Quando i “bravi cittadini” rischiano la galera Il Mattino di Padova, 28 gennaio 2013 Il carcere è pieno di persone che sono “scivolate” in comportamenti a rischio e hanno passato il limite a partire da situazioni di assoluta regolarità. Del resto, basta aver bevuto un pò più del consentito, che per un giovane o un neopatentato è anche una sola birra, perché per loro c’è la tolleranza zero, per andare a processo e rischiare la galera, e solo se è la prima volta la pena del carcere può essere trasformata in un lavoro di pubblica utilità. Nella nostra associazione, così come in altre, ci sono molte persone che fanno lavori di pubblica utilità in sostituzione del carcere, grazie a una convenzione con il Comune di Padova e il Tribunale, che permette questa modalità di volontariato per “scontare una pena”. A sperimentare questa esperienza nuova nella redazione di Ristretti Orizzonti finora sono stati due fotografi, un ingegnere, un avvocato, una persona che gestisce un’enoteca, uno studente universitario, un maestro precario, che hanno fatto o stanno facendo volontariato in carcere per evitare di farsi la galera da detenuti, e nello stesso tempo portano la loro testimonianza agli studenti, spiegando quanto è facile anche per le persone “regolari” sfiorare il carcere, e rischiare di finirci dentro. Due prosecchi… ma se ti metti alla guida poi rischi la galera Mi chiamo Massimo, anch’io sto rischiando il carcere, ho commesso un’infrazione al Codice della strada per guida in stato di ebbrezza, anche se tutto sommato non ero ubriaco, ma avevo un tasso alcolemico che era fuori della norma. Premetto che gestisco un’enoteca, quindi per quanto riguarda l’alcool, vino, birra, so come si beve e quanto si beve visto che lavoro con questo. Eppure è successo anche a me, ed è una cosa che mi ha portato veramente dei grossi disagi, innanzitutto perché non pensavo che mi sarei cacciato in una storia così complicata. Ho avuto bisogno di un avvocato, c’è stato un processo, sei mesi di ritiro della patente, esami del sangue e quant’altro. Si pensa che la “guida in stato di ebbrezza” sia una cosa semplice: ti fermano, ti ritirano la patente, è finita lì. Invece c’è un dispendio economico enorme e soprattutto un grande disagio. Avendo un lavoro che mi tiene occupato soprattutto la sera - dalle tre del pomeriggio alle due di notte - e vivendo fuori Padova, dovevo farmi accompagnare al lavoro e alle due di notte farmi venire a prendere. Questo ha significato che per sei mesi la mia compagna si doveva alzare dal letto e alle due di notte venirmi a prendere e portarmi a casa. Un disagio enorme anche per quanto riguarda il resto dell’attività, perché quando dovevo muovermi di giorno, se avevo spostamenti lontani, o usavo la bicicletta (non si può nemmeno usare una bici elettrica), oppure dovevo sempre chiedere a qualcuno che mi accompagnasse in auto da qualche parte. Sinceramente una cosa così mai pensavo mi sarebbe successa, anche se faccio questo lavoro, perché di solito sto ben attento a non andare fuori dai limiti, soprattutto se so che devo usare l’auto o la moto. Però può capitare, ed è una cosa che può capitare a tutti, bisogna stare molto molto attenti sul come si beve e quando. Oltre tutto i costi sono altissimi, perché si devono fare parecchie volte le analisi del sangue per l’alcool o, per chi ha fatto uso di sostanze stupefacenti, del capello. Tutte analisi a spese della persona, quella del capello per esempio costa circa 400 euro, e bisogna pagarsi l’avvocato, le spese processuali, e se non si fa questo tipo di percorso con il lavoro di pubblica utilità che ti estingue il reato, oltre a rischiare il carcere, rischi anche di non poterti iscrivere agli ordini professionali. Prima di me a fare questo stesso lavoro di pubblica utilità c’era una giovane donna che fa l’avvocato e che altrimenti non poteva iscriversi all’ordine degli avvocati e svolgere la sua professione. In più, la fedina penale è comunque macchiata e se succede una seconda volta non c’è più questa alternativa del lavoro di pubblica utilità, e lì già sei rovinato. Massimo B. Quanto poco ci vuole a rovinarsi la vita La sera che mi hanno fermato non sapevo a cosa andavo incontro. Stavano per lasciarmi andare, ma ad un certo punto uno dei poliziotti ha deciso di farmi fare l’alcooltest, sono risultato positivo con un tasso alcolemico di 1.2, a me sembrava di essere in grado di guidare ma per la legge non si può. Al momento pensavo di sbrigarmela in poco tempo, invece l’iter che ne è seguito è stato lungo, pesante ed economicamente deleterio. Per legge ora se vieni fermato e ti ritirano la patente è come se avessi compiuto un reato, dato che la cosa ha rilevanza penale, e se ti succede una sola volta puoi fare in modo di eliminare la rilevanza penale, facendo un lavoro di pubblica utilità, se invece ti succede una seconda volta il lavoro di pubblica utilità non lo puoi fare più e vai incontro a sanzioni pecuniarie elevatissime e addirittura al carcere, soprattutto se guidi in stato di ebbrezza e provochi un incidente. Io non sapevo cosa fare per il fatto della fedina penale che era sporca per questo reato, poi, con il consiglio dell’avvocato, mi sono attivato e ho ricercato un’associazione che mi desse la disponibilità per farmi fare un lavoro di pubblica utilità. In realtà non conoscevo nulla di questi lavori di pubblica utilità, ora penso che siano importantissimi per comprendere il proprio errore e per riflettere su realtà che non conosciamo. L’associazione alla quale ho fatto riferimento si chiama Granello di Senape e opera nel mondo del carcere. Con loro ho partecipato a diversi incontri sia nelle scuole che in carcere, all’inizio pensavo fosse una cosa che mi avrebbe fatto perdere solo tempo, invece ora credo fermamente nel lavoro che fa l’associazione all’interno e all’esterno del carcere. Mi sta servendo veramente tanto questa esperienza, perché mi ha fatto capire tante verità che prima non prendevo in considerazione o magari sì, ma senza rifletterci sopra. Io, che partecipo a questo progetto come volontario per un lavoro socialmente utile, non potevo chiedere di meglio. L’associazione Granello di Senape collabora con circa una settantina di detenuti che hanno voglia di riscattarsi con la società, e partecipano al progetto contribuendo alla redazione del giornale Ristretti Orizzonti e incontrando le scuole. Un’esperienza importante per i ragazzi, necessaria per prendere consapevolezza di cos’è la detenzione nelle carceri italiane e per prendere coscienza che anche per un nonnulla si può essere condannati penalmente. Il vero scopo di questi incontri è sicuramente quello di ridare responsabilità a delle persone alle quali è stata tolta, cercare di reinserirle in una società che le scredita e che le cataloga come mostri, e di prevenire comportamenti sbagliati da parte delle nuove generazioni, perché si sa, in giovane età si compiono errori e magari non ci si accorge neanche dei rischi che si corrono. Io, che sono uno studente universitario e vado lì agli incontri come volontario, porto la testimonianza del mio “reato” in modo che i ragazzi delle scuole possano capire quanto poco ci vuole a rovinarsi la vita. Claudio G. Giustizia: “emergenza Corona”… di Ugo Cennamo Il Giorno, 28 gennaio 2013 Non c’è limite al peggio e il caso Corona ne è la prova. Condannato per estorsione nonché protagonista di una serie incredibile di reati che renderebbero inevitabile per chiunque un periodo più o meno prolungato dietro le sbarre, il fotografo noto non per la qualità delle sue immagini, ma per la sua debordante immagine, è diventato oggetto di culto chiamato in causa, non solo da accaniti sostenitori stregati dal fascino ribelle e un po’ imbecille, ma anche da sapienti commentatori e politici stagionati per sostenere le più disparate tesi. E così un concittadino che si permette di dire le peggiori cose a proposito del Paese che l’ha reso ricco e famoso, che ne continua a combinare di cotte e di crude pensando di essere un martire quando è invece solo un eterno adolescente viziato, riesce ad avere accesso al piccolo schermo neanche fosse un Nobel o un perseguitato politico. In tanta evidente, rivoltante nefandezza, questa vicenda un vantaggio l’avrà: far conoscere alla distratta opinione pubblica il tema dell’emergenza carceri. Ora che c’è Corona di mezzo si può stare certi che i numeri denunciati a più riprese dall’associazione Antigone saranno ascoltati con maggiore attenzione (uno per tutti: 60 mila detenuti in istituti che ne potrebbero contenere non più di 45 mila). Senza contare che il fotografo più fotografato del mondo è finito nel carcere di Busto Arsizio, quello che è costato una condanna all’Italia per “tortura e trattamento disumano e degradante” dei carcerati. Molti dei quali, a differenza di Corona, sanno di avere sbagliato e di dovere pagare, ma non pensano di meritare di dover convivere in tre in una cella di nove metri quadrati per 18 ore al giorno. Questa è l’Italia che nutre fenomeni da baraccone e taglia ovunque può infischiandosene della povera gente, siano detenuti, malati, anziani, giovani, disoccupati, lavoratori che pagano le tasse e, quando va bene, hanno comprato una casa per i loro figli salvo poi essere tartassati dal governo dei tecnici. Persone coraggiose che non se ne vanno in giro per l’Europa con i sacchi della spazzatura pieni di quattrini che non si vergognano di piangere e non parcheggiano sul marciapiede perché, nonostante tutto, rispettano il Paese dove vivono e sanno cosa vuol dire lottare ogni giorno per ritagliarsi, se possibile, piccoli, meritati spazi di serenità. A tutti loro Corona dovrebbe chiedere scusa e approfittare di questo periodo di detenzione non per fare inutili proclami, ma per riflettere sulla sua pochezza e su quella del mondo che l’ha nutrito e che, purtroppo, continuerà a farlo. Marazziti: comprendo mamma Corona, ma parliamo degli altri 65mila in carcere “Grande comprensione per la signora Corona e per il suo appello di madre per il figlio Fabrizio, sicuramente sotto choc in un carcere sovraffollato”. Mario Marazziti, capolista per Scelta Civica - Con Monti per l’Italia per la circoscrizione Lazio 1 (Roma), commenta così l’appello della madre di Fabrizio Corona, Gabriella, al Presidente Napolitano e alle forze politiche. E aggiunge: “Chiederei però, anche in questo caso, la par condicio e faccio appello anche ai media: che i drammi della condizione disumana in carcere degli altri 65.600 detenuti in Italia, in gran parte “poveri cristi”, abbia lo stesso spazio, la stessa attenzione e lo stesso coinvolgimento istituzionale della vicenda di Fabrizio Corona. 