghe, la cosiddetta legge “Fini - Giovanardi”, è una delle leggi che determina molta carcerazione e la determina perché assume, al suo interno, una categoria indistinta che mette insieme coloro che coltivano piantine per uso personale, coloro che detengono droghe, coloro che invece spacciano, coloro che fanno traffico, i narcotrafficanti. Cioè, mette insieme una serie di comportamenti assolutamente non assimilabili e li mette insieme in una logica penalizzante. Allora, per noi, il primo punto è togliere quello che la legge stessa definisce “fatti di lieve entità” e trattarli a parte con forme non detentive. Il secondo punto è depenalizzare l’uso farmacologico delle droghe perché altrimenti, in Italia, abbiamo anche la situazione in cui persone devono ricorrere a cure all’estero proprio perché da noi tutto è totalmente bloccato. Il terzo punto è non interrompere, con la detenzione, coloro che stanno facendo un percorso di disintossicazione. Giustizia: ricondurre nella legalità le condizioni carcerarie… la parola al popolo di Mauro Palma Il Manifesto, 30 gennaio 2013 Alle dieci di questa mattina, gli uffici della Corte di Cassazione accoglieranno i rappresentanti di 16 associazioni che si occupano di diritti, legami sociali e libertà individuali, i quali depositeranno tre proposte di legge d’iniziativa popolare. Quelle aule che all’inizio del secolo scorso Guglielmo Calderini progettò cupe e pompose per comunicare l’idea di una giustizia distante e incombente, oggi saranno invece il luogo della garanzia per tutti i cittadini. Le tre leggi, infatti, incidono su ciò che il Parlamento non ha voluto approvare e che il governo non ha saputo affrontare in modo adeguato: la privazione della libertà personale con i rischi che ne conseguono, la salvaguardia dei diritti di coloro che ne sono privati. La prima proposta di legge riguarda l’introduzione del reato di tortura nel codice penale, la seconda, un insieme di provvedimenti volti a ricondurre nella legalità le condizioni carcerarie, la terza, la depenalizzazione del consumo e della detenzione personale di droghe e la riduzione del ricorso al carcere per coloro che ne sono dipendenti. La continuità con quanto affermato all’apertura dell’anno giudiziario è evidente e va colta fuori dalla retorica che accompagna questi eventi: le parole del primo presidente della Cassazione hanno richiamato anche la magistratura alla responsabilità per un uso più contenuto della carcerazione e per uno sguardo più attento a quanto avviene nelle celle. Il tema non è più rinviabile e il mondo politico non ne ha finora colto l’urgenza: il Parlamento non ha inserito la tortura tra i reati e ha chiuso i battenti non accogliendo la pur timida proposta di “mettere alla prova” gli autori di un primo reato non grave, avanzata dal ministro della giustizia. Del resto il ministro, pur in un contesto di discontinuità nell’individuare la centralità del tema, ha di fatto proposto strumenti del tutto inadeguati per ridurne la drammaticità: il tutto si è risolto in una riduzione molto lieve del numero complessivo dei detenuti; nessuna incidenza sui nodi che determinano quel carcere, quella penalizzazione di persone in base al loro status, come nel caso degli immigrati irregolari, o in base al loro stile di vita, come nel caso dei consumatori di droghe. Da qui le tre leggi d’iniziativa popolare, come irruzione del tema dei “diritti degli ultimi” e del recupero del senso di giustizia in una campagna elettorale altrimenti centrata solo su altri aspetti, quantunque rilevanti. Si tratta di evitare l’impunità per gli autori di gravi maltrattamenti in carcere, anche al fine di togliere ombre dal comportamento corretto dei più. Si tratta d’introdurre il garante nazionale dei detenuti, di abolire i lacci che impediscono di concedere misure alternative e di ridurre il flusso degli ingressi. Si tratta di depenalizzare l’uso personale o terapeutico delle droghe, di scorporare i fatti di “lieve entità” dal complessivo monstrum della normativa antidroga e di predisporre percorsi non detentivi per chi ha iniziato programmi terapeutici. Primi, significativi passi per una inversione culturale. Giustizia: Magistratura Democratica; rinviare l’esecuzione pena se non è garantita dignità Adnkronos, 30 gennaio 2013 Ipotizzare il rinvio obbligatorio dell’esecuzione della pena detentiva quando le condizioni non garantiscano la dignità dei condannati. È una delle proposte per affrontare l’emergenza sovraffollamento contenute in un documento che su pena e carcere, elaborato da Magistratura Democratica, che sarà al centro della discussione del Congresso, che si apre domani a Roma. Per Md si tratterebbe di una ipotesi “razionale e non ispirata da permissività” e la disciplina dell’istituto “potrebbe essere completata con esclusioni della sua applicazione nei casi di condanna per determinate tipologie di reati oppure di espiazione di pene detentive superiori ad una determinata soglia, e con applicazione di cautele per i soggetti ritenuti particolarmente pericolosi. “L’emergenza del sovraffollamento è solo la manifestazione più evidente e drammatica della questione carceri - si legge nel documento - Non è, dunque, immaginabile alcuna seria riforma penitenziaria al di fuori di un più ampio intervento riformatore sul sistema penale, che parta dal ripensamento del catalogo dei delitti e di quello delle pene”. La Costituzione “impone che la pena detentiva sia finalizzata alla rieducazione del condannato e l’ordinamento processuale vuole che il ricorso alla custodia cautelare in carcere sia l’extrema ratio - ricorda Md. L’utilità della pena detentiva non può prospettarsi tutte le volte che essa non sia una risposta necessaria al reato e quando la sua espiazione avvenga in condizioni che, di fatto, non garantiscano alcun serio percorso rieducativo. È, invece, indiscutibile che alcune leggi entrate in vigore negli anni passati abbiano avuto come effetto di produrre più carcere e meno misure alternative al carcere. È ormai urgente superare quella stagione, attingendo a proposte di riforma più e meno recenti, che meritano convinta adesione”. “Ma anche la previsione della pena detentiva quale fulcro dell’intero sistema sanzionatorio deve essere cancellata, prendendo atto dell’esperienza che dimostra che le maggiori percentuali dei recidivi si contano tra coloro che non accedono alle misure alternative. Un nuovo sistema di pene diverse da quella detentiva, peraltro, ha bisogno, per poter funzionare, di una profonda integrazione tra amministrazione della giustizia, rete dei servizi territoriali e privato sociale, volta in modo particolare al recupero dei soggetti appartenenti alle fasce di marginalità sociale”. “La situazione attuale delle nostre carceri chiama in causa non solo la politica, ma anche l’amministrazione penitenziaria - ammonisce Md nel documento - Non si tratta solo di disporre di risorse aggiuntive, ma anche di riqualificare gli interventi, privilegiando i settori del trattamento e del lavoro, della esecuzione penale esterna, della ristrutturazione degli ambienti detentivi, finalizzata, quest’ultima, non solo al recupero di maggiore capienza, ma soprattutto alla realizzazione di un modello detentivo radicalmente diverso da quello attuale, in base al quale la giornata dei soggetti ristretti risulti impegnata nello svolgimento di attività di formazione, di studio o di lavoro e, per effetto del quale, sia effettivamente affermata la legalità nei nostri istituti di pena”. Giustizia: ancora una condanna dalla Corte di Strasburgo, non c’è più certezza del diritto di Valter Vecellio Notizie Radicali, 30 gennaio 2013 La notizia, di una certa importanza e di indubbio significato (e dunque per questo, nessuna evidenza su notiziari e giornali?), è che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha ritenuto di accogliere la denuncia di un detenuto italiano, Bruno Cirillo, recluso nel carcere di Foggia; Cirillo ha dichiarato di essere stato vittima della violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sul divieto di trattamenti degradanti e disumani. La denuncia si riferisce a un’insufficienza di cure ricevute per la paralisi parziale di cui soffre il detenuto. La Corte ritiene “ricevibile” la richiesta, e conferma che c’è stata violazione dell’articolo 3 della Convenzione; di conseguenza impone allo Stato di versare all’imputato nei tre mesi successivi alla data in cui la sentenza sarà diventata definitiva la somma di 10mila euro per danni morali più tremila per le spese. La Corte ritiene che “le autorità abbiano mancato al loro obbligo di assicurare al richiedente il trattamento medico adatto alla sua patologia”; considera quindi che “la prova che egli ha subito a causa di ciò ha superato il livello inevitabile di sofferenza inerente alla detenzione e ha costituito un trattamento inumano o degradante”, così come inteso dall’articolo 3 della Convenzione. La Corte ritiene che “le autorità abbiano mancato al loro obbligo di assicurare al richiedente il trattamento medico adatto alla sua patologia”, quindi “la prova che egli ha subito a causa di ciò ha superato il livello inevitabile di sofferenza inerente alla detenzione e ha costituito un trattamento inumano o degradante”. Si potrà obiettare che queste condanne cominciano a essere frequenti; che anzi, se si esaminano le sentenze emesse dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la maggior parte di condanne riguarda inadempienze gravi consumate dal nostro paese; e se queste sentenze e condanne non sono molte di più, ciò probabilmente lo si deve al fatto che tanti non sanno che esiste questa possibilità di rivalersi quando un nostro diritto viene calpestato. Ma è da credere che se accadesse qualcosa di simile a quello che si vede nei telefilm e film americani, quando all’atto dell’arresto si viene avvertiti che quello che si dirà potrà essere utilizzato e si ricorda il diritto di tacere, e cioè ogni detenuto venisse informato dei suoi diritti, si verrebbe letteralmente travolti da ricorsi, sentenze, condanne di risarcimento. Ed è proprio qui, la notizia che non fa “notizia”. E che non faccia “notizia”, potrebbe/dovrebbe costituire ulteriore “notizia”; e naturalmente non la fa. Ha dunque ragione Guido Rossi, che sul “Sole 24 Ore” del 20 gennaio scorso annota: “In questa stagione elettorale, insieme ad un notevole degrado non solo lessicale, ma anche di contenuti programmatici da parte di vari contendenti, si prospettano all’attenzione dei cittadini ricette di ogni sorta per il ‘buon governò economico post elezioni, mentre poche appaiono le ricette a difesa dei diritti”. Ed è sempre Rossi, non Marco Pannella o un altro “estremista” radicale, a scolpire nel citato editoriale che il nostro Paese soffre di una malattia che è decisamente peggiorata nel tempo: “la mancanza di certezza del diritto”. E sconsolato rileva che “non è solo in discussione la sovrabbondanza delle norme che riguardano i cittadini e le imprese, quanto piuttosto l’assoluto disordine nella loro applicazione…”. E ancora: “…La grave conseguenza è che la stessa certezza del diritto soggiace alla regola del più forte in un sistema che è sempre meno gerarchico e sempre più di relazione, con corrivi e inquietanti riflessi con il mondo dell’informazione…”. Rossi infine ricorda come “i conflitti nascono con eguale devastazione della democrazia fra poteri riconosciuti dello Stato, non solo e non tanto tra i tre maggiori, che tendono ad invadere reciprocamente il campo altrui, ma in misura ancor peggiore tra organi indipendenti, deputati a vigilare e non a perseguire volontà di potere, a tutto danno di un sistema civile ed economico, travolto e impossibilitato a crescere dall’incertezza del diritto e dal conflittuale dominio di tutte le ‘società parzialì”. L’articolo è da ritagliare e conservare. Gli addetti agli uffici stampa e i “consiglieri” di Pierluigi Bersani e di Silvio Berlusconi, di Mario Monti e di Antonio Ingroia, di Roberto Maroni e di Nichi Vendola possono però omettere di farlo. Altro, a quanto pare, sembra essere materia della campagna elettorale; e nessuno sembra anche solo sognare di chieder loro conto di quanto accade. Con buona pace di Rossi e nostra, che concordiamo con la sua analisi (si fa per dire: ci si augura che di questo tipo di pace né Rossi né noi, se ne abbia mai). Giustizia: no al carcere che spegne l’uomo, la sentenza Ue rilancia il dibattito sulla pena Il Denaro, 30 gennaio 2013 Redimere e non spegnere l’umanità di coloro che hanno commesso reati e che devono pagare il loro debito con la collettività: sarebbe questo un obiettivo utile per l’intera collettività, ma che si scontra con una realtà spesso drammatica. Su iniziativa della Onlus “Il Carcere Possibile” (presieduta dall’avvocato Riccardo Polidoro) e della Camera Penale di Napoli, si svolge domani a Napoli un incontro di studi