Giustizia: serve un cambio di passo nella politica penale di Donatella Stasio Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2013 “Sul piano dell’immagine la recente condanna dell’Italia da parte della Corte di Strasburgo, per il trattamento inumano e degradante dei detenuti, vale decine e decine di punti di spread”. In tempi di crisi economica, le parole del primo presidente della Cassazione Ernesto Lupo dovrebbero far riflettere, tecnici e non, sul peso che ha il carcere “anche” sull’economia. Non certo per degradare una questione di diritti fondamentali a questione meramente economica, ma per misurarne l’incidenza sull’economia. E quindi sulla necessità di un cambio di passo, prima culturale e poi politico, indispensabile per imboccare la strada di riforme strutturali, senza cedere a facili populismi e perciò senza marce indietro. A1 di là delle condizioni di vita degradanti delle patrie galere (e quindi dei suicidi, delle violenze, delle malattie, della promiscuità foriera spesso di recidiva), la questione carceraria è causa ed effetto di un sistema penale e processuale che non funziona. Ieri è stato ricordato che abbiamo 35mila reati puniti con il carcere e che ogni anno arrivano alle Procure della Repubblica 3 milioni e mezzo di notizie di reato, cioè di potenziali processi. I tempi di accertamento si sono ulteriormente allungati (un processo dura in media 5 anni) e sarebbe “sbagliato - ha ricordato Lupo - sottovalutare l’influsso negativo sull’economia del Paese derivante dall’incertezza di questi tempi”, soprattutto se i reati riguardano l’attività della pubblica amministrazione e la gestione imprenditoriale”. Quest’incertezza, al pari di quella del processo civile, scoraggia gli investimenti e quindi frena la competitività del Paese. La “cura” indicata da Lupo, ma anche dal Pg della Corte Gianfranco Ciani, impone scelte chiare, alla politica e alla magistratura Anzitutto sfoltire seriamente i reati, selezionando quelli merite voli di essere puniti con il carcere; modificare il sistema delle sanzioni, perché spesso quelle pecuniarie e interdittive sono più efficaci; rilanciare le misure alternative alla detenzione. “Sono maturi i tempi per abbandonare, come in Francia e nel Regno Unito, la concezione “carcerocentrica” della pena (risalente al 1930) - ha osservato Ciani - per aprire la strada a sanzioni interdittive o prescrittive o che colpiscano, direttamente o indirettamente, il vantaggio economico del reato”. Il Pg ricorda che per alcuni reati, queste diverse sanzioni avrebbero un effetto deterrente maggiore della minaccia del carcere (che spesso alcuni condannati riescono a evitare). Questo sfoltimento “a monte”, accompagnato da interventi sul processo e soprattutto sulla prescrizione (“la riforma è urgente” hanno detto all’unisono Lupo e Ciani), consentirebbe di arrivare a sentenza più rapidamente. Un altro intervento dovrebbe riguardare la custodia cautelare. A fine 2012, il 39% dei circa 66mi - la detenuti presenti era in attesa di giudizio. Il che non solo congestiona ulteriormente le carceri, ma anche il processo, perché le misure cautelari che limitano la libertà personale comportano procedimenti incidentali (processi nel processo) che intasano gli uffici giudiziari con ricadute sull’intero sistema. Di qui la necessità, segnalata ieri, di rivedere anzitutto il catalogo dei reati per i quali, negli ultimi anni, le politiche sulla (presunta) sicurezza hanno imposto l’arresto (soprattutto nei settori dell’immigrazione clandestina e di piccolo spaccio di sostanze stupefacenti, anche “leggere”, che tra l’altro contribuiscono pesantemente al sovraffollamento) nonché la legge ex Cirielli, che ha condannato i recidivi al carcere, sempre e comunque, indipendentemente dal reato. I magistrati, però, non possono lavarsene le mani. Lupo lo ha detto chiaramente, chiedendo alle toghe una “maggiore assunzione di responsabilità” e citando in proposito la recente raccomandazione rivolta dal Procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ai suoi sostituti di tenere “nel massimo conto” - sia quando devono decidere su una misura cautelare sia quando devono chiedere una condanna definitiva - le indicazioni della Corte di Strasburgo. La stessa valutazione è rimessa ai giudicanti. Che è poi quello che in Francia Francois Hollande ha chiesto ai suoi, di giudici: abbandonare ogni automatismo, anche se previsto dalle leggi dell’era Sarkozy, e decidere caso per caso se ricorrere al carcere e non, piuttosto, a una misura alternativa. Tanto più che le misure alternative riducono la recidiva e, quindi, garantiscono una maggiore sicurezza collettiva. Tanto dovrebbe bastare, in un Paese normale, a cambiare decisamente passo. Giustizia: evitare l’abuso del carcere, giusto richiamo dalla Cassazione di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 27 gennaio 2013 La colpa sarà pure della politica, che non sa o non vuole prendersi la responsabilità di varare misure per alleggerire lo scandalo delle carceri italiane. Ma lamentarsi e additare solo responsabilità altrui non basta più. Bisogna sobbarcarsi le proprie. Anche i magistrati devono darsi da fare per evitare la situazione “indegna” in cui lo Stato italiano costringe a vivere i detenuti, come ebbe a dire il presidente della Repubblica. “Giudici della libertà e garanti del rispetto dei diritti fondamentali”, li ha chiamati ieri il loro collega più autorevole, Ernesto Lupo, primo presidente della Corte di Cassazione. Invitandoli a comportarsi di conseguenza. Anche per riempire gli spazi lasciati colpevolmente vuoti dagli altri due poteri, esecutivo e legislativo. Di fronte all’emergenza, “occorre rilanciare l’impegno e la responsabilità di tutti gli organi giudiziari”. Restituendo sostanza a principi come “proporzionalità”, “adeguatezza”, e “costante verifica dell’idoneità delle misure applicate”, troppo stesso disattesi. È un richiamo forte, quello del primo giudice d’Italia. Che suona come un’opportuna sferzata a governo e parlamento, ma pure alla sua categoria. Un invito esplicito a fare minor ricorso alla detenzione. Chiudendo le porte delle celle dietro le spalle dei cittadini coinvolti in inchieste e processi solo quando è strettamente necessario. Tanto più se sono ancora in attesa di giudizio, come capita a quattro su dieci: “percentuale inaccettabile”, sottolinea il presidente Lupo. Che considera la recente raccomandazione del procuratore di Milano ai suoi sostituti a utilizzare il carcere con maggiore oculatezza “un segnale che va additato a esempio”. Dopo i ripetuti moniti giunti dal Quirinale, che purtroppo hanno sortito ridottissimi effetti, le parole di Lupo costituiscono forse l’unica vera novità nello stanco dibattito sulle condizioni delle prigioni d’Italia, che nell’agone politico sembrano interessare solo i radicali. Perché sono un’esortazione a comportamenti concreti, senza più rifugiarsi dietro l’alibi di leggi che mancano o non arriveranno mai. Per restituire un po’ di legalità e dignità a un luogo dove il percorso della giustizia dovrebbe, in teoria, giungere a compimento. E invece crea altre ingiustizie. Giustizia: una magistratura amica della libertà di Paolo Graldi Il Mattino, 27 gennaio 2013 Fino all’anno scorso, e ancor prima per tanto tempore cronache dei discorsi ufficiali alla solenne inaugurazione dell’Anno giudiziario si assomigliavano un po’ tutte: lunghe