1 a 65.600 non è ancora l’uguaglianza, ma sarebbe già un inizio. Così la sua peculiare vicenda personale potrà almeno diventare utile per tanti”. Giustizia: Ingroia (Rivoluzione Civile); sì ad amnistia mirata, che non avvantaggi i potenti Dire, 28 gennaio 2013 “Io sono favorevole a una legge di amnistia mirata che sia utilizzata contro il sovraffollamento delle carceri. Ma credo che occorra stare molto attenti che della amnistia non se ne approfittino i soliti potenti perché le carceri scoppiano di poveracci e non di potenti”. Lo dice il leader di Rivoluzione civile Antonio Ingroia a margine di una conferenza al Senato. Giustizia: Beneduci (Osapp); il nuovo Parlamento riveda l’attuale modello di sicurezza Ansa, 28 gennaio 2013 “Il nuovo Parlamento dovrà rivedere con urgenza l’attuale modello della sicurezza del territorio e la conseguente organizzazione delle Forze di Polizia” è quanto afferma in una nota Leo Beneduci, già segretario generale dell’Osapp (Organizzazione Sindacale Autonoma Polizia Penitenziaria) e attualmente candidato capolista al Senato nel Lazio per la lista Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia. Rispondendo alle proposte di alcuni sindacati di Polizia, l’ex sindacalista afferma che: “a parte qualche leggero ritocco, gli attuali modello e organizzazione sono frutto della legge di riforma della Polizia di Stato del 1981, che in 32 anni non ha potuto evitare inefficienze e sprechi e che oggi non risponde più alle esigenze della società civile; per cui ben venga un nuovo soggetto che elimini del tutto le onerosissime duplicazioni di compiti e di vertici e che, raggruppando gli oltre 350mila appartenenti al Comparto Sicurezza, senza tralasciare le altre migliaia di donne e uomini che operano nelle polizie locali e territoriali, riconosca appieno le specificità di ciascun corpo.”. “Peraltro, nei programmi delle forze politiche in lizza per le prossime elezioni - conclude Beneduci - non risultano ancora particolari riferimenti a nuovi e migliori modelli per la sicurezza dei cittadini e alle annose esigenze organizzative e di carriera delle Forze di Polizia come delle Forze Armate ed è una lacuna che andrà colmata in assoluta fretta.” Giustizia: Frongia (Lisiapp); situazione carceri insostenibile, riforma non più rinviabile Ansa, 28 gennaio 2013 “Per comprendere appieno la situazione che sta vivendo il Corpo di polizia penitenziaria dobbiamo scorrere i dati sulla carenza di organico che è di circa settemila unità oltre quelle delle strutture penitenziarie prive di direttori/dirigenti penitenziari senza dimenticare i continui episodi di aggressione e violenza che subiscono i nostri poliziotti”. È quanto si apprende da una nota diffusa dal movimento di centro destra Intesa Popolare al quale sottolinea che “nelle strutture detentive del paese ci sono 44mila posti letto e nelle celle sono invece stipate 67mila persone; che la Polizia penitenziaria ha seimila agenti in meno”. La reale portata delle deficienze organiche - afferma Luca Frongia già segretario generale aggiunto dell’O.S. Lisiapp e oggi candidato alla Camera dei Deputati con Intesa Popolare nel collegio Lazio 2 - in seno al Corpo di Polizia Penitenziaria occorre ricordare che nel 2001, quando ne fu decretata la pianta organica, erano in servizio circa 42mila unità, con una popolazione detenuta attestata intorno alle 45mila presenze. Dieci anni dopo con una popolazione detenuta che ha sfondato quota 67mila, con molti istituti penitenziari nuovi e qualche decina di nuovi padiglioni attivati, la polizia penitenziaria conta 37.784 unità. In sintesi negli ultimi dieci anni la popolazione detenuta è aumentata del 51% mentre l’organico della polizia penitenziaria ha subito un decremento di circa il 9%. “Quelle delle carenze organiche costituisce una delle più gravi criticità, ed è evidente che questa situazione è di grave nocumento al raggiungimento degli obiettivi di rieducazione e risocializzazione che la Costituzione affida al sistema penitenziario e determina anche un grave vulnus alla sicurezza sociale. A scorrere bene i dati - prosegue Frongia - si appalesano forti vacanze organiche anche nei profili degli operatori demandati al trattamento intramoenia. All’appello, infatti, mancano 93 dirigenti, 318 contabili, 494 assistenti sociali e 325 educatori. Questi numeri sono parte integrante della deriva dell’universo penitenziario che, nello scorso anno ha visto 60 suicidi, 945 tentati suicidi, oltre 5.000 atti di autolesionismo grave e circa 400 agenti penitenziari feriti per aggressioni subite da detenuti senza dimenticare gli otto suicidi di poliziotti che per la maggioranza archivia come stress personale”. Questi episodi, sappiamo bene che non possono essere liquidati semplicemente come gesti isolati e personali, ma bensì rientrano appieno nel fenomeno da stress e disagio sui luoghi di lavoro. Tutte queste situazioni - conclude Frongia - e che non si può certo continuare ad aprire nuove strutture senza assumere viceversa bisogna garantire la funzionalità degli Istituti penitenziari garantendo anche Poliziotti penitenziari i propri diritti elementari che spesso è costretta a rinunciare, come risposi settimanali e ferie e subire pure violenze vili e gratuite”. Giustizia: intervista a Gloria Manzelli, direttore di San Vittore “rivedere il Codice Penale” di Alessandro Micci Il Sole 24 Ore, 28 gennaio 2013 L’otto gennaio la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia a un risarcimento complessivo di 100mila euro per trattamento inumano e degradante nei confronti di sette detenuti nei penitenziari di Busto Arsizio e Piacenza. La condizione di sovraffollamento è però comune a quasi tutte le carceri italiane, e costituisce un problema strutturale al quale il nostro Paese ha un anno di tempo per rimediare, con una capacità di 47mila posti e una popolazione effettiva di oltre 65mila detenuti. Secondo Gloria Manzelli, direttore del carcere milanese di San Vittore, per risolvere il problema del sovraffollamento ci vorrebbe una profonda revisione del Codice Penale. La situazione è molto lontana da una soluzione. Il Decreto Svuota Carceri del dicembre 2011 non è servito? Il Decreto Svuota Carceri ha avuto sicuramente un impatto positivo, sono entrate meno persone per essere poi scarcerate nel giro di poche ore. Quello che il provvedimento è andato a toccare è il meccanismo delle porte girevoli, cioè quegli ingressi per poche ore o pochi giorni. Nel 2012 a San Vittore abbiamo avuto circa 5800 ingressi dalla libertà. Per un carcere giudiziario come questo anche mille ingressi in meno l’anno è un dato importante. articoli correlati Quanti sono i detenuti e quale la capienza di San Vittore? A San Vittore sono presenti attualmente 1500 uomini e 110 donne su circa mille posti di capienza, questo vuol dire che c’è all’incirca un 50% di detenuti in più rispetto alla capacità del carcere, inoltre ci sono due reparti chiusi. Quali sono le principali criticità della casa circondariale da lei diretta? San Vittore è un carcere giudiziario che ospita solo detenuti in attesa di giudizio. Questa casa circondariale accoglie ogni giorno tutti gli arrestati sul territorio di Milano e della provincia. Per sua natura San Vittore è un carcere con un grande turn over, nel 2012 abbiamo registrato undicimila movimenti tra entrate e uscite, ci sono infatti trasferimenti periodici per le altre sedi dove viene portato chi riceve la condanna definitiva. Altro fattore di criticità è costituito dal fatto che il 63% dei detenuti è extracomunitario, questo comporta ad esempio la mancanza di una rete famigliare e l’impossibilità di avere colloqui periodici. A suo avviso quali strumenti potrebbero alleggerire la pressione del sovraffollamento? Servirebbe sicuramente una revisione del Codice Penale nel senso di una depenalizzazione di molti reati, al momento il ricorso alla carcerazione è troppo inflazionato. Per persone anziane o ragazzi molto giovani si possono pensare alternative. Un altro intero filone è quello della tossicodipendenza, a mio avviso questo è un problema che difficilmente può trovare un trattamento adeguato all’interno degli Istituti di pena, servirebbe invece aumentare il numero delle comunità di recupero, le uniche in grado di trattare certe problematiche. Dubito che la tossicodipendenza sia un problema che si risolve con la detenzione, inoltre in carcere si rischia per queste categorie di aumentare la recidiva anziché risolvere il problema. Ci sono poi i soggetti che hanno bisogno di un trattamento psichiatrico, anche questi dovrebbero trovare un diverso tipo di assistenza. Secondo dati del Consiglio d’Europa il 38% dei detenuti in Italia ha una condanna legata alla legge sulle droghe. Pensa che l’amnistia potrebbe essere un valido provvedimento? L’amnistia può essere sicuramente utile e necessaria, ma da sola serve solo a tamponare la situazione, non può essere risolutiva. Non può esimere da interventi strutturali come la depenalizzazione di molti reati. Oggi molti entrano in carcere per via della crisi, che ha avuto un impatto devastante. I piccoli reati di furto e quelli contro il patrimonio sono aumentati a centinaia. In questi casi bisognerebbe prevedere dei percorsi differenti. Sono previsti percorsi lavorativi a San Vittore? C’è una cooperativa di sartoria dove vengono cuciti anche abiti per l’esterno, le toghe dei magistrati ad esempio. Inoltre su una base di rotazione trimestrale circa 300 - 350 detenuti sono impegnati in lavori di manutenzione, come le pulizie, la cucina e abbiamo anche elettricisti e idraulici. Purtroppo però su una popolazione carceraria che ruota così velocemente non abbiamo modo di avviare programmi di lavoro e di formazione professionale più stabili. Il lavoro è fondamentale per abbattere la recidiva e favorire il reinserimento ma in un momento di difficoltà economica le opportunità diminuiscono. In carcere tutti gli attori istituzionali dovrebbero operare per favorire questo aspetto, anche per quel che riguarda il lavoro in esterno, dagli enti territoriali alle amministrazioni penitenziarie. C’è poi l’aspetto legato all’istruzione: abbiamo una biblioteca per ogni reparto con annesse attività lavorative. Ci sono percorsi scolastici interni, nell’ultimo anno 800 detenuti hanno preso la licenza media e vengono organizzati dei forum