per discutere della recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che, nel condannare lo Stato italiano al risarcimento dei danni nei confronti di alcuni detenuti, invita a risolvere i problemi legati al sovraffollamento entro un anno. Giuristi a confronto L’evento, organizzato unitamente al Consiglio forense di Napoli, all’Università degli Studi di Napoli L’Orientale, alla Camera Penale di Napoli (di cui è presidente Domenico Ciruzzi) e all’Unione Giovani Penalisti (presieduta da Demetrio Paipais), si terrà con inizio alle ore 15.30, presso il Palazzo du Mesnil, sede del rettorato de “L’Orientale, in Napoli, alla Via Chiatamone. In dettaglio la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato l’Italia per il trattamento inumano e degradante di sette carcerati detenuti nel carcere di Busto Arsizio e in quello di Piacenza. I sette detenuti che hanno presentato ricorso per il sovraffollamento delle celle dei carceri di Busto Arsizio e Piacenza avranno ora diritto a un risarcimento, da parte dello Stato italiano, di 99.600 euro per danni non materiali. Quattro dei sette detenuti avranno inoltre diritto a un risarcimento di 1.500 euro ciascuno per il rimborso delle spese affrontate nel procedimento. Allarme fondato “Questa pronunzia - spiega Domenico Ciruzzi, presidente della Camera penale di Napoli - dimostra che i nostri allarmi sono fondati e in qualche modo premia anche i nostri sforzi nel denunciare la drammatica situazione di Poggioreale. È un motivo in più per mandare avanti la nostra battaglia con ancor maggiore impegno”. Cappellano a Poggioreale Ma i problemi sul tappeto restano e pesano come macigni. “In carcere si entra dopo che si è commesso un reato, dal carcere si esce dopo che si è subìto un reato”, sintetizza don Franco Esposito, cappellano del carcere di Poggioreale e direttore dell’Ufficio Diocesano di Pastorale Carceraria, voluto dal cardinale Crescenzio Sepe. Ad aggravare la situazione di Poggioreale c’è poi il taglio ai fondi per la manutenzione, passati dai 110mila euro del 2011, ai 55mila per il 2012. In questo contesto le attività di lavoro, di svago e per il reinserimento sociale dei detenuti sono ormai ridotte al lumicino. “Su 2.800 reclusi a Poggioreale - ricorda il cappellano - almeno duemila sono poveri disgraziati che potrebbero dare un contributo positivo per la società, se solo trovassero un compagno capace di indirizzarli lungo la loro strada”. Don Franco, attraverso gli scritti raccolti in “Liberi di pregare” (titolo che ricorda il nome dell’associazione da lui fondata: “Liberi di Volare”) ha dimostrato come e quanto si possano amare le persone detenute. Una scelta d’amore che non si ferma al conforto spirituale, pur importante, ma che si traduce in azioni concrete. Don Franco, per esempio, sostiene il progetto di una casa di accoglienza per detenuti in permesso o ai domiciliari e che non hanno una famiglia che possa ospitarli. La struttura dovrebbe sorgere in Piazza del Carmine, ristrutturando alcuni locali messi a disposizione della Diocesi. E ancora, “abbiamo realizzato un laboratorio artigiano di bigiotteria nella sona del centro antico - racconta padre Esposito - dove detenuti a noi affidati dal Tribunale di sorveglianza possano imparare un mestiere”. Il progetto è destinato a svilupparsi: il laboratorio dovrebbe trasferirsi in locali più ampi e adeguati in via De Gasperi, dove potrebbe anche essere insegnata la falegnameria. Ma c’è anche la necessità di sostenere le famiglie dei detenuti, che spesso si trovano in gravi condizioni di disagio materiale: su questo versante l’associazione “Liberi di Volare” cura la distribuzione di viveri per circa trecento famiglie. Forse è una goccia nel mare, ma tuttavia è il segno di una testimonianza, di un esempio che potrebbe essere imitato anche da altre strutture che operano nel sociale. Volontariato in rete Ma come va organizzato oggi il volontariato su un fronte così difficile come quello del sostegno ai carcerati? “Il volontariato - risponde padre Franco Esposito - se vuole avere un ruolo sempre più incisivo e importante in questa realtà complessa che è il mondo penitenziario, deve trovare nuove strategie, deve anzitutto organizzarsi in rete: non è più il tempo del singolo volontario che va in carcere per compiere la sua opera buona. In carcere il volontariato è chiamato ad essere un ponte tra il dentro e fuori le mura, deve essere per il detenuto un punto di riferimento positivo, al quale rivolgersi per confrontarsi e trovare ascolto. Proprio per questo - aggiunge il cappellano di Poggioreale - il nostro centro diocesano di pastorale carceraria ogni due anni organizza un corso di formazione per coloro che desiderano svolgere questo servizio. E per tutti i volontari si tengono incontri di spiritualità e di verifica”. Il rapporto Antigone Le cifre sul disagio carcerario sono più eloquenti di tanti discorsi. Maglia nera in Europa per la condizione degli istituti carcerari: è questo uno dei primati negativi dell’Italia. Il tasso di sovraffollamento delle carceri italiane, secondo l’ultimo rapporto di Antigone, l’associazione che si batte per i diritti nei penitenziari, è del 142,5%, dunque ci sono oltre 140 detenuti ogni 100 posti letto, mentre la media europea è del 99,6%. Rispetto a questi numeri record ci sono regioni che statisticamente stanno anche peggio: la Liguria è al 176,8%, la Puglia al 176,5%, il Veneto a 164,1. Il principale istituto napoletano, Poggioreale, è a +64%”. E ci sono casi limite, in cui il numero dei detenuti è più che doppio rispetto ai posti regolamentari, come nel carcere messinese di Mistretta (269%), a Brescia (255%) e Busto Arsizio (251%). In questi due istituti, come in altri del Nord, la presenza di stranieri è superiore a quella degli italiani. A San Vittore (il carcere di Milano) su 100 detenuti 62 sono stranieri, a Vicenza 65. Le percentuali più alte di stranieri fra i detenuti si registrano in Trentino Alto Adige (69,9%), Valle d’Aosta (68,9%) e Veneto (59,1%). Le più basse in Basilicata (12,3%), Campania (12,1%) e Molise (11,8%). E intanto il fenomeno dei suicidi in carcere si aggrava. Ancor più allarmante lo scenario se ci si riferisce ai minori, anche se nell’istituto minorile di Nisida, grazie all’impegno del direttore Gianluca Guida, sono stati realizzati corsi formativi, per esempio di cucina e ristorazione, e si è data la possibilità ai giovani reclusi di collaborare alla realizzazione artistica del calendario 2013 della Polizia di Stato. “Un’esperienza - racconta Maurizio Masciopinto, dirigente superiore di polizia e direttore relazioni esterne e cerimoniale del Dipartimento della Pubblica Sicurezza - che è servita a superare diffidenze consolidate e ad aprire il dialogo”. Giustizia: Bernardini (Ri); sono migliaia i detenuti che otterrebbero un risarcimento… di Luigi Erbetta www.clandestinoweb.com, 30 gennaio 2013 La Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato ancora una volta l’Italia per le condizioni di un detenuto, malato, nel penitenziario di Foggia a cui non sono state garantite le cure adeguate. Nonostante per il nostro Paese non è la prima e non sarà l’ultima condanna a causa delle condizioni dei detenuti in carcere, la politica non prende alcun provvedimento. Ne abbiamo parlato con l’onorevole Rita Bernardini, deputato dei Radicali, con cui abbiamo discusso anche della vicenda legata alla bocciatura della lista Amnistia Giustizia e Libertà per le elezioni regionali nel Lazio. Come commenta l’ennesima condanna inflitta dalla Corte di Strasburgo all’Italia per la situazione dei nostri penitenziari? Potrei elencare altri casi come questo, di detenuti che se presentassero ricorso alla Corte di Strasburgo otterrebbero un risarcimento per la mancanza di cure. A Rebibbia un uomo ha le arterie femorali occluse, doveva essere operato un anno fa. Da quando è entrato in carcere è dimagrito 35 chili. Ha le gambe nere e rischia di morire da un momento all’altro perché non è curato a dovere. Un detenuto a Vicenza, invece, ha gravi patologie all’orecchio. Deve sottoporsi continuamente all’asportazione di polipi che si formano. Non ha i denti e ha i canali aperti. Non può mangiare se non pane e acqua. Inoltre ha problemi all’anca. Addirittura la madre non riesce ad avere informazioni sul suo stato di salute, al punto che l’ultima volta ha dovuto chiamare i carabiniere per avere notizie del figlio. Questi sono solo gli ultimi due di migliaia di casi del genere. L’amministrazione penitenziaria scarica le responsabilità all’Asl che ora gestisce la sanità all’interno delle carceri e si finisce che i detenuti, oltre ad essere privati della libertà, vedono venir meno anche il diritto di ricevere cure. Anche la Costituzione italiana, all’articolo 13 comma 4, dice che è punita la violenza fisica e morale alle persone private della libertà. Per questo io sono orgogliosa di aver presentato le liste Amnistia Giustizia e Libertà con cui condanniamo lo Stato criminale, colpevole di violazioni delle leggi italiane e della Convenzione europea sui Diritti dell’uomo. Proprio riguardo alle liste elettorali Amnistia Giustizia e Libertà, come commenta l’esclusione dalle elezioni per la regione Lazio? Al di là della legge assurda, ci troviamo di nuovo di fronte all’arroganza dei giudici, in questo caso della Corte d’Appello. L’unica donna in eccesso nella lista ha ritirato la sua candidatura troppo tardi. Ci sono casi che hanno fatto giurisprudenza e in situazioni simili si sono prese decisioni diverse. Di solito quando non si è in presenza di reati si tende ad agevolare la presentazione delle liste. In questo caso, invece, i giudici si sono attaccati a cavilli burocratici che potevano essere facilmente superabili. Oltre alla politica lei continua a portare avanti le sue battaglie. Si. Mi sono recata a Racale, in provincia di Lecce, dove, insieme a Andrea Triscinoglio, Lucia Spiri e Christian Barbato inauguriamo il primo Social Cannabis Club. Qui un giovane sindaco, Donato Metallo ci ha messo la faccia e ha promosso l’iniziativa per i malati, autorizzando, nel suo comune, l’auto coltivazione della marijuana per fini terapeutici. In questo caso si parla di malati di sclerosi multipla, ma la cannabis è utile per curare diverse patologie. Questa iniziativa di disobbedienza civile mira a colpire il cuore e l’intelligenza della politica. La legge italiana prevede l’accesso a farmaci ottenuti dalla cannabis per ragioni terapeutiche ma per questioni burocratiche la commercializzazione è sempre stata negata, costringendo coloro i quali ne hanno bisogno a rivolgersi a strutture criminali. Giustizia Dap; esecutivi “circuiti regionali”, differenziano istituti in base tipologia detenuti Adnkronos, 30 gennaio 2013 Differenziare le carceri non solo in relazione alla posizione giuridica dei detenuti (imputato - condannato), ma anche al loro livello di pericolosità, sulla base del titolo del reato ascritto, del fine pena e dei risultati emersi nel corso dell’osservazione. È il piano messo a punto dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e dai Provveditori (gli organi regionali dell’Amministrazione) per arrivare a una distribuzione omogenea dei detenuti che “agevoli - si legge in una nota - il potenziamento delle attività trattamentali e favorisca il complessivo miglioramento delle condizioni detentive; e, di riflesso, le stesse condizioni di lavoro del personale penitenziario”. Il progetto nasce sulla base delle linee guida emanate con la circolare n.0206745 del 30 maggio 2012 dal Dap, di cui si discuterà domani alla presenza del Capo Dipartimento per rendere esecutivo il piano dei circuiti regionali. “Il lavoro che dovrà portare alla modifica della geografia penitenziaria, iniziato nel mese di settembre - prosegue la nota - e che ha visto impegnati in un lavoro sinergico e serrato i responsabili degli Uffici dipartimentali e i Provveditori regionali, vede la sua conclusione nell’incontro di domani per la messa a punto degli ultimi tasselli del piano esecutivo dei circuiti regionali”. Ai Provveditori erano state chieste “proposte concrete per la realizzazione, nel distretto di competenza, di un circuito penitenziario fondato sulla differenziazione degli istituti per tipologie detentive”, sulla base del “principio di territorializzazione”. “I dati statistici - ricorda il Dap - descrivono un quadro nazionale di circa 66mila detenuti, dei quali circa 39mila sono i definitivi e tra questi oltre 10mila hanno un residuo pena di un anno, 4.046 un fine pena entro i 18 mesi, e per oltre 8mila il fine pena è stabilito nei tre anni. Ventimila persone, quindi, che potrebbero usufruire di misure alternative a vario titolo, dall’affidamento in prova alla semilibertà alla detenzione domiciliare”, spiega il Dap. Questi dati sollecitano a razionalizzare il sistema “se si intende migliorarne l’efficienza e