e sofferte lamentazioni sui mali, non di rado ritenuti inguaribili, del sistema giustizia. Un’azienda, quella della amministrazione della giustizia, che se fosse davvero un’azienda, dovrebbe portare i libri in tribunale e dichiarare fallimento. Una tempesta perfetta di critiche al potere politico, all’andazzo delle declamate promesse non mantenute, tenute pronte per gli usi futuri, meglio se elettorali. Così quel pianeta, sintesi paradigmatica di ogni genere di conflitto, si è guadagnato un verdetto che equivale a una prognosi infausta: il malato è gravissimo, troviamo una terapia o morirà, si diceva fino all’anno passato mentre da Strasburgo inviavano incessantemente raccomandazioni e rampogne nel nome della civiltà del diritto, delle leggi internazionali da rispettare e finanche con severissimi richiami sula situazione carceraria, da dove la dignità umana è scappata via inorridita. Adesso la Corte dei diritti dell’uomo ci ha mandato un ultimatum: avete un anno per cambiare rotta. Da un “sentimento di profonda amarezza e lo sconforto per la perdurante drammaticità della situazione” è partita ieri mattina l’analisi del Guardasigilli Paola Severino, che dei mali dietro le sbarre ha voluto segnare con instancabile e riconosciuta intensità il suo percorso al governo. È da questo scenario che s’illumina una visione che spezza gli inesausti retaggi del passato, con tutte le sue alte criticità generali, e si apre a concrete speranze di radicali cambiamenti. Piccoli e grandi segni confortano lo sguardo di prospettiva: la Carta dei diritti dei detenuti, libretto multilingue, non era mai stato neppure immaginato, forse perché si pensava che non ne avessero. Ora quelle pagine entrano nelle celle, saranno tra le mani dei detenuti e del personale di custodia per ricordare a tutti diritti e doveri, distribuiti con equanime rigore. Ma là dove il carcere non è indispensabile, la restrizione della libertà personale indefettibile, e i casi sono davvero moltissimi, ecco che si impianta una varietà di pene alternative. Il 36% dei detenuti è in attesa di giudizio, il 12% in attesa del primo giudizio, e il fenomeno delle “porte girevoli”, di quelli che entrano ed escono (e fanno felici i detrattori forcaioli) si è di molto ridotto. Non solo, dunque, un problema di asfissia delle strutture di accoglienza, pur gravissimo e già oltre il collasso (20 mila ospiti in più della capienza massima, letti a castello su quattro piani, tre metri quadrati a testa, o in piedi sull’attenti o in branda) ma di visione e di prospettiva. C’è nella magistratura inquirente un uso talvolta disinvolto e talora dissennato dell’arma della carcerazione preventiva: da Paola Severino e anche dal Pg Lupo è venuto, fortissimo, l’appello ad abbracciare una diversa cultura delle indagini e della privazione della libertà. Basta con le manette facili: è e dev’essere la sentenza definitiva che determina il successo di un’istruttoria, cioè il suo esito finale, fuori dai riflettori sotto i quali, non di rado, magistrati dall’io ipertrofico sembrano giocare cercando facile notorietà. Da Milano, con Bruti Liberati, procuratore illuminato, è già venuto il primo segnale ai suoi pm: con le manette andateci piano. Allargando lo sguardo all’insieme delle questioni aperte i discorsi del Guardasigilli, del vicepresidente del Csm Vietti e dei vertici della Suprema corte (procuratore generale e primo presidente) sono corsi quasi in coro su un unico spartito, riconoscendo al governo e in particolare alla Severino, d’aver raggiunto traguardi “storici”, finora ritenuti irraggiungibili: la geografia giudiziaria, la profonda riscrittura della mappa degli uffici che tante resistenze, agguati, trabocchetti ha subito e superato nel suo cammino diviene oggi una realtà praticabile. Sempre che, teme qualcuno, nel prossimo Parlamento spuntino di nuovo i picconatori, alleati dei localismi e delle facili comodità. Alla geografia si sta affiancando la informatizzazione del sistema, capace di collegare tutti gli uffici (oggi sono 67): inventato da decenni, il computer fa il suo ingresso nel pianeta e il rapporto tra domanda e offerta farà un salto di qualità. Finalmente ci sono anche i soldi. È tuttavia innegabile che il collasso al quale si tenta di porre rimedio è figlio di una straripante domanda di giustizia che si affianca a un carattere nazionale inestinguibile, la litigiosità, fenomeno che sfiora l’intensità della tifoseria calcistica. Ci piace da matti litigare e tutti di cercare un giudice per darcele di santa ragione, in nome della legge. Il contenzioso diviene così schiacciante e schiattante, dice il Pg Lupo ma per fronteggiarlo e arginarlo il ministero di via Arenula ha approntato strumenti per tagliare le unghie all’arretrato, tenendo a bada il flusso in arrivo. Il filtro perla sentenza d’appello dovrebbe scoraggiare i temerari, per esempio. Nel cambio di rotta vero l’efficienza, e nel quale è indispensabile annotare il pacchetto delle leggi anticorruzione, piaga dilagante, infame e debilitante per la sana economia, le leggi sul traffico di influenze illecite e la corruzione tra privati, tutte fattispecie di nuovo conio, si deve inserire il Tribunale delle Imprese chiamato a dirimere le controversie, strumento nuovo e penetrante con importanti rimbalzi sull’intera attività economica del Paese. Un ventaglio assai ampio di soluzioni legislative che il procuratore generale ha attribuito alla tenacia e alla costanza del ministro e all’impegno del governo: non è più vero che, trascorsa e forse archiviata per sempre la stagione delle leggi ad personam non sia possibile riformare la giustizia al di là delle parole e delle promesse. “Fino all’ultima ora dell’ultimo giorno” Severino ha promesso di dedicare tutta se stessa a chiudere le pratiche ancora aperte, ma quel che conta è che la strada è tracciata e l’evidenza di fatti ci dice che si può. Insomma c’è un patrimonio, un tesoretto che va arricchito e non disperso. Una nota a margine, comune con toni diversi a tutte le alte voci, ha riguardato la discesa nel campo della politica dei magistrati: note critiche che si spingono a sospettare che la fama mediatica guadagnata con la toga sulle spalle fosse premeditatamente finalizzata a un incasso nell’agone politico. È già accaduto, fin troppe volte e il rischio è che i magistrati che non solo debbono essere ma anche apparire imparziali siano tentati di inforcare la scorciatoia delle eccezioni alla regola. Una legge sarebbe auspicabile subito, un ricorso a un codice etico augurabile con immediatezza. Nomi non ne sono stati fatti: per quello, per conoscerli e riconoscerli basta accendere la televisione, a qualsiasi ora. Giustizia: carceri e diritti umani, una patata bollente per il nuovo Parlamento di Gabriella Monteleone Europa, 27 gennaio 2013 Finalmente la drammatica situazione della giustizia italiana e soprattutto delle carceri (nove milioni di processi pendenti e quasi 67mila detenuti) fa capolino in una campagna elettorale, tutta impegnata sul deficit economico ma indifferente a quello dei diritti umani. Sappiamo che l’attenzione comunque durerà poco. Allora, a futura memoria di tutti i partiti e partitini variegati che entreranno nel nuovo parlamento ricordiamo che il tema non si potrà più nascondere sotto il tappeto perché, questa volta, nemmeno “ce lo chiede” l’Europa, ce lo impone proprio. La sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo dell’8 gennaio scorso, nel dichiarare l’Italia responsabile di trattamenti “inumani e degradanti” nei confronti dei detenuti e condannarla a oltre 100mila euro di danni, ci ha dato un anno di tempo per adottare provvedimenti “strutturali” - non tampone - e per incrementare le misure alternative al carcere. Giusto quella messa alla prova e l’utilizzo più esteso degli arresti domiciliari che erano previsti nel disegno di legge fortemente voluto dal ministro Severino e che Pdl e Lega al senato, nell’ultima seduta della legislatura, hanno scalzato a favore della approvazione della riforma forense, a conferma del peso delle lobby avvocatesche. Inutile girarci intorno: tra un anno Strasburgo riprenderà la trattazione dei 550 ricorsi di detenuti già pendenti e di altri che si aggiungeranno, se il parlamento non farà qualcosa di concreto. E dunque questione di costi economici, ma anche di immagine - i penitenziari italiani fanno concorrenza a quelli russi e ucraini rispetto agli standard europei di diritti umani. Tanto che lo stesso presidente Napolitano è stato particolarmente duro nel dire che la sentenza “è una mortificante conferma della incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esecuzione di pena”. Sappiamo che in campagna elettorale è sconveniente parlare di indulto e amnistia, e proporre una riforma ambiziosa del diritto penale senza lasciare troppo spazio al ditino di ognuno nel dire sì o no alla depenalizzazione di questo o quel reato. Ma bisogna avere il coraggio di farlo, perché il tema è politico. I pannicelli caldi o, peggio, la retorica securitaria, davvero non hanno più futuro. Giustizia: il riformismo del prossimo governo si misurerà anche dalle carceri di Giuliano Ferrara Il Foglio, 27 gennaio 2013 Ieri mattina, intervistato da Radio Radicale, il responsabile Giustizia del Partito democratico, Andrea Orlando, ha affrontato un tema che in questa campagna elettorale rischia giorno dopo giorno di scomparire dai radar, le carceri. Orlando, in sostanza, ha detto che il modo migliore per misurare il grado di riformismo del prossimo governo sarà quello di osservare cosa farà su questo tema l’esecutivo che nascerà tra qualche mese, e nel ragionamento fatto dal responsabile Giustizia Pd vi è un altro elemento importante che merita di essere sottolineato: se andremo al governo, ha detto Orlando, noi non ci faremo condizionare dai giustizialisti che ci saranno in Parlamento e intendiamo anzi differenziarci dai manettari alla Grillo e all’Ingroia partendo da quella che dovrà essere la riforma delle riforme: la Giustizia, ma soprattutto le carceri. Orlando fa bene a ricordare che il tema del sovraffollamento delle carceri è una priorità per il centrosinistra e anche se il Pd ha molto da farsi perdonare sul tema del giustizialismo è apprezzabile che il centrosinistra guidato da Bersani intenda dar vita a una piccola svolta garantista. Sarà davvero così? Possibile, e in questo senso la distanza che il segretario del Pd ha voluto marcare nei confronti di Ingroia e Grillo è un segnale positivo (e sarà bene anche che questa distanza venga mantenuta nel prossimo Parlamento). Resta solo un punto da chiarire: ma se il Pd tiene così tanto alla condizione delle carceri italiane perché ha scelto di escludere dalle sue liste l’Unico partito (i Radicali) che in Italia ha messo in cima alla sua agenda il tema delle condizioni delle carceri? Gradita una risposta, grazie. Giustizia: carceri strapiene e incivili, i magistrati di tutta Italia lanciano l’allarme Corriere della Sera, 27 gennaio 2013 C’è chi parla di vergogna, di condizioni intollerabili e di mancanza di dignità. Nell’inaugurazione dell’anno giudiziario è la situazione delle carceri italiane a tornare al centro del dibattito. A Milano il presidente della Corte d’Appello Giovanni Canzio lancia l’allarme sul sovraffollamento fornendo i dati sui penitenziari in Lombardia: “La capienza delle strutture è di 4.737 detenuti, mentre al 31 dicembre ne è stata registrata la presenza di 7.279; San Vittore ha una capacità di 712 presenze e può tollerarne fino a 1.127, ma al 31 dicembre le presenze erano 1,616”. Dopo le censure della Corte Europea arrivano quelle dei magistrati: da Roma a Palermo, passando per Firenze il coro di critiche è unanime: in queste condizioni “si può anche mettere in dubbio la legittimità punitiva dello Stato” accusa Canzio. Dalla capitale Giorgio Santacroce, presidente della Corte d’Appello, parla di “situazione grave”. A confermarlo anche in questo caso sono numeri sui penitenziari romani: che “ospitano” 7.171 detenuti, quando la loro capacità sarebbe di 4.834 posti. “Le carceri traboccano di detenuti che vivono in condizioni inaccettabili”, ha aggiunto il magistrato. A Sollicciano, in provincia di Firenze il sovraffollamento supera il 200% contro il 155% della media nazionale. L’eccezione in Emilia - Romagna: qui il numero di detenuti è diminuito del 13% negli ultimi 12 mesi. Roma: estremamente grave situazione carceri “Resta estremamente grave la situazione del sovraffollamento delle carceri dove si trovano ristretti 7.171 detenuti rispetto a una copertura regolamentare di 4.834 posti, di cui 3.325 imputati, 3.289 condannati e 2 internati”. A rilevarlo il presidente della Corte d’Appello di Roma, Giorgio Santacroce, in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario. “La soluzione di questo problema è l’atto mancato più grave di tutti i governi degli ultimi anni, perché dà la misura della nostra collettiva inadeguatezza: le carceri traboccano dei detenuti che vivono in condizioni inaccettabili”. “Una situazione indecorosa - ha aggiunto - che continua a costarci da decenni le condanne della Corte Europea dei diritti dell’uomo, l’ultima delle quali è dei giorni scorsi”. Particolarmente grave la situazione di Frosinone dove il numero dei detenuti è salito nel giugno del 2012 a 557 unità, a fronte di una capienza regolamentare di 263 posti. Firenze: situazione carceri drammatica In Toscana la situazione delle carceri assume dimensioni di “drammaticità”. Lo ha detto Fabio Massimo Drago, presidente della Corte di Appello di Firenze, nella relazione tenuta alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario, alla presenza del presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, del presidente del Consiglio regionale Alberto Monaci, del sindaco di Firenze Matteo Renzi. In particolare al carcere di Sollicciano a Firenze, il “sovraffollamento è una caratteristica costante”. Rispetto alla media nazionale, che è del 155%, a Sollicciano il sovraffollamento sfiora il 200%. Le camere di pernottamento prevedono ormai sempre tre letti e l’aumento (oltre il raddoppio) in quelle a più posti. Permangono le “difficoltà” relative all’assistenza sanitaria. Buonajuto: meno carcere non significa meno sicurezza Per poter fronteggiare il problema della giustizia in Italia ed affrontare il problema carcerario sarebbe opportuno puntare maggiormente sul lavoro dei detenuti. È il pensiero del presidente della Corte d’appello di Napoli, Antonio Buonajuto, che ne ha parlato nella sua relazione in occasione dell’inaugurazione dell’Anno giudiziario. “Il sistema penale moderno - si legge nella relazione di Buonajuto - conosce e privilegia forme di sanzione diversa dal carcere, troppo spesso luogo di sofferenza e di privazioni, che non riguarda