di lettura ai quali partecipano scrittori: l’ultimo ad essere intervenuto nei primi giorni dell’anno è stato il Premio Nobel Dario Fo. Giustizia: intervista all’ex agente Luigi Ripaldi “chi lavora in carcere è un po’… detenuto” di Paola Ambrosino www.clandestinoweb.com, 28 gennaio 2013 Voltaire scriveva: “Il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri”. Ora, se volessimo usare il metro di giudizio del filosofo francese per valutare l’Italia, allora dovremmo ammettere che il Belpaese ne ha di lavoro da fare per raggiungere un livello quanto meno dignitoso di civiltà. Che quella delle carceri sia un’emergenza ce lo dicono infatti i numeri del sovraffollamento, le percentuali dei detenuti in custodia preventiva, l’aumento dei suicidi in cella, la condanna della Corte di Strasburgo e le numerose denunce. Spesso si parla di carceri guardando dal drammatico punto di vista dei detenuti, ma anche per chi lavora nei penitenziari la vita non è facile. La redazione di Clandestinoweb ha intervistato, a tal proposito, Luigi Ripaldi, un agente penitenziario che ha deciso di licenziarsi per “continuare a vivere”. Signor Ripaldi, ci racconti della sua esperienza in carcere... Si, io ho lavorato in carcere da militare. Era il 1995 e mi assegnarono al penitenziario di Opera, vicino Milano. Per quanto tempo ha lavorato ad Opera? Ho lavorato per un anno come ausiliare poi ho firmato per restare, ma in realtà ho resistito solo altri due mesi. Quindi 14 mesi in tutto. Se fossi rimasto per 5 anni sarei stato integrato a tutti gli effetti. Come vivono i detenuti nel carcere di Opera? Naturalmente, da persona libera, non posso di certo dire che il carcere di Opera sia un bel posto. Però devo ammettere che, ad eccezione del braccio del 41 Bis, non si vive male. I condannati per reati minori riescono quasi a crearsi una vita sociale. Ci sono infatti salette ricreative con tv, biliardo, carte. Cosa ha di diverso il 41 bis? Bè, nel 41 bis ci sono i detenuti accusati di reati di stampo mafioso. Loro non hanno diritto a nessun tipo di rapporto con l’esterno, non possono fare telefonate e i pochi colloqui che hanno con i familiari sono controllatissimi. Non si può dire che vivano bene. Quali erano le sue mansioni nel 41 bis? Dovevo aprire e chiudere le porte e soprattutto segnare ogni movimento dei detenuti. Cioè? Dovevo tenere un registro di ogni detenuto dove ad esempio scrivevo: alle 17.30 si alza dal letto, alle 17.35 prende un libro, alle 17.40 va in bagno eccetera. Insomma chi è recluso nel 41 bis vive sotto in regime controllatissimo. Cosa ci può dire delle relazioni fra i detenuti? Ovviamente i detenuti vengono suddivisi in carcere, non sono mescolati. Ognuno ha un suo codice. Ad esempio i pedofili devono stare da soli. Quando uscivano dalle celle, le sezioni con gli altri detenuti dovevano restare chiuse altrimenti finiva male. Nel carcere, per così dire, ci sono reati e reati. Chi violenta una donna o un bambino non commette di certo un reato d’onore e quindi è mal visto anche in cella. Ha esperienza di casi di violenza? No, non è come nei film. Soprattutto chi deve scontare pene lunghe non ha alcun motivo per essere aggressivo. Che idea si è fatto dei detenuti in generale? Innanzitutto ho notato che la maggior parte di loro è rappresentata da extracomunitari. Ho avuto anche l’impressione che molti di loro preferiscano il carcere alle strade. Un immigrato che scappa dalla fame e dalla guerra del suo paese, in carcere in Italia ha 2 pasti assicurati e un tetto e si accontenta così. E invece lei che rapporti aveva con i detenuti? In teoria, non dovevo averne affatto. Gli agenti penitenziari non hanno il permesso di parlare o interagire più di tanto con i detenuti e, se lo fanno, rischiano di essere ripresi dal supervisore. E con i parenti dei detenuti, che rapporti aveva? Con i parenti vale lo stesso discorso. I rapporti non ce li puoi avere. Apri e chiudi le porte: questo è il lavoro. Come si vive in carcere da agente? È disarmante: ogni giorno fra sbarre lunghe e grigie. Stai tranquillo ma sei completamente alienato. La maggior parte degli agenti viene dal sud, Campania, Calabria. Per loro forse non è poi così male fare questo lavoro: non hanno tante scelte! Si è mai pentito di essersi licenziato? No, non mi sono mai pentito di essere scappato. Lo rifarei. Sono troppo allegro e socievole per stare bene in quel contesto. Mi stavo spegnendo. È vero anche che nel ‘96 non c’erano i problemi di disoccupazione che ci sono oggi. Come sono i turni di un agente? Turni da otto ore ma non continuative. Per esempio due ore al muro di cinta con la mitragliatrice, due ore in sezione. Poi ovviamente per carenza di personale si faceva anche la guardia all’esterno. Entrare nella Polizia penitenziaria è una bella occasione se sei raccomandato e magari lavori presso il ministero. Se non conosci nessuno, finisci in carcere. Io all’epoca pensai: fare questo lavoro per 30 anni significa vivere in carcere per 20! Assurdo! Molti si licenziano, anche se è un posto statale e sicuro. Quanto si guadagna? Io prendevo un milione di lire. I miei ex colleghi oggi arrivano a prendere anche 1.700 euro con i vari scatti di anzianità, circa 100 euro ogni 5 anni. In busta paga poi c’è anche l’indennità di rischio e 45 giorni circa di ferie l’anno. Giustizia: il caso di Giuseppe Gulotta, assolto dopo ventidue anni di carcere di Nicola Biondo L’Unità, 28 gennaio 2013 Era stato accusato di averli uccisi trentasette anni fa. E con un verdetto definitivo la giustizia lo aveva condannato all’ergastolo, marchiandolo come assassino. Poi una sentenza di revisione, lo scorso febbraio, ha rimesso tutto in gioco, restituendogli, dopo ventidue anni di carcere, l’onore. Oggi Giuseppe Gulotta, 55 anni, parla per la prima volta di quella strage, di quei due giovani carabinieri uccisi ad Alcamo Marina, provincia di Trapani. Dei segreti e dei silenzi che ancora avvolgono la strage. Era il 27 gennaio 1976 quando Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta vengono uccisi nella caserma dove prestavano servizio. A finire dentro sono cinque ragazzi, torturati e costretti a firmare un verbale di confessione. Per Gulotta, una vita passata dietro le sbarre per un reato mai commesso, oggi è un giorno particolare. Pieno di ricordi, rimpianti e accuse che vanno dritte al cuore dello Stato. “Io sono la terza vittima. Ho passato 22 anni in carcere da innocente. Se fossi in Sicilia andrei a deporre un mazzo di fiori per quei ragazzi”. Lei è stato torturato dai Carabinieri per ottenere una confessione e poi è finito all’ergastolo. Una vita bruciata. “Chi mi ha torturato voleva consegnare un falso colpevole alla giustizia, voleva chiudere come in un delitto perfetto il caso di Alcamo Marina: i colpevoli fuori, gli innocenti in carcere, il vero movente completamente oscurato”. Sta dicendo che qualcuno all’interno dell’Arma sapeva il perché delle morti di Apuzzo e Falcetta? “Oggi finalmente conosco i nomi di chi con una divisa addosso mi ha torturato e ha falsificato la mia confessione. La lista è lunga. Vede questo documento? Attesta la presenza di una decina di carabinieri presenti alle torture a cui io e gli altri sospettati siamo stati sottoposti: botte, minacce, finte esecuzioni, scariche elettriche, acqua e sale versati in gola. Il mistero è nascosto nel ventre oscuro dell’Arma. Gli abusi dovevano consegnare alla giustizia i colpevoli perfetti, così da chiudere il caso. Nessuno si è mai esposto nemmeno dopo la mia definitiva assoluzione che afferma che contro di me non c’era una prova, solo la confessione a suon di botte che ho subito ritrattato”. Tutti zitti tranne Renato Olino, un brigadiere presente alle torture che nel 2008 ha raccontato tutto ai giudici... “Aveva provato a dire la verità molto prima, ma nessuno voleva ascoltarlo. Anche per lui le responsabilità della strage vanno cercate all’interno dello Stato”. Che fine hanno fatto gli altri militari? “Alcuni sono morti, altri sono stati indagati ma è passato troppo tempo e l’indagine è ormai prescritta perché in Italia non c’è il reato di tortura. Ma che Stato è quello che condanna un innocente e non fa nulla contro chi ha macchiato la divisa?”. Lei punta il dito sulla squadra del colonnello Nini Russo, l’uomo che guidò le indagini e la torturò. Ufficialmente è un’icona della lotta antimafia. “Né Russo né i suoi uomini mi sono apparsi come eroi antimafia. Mi hanno torturato, picchiato, puntato una pistola in faccia. Avevo diciotto anni, dopo una notte d’inferno mi sono fatto la pipì addosso e sono svenuto. Quando sono rinvenuto mi sono arreso. E loro si sono inventati un verbale e me l’hanno fatto firmare”. Torture e false confessioni a cui i giudici hanno creduto. “Non sono solo vittima di un errore giudiziario, ma di una frode processuale. Le prove sono state costruite con le torture e su dati falsi. I magistrati, pur con le loro colpe, sono anch’essi “vittime”, sono stati presi in giro. Ma non dimentico che sono stati altri magistrati a dichiararmi innocente, a fare giustizia”. Lei alla fine ha avuto giustizia seppure 36 anni dopo i fatti. “Sì, mentre per Apuzzo e Falcetta non c’è giustizia né verità”. Dopo la sua assoluzione le istituzioni si sono fatte vive, anche solo per darle un segno di solidarietà? “Nessuno. Solo il direttore del carcere di San Gimignano, dove ho scontato la mia pena, mi ha chiamato. È stato bello sentire la sua voce”. E l’Arma dei Carabinieri? “Dall’Arma non ho avuto nessun segnale. Dovrebbero chiedere scusa alle famiglie di Apuzzo e Falcetta, per averli illusi con una falsa verità, per aver dato loro dei falsi colpevoli, per non aver reso loro giustizia. È così che hanno creduto di onorare la loro morte?” Per 36 anni lei è stato un assassino. Ha subito nove processi, una condanna all’ergastolo, ha passato 22 anni in carcere. Adesso ha chiesto un risarcimento record allo Stato, 69 milioni di euro. “Qualcuno dice che è un’enormità ma lei per quale cifra è disposto a sacrificare gli anni più belli della sua vita? Voglio dare vita ad un’associazione che si occupi di chi giovane e con pochissimi mezzi come ero io deve fronteggiare una disgrazia come questa. E fare del bene a chi ha aiutato la mia compagna e i miei figli cresciuti senza di me, mentre io avevo il marchio dell’infamia”. Lei si è fatto un’idea del perché della strage? “Per ricostruire una parte della mia vita ho dovuto fare un viaggio infernale nei buchi neri di questo Paese. Intorno alla strage si