l’efficacia, perchè - continua l’Amministrazione - solo così potranno modularsi e incentivare le iniziative trattamentali in relazione alle diverse specificità e bisogni, conformare le progettazioni architettoniche e diversificare gli spazi, ottimizzare le risorse professionali e finanziare ripartendole con più oculatezza, valutare diverse modalità di controllo adeguandole ai livelli di pericolosità, come la sorveglianza dinamica”. “Un’operazione la cui lampante logicità trova fondamento ulteriore nel dettato normativo e per questo abbiamo voluto definirla una Rivoluzione normale perchè costruita sulla obiettività dei dati e nella previsione di legge”, chiarisce la nota. Tuttavia non si deve sottovalutare “la complessità e le difficoltà dell’operazione, nè negare che possa essere utile un aumento di risorse o l’opportunità di scelte legislative che armonizzino il quadro normativo presente. La complessità però - ammette il Dap - non può giustificare neppure una rinuncia all’azione procrastinandola in un futuro indefinito, bensì suggerire accortezza e gradualità negli interventi e sollecitare uno sforzo unitario di tutte le componenti dell’Amministrazione verso un obiettivo condiviso”. Il progetto “così definito sarà reso noto con iniziative mirate e diffuse non solo all’interno dell’Amministrazione, ma rivolte anche a tutte le componenti sociali e istituzionali - assicura il Dap - dagli enti locali al volontariato, al mondo dell’associazionismo alle associazioni forensi e al contributo dialettico e costruttivo delle forze sindacali”. “La sicurezza, che passa in maniera determinante anche attraverso un sistema penitenziario in grado di ridurre la recidiva, di offrire concrete possibilità di reinserimento sociale, superando la visione carcero - centrica a favore dell’ampliamento delle misure alternative - conclude la nota - è un tema comune a tutte le forze operanti sul territorio con le quali intendiamo aprire tavoli di discussione e confronto per trovare soluzioni idonee e concrete e risolvere quella che il Presidente della Repubblica ha definito una questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile”. Giustizia: Pagano (Dap), ok a piano “circuiti regionali”, ma ora serve l’aiuto della società Adnkronos, 30 gennaio 2013 “Siamo a una svolta: vogliamo dare sostanza e piedi perchè le misure alternative possano camminare. Il crimine si combatte anche in questo modo”. Lo dice all’Adnkronos il vicecapo del Dap, Luigi Pagano, al termine dell’incontro con i 16 provveditori (gli organi regionali dell’Amministrazione Penitenziaria), che si è tenuto all’Istituto superiore di studi penitenziari, a Roma, per presentare la revisione dei circuiti regionali. Il progetto nasce sulla base delle linee guida emanate dal Dap con la circolare del 30 maggio 2012. “È l’inizio di una rivoluzione normale - aggiunge Pagano - occorre creare condizioni per il trattamento dei detenuti e per il reinserimento sociale attraverso le misure alternative. Da parte dei provveditori - assicura - c’è massima disponibilità. Il personale che lavora all’interno delle carceri, agenti penitenziari ed educatori, attende di poter iniziare a lavorare con le nuove direttive”. “Non possiamo aspettare il futuro - rimarca - dobbiamo lavorare nell’oggi. È indispensabile però il contributo della società civile: se questo non avviene, è la stessa società esterna che preferisce avere un carcere chiuso e improduttivo. Ce la stiamo mettendo tutta - sottolinea il vice capo del Dap - per rendere esecutivo il piano dei circuiti regionali e differenziare gli istituti in base alle tipologie detentive”. “Siamo stufi - spiega Pagano - di essere additati come responsabili del degrado delle carceri. Ci sono tante iniziative importanti che possiamo e vogliamo far conoscere. Noi siamo i gestori delle carceri, ma a questo progetto devono partecipare tutti, dagli enti locali alle regioni, dal volontariato al terzo settore”. Il piano messo a punto dal dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria e dai provveditori punta a differenziare le carceri non solo in relazione alla posizione giuridica dei detenuti (imputato - condannato), ma anche al loro livello di pericolosità, sulla base del titolo del reato ascritto, del fine pena e dei risultati emersi nel corso dell’osservazione. L’obiettivo, ribadisce Pagano, “è arrivare a una distribuzione omogenea dei detenuti che agevoli il potenziamento delle attività trattamentali per tutti i detenuti e favorisca il miglioramento delle condizioni detentive e, di riflesso, il lavoro del personale penitenziario”. “I dati statistici - ricorda il Dap - descrivono un quadro nazionale di circa 66.000 detenuti, dei quali circa 39.000 sono i definitivi. Tra questi, oltre 10.000 hanno un residuo pena di un anno, 4.046 un fine pena entro i 18 mesi, e per oltre 8.000 il fine pena è stabilito nei tre anni. Ventimila persone, quindi, che potrebbero usufruire di misure alternative, dall’affidamento in prova alla semilibertà alla detenzione domiciliare”. Dati che spingono a “razionalizzare il sistema se si intende migliorarne l’efficienza e l’efficacia”, perchè “solo così si potranno incentivare le iniziative trattamentali in relazione alle diverse specificità e bisogni, conformare le progettazioni architettoniche e diversificare gli spazi, ottimizzare le risorse professionali e finanziarie ripartendole con più oculatezza e valutare diverse modalità di controllo adeguandole ai livelli di pericolosità, come la sorveglianza dinamica”. Giustizia: ex Presidente Consulta Flick; detenzione solo per reati gravi e soggetti pericolosi Ansa, 30 gennaio 2013 “Il carcere oggi è una discarica sociale, la cui popolazione è composta per il 30% da tossicodipendenti e un altro 30% da extracomunitari. Tutto fa tranne che favorire il recupero, il reinserimento e la riabilitazione”. Con queste premesse Giovanni Maria Flick, ex ministro della Giustizia nel primo governo Prodi ed ex presidente della Corte Costituzionale, ritiene che al carcere “si debba ricorrere solo nei casi di gravi reati o per trattenere individui pericolosi”. Flick lo ha detto dall’alto della sua esperienza e nel corso di una assemblea elettorale del centro democratico per il quale è candidato, nell’ambito della coalizione di centrosinistra, come capolista al Senato nel Lazio. “Il sovraffollamento delle carceri e la lentezza dei processi sono le due facce di una giustizia negata”, ha aggiunto spiegando di “voler tornare ad occuparmi della giustizia su una base di una prospettiva di concretezza. Dobbiamo ascoltare l’Europa quando mi manda degli ammonimenti sull’economia ma dobbiamo ascoltarla anche quando ci espone il cartellino giallo sulle profonde inefficienze del nostro sistema di giustizia”. Giustizia: Ferrante (Pd), riforma delle carceri preveda anche abolizione ergastolo ostativo Agenparl, 30 gennaio 2013 “Durante questa campagna elettorale si sta parlando realmente poco della situazione delle carceri italiane, indegna di un paese civile. Occorre invece affrontare il tema, perchè occorre adoperarsi per superare sia la disastrosa legge Fini-Giovanardi, causa di un utilizzo superfluo della carcerazione, e cancellare l’istituto dell’ergastolo ostativo, una palese violazione dell’articolo 27 della Costituzione, secondo cui le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, e non al suo annichilimento.” Lo dichiara il senatore del Pd Francesco Ferrante, che ha visitato oggi il carcere di Caserta. “Il carcere di Caserta, il più piccolo della Campania, in confronto ad altri istituti penitenziari italiani offre grazie anche alla direzione e agli agenti di custodia condizioni relativamente più dignitose ai reclusi, sebbene sconti anch’esso problemi strutturali. Ma al di là di questi aspetti anche nel carcere casertano ci sono un buon numero di detenuti che stanno scontando un reale “fine pena mai”, ovvero potranno uscire dal penitenziario solo il giorno della loro morte. È un paradosso terribile della nostra giustizia, che se da un lato viene accusata di una certa mancanza di severità, d’altro canto si accanisce su alcuni, venendo meno alla finalità della pena, ovvero il reinserimento nella società. Su 1.539 ergastoli attualmente in vigore in Italia, di questi 1.200 sono ostativi, su una popolazione carceraria di 67.961 detenuti”. “Ricondurre il sistema carcerario in una situazione sostenibile dal punto di vista dell’accoglienza e restituirgli la funzione di recupero sono due esigenze di riforma civile per il nostro Paese, che la politica deve avere come obiettivo prossimo” - conclude Ferrante. Giustizia: Bersani (Pd); carceri italiane sono una vergogna, aumentare misure alternative di Francesca Trevisi Vita, 30 gennaio 2013 Il candidato premier del Pd si impegna, in visita al penitenziario di Padova, “all’introduzione misure alternative, percorsi di istruzione, formazione, lavoro, interventi per il personale e gli operatori e il costante dialogo con i soggetti sociali che si occupano di questi problemi. Il lavoro delle cooperative sociali all’interno delle carceri Italiane è un piccolo faro che indica una strada precisa che si può e si deve seguire”. A parlare, di fronte al gremito auditorium della Casa di Reclusione di Padova, è Nicola Boscoletto, presidente del Consorzio Rebus. Da diversi anni grazie al consorzio, un centinaio di detenuti lavora regolarmente nei laboratori gestiti all’interno dell’Istituto di pena, divenuto famoso per il panettone, vera e propria gourmandise prodotta nella pasticceria del carcere. Ad ascoltare le richieste che arrivano in piena campagna elettorale dalla popolazione carceraria, c’è il candidato premier del Pd Pierluigi Bersani in visita a Padova martedì 29 gennaio. “Sono i numeri a parlare”, attacca Boscoletto: “su 66.000 detenuti in Italia, possono accedere al lavoro regolare in carcere solo 800. 500 possono uscire a lavorare in base all’art. 21 e 800 sono in regime di semilibertà. La recidiva per chi non lavora è del 90 per cento. Chi ha avuto la possibilità di lavorare in carcere invece, quando esce non delinque più: la recidiva scende all’1 per cento. Un detenuto costa allo Stato 250 euro al giorno, se lavorassero tutti potrebbero partecipare al pagamento della loro detenzione e abbassare drasticamente i costi. Chiediamo di investire in questa direzione: aumentare il lavoro reale con percorsi di formazione e professionalizzazione nelle carceri, unica possibilità per scontare la pena recuperando e restituendo dignità alla persona”. Sovraffollamento delle carceri, disagio della popolazione carceraria (detenuti e operatori costretti a vivere in condizioni drammatiche) iter processuali troppo lunghi, inefficacia della pena, mancanza di misure alternative alla detenzione: da Padova si leva un appello perché il problema carcere non resti uno slogan e il nuovo governo prenda impegni reali. Il direttore della Casa di reclusione di Padova chiede la revisione del sistema penale, l’introduzione di misure alternative per evitare la reclusione per i reati che creano un modesto allarme sociale, l’introduzione di percorsi di lavoro, formazione, istruzione per facilitare il reinserimento dei detenuti nella società civile e favorire la diminuzione della recidiva. Il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Venezia Giovanni Maria Pavarin ne fa un problema di atteggiamento culturale e invita a passare dal concetto di “pena certa ed effettiva” a quello di “esecuzione penale certa ed effettiva”, sottolineando come migliorare le condizioni di vita della popolazione carceraria, una comunità di 66 mila persone, sia un’impresa concretamente possibile a patto di abbandonare i retaggi culturali del passato. Infine propone di consentire l’accesso del volontariato agli uffici del Tribunale di sorveglianza, che, sfiancati dalla mole di lavoro, necessitano di supporto. La polizia penitenziaria definisce nel suo appello “disumane” le condizioni del carcere e sottolinea come si potrebbero risolvere i problemi di capienza con il rimpatrio della popolazione carceraria extracomunitaria e ricorrendo a soluzioni alternative, come le comunità terapeutiche per i detenuti dietro le sbarre per i reati di droga. “Daremo impulso normativo per rendere possibile questo percorso tracciato oggi”, chiude la mattinata Bersani raccogliendo tutti gli appelli, “ricorreremo a interventi strutturali per risolvere il vergognoso tema delle carceri in Italia, ricorrendo all’introduzione misure alternative, percorsi di istruzione, formazione, lavoro, depenalizzazione di alcuni reati, interventi per il personale e gli operatori e il costante dialogo con i soggetti sociali che si occupano di questi problemi”. Giustizia: Berlusconi (Pdl); carceri in condizioni inaccettabili, limitare carcere preventivo Agi, 30 gennaio 2013 Silvio Berlusconi critica la situazione che si vive nelle carceri italiane, spiegando