soltanto la possibilità di estendere le misure alternative alla detenzione e i benefici penitenziari, ma le stesse modalità dell’esecuzione della pena perché meno carcere non significa meno sicurezza ma esattamente il contrario”. Secondo il numero della Corte d’appello partenopea occorre “far lavorare sul serio i detenuti” sottolineando come l’offerta di lavoro sia “la leva più efficace per il reinserimento sociale” e che l’abbattimento della recidiva è “dato che non ha bisogno di conferme”. Per Buonajuto, ad esempio, i carcerati potrebbero essere impiegati in tutti quei lavori che solitamente vengono compiuti dai volontari: “Penso ai monumenti e alle scuole imbrattati dalle vernici dei vandali, alle erbacce che costellano i cigli stradali e ai rifiuti di ogni specie abbandonati nelle periferie cittadine che, solo a tratti, i responsabili si prendono la briga di rimuovere”. Un modo per poter utilizzare i detenuti, “opportunamente selezionati e sorvegliati” sarebbero quello di ricorrere ai “costosi braccialetti elettronici che solo in Italia sembra che non funzionino a dovere”. Il presidente della Corte d’appello di Napoli ritiene che “occorra sgombrare il campo dagli stilemi di certa retorica e regolare la materia del lavoro carcerario anche fuori dagli steccati dello Statuto del lavoro subordinato, ricordando che il lavoro carcerario è innanzitutto - ha concluso - strumento di emenda e occasione di riscatto sociale”. Bari: processi lunghi e carceri piene Il presidente della Corte d’Appello, Caferra: il 43% dei detenuti in attesa di giudizio. E poi la stoccata ai magistrati in politica: vulnus per l’imparzialità dei giudici. La durata del processo e il sovraffollamento delle carceri: sono queste le “criticità” sulle quali il presidente della Corte d’Appello di Bari, Vito Marino Caferra, ha richiamato l’attenzione nella relazione per l’inaugurazione dell’anno giudiziario. “Anche nel nostro distretto - ha detto Caferra - quello della eccessiva durata del processo resta il problema più grande”. Il presidente della Corte d’Appello si è concentrato anche sul problema del sovraffollamento delle carceri: il 43% dei detenuti è in custodia cautelare in attesa di giudizio. Per la prima volta, il presidente della Corte d’Appello affronta quella che lui definisce “un’altra criticità molto più grande e preoccupante sotto l’aspetto della confusione dei ruoli: quella che deriva dal cosiddetto passaggio del magistrato in politica, posto che modalità attualmente consentite dalla legislazione vigente, finiscono per provocare un vulnus insanabile all’immagine di imparzialità della magistratura”. Perugia: quasi triplicato numero detenuti Ha evidenziato un ‘vertiginoso aumentò negli ultimi anni del numero dei detenuti presenti negli istituti penitenziari del distretto il presidente della Corte d’appello di Perugia Wladimiro De Nunzio nella relazione con cui ha aperto a Perugia la cerimonia per l’inaugurazione dell’anno giudiziario. Il numero dei condannati definitivi è infatti passato da 450 del 31 gennaio del 2008 ai 1.237 della fine dell’anno scorso. In quattro anni, quindi - ha detto De Nunzio, il numero dei condannati presenti è quasi triplicato, nonostante l’incapienza delle strutture esistenti. Più in particolare è notevolmente aumentata la percentuale di detenuti con condanna definitiva che rappresenta, allo stato, circa il 75% del totale delle persone ristrette in Umbria (in totale, mille 630 al 31 dicembre scorso). Il presidente della Corte d’appello ha quindi sottolineato che l’incremento dei detenuti ha prodotto un assai rilevante incremento del numero dei procedimenti sopravvenuti, sia per il tribunale sia per gli Uffici di sorveglianza. Giustizia: il ministro Severino; la situazione delle carceri è drammatica La Stampa, 27 gennaio 2013 Il ministro: “Forte rammarico per la mancata approvazione di misure alternative alla detenzione”. Sulle carceri la strada intrapresa è quella giusta, ma rimane il “rammarico per la mancata approvazione della delega in materia di pene detentive non carcerarie e messa alla prova avrebbe certamente lasciato un segno nella giusta direzione”. Lo ha detto il ministro della Giustizia Paola Severino intervenendo questa mattina a Torino alla cerimonia di apertura dell’anno giudiziario. Severino che ha comunque espresso preoccupazione “per la perdurante drammaticità della situazione”, ma ha ricordato che le recenti innovazioni legislative hanno consentito la riduzione di 4mila detenuti in attesa di giudizio, “il fenomeno delle porte girevoli (il transito in carcere di soggetti per un breve lasso di tempo: 3/5 giorni, ndr) si è dimezzato, 8mila detenuti hanno beneficiato delle misure alternative del salva carceri”. “Questo conferma - ha detto il ministro - che la strada intrapresa è quella giusta. Ma si può e si deve fare di più. occorre una strategia fondata su tre pilastri: depenalizzazione, maggiore flessibilità delle misure alternative al carcere, una nuova gestione dell’edilizia carceraria”. “È un momento di sofferenza e incertezza quello che stiamo vivendo per le piante organiche”, tanto che “in queste settimane l’atmosfera non è delle migliori tra i magistrati e gli avvocati di Torino e di tutto il distretto”. Lo ha detto il presidente della Corte di appello di Torino Mario Barbuto, all’inaugurazione dell’anno giudiziario. “La proposta di rideterminazione delle piante organiche degli uffici giudiziari formulata dal ministero della Giustizia”, ha sottolineato Barbuto nella sua relazione, “ha provocato uno shock: il distretto del Piemonte e della Valle d’Aosta sarebbe destinato a perdere 36 magistrati, di cui 25 giudici e 11 pm”. Il presidente della Corte d’appello si è detto “pacatamente deluso: eravamo convinti che il riordino delle circoscrizioni avrebbe comportato il cosiddetto saldo invariato all’interno di ogni distretto, ma era a quanto pare una nostra illusione” “Il grossissimo sforzo e impegno che la Procura di Torino ha profuso in questi ultimi anni per contrastare il fenomeno mafioso sul versante economico”, con confische e sequestri, “ne ha sicuramente determinato nei nostri territori una rilevante disarticolazione”. Lo ha detto il procuratore generale di Torino Marcello Maddalena, intervenendo oggi all’inaugurazione dell’anno giudiziario. “Tutto ciò riguarda soprattutto la ‘ndrangheta che nel nostro territorio rappresenta la maggiore associazione mafiosa - ha precisato il pg di Torino - che come scrive la procura nazionale antimafia per il Piemonte, `cerca costantemente contatti con il mondo politico e amministrativo”. Tre presidi di protesta pacifici hanno accolto stamattina il ministro della Giustizia, Paola Severino, presente a Torino all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Con motivazioni diverse, erano presenti, fuori dal palazzo, delegazioni di Pd, Fratelli d’Italia e radicali. Il Pd ha distribuito volantini contro “la corruzione e il malaffare”, Fratelli d’Italia contro il decreto svuota - carceri e, all’opposto, i radicali si sono attrezzati con alcuni cartelli al petto che componevano la parola “amnistia”. Nuovo Governo prosegua su misure avviate “Il mio augurio è che il prossimo governo possa continuare sulla strada avviata che ha cominciato a dare risultati”. È l’auspicio espresso dal ministro della Giustizia, Paola Severino, che intervenendo all’inaugurazione dell’anno giudiziario di