muovono, secondo le nuove indagini, apparati di stato e uomini di mafia. Io sono stato stritolato da questo tritacarne ma ho fiducia nella giustizia. Lei non sa cosa darei per sapere la verità su quei poveri ragazzi”. Due dei condannati, anche loro torturati, hanno scelto di fuggire. Perché lei no? “Ho fatto come Socrate, ho accettato la condanna ingiusta, ho bevuto la cicuta. Ma lo rifarei. Non volevo fuggire, volevo giustizia. Mi hanno piegato ma non mi sono fatto bruciare l’anima dalla rabbia. Non sono impazzito perché io ero, sono pulito”. Come ha fatto a resistere? “Ho combattuto per non farmi schiacciare dal buio, non ho mai dimenticato che anche io avevo diritto ad essere felice. Nonostante il dolore non sono riusciti a cambiarmi. Se non avessi avuto la mia compagna e i miei figli non ce l’avrei fatta. Ho resistito per loro e grazie a loro. E oggi mi sento di dire che posso pubblicamente onorare la morte di quei due poveri ragazzi”. Lettere: la testimonianza di Giulio Petrilli, racconta l’inferno del carcere di Bellizzi Irpino www.clandestinoweb.com, 28 gennaio 2013 Una storia che ha dell’assurdo, che dovrebbe far ripensare all’intero sistema giustizia italiano, logoro, lento e troppo spesso fuori legge. Per non parlare delle carceri che violano ogni diritto umano. La raccontata Giulio Petrilli, detenuto per sei lunghi anni nel carcere Bellizzi Irpino “ingiustamente”, al quotidiano Ristretti Orizzonti, un racconto riportato anche dalla deputata radicale Rita Bernardini sul suo blog. “Non mi hanno riconosciuto la riparazione per ingiusta detenzione, ma non possono impedirmi di raccontare ciò che ho subito durante quei lunghi sei anni. Qualche magistrato coraggioso riapra i casi, archiviati, degli strani suicidi nel carcere di Bellizzi Irpino”, spiega Petrilli che parte da un’intervista ascoltata su Radio Carcere di un altro detenuto che ha vissuto un’esperienza simile alla sua nello stesso penitenziario. “Leggo proprio oggi su Ristretti Orizzonti, l’intervista fatta a Radio Carcere (rubrica di Radio Radicale) di un detenuto del carcere di Bellizzi Irpino (Avellino), che denuncia le vessazioni cui è stato sottoposto. Racconta di tanti detenuti, malmenati e lasciati nudi in celle fredde e anguste con i materassi bagnati”, spiega Petrilli. “Paragona quel carcere a quello iracheno di Abu Graib - aggiunge - dove si sono perpetrate le peggiori torture. Il carcere di Bellizzi Irpino, fu aperto nel luglio del 1994. Io lo conosco bene perché lo inaugurai. Trasferito, a fine luglio del 1994, dal super carcere di Trani, passai dall’articolo 90 (attuale 41 bis) alla massima sicurezza (un gradino più basso) del carcere di Bellizzi Irpino-Avellino”. Il resto del racconto è tutto incentrato sulle condizioni di vita dei detenuti in quello l’ex detenuto chiama “inferno”. “Credevo finalmente di trovare un trattamento migliore, invece trovai l’inferno - spiega ancora. Niente acqua, in piena estate, con un caldo torrido. Dopo una settimana senza acqua, protestammo con una semplice battitura. La mattina presto arrivarono gli agenti in massa e prelevarono tre di noi, che consideravano i leader della protesta”. Il resto è un racconto che lascia senza parole: “Mi tolsero gli occhiali e lungo le scale botte da orbi, mi colpirono con violenza in tutto il corpo e in particolare agli occhi, non vedevo più, poi la vista riprese, ma con dei punti neri che non se ne sono più andati. Danni permanenti, delle ferite alla retina, diagnosticarono i medici. Retina che non si staccò per miracolo. Fratture e lesioni alle costole, per un mese non riuscivo quasi a respirare, anti infiammatori e anti dolorifici sempre. Denunciai al magistrato di sorveglianza l’accaduto. Dopo questa denuncia, dovevo partire per Milano perché iniziava il mio processo d’appello (processo dove mi assolsero dopo sei anni di carcere preventivo). Mi prelevarono la notte prima e mi dissero che mi avrebbero fatto fare loro una bella protesta, facendomi capire che mi avrebbero “suicidato”, infatti in dieci mi portarono dentro una cella di isolamento. Mi dissero chiaramente che se insistevo nelle denunce quella sarebbe stata la mia fine”. In conclusione la testimonianza richiama l’attenzione su una vera e propria emergenza e chiede giustizi e interventi seri: “Ho fatto denunce dell’accaduto sia al magistrato di sorveglianza di Avellino che a quello di Milano, ma mai una risposta. Negli anni seguenti, in quel carcere si sono registrati diversi suicidi. Sia nel carcere femminile che maschile”, conclude Petrilli. Lettere: dobbiamo risarcire i criminali? risponde un volontario penitenziario… www.lafraternita.it, 28 gennaio 2013 La Corte europea ha condannato ancora una volta l’Italia a risarcire le vittime del sovraffollamento carcerario. “È pazzesco”, scrive all’Arena un indignato, “che, con la dirompente crisi economica che abbiamo in Italia, dobbiamo risarcire con 100.000 euro dei criminali - solo perché ciò ci è stato imposto dall’Europa”. E prosegue in tono con una galleria di luoghi comuni evidentemente assorbiti dalle falsificazioni di certa propaganda. Un volontario della Fraternità ha ritenuto opportuno rispondere per non lasciare le informazioni distorte come unica voce, col rischio che altri lettori le considerino attendibili. Precisazioni indispensabili, di Arrigo Cavallina (L’Arena di Verona) Lo scorso 8 gennaio la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia a risarcire alcune persone per il periodo in cui sono state detenute in condizioni che la Corte stessa ha riconosciuto “inumane e degradanti” in violazione dell’art. 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo. Era una decisione facilmente prevedibile, preceduta da una simile e che sarà seguita da molte altre. La carcerazione infatti consiste in una privazione di libertà, ma non di dignità e di diritti, che vanno comunque tutelati ed eventualmente risarciti. L’attuale sovraffollamento, denunciato anche dal presidente Napolitano, costringe gran parte dei detenuti ad abitare e trascorrere il tempo ammassati in celle avendo a disposizione meno dei 4 metri quadrati a persona che la Corte europea considera il minimo tollerabile. L’indignazione non nasce quindi dalla sentenza sul fatto quanto dal fatto in sé. Tutti gli operatori competenti (dalle commissioni istituzionali alle rappresentanze sindacali al volontariato) indicano concordemente rimedi di sfoltimento che si infrangono in Parlamento contro le ideologie o le scelte di propaganda di alcuni partiti. Su L’Arena dell’11 gennaio un lettore sembra ragionare diversamente, ma non mi interessa discutere le sue opinioni quanto precisare alcuni dati di fatto che il lettore evidentemente non conosce e quindi cita erroneamente. Non è vero che il risarcimento è dovuto a “criminali”. Non sappiamo per quali reati erano detenuti e non sappiamo nemmeno se erano condannati o presunti innocenti in attesa di giudizio. Non è vero che i radicali (e le associazioni di volontariato) non parlano dei tanti poliziotti penitenziari (non “guardie carcerarie” come scrive il lettore) suicidi. Ne parlano spesso, accostandoli al numero ancora più impressionante dei detenuti suicidi per testimoniare il malessere complessivo del nostro sistema carcerario. Non è vero che viene proposto come soluzione “l’indulto di delinquenti e stupratori”. La proposta (sulla quale ho personalmente alcune riserve) è di amnistia per reati minori, cioè per quelli al di sotto di un tetto di pena che certo esclude gli stupratori. Non è vero che l’80% delle persone scarcerate con l’indulto del 2006 sono tornate a commettere reati. In base ai dati trasmessi dal ministero della Giustizia, dopo 5 anni dall’indulto la recidiva ha riguardato il 34% dei beneficiari, mentre secondo un’altra rilevazione la recidiva ordinaria, dopo 7 anni, di chi ha scontato tutta la pena in carcere è del 68%. Quindi paradossalmente (ma non tanto, per chi conosce la situazione) proprio la permanenza prolungata nel carcere (sovraffollato e con scarse occasioni di trattamento risocializzante) è generatrice di propensione ad infrangere ancora la legge. Non è vero che un detenuto costa 450 euro al giorno. Secondo gli ultimi dati di bilancio, dividendo la spesa totale per le carceri per il numero di ! detenuti si ottiene una cifra i mensile di 3.512 euro, che divisi per 30 fanno 117 euro al giorno a persona. È comunque un importo rilevante, ma riguarda per l’88% le spese per il personale e solo per il 7% i detenuti, che ricevono giornalmente servizi (comprendenti vitto, materiale igienico, lavoro, attività trattamentali, servizio sanitario, trasporto) per un totale di 8,50 euro. Su una sola affermazione posso concordare con l’autore della lettera: di far svolgere ai detenuti lavori di utilità sociale. È una richiesta degli stessi detenuti e ! avrebbe il valore di un recupero di dignità, di responsabilità e di riparazione. Lettere: Gallinari al Campone www.lafraternita.it, 28 gennaio 2013 Dopo i funerali del brigatista rosso Prospero Gallinari, che aveva partecipato tra l’altro all’omicidio di Aldo Moro e della sua scorta, un noto, anziano militante dell’estrema destra scrive all’Arena per ricordare un episodio, quando Gallinari è stato detenuto nell’infermeria del vecchio carcere veronese del Campone, con alcuni fascisti. I due estremi del male, il brigatista rosso e i fascisti. Eppure… c’è sempre qualcosa di bene nelle persone, magari esce stravolto nel male per ideologie, sogni radicalmente sbagliati, false coerenze, inganni, ma almeno per una volta, forse anche altre volte, esce integro e diventa (dice il titolo della lettera), “lezione di civiltà”. Gallinari. Lezione di civiltà, di Luigi Bellazzi (L’Arena di Verona) Il compagno Prospero Gallinari è passato a miglior vita “Era ora” avranno detto molti benpensanti. “Finalmente” avranno aggiunto gli anticomunisti da strapazzo. Prospero Gallinari (“Gallo” era il “nome de piume” per i suoi compagni di Reggio Emilia) nel suo girovagare per le carceri italiane nel 1976 a Verona si trovò, per alcuni mesi, nell’infermeria del carcere dell’allora “Campone” o “settantanove” (dalla caserma del 79° Fanteria nella via del Fante, dove il carcere trovò collocazione dopo la seconda guerra mondiale). Nell’estate del 1976 in quell’infermeria convissero il brigatista rosso e una masnada di sguaiati fascisti. Prospero non aveva un centesimo e per il “sopravvitto” fu quotidianamente ospitato a pranzo e cena proprio dagli odiati fascisti (che a loro volta odiavano i “comunisti”). Per l’infermeria “girava” uno scopino (addetto alle pulizie) talmente sporco e lurido da far ribrezzo persino in un ambiente sporco e lurido qual è il carcere. Un giorno lo “scopino” ottenne il permesso di far visita alla figlia ricoverata in un ospedale per una grave malattia. Lo scopino (eravamo in piena estate) chiese se qualcuno avrebbe potuto prestargli una camicia con le maniche lunghe per nascondere agli occhi della figlia gli osceni tatuaggi che gli ricoprivano le braccia. Tatti si defilarono, l’idea di prestare una camicia al lurido e puzzolente scopino non fece breccia nemmeno tra la normale solidarietà tra detenuti. Gallinari aveva una sola camicia con le maniche lunghe, ovviamente rossa, appartenuta a non si sa quale parente comunista. Conservava quell’unica camicia come una reliquia e la indossava solo nei giorni di visita della sorella col nipotino. Prospero non ci pensò un attimo e prestò la sua unica camicia al ripugnante scopino per consentirgli di visitare la figlia senza vergognarsi degli osceni tatuaggi sulle braccia. I fascisti diedero una lezione di civiltà al comunista Gallinari con la loro ospitalità a pranzo e cena. Gallinari diede a loro una ancor più grande lezione di civiltà con l’esempio della solidarietà che deve sempre vigere nei confronti dell’ultimo della fila. Di lì a poco lo scopino uscì dal carcere e finì morto ammazzato. Prospero Gallinari venne invece trasferito nel carcere di Treviso da dove evase dopo qualche mese per dare il via al “sequestro Moro”. I fascisti nel frattempo erano stati scarcerati e chi tornò in via Mazzini a vendere guanti, chi all’università: per diventare architetto e chi perfino per diventare avvocato. Trentino Alto Adige: carceri regionali in grave situazione, Bolzano peggio di Trento Alto Adige, 28 gennaio 2013 Non solo aumentano i reati, ma le scarse risorse falcidiano i ranghi della magistratura e le sedi. Così la crisi economica batte forte due volte sul sistema giustizia. È quello che ha sottolineato il presidente della Corte d’appello Carlo Maria Grillo nella sua relazione di apertura della cerimonia che è stata disertata dalla Camera penale di Bolzano in segno di protesta per le condizioni in cui versa il carcere del capoluogo altoatesino e per chiedere una vera terzietà del giudice rispetto alle parti del processo. Grillo ha dedicato grande attenzione proprio al problema delle carceri che in regione vivono problemi opposti. A Trento il carcere è nuovo, ma “è particolarmente critica la situazione del personale per il perdurare di rilevanti scoperture che ne rendono difficile la gestione, anche in considerazione del fatto che la nuova Casa circondariale ospita una popolazione carceraria di numero decisamente superiore alla somma dei detenuti che erano presenti nelle vecchie strutture di Trento e Rovereto”. Anche peggio va a Bolzano, dove la struttura “è allocata in un immobile vetusto e scarsamente funzionale con notevole sovraffollamento e con presenza di detenuti ampiamente superiore alla capienza tollerabile, tanto che c’è stata anche una rivolta di circa settanta ospiti”. Grillo ha anche sottolineato le gravi carenze di organico dei magistrati a Bolzano. Il presidente si è soffermato a lungo anche sulle risorse economiche: “Sono 12 anni che il Ministero della giustizia non assume personale amministrativo”. Scarsità di risorse, ma anche scarsa fantasia: “Grazie alla legge Pinto lo Stato risarcisce centinaia di milioni per i ritardi della giustizia. Perché non si investono quei soldi per rendere i processi più rapidi?”. Interrogativo che, per ora, si perde nel vuoto. Bergamo: un detenuto colombiano di 23 anni si è impiccato nel carcere di Via Gleno Ristretti Orizzonti, 28 gennaio 2013 Sale così a 4 il numero dei detenuti che si sono suicidati dall’inizio del 2013, per un totale di 13 decessi. Questo è l’ottavo suicidio che avviene nel carcere di Bergamo negli ultimi 10 anni. Romirez Santana, una ragazzo di 23 anni, si è impiccato nella sua cella del carcere di Bergamo. Il suicidio è avvenuto giovedì scorso, ma la notizia è stata diffusa solo oggi. Da quanto si è appreso, pare che il ragazzo abbia aspettato che i compagni di cella uscissero, per poi impiccarsi con un lenzuolo nel bagno della cella. Intorno a mezzogiorno, un altro detenuto che portava il vitto nelle celle ha dato l’allarme, ma purtroppo quel ragazzo era ormai agonizzante. Il giorno prima del suicidio aveva saputo di essere stato condannato a 2 anni e 8 mesi di reclusione. Rimane la realtà di un paese che rispetto agli standard europei ricorre pochissimo alle misure alternative alla carcerazione e i dati del 2010 sono in tal senso esemplificativi: in Francia se i detenuti sono 59.856, i soggetti in esecuzione penale esterna sono 173.022; nel Regno Unito a fronte di 86.627 nelle carceri, in esecuzione esterna sono 237.087 persone; in Italia invece i 67.961 reclusi sono in netta maggioranza rispetto ai soli 18.435 soggetti che usufruiscono di pene alternative. Quello di giovedì è il quarto suicidio nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno. Nel 2012 i detenuti che si sono tolti la vita sono stati 60. A gennaio la Corte europea dei Diritti Umani aveva accolto il ricorso di alcuni detenuti per la situazione di grave sovraffollamento in cui sono costretti. La Corte ha sanzionato l’Italia per violazione dell’articolo 3 della convenzione che proibisce “la tortura o i trattamenti inumani o degradanti”. Sappe: ancora un detenuto suicida, l’ennesima triste notizia Si è suicidato nella sua cella del carcere di Bergamo il ragazzo straniero di 23 anni, che divideva la camera con altri 2 detenuti. Lo riferisce una nota di Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria, Sappe. Il ragazzo era appena stato condannato ad una pena di 2 anni e 6 mesi per i reati di spaccio di sostanza stupefacente e rapina e non ha probabilmente retto alla condanna. È accaduto giovedì a Bergamo, dove l’uomo si è impiccato alle sbarre della sua cella, prosegue la nota. “È l’ennesima triste notizia che ci troviamo a commentare - commenta Capece - Abbiamo detto anche in altre analoghe situazioni che il suicidio in carcere è sempre - oltre che una tragedia personale - una sconfitta per lo Stato. Il Comitato nazionale per la bioetica ha recentemente sottolineato che il suicidio costituisce solo un aspetto di quella più ampia e complessa crisi di identità che il carcere determina, alterando i rapporti e le relazioni, disgregando le prospettive esistenziali, affievolendo progetti e speranze. La via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi è quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere, argomento rispetto al quale il Sappe, è da tempo impegnato”. “Nella situazione in cui versa attualmente il pianeta carcere gli eventi critici potranno solo che aumentare in modo esponenziale e l’operato del personale di Polizia Penitenziaria risulterà vano se non si troverà una celere soluzione a tutte quelle criticità legate alla maggior parte degli istituti penitenziari italiani - prosegue Capece. Se la già critica situazione penitenziaria del Paese non si aggrava ulteriormente è proprio grazie alle donne e agli uomini del Corpo di Polizia Penitenziaria, che tra il 2010 ed il 2012 sono intervenuti tempestivamente in carcere salvando la vita a più di 3.000 detenuti che hanno tentato di suicidarsi ed impedendo che gli oltre quattordicimila atti di autolesionismo posti in essere da altrettanti ristretti potessero degenerare ed ulteriori avere gravi conseguenze. Poliziotti, è bene ricordarlo, i cui organici sono carenti di oltre 6mila e 500 unità e che mantengono l’ordine e la sicurezza negli oltre duecento Istituti penitenziari a costo di enormi sacrifici personali, mettendo a rischio la propria incolumità fisica, senza perdere il senso del dovere e dello Stato”. Reggio Calabria: manca il Ministro, niente inaugurazione del nuovo carcere di Arghillà www.reggiotv.it, 28 gennaio 2013 Niente Ministro, niente inaugurazione. Salta così per la terza volta l’annunciata cerimonia di apertura del carcere di Arghillà, che a questo punto rischia di diventare davvero una barzelletta dal finale amaro. In anteprima, una settimana fa, vi avevamo annunciato la presenza del guardasigilli Severino a Reggio Calabria, come da agenda dello stesso Ministro, per aprire i cancelli della megastruttura carceraria di Arghillà. Una cerimonia che avrebbe dovuto sancire il passaggio di consegne delle struttura dal Provveditorato delle opere pubbliche all’Amministrazione Penitenziaria. Un passaggio formale ma necessario per rendere definitivamente attiva la casa circondariale della zona nord di Reggio. Una visita annunciata mesi addietro dallo stesso ministro della Giustizia; una data che eravamo riusciti a darvi in anteprima spulciando tra le impervie questioni burocratiche del mondo penitenziario. Lunedì 28 gennaio, invece, rischia di diventare l’ennesima data di beffa, per una vicenda che di tappe assurde ne ha passate a bizzeffe nell’arco degli ultimi 14 anni. Ricordiamolo, è dal settembre del 1998 che il carcere di Arghillà aspetta di essere reso operativo. E sbaglia chi pensa “che sia un problema burocratico - tuonano oggi stesso i vertici del Sappe, il sindacato autonomo di Polizia penitenziaria - si tratta semplicemente di un problema politico”. C’è profonda delusione e scoramento per questa vicenda assurda. “E pensare che fra 60 giorni esatti la struttura sarà ultimata e pronta a ricevere i 341 detenuti previsti - denuncia un amareggiato Massimo Musarella, segretario provinciale del Sappe, raggiunto telefonicamente dalla nostra redazione. “I padiglioni sono completati, mancano solo le rifiniture ed i definitivi collaudi - ci confessa il sovrintendente reggino della Polizia Penitenziaria - le imprese stanno lavorando da giorni e lo hanno fatto anche ieri in previsione della presenza del Ministro”. Ma Paola Severino, che ieri era a Torino per inaugurare l’anno giudiziario, a Reggio non verrà. Non è dato sapere il perché. Forse per impegni istituzionali, forse l’impegno sull’agenda non è stato mai scritto, forse ha preferito evitare di scontrarsi con la grande manifestazione di protesta prevista dal comitato “Salviamo il Carcere di Laureana di Borrello” per la sua riapertura. Già pronti 4 pullman di manifestanti in partenza dalla Piana, ieri sera disdetti saputa la notizia. I dimostranti, tuttavia, sono stati invitati a partecipare ad un prossimo sit-in che si dovrebbe tenere davanti