che “c’è un’urgenza”. In un’intervista all’agenzia Vista, l’ex premier se la prende con il “troppo” ricorso da parte dei pm alla carcerazione preventiva: “addirittura si è scoperta la possibilità di una truffa ai danni di un ente e si mettono in carcere 16 persone, in un carcere che li ospita al pari degli altri già condannati che scontano una pena, carceri che non sono soltanto vecchi e non in grado di accogliere quel terzo di posti in più rispetto ai 40mila posti letto che esistono - sottolinea il Cavaliere - dove a un cittadino non viene tolta solo la libertà ma anche la dignità, con celle con un solo servizio che dire igienico è un eufemismo, non si può consentire che oltre alla libertà sia tolta anche la dignità e la salute”, conclude Berlusconi. Urgentissimo limitare carcerazione preventiva “Un’altra cosa urgentissima” all’interno della “riforma della giustizia, che io tentai di fare nel 2001-2006, per un anno e mezzo cercai di scrivere una riforma della giustizia ma i vari Fini, Follini, Casini e compagnia cantante me lo impedirono, è introdurre una profonda modificazione, consentendo l’arresto per un cittadino soltanto in casi di reati gravi, violenti, di sangue”. Lo afferma Silvio Berlusconi in un’intervista all’agenzia Vista, in merito alla carcerazione preventiva. Per l’ex premier, in tutti gli altri casi al cittadino può essere richiesta una cauzione, come accade nel sistema americano”. Giustizia: madre Aldrovandi; il carcere non si augura a nessuno… ma a quegli agenti sì Tm News, 30 gennaio 2013 “Vengo a sapere che i poliziotti che hanno ucciso mio figlio torneranno in servizio una volta scontata la pena e trovo decisamente assurdo che vada così”. Queste le parole su Radio24 di Patrizia Moretti, madre di Federico Aldrovandi, il ragazzo deceduto nel 2005 dopo un fermo di Polizia. “Non accetto che persone che hanno ucciso un ragazzo senza motivo - ha continuato la madre del ragazzo - e che stanno andando in carcere, possano tornare a indossare la divisa e a svolgere un’attività così delicata e pericolosa. Almeno per evitare di metterli nella stessa condizione di ripetere quello che è già accaduto. La vivo come un’offesa e un insulto alle persone oneste dentro la Polizia. Se le regole consentono a questi individui di rimanere dentro alle forze dell’ordine, sono regole sbagliate. Se lo Stato non assumerà provvedimenti, è come se avallasse il loro comportamento, il che non mi piace proprio”. “Riguardo alla sentenza - ha aggiunto la madre di Federico - sono invece contenta che il Tribunale di Sorveglianza abbia preso la decisione di non concedere loro misure alternative e proprio per il fatto che indossano una divisa. Meritano il carcere, e chi più di loro? Il carcere non si augura a nessuno ma a loro sì. Li ho incrociati alcune volte in giro per strada, in città. È stato brutto. Paolo Forlani, uno dei condannati, l’ho incontrato in un bar, mi è mancato il fiato a vedere l’assassino di mio figlio e quando poi l’ho scritto sul blog lui mi ha querelato”. Lettera ad Ingroia su reato di tortura, carceri e forze dell’ordine di Marco Trotta Il Fatto Quotidiano, 30 gennaio 2013 Caro Antonio Ingroia, il suo arrivo a Bologna si annuncia come l’occasione per spiegare il programma di Rivoluzione Civile. Per questo spero che tra le tante risposte che di appresta a dare ce ne sia anche qualcuna per un appello che da qualche settimana le è stato rivolto pubblicamente, senza avere avuto a tutt’oggi risposta, dove si chiede: il varo di una legge che preveda il reato di tortura (come fattispecie giuridica imprescrittibile quando commessa da pubblici ufficiali); la definizione di regole per consentire la riconoscibilità degli operatori delle forze dell’ordine; l’istituzione di un organismo “terzo” che vigili sull’operato dei corpi di polizia; l’impegno alla esclusione dell’utilizzo nei servizi di ordine pubblico di sostanze chimiche incapacitanti e l’impegno circa una moratoria nell’utilizzo dei gas; l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sui fatti avvenuti nel 2001, durante il vertice G8 di Genova e, precedentemente, il Global Forum di Napoli; la revisione del Codice Rocco e dei reati, come l’introduzione dei siti militarizzati di interesse nazionale, costruiti per criminalizzare il conflitto sociale e le lotte per la ripubblicizzazione dei beni comuni. Nel Paese ci sono quasi ventimila fascicoli su reati come resistenza e oltraggio oppure devastazione e saccheggio applicabili con una insopportabile discrezionalità per infliggere pene sproporzionate agli attivisti politici; la revisione dei metodi di reclutamento e di addestramento per chi operi in ordine pubblico e la revisione delle funzioni di ordine pubblico per Guardia di Finanza, Polizia Penitenziaria e Corpo Forestale dello Stato, l’Italia è un’anomalia unica al mondo con cinque organi nazionali di Polizia con compiti di ordine pubblico; la revisione delle leggi proibizioniste che hanno riempito le carceri di povera gente aumentando a dismisura il Pil delle narcomafie e dei trafficanti di esseri umani. Tra i firmatari Patrizia Moretti, Lucia Uva, Lorenzo Guadagnucci, Enrica Bartesaghi e Haidi Gaggio Giuliani. Tutte persone che a vario titolo sono state vittime della cosiddetta “mala polizia”, ma che a ben guardare hanno subìto come molte altre soprattutto l’irresponsabilità e l’indolenza della politica e delle istituzioni che hanno lasciato che di questi temi si discutesse solo a margine di eventi trattati come questioni di ordine pubblico o cronache giudiziarie balzate all’onore della cronaca, lasciando senza risposta - negli anni - altri appelli, raccolte di firme e prese di posizione pubbliche. Ed invece, oggi, queste riforme ed iniziative di legge non solo non sono più prorogabili, ma in un momento nel quale anche i diritti più elementari sembrano essere messi in discussione, rappresentano uno dei pochi modi con i quali misurare il grado di civiltà di un paese, la tenuta di garanzie costituzionali che non ammettono deroghe. E forse non sarà rivoluzionario, ma anche da qui passa la strada per diventare un paese migliore. Oggi più che mai è un dovere morale che la politica ha verso le vittime come verso gli altri cittadini. Lettere: carcere e affetti, la Consulta - come Ponzio Pilato - se ne lava le mani di Carmelo Musumeci www.carmelomusumeci.com, 30 gennaio 2013 La ricetta di rendere sociale il soggetto antisociale, mettendolo in una situazione asociale, insegnandogli cioè a nuotare fuori dall’acqua, è fallito. Solo nella società si può educare alla società. (Gustav Radbruch) I fatti: la nostra Costituzione sarà anche “la più bella del mondo”, come l’ha chiamata Roberto Benigni, ma per i detenuti e gli uomini ombra è solo carta straccia. Il Magistrato di Sorveglianza di Firenze aveva sollevato questione di legittimità costituzionale alla Consulta per il divieto dei detenuti ad avere rapporti intimi con la propria compagna o compagno, anche per evitare pratiche degradanti. I vari Ponzio Pilato della Consulta con la sentenza n. 301/12 (relatore Giuseppe Frigo) rigettano la questione di legittimità costituzionale perché il Magistrato ricorrente non aveva descritto bene il caso concreto e anche per motivi di esigenza dell’ordine e della sicurezza. Penso che i giudici della Corte Costituzionale si siano comportati come l’azzeccagarbugli de “I Promessi Sposi” del Manzoni, sicuramente formalmente avranno anche ragione, ma in altre occasioni sono stati molto meno farraginosi e cavillosi. La famiglia dovrebbe essere la principale e basilare formazione sociale intermedia perchè costituisce la “prima cellula” della società, andrebbe protetta anche in carcere, perché i diritti di unione civile (o di fatto) dovrebbero (a questo punto il condizionale è d’obbligo) essere protetti dalla Costituzione e dai suoi giudici. Il diritto alla vita privata e familiare di condividere con il proprio compagno o compagna un bacio e una carezza non si dovrebbe perdere entrando in carcere. Io credo che uno Stato abbia il potere di punire, ma non dovrebbe poter impedire per decenni (per gli uomini ombra - gli ergastolani ostativi ad ogni beneficio penitenziario - per sempre) ad un detenuto/a di fare l’amore con la persona a cui vuole bene. Tutto questo non accade negli altri paesi in Europa. Il carcere, troppo carcere, ci rende asociali e trovo ingiusto, irragionevole, punire due persone che si amano perché una di queste ha commesso un crimine. E poi a che serve proibire ad un prigioniero o ad una prigioniera di fare l’amore con la persona che ama? Non è razionale, né umano, far soffrire il delinquente negli affetti per riparare al male che ha fatto. A mio parere il male deve essere compensato con il bene e non con altro male, perché una inutile sofferenza rende le persone ancora più cattive. Penso che “condannare” una persona all’amore sia il modo migliore per “punirla”: peccato che i giudici della Corte Costituzionale non l’abbiano capito e se ne siano lavate le mani, come Ponzio Pilato. Lombardia: Sappe; carceri in situazione critica, 9.300 detenuti con capienza di 6.000 posti Il Velino, 30 gennaio 2013 Un tasso di affollamento costante della popolazione detenuta a fronte di un organico di Polizia Penitenziaria in calo e soluzioni al grave problema del sovraffollamento penitenziario: sono i temi al centro del Consiglio regionale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa Organizzazione sindacale di Categoria, che è in corso di svolgimento a Voghera. A presiederlo è Donato Capece, segretario generale Sappe, con il segretario nazionale Franco Di Dio. “In Lombardia la situazione penitenziaria è particolarmente critica”, commenta Capece. “Attualmente i 19 penitenziari lombardi ospitano oltre 9.300 detenuti a fronte di una capienza regolamentare delle strutture pari a poco più di 6.000 posti. Quasi il 60% dei detenuti presenti sono stranieri. Nelle carceri lavorano, complessivamente, circa 4.200 Poliziotti rispetto ai 5.400 previsti. La carenza di personale di Polizia Penitenziaria e il pesante sovraffollamento determinano conseguenti ripercussioni negative sulla dignità stessa di chi deve scontare una pena in celle affollate e soprattutto di coloro che in quelle sezioni detentive svolgono un duro, difficile e delicato lavorato, come quello svolto dai poliziotti penitenziari”. “L’Amministrazione Penitenziaria sembra vivere in una realtà virtuale e non si rende evidentemente conto della drammaticità del momento, che costringe le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria a condizioni di lavoro sempre più difficili: la situazione penitenziaria è sempre più incandescente e rincorrere la ‘vigilanza dinamica ed i patti di responsabilità con i detenuti, come vorrebbe il Dap, è una chimera: cosa dovrebbero fare tutto il giorno i detenuti, girare a vuoto nelle sezioni?”, prosegue il leader del Sappe. “In carcere quello che manca è il lavoro, che dovrebbe coinvolgere tutti i detenuti dando quindi anche un senso alla pena ed invece la stragrande maggioranza dei ristretti sta in cella 20 ore al giorno, nell’ozio assoluto. “Le carceri restano invivibili, per chi è detenuto e per chi ci lavora. E la vigilanza dinamica dei penitenziari voluta da Giovanni Tamburino, Capo dell’Amministrazione Penitenziaria, e dal Vice Luigi Pagano, per alleggerire l’emergenza carceraria è una chimera. Pensare a un regime penitenziario aperto; a sezioni detentive sostanzialmente autogestite da detenuti previa sottoscrizione di un patto di responsabilità favorendo un depotenziamento del ruolo di vigilanza della Polizia Penitenziaria, relegata ad un servizio di vigilanza dinamica che vuol dire porre in capo ad un solo poliziotto quello che oggi lo fanno quattro o più Agenti, a tutto discapito della sicurezza e mantenendo il reato penale della “colpa del custode”; ebbene, tutto questo è fumo negli occhi. Ribadiamo di non credere che l’amnistia, da sola, possa essere il provvedimento in grado di porre soluzione alle criticità del settore. Quel che serve sono vere riforme strutturali sull’esecuzione della pena: riforme che non vennero fatte con l’indulto del 2006, che si rilevò un provvedimento tampone inefficace a risolvere i problemi”. Lazio: il Garante Marroni; adottare misure necessarie per esercizio diritto di voto detenuti Ristretti Orizzonti, 30 gennaio 2013 “Adottare, per tempo le misure necessarie affinché venga assicurata un’adeguata informazione elettorale ai detenuti nelle 14 carceri della Regione Lazio, garantendo agli stessi la possibilità di esercitare il diritto al voto”. È questo, in sintesi, il senso della lettera inviata, in vista delle consultazioni politiche ed amministrative dei prossimi 24 e 25 febbraio, dal Garante dei Detenuti del Lazio Angiolo Marroni al Provveditore dell’Amministrazione Penitenziaria del Lazio Maria Claudia Di Paolo e ai Prefetti delle cinque province