Torino, ha ribadito il rammarico per la mancata approvazione della delega in materie di pene detentive non carcerarie e messa alla prova “che avrebbe certamente lasciato un primo importante segno della giusta direzione”. Sottolineando “la preoccupazione per la perdurante drammaticità della situazione carceraria che anche in questo distretto fa sentire i suoi effetti”, Severino ha aggiunto: “non posso non richiamare i dati positivi che le innovazioni legislative hanno fatto registrare: i detenuti in attesa di giudizio sono circa 4.000 in meno, il fenomeno delle porte girevoli si è dimezzato, 8.000 detenuti hanno beneficiato delle misure alternative del salva carceri”. “Questo conferma che la strada intrapresa è quella giusta ma si può e si deve fare di più. Occorre - ha concluso - una strategia fondata su tre pilastri, depenalizzazione, maggiore flessibilità delle misure alternative al carcere, una nuova gestione dell’edilizia carceraria”. Giustizia: Aiga; riforma forense e carceri siano la priorità per il nuovo anno Ansa, 27 gennaio 2013 “L’Aiga, Associazione Italiana Giovani Avvocati, Sezione di Palmi, intende diffondere sul territorio, condividendolo, il messaggio del Presidente nazionale Dario Greco in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario: “Nel 2012 è stata dichiarata l’incostituzionalità della mediazione obbligatoria nel processo civile, provvedimento sbagliato e frutto di grandi iniquità, è stata rivoluzionata la geografia giudiziaria del Paese ed è stata approvata la riforma dell’ordinamento professionale forense. Una legge, quest’ultima, che pur aggiornando una normativa vecchia di 79 anni, non ridisegna la figura dell’avvocato nella società informatica, né gli consente di ricercare nuovi spazi di mercato che permettano, soprattutto ai giovani, di affrontare nuove sfide fuori dal ristretto recinto dei Palazzi di Giustizia. Chiediamo, pertanto, che nella prossima legislatura il testo venga rivisto, innanzitutto perché il sistema di governo dell’Avvocatura non è democratico e vogliamo scegliere i nostri rappresentanti nazionali senza sbarramenti anagrafici, ma anche per rendere davvero valide le specializzazioni forensi, che non posso essere attribuite soltanto frequentando uno sterile corso universitario, o per mera anzianità”. È quanto dichiara il presidente dell’Aiga, l’Associazione italiana dei giovani avvocati, Dario Greco, intervenendo all’inaugurazione dell’anno giudiziario. Il leader dei legali under45 aggiunge che “usando le parole del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, c’è la necessità di affrontare con “senso di responsabilità, di umanità e di civiltà costituzionale” la “vergognosa realtà carceraria che marchia l’Italia”. Bisogna prendere atto - continua il numero uno dell’Aiga - dell’estrema urgenza del sovraffollamento negli istituti di pena, e spiace constatare come, nell’attuale campagna elettorale, il tema venga ignorato dalle principali forze politiche in competizione”. Greco, infine, si augura che “il 2013 possa essere finalmente l’anno della svolta, in cui i cittadini possano ricominciare a guardare con fiducia i Palazzi di Giustizia, nel quale l’Italia si riaffermi con orgoglio in qualità di culla del diritto ed il nostro Paese finalmente si rialzi, reagendo ad una pesantissima crisi economica e sociale”. Giustizia: il Pg di Milano Minale; se le carceri scoppiano non spetta a noi pm fare sconti di Davide Carlucci La Repubblica, 27 gennaio 2013 L’applicazione della pena chiesta dalla pubblica accusa dev’essere “la minima delle possibili”, come diceva Cesare Beccaria, o il magistrato non se ne deve curare? A 250 anni esatti dalla stesura di “Dei delitti e delle pene”, a Milano il dibattito tiene ancora banco. E vede contrapposti, nell’inaugurazione dell’anno giudiziario, il presidente della Corte d’appello, Giovanni Canzio, e il procuratore generale Manlio Minale. Scintille in punto di diritto. Il primo apprezza l’invito rivolto dal procuratore Edmondo Bruti Liberati, dopo il caso Sallusti, a “fare minore uso della carcerazione e a ricorrere invece con larghezza alle misure alternative”. Minale - predecessore di Bruti - non ci sta: per lui “sarebbe un compito improprio” e un’eccessiva concessione al “vento aziendalista” spingere verso un maggiore ricorso alle misure alternative: “Se le carceri non reggono, non devono essere le procure che devono chiedere meno misure”. Opposta, invece, la valutazione di Salvatore Scuto, presidente della Camera penale di Milano, per il quale la rivendicazione di Minale “desta perplessità”. Il rappresentante degli avvocati invita i magistrati a un “più responsabile uso degli istituti eccezionali che consentono la limitazione della libertà personale”. La divergenza tra Canzio e Minale riguarda anche l’obbligatorietà dell’azione penale: per il presidente della Corte d’appello dev’essere “temperata”, nel senso che in caso di “scarsa rilevanza del fatto” e di “tenue offensività della condotta” la legge dovrebbe consigliare di non procedere. In questo modo si sfoltirebbero una buona parte dei fascicoli che ingolfano e rallentano la giustizia. Per il procuratore generale, invece, “l’obbligatorietà non sopporta aggettivazioni”. Sul versante civile, invece, si registra il “caso” del tribunale del lavoro. La sezione, presieduta da Pietro Martello, vede aumentare del 34,1 per cento i ricorsi, che a luglio hanno raggiunto quota 17.131 contro i 12.774 di un anno prima. Il dato, legato alla crisi, potrebbe crescere con la riforma Fornero, che sta portando a ulteriori nuovi ricorsi (se ne calcolano almeno seicento nel 2012). Ciononostante, e malgrado l’organico sia inferiore alle previsioni, la produttività dei giudici è in aumento: il rapporto percentuale tra procedimenti definiti e sopravvenuti è arrivato al 103 per cento, un dato record. “Tale dato - scrive Canzio - ha consentito per la prima volta di registrare un arresto nella crescita dell’arretrato e di ipotizzare, per il 2013, con una produttività media pari a quella riscontrata lo scorso anno, una stabilizzazione delle pendenze”. Sembra, insomma, che i giudici del lavoro siano diventati stacanovisti e per qualche mese la cosa ha rischiato di pesare sulle casse del Comune, che paga i vigilantes del tribunale del lavoro, costretti a fare gli straordinari per consentire l’attività dei giudici in servizio il sabato e la domenica. Aumentati i processi che riguardano minorenni Il dato è significativo: nella sezione minori della corte d’Appello, le nuove iscrizioni sono passate da 120 a 203. Un incremento a cui i magistrati però hanno saputo far fronte grazie a una crescita della capacità di smaltire l’arretrato. Anche nel settore famiglia aumenta la produttività: il tasso di ricambio tra fascicoli pendenti e definiti è pari al 111 per cento, grazie anche a una diminuzione del contenzioso. Paradossalmente, però, nel settore penale a una maggiore produttività corrisponde un incremento del tempo medio impiegato per definire i fascicoli, che passa da 22,3 a 28,3 mesi. “Si spiega - è scritto nella relazione inaugurale - con il fatto che, grazie agli interventi di perequazione del carico di lavoro delle varie sezioni, è stato possibile destinare parte della maggiore produttività alla riduzione dell’arretrato che, ovviamente, riguarda i procedimenti più risalenti nel tempo”. È insomma una “illusione statistica”. Del