alla sede del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di Catanzaro. E non è escluso - fa sapere il Comitato di Laureana - che da Catanzaro il corteo si sposti a Roma davanti al Ministero della Giustizia. Reggio Emilia: magistrato sorveglianza denuncia “all’Opg cure non adeguate per i malati” Ansa, 28 gennaio 2013 “Tra le molte cose da fare per l’amministrazione della Giustizia appare assolutamente ineludibile l’intervento dei nostri governanti nel settore carcerario. Di constatazione drammatica dell’aggravamento delle condizioni di vita degli istituti di pena del distretto per causa del loro grave sovraffollamento parla il presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna”. Così il presidente della Corte d’appello di Bologna, Luciano Lucentini, all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Lucentini ha ricordato la recente condanna della Corte europea per le condizioni delle carceri di Piacenza e Busto Arsizio. “Riferisce il magistrato di sorveglianza - ha aggiunto - che nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia, colpito pur esso da sovraffollamento (là quanto mai pericoloso, la convivenza riguardando soggetti portatori di patologie psichiatriche), appare addirittura problematica la possibilità di adeguate cure e trattamenti psichiatrici nei confronti degli internati”. Cagliari: Sdr; 35 detenuti sardi senza colloqui, molti poveri non hanno soldi per telefonate Ristretti Orizzonti, 28 gennaio 2013 “La condizione detentiva rivela una Sardegna povera, dove purtroppo anche la solidarietà sociale è in profonda crisi. Basti pensare che nel 2012 nell’Istituto Penitenziario di Buoncammino ben 35 cittadini sardi privati della libertà, tra cui una donna, non hanno fatto alcun colloquio con i familiari e/o parenti. Ciò significa che queste persone vivono affettivamente deprivate e sono profondamente sole. Il dato è allarmante se si considera anche l’alta percentuale di detenuti extracomunitari che non effettuano colloqui perché lontani dalla famiglia”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, osservando che “la presenza nelle strutture detentive di persone abbandonate dai parenti per diverse cause, non ultima le disagiate condizioni economiche, rende l’esperienza carceraria un profondo trauma in grado di generare gesti autolesionistici”. Il monitoraggio effettuato dalla Direzione del carcere, particolarmente attenta ai bisogni dei nullatenenti, mostra una situazione preoccupante che accresce la gravità del sovraffollamento. “I detenuti privi di relazioni affettive stabili, che quindi non fruiscono di colloqui, raramente - sottolinea Caligaris - riescono a fare qualche telefonata, anche perché senza mezzi economici. Si tratta di persone che destano particolare preoccupazione tra gli Agenti, gli Educatori e gli Psicologi. Spesso sono schive e silenziose e non formulano richieste, in altri casi invece richiamano l’attenzione con gesti clamorosi, apparentemente inspiegabili. Sono la testimonianza di quanto sia cambiata nel tempo la tipologia del detenuto isolano e confermano l’alta percentuale di disagio sociale dentro le carceri”. “L’anno scorso Buoncammino ha raggiunto il massimo storico di sovraffollamento e ha registrato anche questa alta quota di disagio. Ai 35 sardi devono essere aggiunti altri sette detenuti che hanno fatto un solo colloquio nell’intero anno e sei che hanno incontrato i parenti due volte. L’assenza di rapporti affettivi frequenti - conclude Caligaris - rende ancora più importante la presenza dei volontari nelle strutture penitenziarie. Le nuove strutture appena inaugurate o in fase di allestimento, per la lontananza e quindi la difficoltà a raggiungerle, rischiano di cancellare l’apporto di quanti con spirito solidale offrono occasioni per condividere il disagio della privazione della libertà”. Sassari: la Garante Cecilia Sechi; nel carcere di San Sebastiano una situazione infernale La Nuova Sardegna, 28 gennaio 2013 La denuncia della garante dei detenuti Cecilia Sechi: “A San Sebastiano anche otto persone in ogni cella. Nessuna separazione tra bagni e cucinini. Si spera che il nuovo penitenziario sia pronto entro maggio”. Nel carcere San Sebastiano di Sassari la situazione è “infernale”. La denuncia è della garante dei detenuti del penitenziario sassarese Cecilia Sechi, in un’audizione davanti alla commissione Affari generali del Comune presieduta da Sergio Scavio. La casa circondariale conta 145 detenuti, di cui 14 donne, una insieme a un figlio, a fronte di una capienza massima prevista di 90 persone, ma la scorsa estate sono stati anche 200. Cinquanta sono in attesa di giudizio, 18 sono appellanti e otto ricorrenti. Un terzo è composto da stranieri, mentre poco meno della metà è tossicodipendente e non dovrebbe trovarsi in carcere. Alcuni dei cento agenti che lavorano nel penitenziario da quasi vent’anni, ha detto la garante, hanno parlato di una situazione “mai così drammatica”. Alcune celle sono condivise anche da otto persone. La struttura, costruita nel 1871 e sottoposta a vincolo dalla Sovrintendenza dei beni culturali, soffre in particolare il problema dell’acqua. L’ente gestore Abbanoa - è stato detto - non provvede ad avvisare in tempo utile l’interruzione del servizio, aumentando così il disagio di chi è costretto a vivere in una cella di pochi metri quadri con il bagno e il cucinino non separati da alcuna porta o barriera. Non sono previsti interventi migliorativi della struttura, anche perché è quasi pronto il nuovo carcere di Sassari, nella borgata di Bancali. Il penitenziario dovrebbe essere pronto a luglio prossimo, ma la speranza - ha detto Sechi - è che già a maggio possano essere trasferiti i primi detenuti. La nuova struttura potrà ospitare fino a 400 persone, le donne avranno un padiglione a parte in cui è previsto un nido per i bambini, così come i detenuti sottoposti a regime di 41bis che saranno rinchiusi in una palazzina apposita. Le celle saranno occupate al massimo da due persone e i bagni sono separati da porte. La struttura ospiterà una chiesa e aree di culto per altre religioni, una palestra e un cinema - teatro. Data la distanza del nuovo carcere dalla città, sarà previsto un accordo con l’azienda pubblica per il trasporto dei familiari dei detenuti. Carceri: Sarno (Uil-Pa); nel carcere di Marassi tubi del gas usurati, grave pericolo Agenparl, 28 gennaio 2013 “Lungi da noi alimentare inutili ed ingiustificati allarmismi, però aver acquisito la notizia che al carcere di Genova Marassi è stata accertata una grave usura delle tubazioni del gas, soprattutto nella zona sottostante i locali della mensa del personale, non può non ingenerare in noi una responsabile preoccupazione e chiedere al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziari a di intervenire con immediatezza per ripristinare le condizioni di sicurezza”. A dichiararlo in una nota è il Segretario Generale della Uil-Pa Penitenziari, Eugenio Sarno. “L’usura dei tubi del gas - aggiunge Sarno - è stata riscontrata durante alcuni controlli effettuati al carcere di Marassi, affidati ad una ditta esterna specializzata, sulle tubature idriche che presentavano alcune perdite. Ci consta che la relazione redatta dal reparto Mof (Manutenzione Ordinaria Fabbricati) della polizia penitenziaria che ha coadiuvato la ditta nelle ispezioni, parla esplicitamente di condizioni di pericolo”. “È dunque legittima - sottolinea Sarno - la nostra preoccupazione e ancor più la richiesta al Dipartimento e al Provveditorato di provvedere all’immediata erogazione dei fondi necessari per ripristinare le condizioni di sicurezza. Le carenze strutturali degli edifici penitenziari, risalenti all’800, sono per la Uil-Pa Penitenziari uno dei più gravi ed urgenti problemi da risolvere una delle criticità più evidenti, oltre al sovraffollamento delle celle ed alle critiche condizioni di lavoro. Basti ricordare, a titolo di esempio, i crolli di Potenza e Taranto, oppure riferirci alle condizioni delle Sughere di Livorno, di Milano San Vittore, di Catania Bicocca o, in Liguria, a Savona perché emerga l’urgenza della definizione di un piano di manutenzione straordinaria degli edifici in stato di degrado ed insalubrità, come ho potuto certificare con un servizio fotografico al carcere di Avellino”. “La questione dell’edilizia penitenziaria - ricorda il leader della Uil-Pa Penitenziari - è stata sollevata opportunamente poche ore fa anche dal ministro Severino. Affidare il piano carceri ad un Prefetto, scippandolo alle competenze dell’Amministrazione Penitenziari a, è stato un atto scellerato da parte del Governo Monti. Un piano carceri funzionale alle esigenze del sistema non deve puntare solo all’implementazione dei posti detentivi ma deve anche assicurare la costruzione di carceri in quelle realtà territoriali che producono detenzione indigena e quindi deve essere funzionale anche a deflazionare le movimentazioni di detenuti. Per quanto ci riguarda le vere esigenze attuali ci porterebbe ro ad auspicare la costruzione di istituti nelle aree metropolitane di Milano, Roma, Napoli e Palermo”. “Però se è vero, come è vero, che per costruire nuove carceri mediamente occorrono dagli otto ai dodici anni - chiude Eugenio Sarno - ci pare assolutamente imprescindibile che il futuro Governo calendarizzi nella propria agenda la questione penitenziaria, avendo ben presente che non si possono celebrare le nozze con i fichi secchi, ovvero non si possono aprire nuovi reparti o costruire nuove carceri senza prevedere l’incremento degli organici della polizia penitenziaria (già carenti di 7mila unità) e degli operatori socio-pedagogici. Purtroppo nella campagna elettorale in corso non c’è traccia alcuna di questi temi, quasi a certificare l’endemica distrazione dei partiti su una delle più delicate questioni sociali che, non dimentichiamo, hanno portato la Cedu a condannare più volte l’Italia per le condizioni degradanti ed inumane della detenzione”. Palermo: pacco bomba a sovrintendente del “Pagliarelli”, fortunatamente non esplode Italpress, 28 gennaio 2013 Un pacco bomba è stato recapitato ad un sovrintendente della polizia penitenziaria in servizio presso la casa circondariale Pagliarelli, a Palermo. Lo rende noto il segretario dell’Osapp, Mimmo Nicotra. “Il pacco - spiega il sindacalista - sarebbe stato inviato con messo postale già dai primi giorni di gennaio 2013 e tra il personale che l’ha ricevuto e l’ha custodito fino a pochi giorni fa non ha destato alcun sospetto perché nell’indicazione del mittente i mandanti avevano utilizzato la ragione sociale di un sindacato di polizia penitenziaria ed è per questo che sin dall’inizio, si è pensato probabilmente, che si trattasse dei soliti gadget che annualmente si distribuiscono al personale”. “Fortunatamente - aggiunge il sindacalista - il lasso di tempo tra la spedizione dell’ordigno e la sua apertura è stato abbastanza lungo da favorire l’azzeramento delle batterie che presumibilmente avrebbero dovuto garantire prima l’innesco e poi l’esplosione del pacco bomba”. “Questo episodio - prosegue Nicotra - è di una gravità tale che, prima che in Sicilia si torni indietro di decenni, lo stato deve porre in essere immediati correttivi al sistema penitenziario prevedendo da subito l’incremento di personale di polizia penitenziaria ed un progressivo sfollamento delle strutture penitenziarie”. “Questa volta - conclude il sindacalista - si può parlare fortunatamente di un pacco bomba inesploso ma fino a quando si potrà contare solo sulla buona sorte?”