del Lazio per “assicurare la facoltà di voto a tutti i detenuti che ne abbiano diritto”. Nella sua lettera, Marroni ha invitato le istituzioni ad ottemperare tempestivamente “a tutti gli adempimenti logistico - normativi, anche attraverso una fattiva collaborazione con gli Uffici Elettorali dei comuni del Lazio che ospitano gli istituti Penitenziari, affinché venga garantita ai detenuti la possibilità di esercitare un diritto democratico fondamentale”. In base alla normativa, i detenuti possono votare nella carceri in un apposito seggio elettorale. L’esercizio di questo diritto è, però, subordinato ad alcuni adempimenti preliminari: il detenuto deve far pervenire al Sindaco del Comune di residenza, una dichiarazione della volontà di votare nel luogo dove si trova; ciò consente l’iscrizione del richiedente in un apposito elenco e il rilascio della tessera elettorale. La richiesta può arrivare al Sindaco non oltre il terzo giorno antecedente il voto. Nelle prossime ore i collaboratori del Garante saranno nelle carceri per verificare la corretta applicazione delle procedure e per raccogliere informazioni sui provvedimenti adottati per l’istituzione dei seggi nelle carceri, per la verifica della sussistenza del diritto di voto dei soggetti che non lo hanno perduto, per l’affissione delle liste dei candidati e delle modalità di voto. “Quello al voto è un diritto costituzionalmente garantito - ha detto Marroni - Nelle carceri della Regione ci sono decine di reclusi che non hanno perso il diritto al voto e, per questo, è opportuno che si faccia tutto il possibile per garantire loro la possibilità di scegliere la classe politica che governerà il Paese nei prossimi anni”. Puglia: insediato il Tavolo della governance con l’amministrazione penitenziaria regionale www.marketpress.info, 30 gennaio 2013 Insediato, presso la sede della Formazione Professionale, l’organismo permanente di collaborazione e coordinamento interistituzionale denominato “Tavolo di Governance” previsto dall’Accordo Operativo, siglato in data 14.12.2012, dal Presidente Vendola e dal dott. Martone Provveditore Regionale del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Il concetto di “governance” degli interventi per il miglioramento dei servizi per l’inclusione socio - lavorativa dei soggetti in esecuzione penale, come spiegato dall’assessore alla Formazione Professionale, è un metodo per interagire e condividere decisioni che diano risposte ai bisogni di queste comunità. L’occasione ha rappresentato anche il primo incontro di lavoro del tavolo di governance, da cui sono scaturiti importanti segnali operativi per dar seguito all’Accordo: la Presidenza del tavolo attribuita dalla Regione al Prap (Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria) per i prossimi due anni, quale segno di riconoscimento per l’intenso lavoro effettuato in questi anni e l’allargamento ad alcuni dei principali stake holders in tema di politiche di inclusione socio - lavorativa, soggetti produttivi e istituzionali. L’auspicio, espresso dai partecipanti al Tavolo di Governance, è che nel futuro le iniziative rivolte ai soggetti in esecuzione di pena, vengano non solo discusse all’interno di questo organismo regionale permanente di concertazione ma che si individuino al tempo stesso linee operative da mettere in campo che riguardino le politiche sociali, lavorative e abitative. Avellino: il direttore della Caritas Diocesana nominato Garante per i diritti dei detenuti www.cittadiariano.it, 30 gennaio 2013 La Provincia di Avellino comunica che inizierà a breve l’attività del Garante per i Diritti dei Detenuti. Tale figura è stata istituita dall’ente nelle scorse settimane e, attraverso una manifestazione d’interesse, è stato designato nell’incarico il direttore della Caritas Diocesana di Avellino, Carlo Mele, che questa mattina a Palazzo Caracciolo ha incontrato il vice presidente Raffaele Coppola e l’assessore Ermelinda Mastrominico. “Il progetto rappresenta un significativo passo in avanti di civiltà per la provincia di Avellino, che è la prima in Campania ad aver introdotto questa figura all’interno degli istituti di pena - afferma l’assessore provinciale alle Politiche per il sostegno ed alle integrazioni sociali, Ermelinda Mastrominico. L’amministrazione provinciale, sin dal 2009, ha posto le politiche sociali ai primi punti del programma di governo dell’Irpinia ed anche questo risultato conferma l’indicazione che l’esecutivo ha recepito all’atto del suo insediamento - continua Mastrominico, oggi recepita e portata avanti con la stessa determinazione dal vice presidente, Raffaele Coppola. La figura del garante per i diritti dei detenuti punta al miglioramento della qualità della vita dei detenuti all’interno delle strutture carcerarie, preparandoli ad affrontare nuovamente la vita in libertà dopo aver scontato il periodo di detenzione. In provincia di Avellino gli istituti di pena non presentano le condizioni di emergenza che si registrano in alcune carceri italiane, dove il sovraffollamento è diventato addirittura drammatico, tuttavia creare una figura di assistenza rappresenta una garanzia di equilibrio per la serena convivenza. Il garante lavorerà al fianco delle strutture sociali già presenti negli istituti di pena e in sinergia con gli organi che guidano le carceri. Ringrazio la Giunta ed il Consiglio Provinciale per aver assecondato l’idea progettuale e tutti i partner del progetto”. “Tra qualche giorno - spiega Carlo Mele - inizierò l’attività nelle quattro strutture penitenziarie presenti sul territorio provinciale. Per il prossimo 5 febbraio, invece, è prevista a Milano una riunione di tutti i garanti italiani per affrontare il tema del sovraffollamento”. Udine: Magistrato di Sorveglianza; malore fatale in cella… è stato fatto “tutto il possibile” Messaggero Veneto, 30 gennaio 2013 In relazione alla notizia della morte di Savino Finotto, il detenuto di 70 anni colto da malore in cella, sabato 19 gennaio, e deceduto sei ore dopo in ospedale, e del disappunto manifestato dal difensore, avvocato Roberto Michelutti, per il rigetto dell’istanza di detenzione domiciliare da parte del magistrato di sorveglianza, riportiamo di seguito l’intervento dello stesso magistrato che firmò il provvedimento, Lionella Manazzone. “Chiamata in causa dall’articolo del 23 gennaio 2013 sulle circostanze della morte di una persona detenuta presso il carcere di Udine, ritengo doveroso chiarire che un caso in cui è stato fatto tutto ciò che si doveva e si poteva fare è stato presentato come un esempio di mala giustizia e di mala sanità. La rabbia del difensore, avvocato Roberto Michelutti, e lo “sconcerto” della giornalista dimostrano che entrambi non conoscevano i presupposti delle fattispecie giuridiche ed i fatti accaduti. In caso di incompatibilità delle condizioni di salute dei detenuti con il regime detentivo è sempre stata disposta la scarcerazione, molto spesso senza domande della difesa, in quanto situazioni segnalate dalla direzione del carcere al magistrato di sorveglianza che provvede con urgenza. A meno che uno specifico ed importante rischio di consumazione di gravi reati impedisca il ritorno del detenuto sul territorio. Il caso discusso, conosciuto e seguito da più di un decennio a causa di precedenti esecuzioni penali, presentava un elevato rischio di recidiva dati i plurimi e gravissimi delitti commessi, un’esigenza di tutela di diversi soggetti e l’impossibilità dei servizi sanitari e sociali di gestirlo sul territorio. Il rifiuto delle cure proposte ed i suoi comportamenti aggressivi avevano già comportato la revoca della detenzione domiciliare nel 2008. Circostanze tutte richiamate nel provvedimento provvisorio con cui si apre l’articolo che omette, però, di specificare che dovevano essere individuate le condizioni abitative e sanitarie “cui fare riferimento per un’eventuale esecuzione della pena sul territorio”. Proprio per i suoi problemi di salute, il detenuto era stato trasferito dal carcere di Gorizia a quello di Udine dove aveva fatto colloqui con gli operatori sanitari e penitenziari ed era stato visitato dal medico di guardia presente in istituto appena colto da malore ed inviato all’ospedale. Il decreto criticato è stato emesso lo stesso giorno in cui è pervenuta la relazione sanitaria per la delicatezza del caso sebbene non fosse stata segnalata alcuna urgenza. Il difensore dimostra di non conoscere dette circostanze e di non avere preso visione nemmeno degli atti inerenti al suo procedimento. Dichiarazioni false ed offensive sulla presunta grave scorrettezza del lavoro svolto sono state rese pubbliche, dunque, senza avere letto gli atti e senza conoscere la causa del decesso. Prive di ogni riscontro, inoltre, le dichiarazioni circa l’esistenza di precedenti specifici della magistratura di sorveglianza e la “frequente” nomina di consulenti esterni: nomina non avvenuta nel caso di specie e nemmeno nella generalità dei casi”. Sassari: via dall’incubo di San Sebastiano, il sogno del nuovo carcere di Bancali si avvicina di Gabriella Grimaldi La Nuova Sardegna, 30 gennaio 2013 Il sogno del nuovo carcere di Bancali si avvicina: celle a due letti con bagno in camera, palestre, cinema - teatro, tanto verde, laboratori e persino un nido per i bambini. Quanto più quel sogno si avvicina tanto più appare come un incubo la situazione nella casa circondariale di San Sebastiano. Lo ha detto la garante per i detenuti Cecilia Sechi nella sua relazione alla V commissione (Problemi sociali) del consiglio comunale presieduta da Sergio Scavio. Ai consiglieri la garante ha illustrato nei particolari le prospettive dell’apertura della nuova casa circondariale i cui lavori sono praticamente giunti al termine ma anche i rischi legati alla “periferizzazione” di una istituzione che fino ad oggi nel bene (ma soprattutto nel male) è stata al centro della città e quindi dell’attenzione generale. “Bancali è un albergo a cinque stelle - ha commentato riferendo dell’ultima visita alla struttura. Le camere sono raccolte e accoglienti, ci stanno i due letti e non brande a castello, gli spazi comuni sono enormi, le cucine sono già state piazzate e sono modernissime, c’è la chiesa e non mancherà la possibilità di praticare altri culti. Le donne staranno in un padiglione a parte dove sono previsti spazi per attività riabilitative e il nido per i piccoli”. Cecilia Sechi ha anche aggiunto che sono già arrivati gli arredi (letti compresi) e una squadra di detenuti in regime di articolo 21 (lavoro esterno) è pronta a montare i mobili da piazzare nelle celle. Il carcere comprende poi un padiglione destinato ai boss della criminalità organizzata (articolo 41 bis, massima sicurezza) che, si dice, ospiterà circa 90 persone. L’intera struttura invece ha una capacità di 400 posti di cui 14 riservati alle donne. Come tempi di apertura si parla di luglio - agosto (“in un primo tempo speravamo che ci si potesse trasferire a maggio ma la priorità è che i detenuti arrivino in una struttura completa”). Insomma, sarà una altro mondo rispetto a San Sebastiano, una delle prigioni più disastrate d’Italia. Attualmente sono stipati, in celle che arrivano a contenere fino a otto persone, 145 detenuti contro una capienza di 90. Gli spazi sono inesistenti, c’è freddo d’inverno e caldo d’estate. Manca l’acqua per lavarsi e lo spazio vitale per qualunque altra attività. Dei 145 detenuti 50 sono in attesa di giudizio, 18 sono appellanti, 8 ricorrenti e 72 definitivi. Un terzo sono stranieri e il 35 - 40% sono tossicodipendenti (“che non dovrebbero stare in carcere”). Di buono c’è la struttura sanitaria che per fortuna sarà trasferita in blocco a Bancali. Sono in forza un responsabile, nove medici, sei infermieri specializzati e quattro generici. In convenzione con la Asl operano un infettivologo, un ecografista, un diabetologo, un dentista e uno psichiatra (“non ci sono psicotici ma tanti casi di depressione grave dettati dalle condizioni disumane della detenzione”). Se si considera infine che in vista del trasferimento nella nuova struttura di Bancali si sono ridotti al lumicino tutti gli interventi di manutenzione, è facile immaginare con quanta ansia, garante, detenuti e personale stiano aspettando di abbandonare quel luogo di sofferenza nel cuore della città. Modena: Magistrato di Sorveglianza; pochi i detenuti al lavoro e personale insufficiente La Gazzetta di Modena, 30 gennaio 2013 “Nella carenza cronica di attività utili al reinserimento sociale dei detenuti e degli internati”, eccetera. Non potrebbe essere più crudo e vero l’inizio della relazione sullo stato di Modena del Magistrato di Sorveglianza Roberto Mazza. Il magistrato sottolinea in più punti del suo documento che il nostro pianeta carcerario è malmesso e purtroppo ha perso molto del significato originario. Si lavora con poco personale, poca assistenza