resto, cala la durata media dei fascicoli con detenuti. Giustizia: Lupo, Presidente della Cassazione; “a Genova fu tortura, si introduca il reato” di Eleonora Martini Il Manifesto, 27 gennaio 2013 La realtà piomba inaspettata nel cerimoniale ingessato dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, una platea che per usare le parole del segretario dei Radicali italiani Mario Staderini è formata per “il 90% da uomini e forse altrettanto da anziani”. È l’ultima occasione offerta alla Guardasigilli Paola Severino per esibire l’apprezzamento “dell’assetto internazionale” riguardo “le cose che abbiamo fatto”. Ma fortunatamente c’è il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, che senza girarci attorno ricorda cosa invece non è mai stato fatto, a cominciare dall’introduzione del reato di tortura per fatti sanguinosi come quelli del G8 di Genova: “Ce lo chiede non solo la Corte europea dei diritti umani, ma anche la giurisprudenza della Corte di Strasburgo, l’Onu, e i principi ricavabili dalla nostra Costituzione”. Nonostante la ratifica della convenzioni internazionale, il reato ancora non c’è, ricorda Lupo, “mentre le fattispecie penali applicabili sono lontane dal corrispondere alle condotte di particolare gravità riconducibili alla nozione di tortura e non assicurano nel concreto, considerati anche i termini di prescrizione, effettività della risposta sanzionatoria”. Come è accaduta per Genova dove “pur riconoscendosi l’assoluta gravità” delle violenze della polizia, “si è ritenuto che alla intervenuta prescrizione dei reati non potesse porre rimedio neppure la proposizione di una questione di costituzionalità” ritenuta inapplicabile in modo retroattivo. Ecco, si può partire da qui per parlare concretamente della “peste giudiziaria” che sta infettando pure le corti europee. Una strada obbligata, se si vuole “contribuire alla costruzione di un sistema di giustizia europeo” che, ricorda Lupo, è ormai un compito ineludibile per chi “ha responsabilità pubbliche e non può rimanere inerte”. Ovviamente quasi tutti i presenti hanno espresso “profonda amarezza e sconforto per la perdurante drammaticità della situazione carceraria”. “Drammatico” l’esubero di 18.661 detenuti rispetto ai posti letto, come ricorda Lupo, che per il terzo anno consecutivo dedica la relazione introduttiva al problema “strutturale” che è valso all’Italia la condanna della Corte europea dei diritti umani. “Inaccettabile che - aggiunge Severino - all’inizio di questo mese 24.124 detenuti su 65.789, pari a circa il 36% della popolazione carceraria, siano ancora in attesa di giudizio e, tra essi, ben 12.594 attendano il giudizio di primo grado”. Inaccettabile ma inevitabile, se il codice penale contiene 35 mila fattispecie di reato e a ogni tornata elettorale se ne aggiungono altre. Se ci sono oltre 5 milioni di processi civili pendenti (calati del 4,5% dopo l’introduzione della mediazione obbligatoria), e altrettanti nel penale. Se occorrono mediamente 900 giorni per un processo di appello e vanno in prescrizione 128 mila procedimenti all’anno. Se nel 2012 sono 81 mila i ricorsi penali pervenuti davanti alla Corte di Cassazione, che peraltro ha la carenza di magistrati (il 24% in meno di consiglieri) più alta tra tutti gli uffici giudiziari italiani. Ma se l’analisi è corretta, “le proposte sono insufficienti”, critica l’Unione delle camere penali: “La verità è che occorre più coraggio e assunzione di responsabilità, anche perché in prigione gli imputati non ci finiscono certo per opera dello spirito santo. È un non senso denunciare l’indegnità delle carceri senza immaginare, assieme alle future riforme, iniziative immediate ed efficaci, come amnistia e indulto”. Lettere: carceri sovraffollate? bisogna pensare a misure alternative da Comunità di “San Martino al Campo” di Trieste Il Piccolo, 27 gennaio 2013 Perché la situazione nelle carceri italiane è così drammatica? Qual è il ruolo che può svolgere il volontariato? Sono queste le domande chiave attorno alle quali si è dibattuto nel corso della recente Assemblea nazionale del volontariato della giustizia organizzata a Roma dalla Conferenza nazionale volontariato giustizia. Un organismo che raccoglie enti e associazioni impegnate nelle esperienze di volontariato negli istituti penitenziari. Due giorni di lavori, una trentina di interventi tra magistrati, esponenti delle istituzioni, docenti, operatori. La sconfortante situazione dentro le carceri italiane è un tema ricorrente che ciclicamente si ripropone a ogni denuncia sullo stato in cui sono costretti a vivere i detenuti. Denunce, com’è stato ricordato nel corso dei lavori, lanciate anche ai più alti livelli istituzionali e religiosi. Sul tema del mancato rispetto della dignità umana nelle carceri italiane sono intervenuti il presidente Napolitano e anche papa Benedetto XVI. Senza nessun esito significativo. Forse questo non è (o non è solo) il tempo degli appelli. L’assemblea a Roma ha offerto l’occasione per una analisi lucida sullo stato di illegalità delle detenzioni in Italia, sulle sue cause e sui possibili rimedi. Il punto da cui muoversi è un prezioso documento della Commissione del Senato per la tutela dei diritti umani negli istituti penitenziari e nei centri di accoglienza. L’ha analizzato a fondo il presidente emerito della Corte costituzionale, Giovanni Maria Flick. Il dato più evidente è, come noto, quello del sovraffollamento (66.000 detenuti vivono in strutture che ne possono contenere al massimo 45.000). In simili condizioni tutti i possibili progetti di recupero del detenuto diventano difficili o impossibili. Una situazione, appunto di illegalità, in palese contrasto con l’articolo 27 della nostra Costituzione per il quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La pena detentiva, ha ricordato il giudice Flick “non annulla i diritti fondamentali della persona”, nonostante i limiti dello stato di detenzione. Il sovraffollamento delle carceri è, però, una conseguenza legata a delle scelte di fondo che hanno a che fare con una certa idea di società e di umanità. Cause, quindi, ben più profonde e radicali delle semplici situazioni contingenti. La prima è “l’identificazione quasi assoluta fra pena e carcere”: per motivi di inefficienza, di carenze gestionali o di facili assensi populistici si interpreta la reclusione come unica risposta, anche nei confronti di reati minori. Il primo presidente della Corte di cassazione di Roma, Ernesto Lupo, ha parlato esplicitamente della necessità di un’incisiva depenalizzazione o, più radicalmente, di una decriminalizzazione. Se, ad esempio, la clandestinità o l’uso (anche modico) di sostanze stupefacenti è considerato un reato e questo si estingue con il carcere, non ci si può meravigliare se queste strutture sono costantemente sovraffollate, nonostante le amnistie. Non ci si può meravigliare se un quarto circa della popolazione carceraria sia composto da tossicodipendenti e un terzo (35%) da stranieri. Se si considera, poi, che i detenuti in attesa di giudizio definitivo sono attualmente il 39% della popolazione in detenzione il quadro è abbastanza chiaro. Le soluzioni? Unanimi e ormai note da tempo. Non è l’aumento dei metri quadrati per la detenzione ma, oltre alle già ricordate riduzioni del ricorso alle pene detentive e alla custodia cautelare, l’aumento delle misure alternative al carcere. Anche perché le percentuali di recidiva (ripetizione dei reati) da parte di detenuti che hanno goduto di pene alternative è minore (19%) rispetto ai detenuti normali (68%). Davanti a questo quadro inquietante la politica latita. Il presidente emerito, Giovanni Flick, ammonisce che si è superata la soglia di guardia e avvisa che “potrebbe essere il giudice - in una funzione di supplenza tanto doverosa quanto sconvolgente per il sistema - a intervenire in modo drastico, per cercare rimedi estremi all’emergenza “normale” del carcere”. E il volontariato? Deve indignarsi. Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha individuato il contributo del volontariato come “segnalatore di bisogni e voce critica rispetto all’amministrazione”, portavoce nei confronti della società civile. Una funzione non di mero sostegno economico - amministrativo, ma di impegno per un cambiamento che deve essere certamente legislativo, ma prima ancora sociale e culturale. Una bella sfida. Emilia Romagna: Sappe; situazione delle carceri sempre più grave Adnkronos, 27 gennaio 2013 La situazione carceraria in Emilia Romagna si sta sempre più aggravando. Lo denuncia Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, in una nota. “La situazione nelle carceri dell’Emilia Romagna, - spiega - dopo il calo di detenuti, passati dai circa 4.400 del 2011 ai circa 3500 del 2012, è destinata ad aggravarsi nuovamente, considerato che, entro il 15 febbraio, dovrà essere aperto il nuovo padiglione del carcere di Modena, dove saranno custoditi detenuti con pene inferiori ai cinque anni. Ciò determinerà un ritorno, nel carcere di Modena, ai livelli del 2011, quando c’erano circa 600 detenuti”. “Abbiamo appreso poi che il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria sta inviando a Ferrara sei detenuti condannati per fatti di terrorismo nazionale ed internazionale, tra i quali islamici, che dovranno essere ristretti in un’apposita sezione che, ci riferiscono, al momento non garantisce le necessarie condizioni di sicurezza. Tutta la struttura, ci dicono, non è pronta per ospitare detenuti così pericolosi, classificati AS2. Ricordiamo che il carcere di Ferrara era stato parzialmente sgombrato dopo il terremoto dello scorso anno”, prosegue. Inoltre, denuncia ancora il Sappe, “entro marzo, in base alle disposizioni varate dal ministro Severino, dovrebbe essere dismesso l’ospedale psichiatrico giudiziario di Reggio Emilia la cui struttura, a nostro avviso, potrebbe essere riconvertita in casa circondariale o di reclusione. Pertanto, si pone il problema, in regione, di una complessiva riorganizzazione del sistema penitenziario, che preveda la creazione di tre livelli di sicurezza”. Terni: suicidio in carcere; dichiarazione del Consigliere regionale Orfeo Goracci Notizie Radicali, 27 gennaio 2013 Orfeo Goracci, Consigliere regionale del Gruppo Comunista ci ha mandato un comunicato sul caso dell’ennesimo suicidio in carcere. “È morto giovedì mattina, impiccato alle sbarre dell’istituto di pena di vocabolo Sabbione (Terni), il detenuto Mohamed Najar. Notizia sconvolgente che porta a riflettere sul perché anche mediaticamente la notizia non ha il clamore che magari ha un avviso di garanzia. Forse tutto questo è dovuto al fatto che la persona morta suicida era di origine marocchina, ma va ricordato con fermezza che il valore della vita non ha né colori, né differenze di razza, la vita di ogni essere umano deve avere uguale “peso”: non c’è una vita più importante di un’altra. L’uomo si trovava in prigione in custodia cautelare e senza nemmeno essere stato condannato dalla legge ha deciso di togliersi la vita all’età di 56 anni. In prigione la persona non è tale, è poco più di un numero, tutto contribuisce a calpestarne la dignità, può succedere anche che nella stessa cella convivano il pluriomicida (reo confesso, che va “recuperato” in base alla nostra Costituzione) e il detenuto in custodia cautelare che magari risulterà innocente dopo le varie fasi processuali. Ciò fa pensare e, in sostanza conferma, le condizioni critiche in cui si trovano le carceri italiane, non meno gravi sono i tempi dei processi che in Italia sono talmente lunghi da rischiare di invecchiarsi e non essere stati ancora processati. Uno degli aspetti più negativi delle carceri è senza dubbio il sovraffollamento, che in Italia riesce a toccare “cifre” tra le più alte al mondo. Infatti, l’ incivile situazione (richiamata anche dal Presidente della Repubblica Napolitano) del sovraffollamento, vede la presenza di 67.000 detenuti a fronte di una capienza massima prevista di circa 45.000 e fra questi il 40% sono detenuti in attesa di giudizio. Il carcere di vocabolo Sabbione a Terni, presso il quale circa due mesi fa abbiamo fatto visita, rientra purtroppo in questa negativissima media di sovraffollamento al quale corrisponde una totale insufficienza di personale e agenti di sorveglianza. Come può il sistema italiano “abusare” così della custodia cautelare? Chi ha provato l’esperienza del carcere è ben consapevole che quel luogo non è adibito alla rieducazione dell’individuo nel corretto reinserimento sociale, anzi devasta l’essenza dell’uomo e ne condiziona in modo negativo il rapportarsi con gli altri. Tali strutture dovrebbero operare per un giusto fine mirato al detenuto e alla collettività, oltre a far scontare la pena quando si è giudicati colpevoli. Nella maggior parte dei casi è possibile individuare forme di pena alternative al carcere. L’esigenza di “aprire” il carcere alla società nasce anzitutto per il detenuto, ma anche per il territorio di riferimento. Fino a che il carcere sarà sinonimo di “discarica sociale”, il tasso di suicidi e di maltrattamento alla propria persona sarà sempre e sempre più a livelli spaventosi, disumani e “deterioranti” per la condizione umana”. Sassari: pestaggi a San Sebastiano, Corte di Strasburgo esamina richiesta di un ex recluso di Elena Laudante La Nuova Sardegna, 27 gennaio 2013 “San Sebastiano, una Guantanámo ante litteram”. Dove nel 2000 la violenza di agenti della Penitenziaria contro una trentina di detenuti - in quella che i giudici hanno ribattezzato “galleria degli orrori” - “fu un vero e proprio atto di tortura”. Sono passati tredici anni da quegli abusi, otto trascorsi in un’aula di Tribunale per arrivare a una sentenza di prescrizione. Ma solo ora, per uno dei reclusi che subì umiliazioni da chi doveva prendersene cura, botte con pezze bagnate, manganellate sui genitali, ora forse si apre lo spiraglio della giustizia europea. La Corte di Strasburgo ha avviato l’istruttoria per l’allora detenuto V.S., originario del Sassarese, che si è rivolto ai magistrati garanti della Convenzione sui diritti dell’uomo per violazione dell’articolo 3, che vieta la tortura e “pene o trattamenti inumani o degradanti”. Il ragionamento del suo avvocato, Giuseppe Onorato, è semplice. V.S., come tantissimi altri “ospiti” del carcere sassarese, in quel 3 aprile 2000 era affidato all’amministrazione penitenziaria. Eppure, è la stessa sentenza di primo grado (2009) a riconoscere come “la Repubblica italiana non sia stata in grado di garantire il rispetto dei diritti fondamentali riconosciuti dalla Convenzione”. Dunque, chiede alla Corte di condannare il nostro Paese, così come l’8 gennaio Strasburgo ha fatto con la sentenza che ci bacchetta per la stessa violazione - trattamento inumano e