. Catania: Cisl; agente ferito in rissa tra detenuti minorenni nell’Ipm di Acireale Ansa, 28 gennaio 2013 Un agente di polizia penitenziaria è rimasto ferito durante una rissa tra detenuti dell’istituto per minorenni di Acireale. Lo rende noto la Fns-Cisl di Catania. “Oggi poteva scapparci il morto - afferma il segretario del sindacato, Antonio Sasso - i pochi uomini rimasti sono allo stremo delle forze sia fisica che psicologica, per i continui turni massacranti scaturiti da tale carenza. O si invia subito un folto contingente di agenti - osserva il sindacalista - oppure l’Istituto penitenziario per minorenni di Acireale deve essere accorpato urgentemente con la struttura di Bicocca, a Catania”. Massa Marittima; slow food entra in carcere per insegnare ai detenuti che “gusto è libertà” www.ilgiunco.net, 28 gennaio 2013 Si svolgerà domani presso il carcere di Massa Marittima, il 50esimo laboratorio del gusto organizzato dalla condotta Slow Food del Monteregio, con il patrocinio del Comune di Massa Marittima, la collaborazione di produttori e ristoratori del territorio in accordo con un protocollo d’intesa stipulato con l’Amministrazione Penitenziaria. Gusto è libertà, questo il nome del progetto, che è partito nel 2006, e vanta 50 “Laboratori del Gusto” e due “Cene dell’amicizia”. Sarà l’occasione per una grande festa, che finisce con un gran buffet realizzato anche con la partecipazione dei cuochi detenuti. In questi anni, il progetto iniziale si è sempre più adattato alle caratteristiche strutturali e tipologiche dei detenuti e dell’istituto; nel periodo ottobre - maggio, ogni mese, si rinnova l’appuntamento con aziende e produttori locali e non che, assieme ai soci Slow Food, concorrono alla realizzazione di momenti di scambio, di socializzazione e di conoscenza delle tipicità e delle caratteristiche specifiche dei tanti prodotti italiani. Il progetto, inoltre, ha fornito e fornisce altri importanti contribuiti alle attività di reinserimento socio - lavorativo dei detenuti: in questi anni, anche grazie alle iniziative Slow Food, è stato reso possibile un inserimento lavorativo presso un caseificio, è stato avviata (all’interno del carcere) l’attività di apicoltura, si sono svolti due corsi formativi sulle erbe aromatiche favorendo la cura di un’attività interna, si è tenuto un corso pittorico con la realizzazione di murales. Insomma, dal buon cibo e dallo scambio con le tante e positive realtà locali si sono creati spazi e iniziative per favorire il raggiungimento degli obbiettivi costituzionali. Milano: evasioni a San Vittore… una giornata con i detenuti-bibliotecari di Camilla Madinelli L’Arena, 28 gennaio 2013 Sette biblioteche per i 1.700 carcerati nella prigione dove il Comune ora vuole portare la scultura capolavoro di Michelangelo. Una giornata con i detenuti-bibliotecari nel carcere di Milano: “Abbiamo i libri, e presto la Pietà Rondanini”. Le evasioni concesse a San Vittore sono una bella avventura alla Ken Follett, le Confessioni di Rousseau, i capolavori di Primo Levi. Sono i libri scelti dai lettori nelle biblioteche interne del carcere milanese, dove passiamo una giornata con i detenuti che si sono formati per fare i bibliotecari. La loro prima soddisfazione? Quando un libro preso in prestito viene consegnato in ritardo “per il bisogno insopprimibile di tenere un autore o una storia per sé, per leggerla all’infinito”, come spiega Francesco Fusano, 39 anni, lombardo. È bibliotecario, insieme a Issam Aouam, 33 anni, tunisino. Gli scaffali con i libri sono al terzo dei sei raggi dell’edificio: un fabbricato ottocentesco che cade a pezzi (una sezione è chiusa, un’altra sarà in restauro dalla primavera), ma forse meno disumano dell’ultima edilizia penitenziaria. I detenuti sono 1.700, il 65 per cento stranieri. Per Francesco la biblioteca è diventata ragione di vita. “Non so come farei se non potessi stare in mezzo ai libri, come si fa a privarsi di un piacere così?” Per lui, scrittore di racconti “che saranno pubblicati”, si inorgoglisce, fare il bibliotecario significa “prendersi cura”, mentre per Issam è “evasione a tutti gli effetti, o quasi”, scherza guardando le sbarre alla finestra. È emozionato per l’intervista, come lo è Francesco e come lo è Paolo Agrati, 41 anni, lombardo, bibliotecario “al settimo” (raggio. I raggi sono sei, il “settimo” è il centro clinico). Paolo promuove la lettura cella per cella. “È il mio modo di applicare la Costituzione, articolo 27, rieducazione del condannato”. A San Vittore Costituzione, Codice di procedura penale e Codice civile sono libri molto richiesti - “e ancora non li abbiamo da dare in prestito”, protestano i bibliotecari - come il Corano, le riviste di sport e i quotidiani. “Per me lavorare in biblioteca è un vero privilegio”, continua Paolo. “Il bibliotecario deve essere un amico che ti accompagna”. La biblioteca del carcere ha anche organizzato degli incontri con autori. Chi inviterebbero? Paolo: “Di nuovo Mauro Corona, che è già venuto qui. La prima volta è stata eccezionale”. Francesco: “Ammaniti e Gramellini”. Issam: “Carrisi”. Francesco, Issam e Paolo hanno frequentato un corso di formazione organizzato da Bibliorete, le biblioteche milanesi di otto enti e associazioni cattoliche, e dal Comune. Principi del mestiere (“pazienza, ordine nel disordine e assenza di pregiudizi”, riassumono con un’ottima sintesi), sistemi di catalogazione, regole di gestione. Ora hanno in mano un attestato, ma soprattutto una competenza che potranno spendere anche dopo il carcere. “Finisco nel 2026, ho tutto il tempo di perfezionarmi”, dice Paolo, dimostrando che in mezzo ai libri si acquista anche senso dell’umorismo. Sono una trentina i detenuti che hanno partecipato al corso da bibliotecari e ora si alternano a tenere aperte le biblioteche: due ore al giorno per tre mesi, se vogliono possano lavorare anche di più. Soddisfatto dei risultati Stefano Parise, dirigente del settore biblioteche al Comune di Milano e presidente dell’Associazione italiana biblioteche: “Al termine delle lezioni, ci hanno spiegato cosa significhi essere bibliotecari meglio di tanti manuali. E poi hanno la passione”. La scelta di un libro, a San Vittore, è un modo per portare la mente fuori dalla prigione: immaginare l’acqua di un ruscello, un bacio al tramonto, le foglie al vento. Ci sono sette biblioteche per i detenuti, per un totale di 16mila libri, donati da case editrici, privati o associazioni. “Risorse per comprare libri non ce ne sono”, dice Gloria Manzelli, prima donna dopo 23 direttori a San Vittore, “le donazioni sono sempre ben accette”. Dei tre detenuti - bibliotecari che abbiamo incontrato, Paolo è volontario, Francesco e Issam sono stipendiati, come 300 altri detenuti lavoratori a San Vittore. “L’aspirazione al lavoro è di tutti ed è fondamentale, fuori come dentro al carcere, soprattutto in una logica di riabilitazione”, continua Gloria Manzelli. E dopo la letteratura, anche l’arte potrà creare occasioni di lavoro. In primavera, dentro San Vittore, arriverà la Pietà Rondanini, la scultura a cui stava lavorando Michelangelo quando morì. Il capolavoro deve lasciare il Castello Sforzesco per l’allestimento delle nuove sale, e il Comune di Milano ha pensato di portarla nel carcere durante i lavori. “Abbiamo intenzione di formare alcuni detenuti affinché possano fare da guida a gruppi di persone esterne che accederanno per vederla” spiega il direttore. La scultura sarà collocata nello spazio circolare al centro dei raggi; resta da capire come sarà possibile venire a vederla (entrare in carcere, per i visitatori, non è semplice) ma la proposta del Comune di Milano - “portare la Pietà, inno all’uomo nel dolore, dove c’è sofferenza” - è stata accolta a braccia aperte dal direttore: “Sarà un altro tassello per collegare il carcere alla città”, conclude. E i detenuti, cosa dicono? “Il tema è dibattuto”, dicono i tre bibliotecari, “ne parliamo spesso”. Paolo e Francesco danno voce ai favorevoli: “Sarà un’occasione imperdibile per chi sta in carcere, per rinfrancarsi con la bellezza, almeno per chi avrà la fortuna di vedere la statua”. Fa da contraltare Issam, che paradossalmente si preoccupa più per la statua che per i coinquilini forzati: “La parcheggiano qui, ma stando in carcere, perderà valore”. Forse a lui e agli altri, numerosi, musulmani, dà fastidio una scultura che raffigura Gesù e Maria? “No, qui dentro la religione è l’ultimo dei pensieri, come la razza. C’è grande tolleranza”. Ma già facendoci parlare di arte e di cultura qui dentro, i libri e la Pietà un primo miracolo l’hanno fatto. Roma: a Rebibbia premiati i presepi dei detenuti; interviste al Cappellano ed ai Volontari Radio Vaticana, 28 gennaio 2013 Nella Casa di reclusione di Rebibbia sono stati premiati sabato scorso i presepi più belli allestiti dai detenuti. Cinque le opere in gara realizzate dalle diverse sezioni del carcere romano. Ha seguito per noi l’evento, Davide Dionisi. Una barca realizzata con gli stuzzicadenti che ospita la Sacra Famiglia, allestita nella Cappella dell’Istituto di pena romano, segna il punto di eccellenza della mostra dei presepi realizzati dai detenuti della Casa di reclusione di Rebibbia. Una scelta non casuale che rievoca, così come si legge nella presentazione degli autori, “la Chiesa in navigazione nei flutti nell’Anno della Fede”. Anche di fronte all’evidente mancanza di risorse economiche, è ancora una volta la creatività e le giuste motivazioni