con carcerati costretti a non fare nulla. Nei tre istituti penitenziari modenesi (Sant’Anna, Saliceta, che però è di fatto chiuso, e Castelfranco), scrive il magistrato, nell’ultimo anno “i posti di lavoro e le ore giornaliere lavorate si sono ulteriormente ridotti rispetto alla già drammatica situazione del periodo precedente”. A Sant’Anna i “lavoranti interni”, oggi gente “fortunata”, sono solo 53 contro i 66 del periodo precedente, 12 i detenuti ammessi al lavoro esterno (a Castelfranco 42 “lavoranti” rispetto ai precedenti 46). La carenza di personale è un fatto stranoto a Modena. Il giudice spiega che a Castelfranco, che ora ospita parte anche delle persone internate a Saliceta, c’è un solo educatore. Venendo al capitolo più delicato, i permessi, Mazza scrive che sono stati 449 gli iscritti al permesso premio (erano 369 nel 2011), 235 i permessi concessi ai detenuti (119 quelli precedenti), 104 le istanze respinte, 165 quelle pendenti (erano solo 13 l’anno prima). E poi: sono state iscritte 12 istanze di “permesso per necessità” (5 l’anno prima), 10 i permessi concessi ai detenuti (2 l’anno prima). Infine, 11 le istanze di licenza per semilibertà (24 quelle l’anno prima), tutte accolte. Altro capitolo che suscita spesso perplessità sono le liberazioni anticipate: a Modena sono state 590 le istanze presentate (619 quelle precedenti); di queste 452 accolte (531 l’anno prima ), 74 rigettate, 24 pendenti. Il Magistrato di Sorveglianza segnala poi che “vi è stato un decremento di istanze di ammissione provvisoria a detenzione domiciliare: 25 in tutto a fronte di 39 dell’anno prima; accolte 4 (contro le 8 del 2011) e rigettate 11 (23). Tre le domande di ammissione provvisoria di semilibertà. In lieve calo di istanze di sospensione di esecuzione pena per l’affidamento in prova ai servizi sociali: 27 le istanze iscritte (38 le precedenti), nessuna finora accolta, 15 rigettate, 7 pendenti. Infine, le istanze di deferimento pena facoltativo accolte sono state 5 su 9. Termoli (Cb): al via le iniziative “Corso per volontari in carcere” e “adotta un detenuto” www.primonumero.it, 30 gennaio 2013 Sono due le iniziative presentate questa mattina, mercoledì 30 gennaio, nella casa canonica della parrocchia di San Timoteo, che saranno portate avanti grazie alla collaborazione dell’Associazione Iktus Onlus, presieduta da don Benito Giorgetta, e dalla direttrice del carcere di Larino Rosa La Ginestra. Si tratta del “Corso di volontariato per i detenuti” e dell’iniziativa “adotta un detenuto”. Il “Corso di volontariato per detenuti”, che prenderà il via il prossimo 6 febbraio alle 19, sarà articolato in 9 lezioni durante le quali quanti decideranno di aderire saranno guidati in un percorso di formazione che ha come obiettivo quello di soddisfare una duplice esigenza: da una parte quella degli aspiranti volontari e dall’altra quella dei detenuti bisognosi. Nell’arco delle lezioni saranno trattati gli argomenti più disparati. Previsti anche due incontri - testimonianza molto particolari da parte di un ex detenuto “circa il volontariato accolto” e di una volontaria in sedia a rotelle che opera in carcere. Al termine del corso sarà rilasciato ai partecipanti un attestato di idoneità che, una volta conseguito, permetterà ai singoli partecipanti, sulla base delle personali attitudini, di pensare (congiuntamente alla direzione carceraria) delle attività concrete e possibili di intervento. “Si tratta di portare la sensibilità e l’attenzione verso il carcere dove molte volte si rischia di rimanere sepolto e emarginato - ha spiegato don Benito - Il carcere, con i suoi ospiti, già lo è per ovvi motivi di sicurezza. È per questo che occorre creare un modo culturale e sociale. Vorremmo cercare di far incontrare i detenuti con i volontari, creando percorsi diversi che permettano ai volontari di trasmettere le loro competenze ai detenuti. Noi siamo soliti ridurre la persona all’errore che ha compiuto, ma l’uomo deve essere identificato attraverso quello che è”. Altra iniziativa è invece quella che permetterà, tramite la donazione mensile di una quota (che può essere anche solo di 5 euro) di “adottare” uno dei detenuti fornendo un sostegno economico. Le quote, versate all’associazione Iktus, saranno date poi a uno degli ospiti del carcere. “Sembra strano, ma molti di loro non hanno i soldi neanche per telefonare”, ha spiegato don Benito. Intanto, la direttrice del carcere ha sottolineato la disponibilità della comunità e di don Benito, con cui la collaborazione dura da due anni (basti pensare alla “Calza del detenuto”). Ed è già possibile iscriversi compilando i moduli disponibili in parrocchia o sul sito parrocchiale www.santimoteotermoli.it. Per informazioni si può contattare Iktus Onlus (0875.706456; 3386258160; mail: info@santimoteotermoli.it) Bologna: riprenderà la consegna di frutta e verdura ai detenuti del carcere della Dozza Redattore Sociale, 30 gennaio 2013 “A breve di nuovo le consegne”, spiega Paolo Mengoli della Caritas. Calia (Asp Poveri vergognosi): “Ci stiamo lavorando. Sistemeremo tutto nel più breve tempo possibile”. A gennaio il servizio si era interrotto dopo 6 mesi Sta per riprendere la consegna di frutta e verdura ai detenuti del carcere bolognese della Dozza. “Stiamo sistemando tutti i dettagli della questione con l’Asp Poveri Vergognosi”, assicura Paolo Mengoli della Caritas Diocesana di Bologna. I particolari dell’accordo non sono ancora conosciuti, così come le tempistiche, ma a quanto si apprende le consegne dovrebbero ripartire “a breve”. “Per il momento - racconta Tommaso Calia di Asp - la frutta e la verdura non sta ancora arrivando ai carcerati. Posso però dire che ci sono stati una serie di incontri per risolvere la questione. La volontà è quella di superare il problema il prima possibile”. Le forniture di frutta e verdura ai carcerati si erano interrotte con l’inizio del 2013, quando la Caritas, dopo 6 mesi di gestione volontaria “e in via eccezionale in sostituzione delle istituzioni”, aveva gettato la spugna per i costi troppo alti. La Regione non ha potuto prendere in carico la consegna per questione normative, il Comune di Bologna per mancanza di fondi, e così il servizio è rimasto in sospeso per tutto gennaio. Finalmente pare intravedersi una soluzione. I costi del trasporto ammontano a circa 160 euro a settimana, mentre i prodotti freschi, fondamentali per detenuti spesso malati e con un’alimentazione povera, arrivano dalle eccedenze donate dall’Unione europea e raccolte a Villa Pallavicini. Torino: Protocollo d’intesa per inserimento nei nidi d’infanzia di bambini figli di detenute Adnkronos, 30 gennaio 2013 Via libera al protocollo d’intesa per l’inserimento nei nidi d’infanzia della Città dei bambini figli di detenute, sottoscritto tra la Città di Torino, la Casa Circondariale Lo Russo-Cotugno di Torino e l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna. Al momento sei bambini, di età compresa tra i sei mesi e i tre anni, saranno accolti in un’unica struttura ma l’accordo prevede l’impegno della Città, nel caso ve ne fosse la necessità, a rendere disponibili altri posti. L’équipe di osservazione e trattamento della sezione femminile ne curerà anche l’inserimento, insieme agli educatori impegnati a lavorare con le madri. I bambini saranno accompagnati dagli educatori che hanno anche il compito di seguirne l’inserimento e restare con loro per tutto il tempo di svolgimento delle attività educative. Ad essi è affidato il delicato compito di stabilire un contatto con le madri e costruire con quest’ultime un rapporto di fiducia necessario per il buon esito dell’inserimento dei piccoli. Rossomando (Pd): rifinanziare progetto per figli delle detenute “La notizia del protocollo d’Intesa per l’inserimento nei nidi d’infanzia di Torino dei bambini figli di detenute, sottoscritto oggi tra la Città, la Casa Circondariale Lo Russo-Cotugno di Torino e l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna è una buona notizia e soprattutto una risposta concreta alle difficili situazioni dei figli delle donne detenute”. Lo dichiara in una nota Anna Rossomando, deputata piemontese del Partito Democratico, componente della Commissione Giustizia e della Giunta per le Autorizzazioni alla Camera dei Deputati, a proposito della questione dei bambini figli di detenute. “Per iniziativa del Partito Democratico il 21 aprile 2011 il Parlamento ha approvato la legge n. 62 che ha affrontato il delicatissimo tema dei bambini costretti a vivere all’interno del carcere perchè figli minori di detenute - continua la deputata. Con questo intervento normativo è stato ampliato il ricorso agli istituti a custodia attenuata denominati Icam; in particolare ne è stato esteso l’impiego alle detenute madri con prole fino a 6 anni. Proprio a Torino era già stata prevista l’istituzione di un Icam che a motivo delle innovazioni introdotte da questa legge ha reso necessario una rivalutazione del progetto iniziale che era stato finanziato dalla Cassa per le Ammende; ad oggi non si hanno notizie del rifinanziamento del progetto. Nella prossima Legislatura mi impegnerò affinchè diventi operativo questo importante progetto”, conclude Rossomando. Prato: “Non dimentichiamole”, servizio di supporto psicologico per le famiglie dei detenuti Adnkronos, 30 gennaio 2013 “Non dimentichiamole” è il nuovo servizio di supporto psicologico per le famiglie dei detenuti dell’istituto penitenziario “Maliseti” di Prato, nato dall’iniziativa dell’Associazione Studi Umanistici Rogersiani e col sostegno degli assessorati alle Pari Opportunità, alla Salute e Politiche Sociali e all’ integrazione. Il servizio si svolgerà ogni venerdì mattina dalle ore 10 alle 13 presso gli spazi del Comune di Prato nella sede del “Laboratorio del Tempo”. L’iniziativa intende rispondere ai disagi che i familiari dei detenuti affrontano a seguito dell’esperienza detentiva di un loro congiunto. Particolare attenzione è volta alle mogli e alle donne in genere delle famiglie dei detenuti, perchè su di loro si concentra il sostegno della famiglia separata dal carcere, con una serie di responsabilità economiche, lavorative e, quando vi sono figli, educative. La moglie del detenuto rischia un’emarginazione sociale che “Non dimentichiamole” vuole scongiurare: la donna può andare incontro ad una condizione di difficoltà che può restituire un senso di identità precaria. Proprio in questa dimensione il progetto “non dimentichiamole” offre il supporto psicologico necessario per appropriarsi delle risorse necessarie per far fronte alle difficoltà quotidiane, grazie al coinvolgimento del personale penitenziario, in particolare del direttore Vincenzo Tedeschi, del comandante commissario Giuseppe Pilumeli, dello psicologo penitenziario Mario Ruocco e di tutti gli educatori che lavorano a contatto col detenuto. “Non dimentichiamole” sarà anche di supporto ai servizi sociali, in sintonia con tutti gli operatori territoriali, che saranno coinvolti in un’ottica di intervento di rete, al fine di ottimizzare le risorse presenti a vantaggio della popolazione coinvolta. All’occorrenza saranno segnalate attività educative alle madri di minori oppure percorsi formativi per facilitare l’intercettazione di un lavoro. Per informazioni sportello “Non dimentichiamole”: venerdì mattina dalle 10 alle 13 al Laboratorio del Tempo, in via Roma, 101 (tel. 0574.1835448). Agrigento: venerdì l’inaugurazione del Reparto Ospedaliero destinato ai pazienti detenuti La Sicilia, 30 gennaio 2013 Venerdì prossimo 1 febbraio la Direzione della Casa Circondariale Petrusa di Agrigento e la Direzione dell’Ospedale “San Giovanni di Dio”, in collaborazione con la Sezione Unuci di Agrigento inaugureranno il nuovo reparto esclusivamente destinato ai pazienti in atto detenuti. Si tratta di una novità assoluta per la città dei Templi che, grazie alla collaborazione fattiva e sinergica tra istituzioni e territorio, offrirà standard di maggiore sicurezza sia all’interno del nosocomio che a livello di ordine pubblico. Inoltre la nuova struttura consentirà ai degenti reclusi una maggiore riservatezza insieme ad un elevato trattamento sanitario. Il reparto è posto al 4° piano del nosocomio di contrada Consolida. Alla cerimonia inaugurale interverrà il direttore della direzione generale dei detenuti e del trattamento del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Dott. Roberto Piscitello, il Provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria dott. Maurizio Veneziano, il direttore generale dell’Azienda sanitaria provinciale Salvatore Messina e il delegato regionale dell’Unuci Generale di brigata Gualtiero Consolini. Sarà presente anche S.E. Mons. Francesco Montenegro, Arcivescovo di Agrigento, il quale benedirà il nuovo reparto ospedaliero per detenuti. Benevento: detenuto somalo tenta il suicidio con una corda rudimentale, salvato da agente Agi, 30 gennaio 2013 Tentato suicidio nella serata di ieri alla Casa Circondariale di contrada Capodimonte. Per cause ancora in corso di accertamento, un uomo di nazionalità somala, detenuto per presunti reati di pirateria, avrebbe tentato di impiccarsi nella sua cella. A darne notizia è la segreteria locale del Sinappe, il Sindacato Nazionale Autonomo Polizia Penitenziaria. Il fatto sarebbe accaduto verso le 19:30 nel reparto autonomo del carcere beneventano. L’uomo, detenuto in una cella singola, avrebbe costruito una corda rudimentale sottilissima, formata da elastici e pezzi di plastica, e l’avrebbe legata alle sbarre della finestra prima di compiere l’insano gesto. Da qui il tentativo, aiutato anche da uno sgabello. Tempestivo è stato però l’intervento di un agente della polizia penitenziaria, che ha soccorso l’uomo, già in stato di sofferenza, evitando il peggio. Sulmona (Aq); detenuto scarcerato perché affetto da favismo, il direttore non negligente Ansa, 30 gennaio 2013 L’ex direttore del carcere di Sulmona Sergio Romice è stato prosciolto dall’accuse di negligenza per non aver gestito correttamente la vita detentiva di Michele Aiello, l’ex manager della sanità siciliana considerato luogotenente di Provenzano le cui condizioni di salute sarebbero peggiorate durante la sua permanenza nel supercarcere peligno, perchè non gli fu predisposta una dieta adeguata al suo stato di salute. Questo l’esito dell’indagine del Dipartimento di amministrazione penitenziaria nei confronti del direttore del carcere, Sergio Romice. Aiello, rinchiuso nel carcere di Sulmona dal 5 febbraio del 2011 fu in seguito posto ai domiciliari perchè affetto da favismo e quindi incompatibile con la detenzione carceraria senza un’adeguata dieta alimentare. Sulla vicenda erano state aperte due inchieste: l’una del ministro della Giustizia Paola Severino, conclusasi senza che siano state accertate responsabilità, e l’altra del Dipartimento di amministrazione penitenziaria. Subito dopo la scarcerazione di Aiello decisa dal giudice del tribunale di sorveglianza dell’Aquila, Romice era stato trasferito temporaneamente nella sede del Provveditorato di Pescara dove è tuttora in servizio. Milano: Bibliotecario Carcerario; domani convegno per indagarne aspetti e caratteristiche www.libreriamo.it, 30 gennaio 2013 “Il bibliotecario carcerario: una nuova professione?”, un convegno per indagarne aspetti e caratteristiche Aib Associazione Italiana Biblioteche, Convegno Nazionale biblioteche carcerarie, bibliotecario carcerario, Università degli Studi di Milano, libri, lettura - Proporre modelli finalizzati all’introduzione della figura del bibliotecario nel sistema delle carceri italiane, analizzando quanto è già stato fatto e tracciando gli obiettivi che rimangono ancora da raggiungere, al fine di dotare di biblioteche iscrivibili un numero sempre maggiore di carceri italiane. Giovedì 31 gennaio, dalle ore 9.00 presso la Sala di Rappresentanza dell’Università degli Studi di Milano, si terrà il 4° Convegno Nazionale sulle biblioteche carcerarie dal titolo “Il bibliotecario carcerario: una nuova professione?”, promosso da Aib Associazione Italiana Biblioteche - Sezione Lombardia, Università degli Studi di Milano e Brianza Biblioteche, con il contributo di Fondazione Cariplo. Quarta tappa di un importante percorso iniziato con il primo Convegno nazionale del 2001, cui sono seguiti i Congressi del 2003 e del 2005 che hanno consentito a quanti lavorano nelle biblioteche carcerarie di conoscersi ed elaborare comuni strategie e modelli operativi, l’appuntamento del 31 gennaio si propone il raggiungimento di un obiettivo di fondamentale rilevanza. Nel 2008 l’Associazione Italiana Biblioteche ha istituito il Gruppo di studio sui servizi bibliotecari per le utenze speciali, con una sezione dedicata appositamente alle biblioteche carcerarie: ne è derivato un tavolo di lavoro formato da Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), Unione delle Province d’Italia (Upi), Associazione Nazionale Comuni Italiani (Anci), Conferenza delle Regioni e Aib per l’elaborazione di un protocollo d’intesa nazionale che regolamenti i rapporti tra carcere ed enti locali in relazione alla gestione dei servizi di biblioteca. Il lavoro degli ultimi anni all’interno delle biblioteche carcerarie ha fatto emergere chiaramente la necessità di delineare in modo specifico la figura professionale del bibliotecario carcerario, individuandone precise competenze, ruolo e funzioni, così da proporre modelli organizzati finalizzati all’introduzione della sua figura nel sistema delle carceri italiane. Nel Convegno di Milano si cercherà quindi di riflettere su quanto è già stato fatto in questa direzione e sugli obiettivi che rimangono ancora da raggiungere per dotare un numero sempre maggiore di carceri italiane di biblioteche iscrivibili a pieno titolo nel panorama istituzionale mondiale, secondo le “Linee guida per i servizi bibliotecari ai detenuti” dell’Ifla International Federation of Library Associations and Institutions, il principale organismo di raccordo delle associazioni bibliotecarie internazionali. Trani: progetto “Ripartiamo dalla pasta”, lezioni alle detenute con il Pastificio Granoro di Giulia Ceschi Asca, 30 gennaio 2013 Il cibo è da sempre un elemento che lega noi italiani alla nostra terra e viene spesso utilizzato come mezzo per educare i bambini o per aiutare le persone in carcere a riavvicinarsi ai sani valori di una volta. Ne è stato un esempio il progetto “Piantiamo valori” organizzato presso il carcere minorile di Casal di Marmo a Roma che ha l’obiettivo di recuperare i giovani detenuti attraverso la coltivazione delle piante di ulivo che verranno piantate nel giardino esterno dell’istituto di detenzione nelle prossime settimane. Un progetto simile è stato presentato in questi giorni presso il Carcere femminile di Trani dove, grazie alla collaborazione con il Pastificio Granoro e la scuola di cucina Factory del Gusto di Molfetta: si chiama “Ripartiamo dalla pasta” e si occuperà di insegnare alle detenute questa antica e affascinante arte. L’obiettivo principale di questo progetto è quello di formare queste donne attraverso un percorso didattico e di riqualificazione che le aiuterà ad avere nuove speranze, sebbene la loro vita sia stata danneggiata da qualche momento buio che le ha portate a intraprendere le strade più insidiose. Il corso durerà due mesi circa e si articolerà in incontri che dureranno un paio di ore circa per due volte la settimana. Le lezioni sono state organizzate in modo tale da avere molteplici funzioni: aiuterà le donne ad aumentare la propria autostima e a migliorare la propria immagine soprattutto nel momento in cui si troveranno ad avere a che fare con la vita vera al di fuori del carcere. Ma non solo. Durante il progetto le partecipanti avranno la possibilità di imparare un lavoro e una conoscenza tecnica alimentare e gastronomica tale da aiutarle ad inserirsi all’interno del mercato del lavoro senza troppi problemi. Un’iniziativa che, a nostro parere, dovrebbe essere diffusa in tutti questi istituti che si occupano delle persone con diverse problematiche, siano essi carceri o scuole per soggetti speciali. Immigrazione: Cie; si allarga fronte “no” dei Sindaci, chiedono di chiuderli o riconvertirli Redattore Sociale, 30 gennaio 2013 Il sindaco di Lampedusa, Nicolini: “Strutture concepite in ottica securitaria, diventano delle bombe”. L’assessore Losito (Bari): “ho denunciato alla commissione europea per le autonomie locali come il governo ingerisca nella pianificazione del territorio. Da nord a sud si allarga il fronte del no ai Cie da parte di sindaci e amministratori locali che chiedono al governo la chiusura o il ripensamento dei centri di identificazione e di espulsione. Esprimono disagio per la presenza di queste strutture governative sul proprio territorio. Sulla stessa linea delle dichiarazioni del sindaco di Bologna, Virginio Merola, che ha invitato gli altri primi cittadini a ribellarsi. “Questi centri sono due volte ingiusti: verso le persone rinchiuse in maniera immotivata e verso gli abitanti dei luoghi che li ospitano” dice a Redattore Sociale Giusi Nicolini, sindaco di Lampedusa, che considera “la battaglia per chiudere i Cie solo la punta dell’iceberg, deve diventare una battaglia per cambiare politica sull’immigrazione”. Secondo il sindaco dell’isola, “queste strutture concepite in ottica securitaria, diventano delle bombe come dimostra il caso di Lampedusa, perchè se tieni le persone per un anno e mezzo in posti peggiori delle carceri e sovraffollati, è ovvio che diventano luoghi di proteste, rivolte, autolesionismo. Questo li rende centri estremamente problematici per le comunità locali”. Nicolini ricorda che “dal 2009 al 2011 a Lampedusa ci fu il Cie più scandaloso d’Italia, con le persone rimpatriate direttamente da un’isola priva di tribunali dove poter fare ricorso” e lo definisce “uno scempio dei diritti dei migranti e dell’isola”. I lampedusani protestarono contro il progetto dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni di costruire un nuovo centro di identificazione e di espulsione nell’ex base militare Loran. “Grazie a Legambiente è stato dichiarato abusivo e smantellato - dice Nicolini - ma anche il Cpsa di contrada Imbriacola se è usato come Cie ha solo la sigla diversa. Dopo la condanna della Corte europea ci aspettavamo che fossero rimossi i provvedimenti di Maroni. Bisogna rifondare la politica di accoglienza in strutture piccole sul territorio”. Il sindaco di Lampedusa lancia una richiesta ben precisa: “non vogliamo che il Centro di primo soccorso e accoglienza sia un pezzo di territorio espropriato alla comunità. I comuni, gli enti locali devono poter decidere e incidere sulla qualità dell’accoglienza, vanno coinvolti nel decidere la natura giuridica dei centri perchè sia condivisa dalle comunità che li ospitano”. Il problema è sentito negli stessi termini a Bari, città che ha sul suo territorio sia un Cie che un Cara, centro di accoglienza per richiedenti asilo. “Usano il codice del ministero della Difesa e vanno in deroga a tutta la normativa urbanistica - dice alla nostra agenzia Fabio Losito, assessore alle Politiche Educative e all’Accoglienza - Il Cie e la struttura adiacente sono sorti con questo approccio amministrativo che bypassa tutta la normativa. È una cosa che ho denunciato alla commissione europea per le autonomie locali, sottolineando come il governo centrale ingerisca nella pianificazione del territorio e non metta l’amministrazione comunale nella condizione di sapere quante persone arrivano, quando, e in che condizioni. È evidente che serve una politica nazionale per ridefinire completamente il sistema di accoglienza”. Una delibera del consiglio comunale di Bari in cui c’è una presa di posizione politica contro il Cie è datata 2005, momento in cui il governo ne decise la realizzazione. “Ci fu una grossa polemica - ricorda Losito - perchè non avevano previsto le porte ai bagni, cioè i bagni erano a vista. Almeno nelle funzioni vitali una persona dovrebbe avere la possibilità di appartarsi un attimo e invece veniva concepito come una struttura nella quale veniva negato ogni diritto”. In città è in corso una causa in tribunale contro il ministero dell’Interno per le violazioni dei diritti umani nel Cie. Si attende dalla scorsa estate una decisione del giudice che dovrà dire se il Cie è un carcere illegale, perchè fuori dall’ordinamento giuridico. “La posizione dell’amministrazione comunale sul Cie resta assolutamente negativa con la richiesta di chiusura e l’adesione alla Class action procedimentale dell’avvocato Luigi Paccione - ribadisce l’assessore - ma la delibera di consiglio comunale è un atto politico non amministrativo, il governo procede a prescindere”. Molto simile la vicenda di Lamezia Terme dove, dopo un rapporto di Medici per i diritti umani, a ottobre il sindaco Gianni Speranza ha scritto al ministro dell’Interno per chiederne la riconversione da centro di reclusione in centro di accoglienza. “L’esistenza dei Cie non dipende dai Comuni ma è il Ministero dell’Interno che ha deciso e istituito queste strutture di detenzione in tempi ormai lontani e senza chiedere neanche un parere agli enti locali interessati”, ha detto il primo cittadino di Lamezia in quell’occasione. “Essendo il Cie ubicato su un terreno di proprietà comunale - ha evidenziato il sindaco rivolgendosi al ministro Cancellieri - la prego di voler tener conto di questa nostra volontà”. Già nel 2007, Speranza aveva inviato, inascoltato, la stessa richiesta al predecessore Giuliano Amato, dopo il suicidio nel centro di un cittadino bulgaro di nome Pamukov Hristo Aleksandrov. I centri di identificazione ed espulsione “vanno ripensati radicalmente” aveva detto a luglio 2012 