che pilotano iniziative come queste. Ci spiega perché, il cappellano del carcere romano, don Nicola Cavallaro: R. - Si può potenziare il tutto anche con quella che è la piccola creatività, cioè facendo trascorrere in modo diverso la giornata ai detenuti, ad esempio facendo per loro una catechesi molto semplice, con piccoli dibattiti. E questo fa sì che essi aumentino la loro conoscenza sia dal punto di vista della fede, sia dal punto di umano. D. - Il carcere continua a essere unicamente un luogo di reclusione e di pena e non un’opportunità di rieducazione e di un possibile reinserimento sociale. Perché? R. - Perché mancano le cure che la società civile dovrebbe dare a ciascun detenuto, perché nel momento in cui un detenuto entra in una struttura carceraria perde quella che è la sua dignità, dignità che poi non gli viene riconosciuta neanche quando ha finito di scontare la sua pena. Inoltre, all’interno dell’Istituto stesso, non ci sono quei mezzi - come ad esempio un lavoro per impiegare il tempo quotidiano - sufficienti a una sua rieducazione. Sono pochi i mezzi e ciò dipende sia dalla carenza economica, dalla crisi attuale e forse anche da coloro che sono preposti alla cura dei detenuti e che invece pensano ad altro. D. - Come viene percepita una figura come la sua dal detenuto? R. - Io sono cappellano, qui a Rebibbia, da quattro mesi. Vengo da una realtà parrocchiale, ero viceparroco, quindi anche io mi trovo un po’ spaesato e vedo che le difficoltà sono tante. La mia figura è vista come quella di un sacerdote, ma anche di un amico, di un conoscente, di una persona che cammina insieme ai detenuti. Ad esempio, ogni tanto io trascorro “l’ora d’aria” con loro e passeggio assieme a loro. Si cerca di venire un po’ incontro alle loro necessità. Nel carcere di Rebibbia operano anche i volontari. Ascoltiamo la testimonianza di Agnese Manca, appartenente al Vic-Volontari in carcere: R. - È il terzo anno che presento un corso di arabo, perché qui a Rebibbia ci sono molti immigrati, persone che veramente non hanno mai avuto la fortuna di sedersi a un banco di scuola nei loro Paesi. Si tratta di persone che vengono soprattutto da Tunisia, Algeria, Marocco, ma anche da Ghana, Senegal, da Paesi dell’Africa. D. - Come viene percepita la sua figura dal detenuto? R. - Noi volontari ci sentiamo “in famiglia” con i detenuti. In effetti, quando si entra in carcere si vedono i detenuti, si parla con loro e si conoscono le loro storie. Quel muro che c’è tra la società civile e il carcere stesso, crolla sul serio. Con i detenuti quindi abbiamo una certa familiarità. Io spesso telefono alle loro famiglie che vivono nei Paesi arabi. D. - Secondo lei, il carcere in Italia riabilita? R. - È una domanda difficile a cui rispondere: si fanno degli sforzi, ma certe volte gli ambienti carcerari in Italia, come tali, difficilmente servono alla riabilitazione. Sentire un detenuto che dice: “In rapporto ad altre carceri, qui a Rebibbia siamo in un hotel a cinque stelle” è tutto dire e noi sappiamo che non è un hotel a cinque stelle. Sappiamo che ci sono celle anche con otto - dieci detenuti. D. - Quanto è importante la religione in carcere, secondo lei? R. - Io vedo che quando ci sono delle celebrazioni per i cristiani, ma anche per i musulmani - perché qui c’è una sorta di “piccola moschea”, ovvero una cella adibita a luogo di preghiera per i musulmani - i detenuti ne ricevono un grande conforto. E questo credo sia importante, perché vedo la partecipazione alle Messe. Inoltre, il gruppo di detenuti musulmani, che pratica il digiuno in maniera rigorosa, è lontano da fanatismi. Loro sanno che io sono cristiana, ma non fa differenza quando parliamo, anzi. Certe volte ho incontrato in loro una certa curiosità di sapere, di condividere questo “non fanatismo”. Dire “Dio è uno” ha la sua importanza qui, come in tutti i luoghi di sofferenza. Roma: ladri negli impianti sportivi della Polizia penitenziaria, l’Astrea Calcio non gioca www.datasport.it, 28 gennaio 2013 Ignoti rubano rame e materiale elettrico nell’impianto dell’Astrea Calcio: la sfida contro il Marino non si è potuta giocare. La gara della quarta giornata di ritorno del campionato di Serie D, Girone F, tra l’Astrea di Ferazzoli e il Marino di Mariani è stata rinviata a data da destinarsi (la palla passa ora alla Lnd che dovrà decidere la data del recupero) per impraticabilità di campo dovuta al furto di materiale elettrico e di rame destinato al corretto e normale funzionamento dell’impianto sportivo di Casal del Marmo. Presumibilmente nell’arco della notte tra sabato e domenica, o più probabilmente durante la giornata prefestiva, alcuni ignoti si sono introdotti all’interno dell’impianto sportivo della Polizia Penitenziaria e dunque al gruppo sportivo dell’Astrea, rubando targhe, materiale societario, Coppe conquistate in questi anni dalla società delle Fiamme Azzurre. Questa mattina, all’arrivo degli addetti della società al campo, gli stessi hanno potuto semplicemente constatare la situazione di furto, avvertendo la Polizia di zona che si è immediatamente recata sul posto per prendere visione della vicenda. Successivamente è giunta a Via Barellai anche la Scientifica che ha cercato di comprendere le modalità d’introduzione all’interno della struttura, che è videosorvegliata, ma non interamente. Sono state avviate delle indagini approfondite, con tanto di denuncia contro ignoti per furto, ma sembra assai difficile scoprire la “paternità” di questa vicenda, proprio per la mancanza di immagini che possano identificarne le identità. Per quanto riguarda il futuro, resta da capire quando verrà ripristinato il regolare funzionamento dell’impianto sportivo, con la prospettiva concreta di recuperare l’incontro su campo neutro. Droghe: Marino (Pd); abolire legge Fini-Giovanardi e liberalizzare marjuana e hashish Tm News, 28 gennaio 2013 “Ci sono leggi che devono essere cambiate, altre che vanno abolite: la Fini-Giovanardi ad esempio. Il Paese si è espresso sulla liberalizzazione delle droghe leggere, dicendo che non devono essere penalizzate”. Lo ha detto Ignazio Marino, capolista del Pd in Senato in Piemonte, intervenendo nel dibattito sull’emergenza carceri a Brontolo, condotto da Oliviero Beha, su Rai Tre. “Abbiamo 25mila persone in galera per droghe leggere - continua Marino - In più questo spezzerebbe quel filo terribile che lega il problema delle droghe leggere alla criminalità organizzata, che si sta organizzando con la biologia molecolare creando marjuana e hashish che producono dipendenza”. Gran Bretagna: Governo pronto a privatizzare controllo dei condannati in libertà vigilata di Nicol Degli Innocenti Il Sole 24 Ore, 28 gennaio 2013 Il Governo britannico punta a privatizzare anche la supervisione dei prigionieri in libertà vigilata. Il ministro della Giustizia Chris Grayling, ha annunciato una riforma del sistema che lascerà al settore pubblico solo la vigilanza dei 50mila prigionieri ritenuti violenti o pericolosi. La supervisione degli altri 200mila detenuti in liberta vigilata verrà affidata a società di vigilanza private, che verranno pagate in base ai risultati, di fatto solo se i prigionieri non commetteranno altri crimini. L’obiettivo della riforma infatti è ridurre gli elevati tassi di recidiva. Secondo il ministero il 47,5% dei prigionieri commette di nuovo un reato entro dodici mesi dal rilascio. Il 90% delle persone condannate a una pena detentiva lo scorso anno aveva già subito una condanna in passato. La riforma prevede anche che per la prima volta la supervisione obbligatoria e i programmi di riabilitazione “su misura” vengano estesi anche ai detenuti che sono stati condannati a meno di dodici mesi di prigione. Finora venivano rilasciati in libertà vigilata senza controlli, ma diversi studi hanno stabilito che proprio questo gruppo ha il tasso di recidiva più elevato: il 57,6% commette un reato entro un anno dall’uscita di prigione. Napo, il sindacato di settore, ha accolto con favore l’estensione della vigilanza a tutti i prigionieri a cui viene concessa la semilibertà, ma ha dichiarato che la riforma è “troppo frettolosa” e “mette a rischio la sicurezza pubblica” affidando a privati la supervisione di “ladri, drogati e membri di bande criminali”. Altrettanto critica l’opposizione laburista: il ministro della Giustizia - ombra, Sadiq Khan, ha detto che “il sistema di pagare in base ai risultati non è mai stato utilizzato nel sistema penale e questo Governo guidato dai conservatori sta facendo una folle scommessa con la sicurezza pubblica.” Grayling ha difeso la riforma, sostenendo che il sistema attuale “evidentemente non ha funzionato finora ed è assurdo sperare che inizi a funzionare ora”. Il ministro ha detto di voler promuovere la creazione di partnership tra pubblico e privato, e anche di voler coinvolgere il più possibile ex detenuti tornati sulla retta via non solo per controllare i movimenti dei prigionieri in libertà vigilata ma soprattutto per incoraggiarli a cambiare vita. “Riabilitazione è la parola chiave,” ha detto Grayling. La riforma entrerà in vigore solo in Inghilterra e Galles. La Scozia ha un proprio sistema giudiziario e la liberta vigilata è competenza delle autorità locali. Gran Bretagna: minorenni detenuti nelle carceri per adulti, violati accordi internazionali 9Colonne, 28 gennaio 2013 Cinque minorenni sono stati rinchiusi nelle strutture penitenziarie britanniche per adulti violando gli accordi internazionali sul tema dei diritti dei minori. Così scrive il quotidiano Independent, che riporta l’ammissione del ministro britannico della Giustizia Minorile, Jeremy Wright, secondo il quale nel 2011 alcuni under 18 sarebbero stati trasferiti dalla custodia minorile alle carceri. La questione era già giunta all’attenzione del parlamento questo mese. La decisione adottata dal governo sarebbe in aperta contravvenzione dell’articolo 37 della Convenzione sui Diritti dell’Infanzia delle Nazioni Unite, che obbliga “la separazione carceraria tra adulti e minori, a meno sia necessario per il minore rimanere in costante presenza di adulti”. La sensibilizzazione sul tema, fortemente promossa dall’associazione londinese Howard League for Penal Reform, ha immediatamente suscitato grande preoccupazione nell’opinione pubblica del Regno Unito. Dopo essere stata dibattuta per la prima volta in parlamento lo scorso 10 gennaio, la questione dovrà essere affrontata con grande rapidità per non incorrere nelle sanzioni delle Nazioni Unite.