il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, dopo una visita al Cie di via Corelli, augurandosi che “se ne parli di più per arrivare in tempi celeri a una auspicabile e profonda modifica, se non cancellazione, della Bossi - Fini”.Da ultimo, infine, le dichiarazioni di Merola, che sabato scorso ha definito il Cie bolognese “un cuore di tenebra” e “un settore speciale di punizione chenon ha alcun senso”. Più che un centro di identificazione ed espulsione dall’Italia, è un luogo di “espulsione alla condizione umana” e per questo, secondo il sindaco di Bologna, “va chiuso”. Immigrazione: Cie; rimpatriato solo 50% del “clandestini” trattenuti, in aumento le fughe Redattore Sociale, 30 gennaio 2013 Le cifre 2012 diffuse da Medici per i diritti umani. Negli ultimi cinque anni i tempi di reclusione sono passati da due mesi a 18, ma c’è stato un calo del numero dei reclusi di oltre 2 mila persone fra il 2008 e il 2012. Secondo i dati nazionali forniti dalla Polizia di Stato, nel 2012 sono stati 7.944 (7.012 uomini e 932 donne) i migranti trattenuti in tutti i centri di identificazione ed espulsione (Cie) operativi in Italia. Sono le cifre diffuse dall’Ong Medici per i diritti umani, che ha anche elaborato un grafico sul rendimento di queste strutture detentive per migranti senza permesso di soggiorno in attesa del riconoscimento e del rimpatrio. Si vede così che l’allungamento dei tempi massimi di reclusione, passati dai due mesi del 2008 ai 18 mesi del 2012, non è servito ad aumentare i rimpatri. Anche il numero dei trattenuti è diminuito. Nel 2008 sono stati internati 10.539 migranti, di cui 4320 effettivamente rimpatriati, contro meno di 8 mila trattenuti nel 2012, di cui solo la metà (4.015) sono stati effettivamente rimpatriati. Nel 2012 è stato rimpatriato esattamente il 50,54 per cento dei trattenuti, un più 0,3 per cento rispetto al 2011, anno in cui fino a giugno erano in vigore al massimo sei mesi di detenzione. “Si conferma dunque la sostanziale inutilità dell’estensione della durata massima del trattenimento da 6 a 18 mesi ai fini di un miglioramento nell’efficacia delle espulsioni”, commentano i Medu. Il numero complessivo dei migranti rimpatriati attraverso i Cie nell’anno appena trascorso, costituisce solo l’1,2 per cento del totale degli immigrati irregolari presenti sul territorio italiano, secondo le stime dell’Ismu che parlano di 326 mila persone al primo gennaio 2012. Sono aumentate molto le rivolte e le fughe. L’anno scorso sono riusciti a fuggire dai Cie 1.049 i migranti, ben il 33 per cento in più rispetto all’anno caldo del 2011, quando i Cie erano pieni di tunisini ed egiziani giunti in seguito alla primavera araba. È un dato significativo secondo Medici per i diritti umani. L’Ong scrive in una nota che questo testimonia “l’aggravamento del clima di tensione e l’ulteriore deterioramento delle condizioni di vivibilità all’interno”. Facendo un bilancio, per Medu la detenzione amministrativa è “uno strumento sostanzialmente fallimentare nel contrasto dell’immigrazione irregolare”. Inoltre, durante le tante visite effettuate nelle strutture, Medu ha riscontrato che “il prolungamento del tempo massimo di detenzione nei CIE ha drammaticamente peggiorato le condizioni di vita dei migranti all’interno di queste strutture”. Sul prolungamento del trattenimento “è pressoché unanime il giudizio negativo espresso dai responsabili degli enti gestori dei 10 Cie monitorati”. Per Medu “tale misura ha infatti seriamente compromesso la gestione complessiva dei centri causando gravi problemi organizzativi, logistici e sanitari”. In vista delle elezioni politiche, Medu chiede “una radicale revisione dell’attuale sistema di detenzione amministrativa”, alla luce delle gravi e ripetute violazioni dei diritti umani dei migranti emerse durante le visite nei Cie. Revisione che, secondo l’Ong, “non può che avvenire nell’ambito di una profonda riforma della legge “Bossi - Fini”. Immigrazione: da 14 mesi nel Cie di Gorizia; è depresso, ha tentato suicidio e rifiuta il cibo Redattore Sociale, 30 gennaio 2013 Il caso sollevato da “Medici per i diritti umani”. M. ha urgente bisogno di cure e rischia la vita nel Cie di Gradisca d’Isonzo. È entrato sano, ma il trattenimento gli ha provocato un grave disturbo psichico. Per la seconda volta in un mese sta facendo lo sciopero della fame e della sete, dopo aver tentato il suicidio a causa di una grave forma di depressione e aver perso 10 chili. È la storia di M., un giovane migrante, che rischia la vita rinchiuso nel centro di identificazione e di espulsione di Gradisca d’Isonzo. Un centro che le cui condizioni di vita, secondo l’Ong Medici per i diritti umani (Medu) che ha sollevato il caso, sono “estremamente afflittive e del tutto inadeguate a garantire i fondamentali diritti della persona e pertanto non compatibili con il trattenimento di un paziente sofferente”. Il team Medu chiede il rilascio immediato del giovane, che sta scontando la reclusione nel Cie da un anno e due mesi, contrariamente a quanto recentemente annunciato dal Ministro Cancellieri, quando davanti alla Commissione Diritti Umani del Senato il 27 novembre aveva espresso l’intenzione di limitare la durata massima di internamento a 12 mesi. Nella sua protesta estrema, M. rifiuta anche i farmaci. La diagnosi dello psichiatra è di depressione maggiore, specificando che “la situazione psico-patologica è sicuramente reattiva al trattenimento nel CIE”. Il medico ritiene “assolutamente urgente” velocizzare il più possibile l’uscita dal CIE ritenendo che la situazione ambientale possa peggiorare ulteriormente il quadro clinico. Ma sono passati mesi da queste valutazioni psichiatriche ed M. non vede l’uscita dal tunnel. Il giudice di Pace continua a convalidare il trattenimento, nonostante, secondo Medu, il provvedimento sia “protratto in questo caso oltre ogni ragionevolezza, ledendo gravemente valori fondamentali come la salute e la dignità umana”. Eppure all’ingresso nel Cie, la visita dello psicologo aveva riscontrato un atteggiamento collaborativo del ragazzo. M. si è ammalato stando nel centro di identificazione e di espulsione così a lungo, dopo essere stato trasferito senza apparente motivo dal nord est al sud ovest della penisola. Il giovane non ha precedenti penali, è arrivato a Lampedusa nell’ottobre 2010 ed è riuscito a mantenersi lavorando in nero e senza documenti di soggiorno. A dicembre 2011 è finito nel Cie, prima a Gradisca d’Isonzo, poi a Trapani e poi di nuovo a Gradisca, a maggio 2012. Da allora ha perso 10 chili. Dopo un anno passato così, a dicembre scorso, all’ennesima proroga di due mesi del trattenimento, il ragazzo ha ingerito monete e farmaci, tentando di farla finita. Gli è stata praticata la lavanda gastrica ed è stato riportato nel Cie. Nella prima settimana di gennaio M. ha perso sette chili rifiutando acqua, farmaci e cibo. Il tre gennaio ha compiuto un altro gesto di autolesionismo, ferendosi al gomito sinistro. L’otto gennaio, i sanitari del centro, certificandone lo “stato cachettico” e l’evidente condizione di disidratazione, inviano nuovamente il paziente al pronto soccorso per accertamenti. “L’ospite ha ripreso ad alimentarsi e a reidratarsi per cui tenendo presente la compatibilità dei parametri vitali e soprattutto la volontà di riprendere a mangiare e bere, si ritiene attualmente compatibile dal punto di vista organico il suo trattenimento presso il Cie Gradisca salvo ulteriori ripensamenti autolesionistici” è la formula scelta dalla direzione sanitaria del centro per dire che non si può garantire sulle condizioni psichiche del recluso. I servizi psichiatrici territoriali hanno chiesto per tre volte l’urgente rilascio dal Cie. Dal 22 gennaio il giovane migrante ha cominciato di nuovo a rifiutare alimenti, bevande e di assumere la terapia psichiatrica. Medici per i Diritti umani, che segue il caso da diverse settimane, ritiene le condizioni psico-fisiche di M. incompatibili con il trattenimento all’interno del CIE e chiede che il paziente sia urgentemente rilasciato dalla struttura in modo da poter accedere alle adeguate cure specialistiche. Venezuela: nota della Chiesa dopo i tragici eventi nel carcere di Uribana Radio Vaticana, 30 gennaio 2013 “Dinanzi alla politica penitenziaria inefficace del governo, dinanzi al sovraffollamento, alla mancanza di cibo adeguato, alla violenza incontrollata, ai ritardi procedurali e all’ umiliazione subita dalle famiglie, tra le altre cose, che continuano a colpire i detenuti in Venezuela, la Chiesa cattolica non può rimanere inerte”. È quanto si legge nel comunicato pubblicato ieri, inviato all’agenzia Fides, della Commissione nazionale per la Pastorale delle carceri della Conferenza episcopale venezuelana (Cev), in cui esprime il suo dolore per i tragici eventi di Uribana e chiede di fare “un’indagine su quanto è accaduto, in modo efficace, indipendente e imparziale, che permetta di processare e punire i responsabili”. Il comunicato, intitolato “È un momento di lutto nazionale”, si riferisce ai fatti violenti accaduti nel Centro penitenziario di Uribana, dove il 25 gennaio, durante una rivolta di cui non sono ancora state chiarite le motivazioni, sono morte 58 persone e 88 sono rimaste ferite. Il comunicato, dopo aver condannato il potere delle bande interne nei Centri di detenzione e l’uso delle armi, ricorda che lo Stato è chiamato a garantire la vita delle persone recluse. Chiediamo al Governo, ai sensi dell’articolo 272 della nostra costituzione, di impegnarsi più decisamente per risolvere la crisi attuale delle carceri - prosegue il comunicato - e adottare tutte le misure necessarie per evitare il ripetersi di questi eventi e per l’effettiva garanzia di tutti i diritti umani dei detenuti in Venezuela”. La Commissione della Cev chiede anche di ripristinare il permesso, ora sospeso, agli operatori pastorali della Chiesa, di ingresso nei Centri di reclusione. Il documento conclude invitando la comunità cristiana ad adoperarsi pastoralmente a favore del rispetto della dignità umana di tutti. Cina: regione Guangdong chiude dopo 60 anni i “campi di lavoro”, entro fine del 2013 Ansa, 30 gennaio 2013 La provincia meridionale cinese del Guangdong è la prima a dichiarare ufficialmente l’intenzione di porre fine al laojiao, ovvero il sistema di rieducazione attraverso i campi di lavoro, entro la fine dell’anno. Lo ha fatto sapere il direttore del dipartimento di giustizia del Guangdong, Yan Zhichan, secondo quanto riferisce il China Daily. Se il sistema dovesse effettivamente essere abolito, secondo quanto ha detto Yan non verrebbero più accettati nuovi prigionieri e quelli già presenti, al termine della loro condanna, verrebbero mandati a casa. Il sistema del laojiao ha suscitato molte polemiche specie negli ultimi mesi, sollevando nelle istituzioni il dubbio sulla sua attuale opportunità. Ad agosto scorso, Tang Hui, una donna della provincia centrale dell’Hunan, venne condannata a 18 mesi in un campo di lavoro per aver protestato contro le condanne troppo lievi comminate ai sette uomini che avevano rapito, stuprato e costretto a prostituirsi sua figlia quando aveva solo 11 anni. A seguito della mobilitazione generale, anche on line, Tang venne poi rilasciata in meno di una settimana. Anche il governo centrale, ai primi di gennaio, ha parlato della necessità quantomeno di rivedere e modificare il sistema dei campi di lavoro. Il laojiap venne approvato nel 1950 in Cina ed introdotto con lo scopo di riportare l’ordine sociale. Così come era stato concepito il sistema permette alla polizia di detenere le persone per un massimo di quattro anni anche senza formalizzare nessuna accusa e senza istruire un processo. Secondo quanto ha detto Yan Zhichan, nel Guangdong coloro che sono detenuti nei campi sono per lo più tossicodipendenti in riabilitazione obbligatoria mentre sono pochissime le persone detenute per comportamenti illeciti come il gioco d’azzardo o la prostituzione. Arabia Saudita: giustiziati tramite decapitazione due uomini colpevoli di omicidio Aki, 30 gennaio 2013 Due persone colpevoli di omicidio sono state giustiziate in Arabia Saudita tramite decapitazione. Lo ha riferito l’agenzia d’informazione “Spa”, citando una nota del ministero dell’Interno di Riad. Uno dei detenuti saliti al patibolo, il saudita Marwan al-Balawi, era stato condannato a morte per aver accoltellato un suo connazionale, Saif al-Wabsi, durante una colluttazione a Medina, nel nord-ovest del Paese. L’altro detenuto giustiziato si chiamava invece Hussein al - Yami ed è stato giustiziato per aver sparato a un uomo nel sud-ovest della monarchia del Golfo. Le due esecuzioni portano a nove le condanne a morte eseguite in Arabia Saudita da inizio anno, mentre nel 2012 le condanne sono state oltre 70. Omicidio, stupro e narcotraffico sono tra i reati punibili con la pena di morte nel Paese.