degradante - ma per il sovraffollamento nelle galere di Stato. Un verdetto che ha riaperto il dibattito sulla necessità di codificare il reato di tortura, che avrebbe potuto evitare, ad esempio, la prescrizione delle lesioni inflitte dagli agenti di polizia alla Diaz, durante il G8, in qualche modo simili a quelle di San Sebastiano. Perché quello di tortura sarebbe un reato che il tempo non può scalfire. V.S. non ha ottenuto alcun risarcimento per essere passato attraverso la “galleria degli orrori”, caso che sollevò un’onda di indignazione in tutta Italia. Anche per la freddezza con la quale sarebbe stata portata avanti. Quella esplosa tra le mura dell’istituto sembrò violenza su commissione dell’allora amministrazione penitenziaria regionale, con agenti chiamati da altri penitenziari. Ma la verità processuale sconfessa in parte questa ricostruzione. Dopo le botte molti detenuti vennero trasferiti per evitare contatti con i parenti e denunce. Forse proprio per l’unicità del caso, a tre anni dal ricorso, la Camera - così si chiama il collegio composto da 7 giudici - sta valutando il merito delle richieste e ha informato la parte convenuta, cioè il Governo italiano. Lo ha comunicato all’avvocato del ricorrente con una lettera datata 8 gennaio. Alla rappresentanza nostrana a Strasburgo si impone di rispondere a sei quesiti entro il prossimo 30 aprile, poi potrebbe essere fissata la data di udienza e sentenza. All’Italia si chiede, ad esempio, se chi è stato processato per quei fatti sia poi stato oggetto di procedimenti disciplinari e quali sanzioni, eventualmente, abbia subito. E poi se il ricorrente abbia la possibilità di ottenere una “compensazione” economica in altri modi; se l’inchiesta penale, alla luce della tutela processuale, abbia soddisfatto i criteri della Convenzione, oppure se il detenuto non abbia già ottenuto un ristoro per quei fatti. Ma non potrebbe mai averlo avuto, proprio perché non si può chiedere il risarcimento per un reato che non esiste, la tortura. All’inaugurazione dell’Anno giudiziario il primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha ricordato come sull’introduzione di questa fattispecie nel nostro ordinamento, l’Italia sia “in notevole ritardo”. Busto Arsizio: Corona, il “re dei paparazzi”, finisce in una delle carceri più sovraffollate Corriere della Sera, 27 gennaio 2013 “Non sono fuggito, me ne sono andato dall’Italia perché turbato da una sentenza ingiusta e perché temo per la mia vita nelle carceri italiane”. Almeno su una cosa Fabrizio Corona, rinchiuso da venerdì sera nel carcere di Busto Arsizio, in provincia di Varese, potrebbe avere ragione. Se l’Italia in Europa contende solo alla Serbia il primato negativo del tasso di sovraffollamento delle carceri (148 detenuti per 100 posti, contro una media continentale di 99), a Busto va anche peggio. Con una capienza regolamentare di 167 persone, qui vivono, in celle dove hanno a disposizione meno di 3 metri quadrati a testa, 395 detenuti (ma si è arrivati anche a 450), un tasso del 236%. Una situazione insostenibile, per cui all’inizio di gennaio la Corte di Strasburgo ha condannato l’Italia a risarcire con 100.000 euro sette persone detenute in questo carcere e in quello di Piacenza in condizioni ritenute contrarie alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo perché “inumane e degradanti”. “Fatta eccezione per una sezione, i detenuti possono trascorrere fuori dalle celle quattro ore al giorno”, denuncia dalle pagine del suo sito l’Associazione Antigone, attiva in difesa dei diritti dei detenuti. E anche se i dolci del laboratorio di cioccolateria “Dolci in Libertà” hanno un’ottima fama e le attività ricreative non mancano (come il giornale “Mezzo Busto” per esempio) nel carcere bustocco lavora solo un detenuto su quattro. E poi: carenza d’acqua (“anche in estate i reclusi possono fare la doccia al massimo ogni due giorni”) e di cibo (“che spesso finisce prima che il carrello arrivi alle ultime celle”). In questo quadro non sorprendono i dati relativi a suicidi (“3 casi nei primi 10 mesi del 2012”), tentativi di suicidio (“2 nel 2010 e 7 nel 2011”) e autolesionismo (“44 casi nel 2012”). Stride, in questa situazione di emergenza cronica, l’esistenza di un reparto modello, ideato e realizzato per ospitare detenuti disabili. L’unica particolarità è che si tratta di “un’ala costruita cinque anni fa, ma mai entrata in funzione per mancanza di personale”. Tempio Pausania: il nuovo carcere si è trasformato in un Istituto di massima sicurezza La Nuova Sardegna, 27 gennaio 2013 Doveva essere una Casa circondariale modello, con tanto di cinema, campi da tennis e luoghi di culto per le varie religioni professate dai reclusi. Un carcere a misura d’uomo, vicina al territorio, ai suoi abitanti, a coloro che hanno sbagliato ma hanno il diritto di ricevere la visita dei parenti. Ma il supercarcere di Nuchis, dal novembre scorso, si è trasformato in un penitenziario di massima sicurezza (categoria tre) inaccessibile ai detenuti comuni e ai nuovi arrivati, i quali vengono trasferiti non appena il gip convalida il loro fermo. Ragioni di sicurezza che hanno fatto storcere il naso, e non solo, al presidente della camera penale del tribunale di Tempio che ieri ha inviato una missiva al presidente del tribunale, al procuratore della Repubblica e al provveditore regionale chiedendo che vengano sospese le autorizzazioni dell’autorità procedente (quella gallurese) nei riguardi dei detenuti appena internati, i quali vengono trasferiti nelle carceri di Sassari, Oristano o Cagliari. “Una situazione kafkiana - ha detto ieri l’avvocato Domenico Putzolu, che sta predisponendo una giornata di astensione da tutte le udienze degli avvocati penalisti - , un incredibile paradosso non giustificabile in alcun modo: c’è un carcere nuovissimo, appena inaugurato, ma non c’è più posto per i detenuti “galluresi”, quelli ancora in attesa d’essere giudicati dalla magistratura tempiese. Una incongruenza, non si sa bene a chi attribuibile, che comporta aggravio di spese per l’amministrazione penitenziaria, i difensori, i familiari dei detenuti e ulteriori disagi per i magistrati, che debbono attendere giorni prima di poter “vedere” un loro indagato”. l caso è già stato portato all’attenzione del provveditore regionale Gianfranco De Gesu, che avrebbe dato disposizioni per dare piena operatività al supercarcere di Nuchis destinato ad ospitare soltanto detenuti sottoposti a regimi di alta sicurezza, ovvero condannati per reati gravi o di natura associativa - ‘ndrangheta, Camorra e mafia - riferibile alla criminalità organizzata. Detenuti “doc”, nessuno dei quali sardi, che debbono scontare decine e decine di anni di reclusione per omicidi o traffico internazionale di armi o sostanze stupefacenti. Gli arrivi, in massa, dei “nuovi ospiti” sono stati più volte annunciati dal deputato Mauro Pili, ma nessuno, sinora, aveva mai detto che per far posto a loro venivano trasferiti in altre carceri i detenuti comuni. Tranne i pochi rimasti, che sono addetti al funzionamento dei servizi essenziali del supercarcere quali cucine e pulizie. Previste speciali misure di sicurezza Dopo la “Rotonda”, il vecchio carcere sabaudo chiuso dopo 168 anni di onorato servizio, è stata aperta, nel giugno scorso, la nuova casa circondariale di Nuchis. La nuova e moderna struttura, costata al contribuente italiano la bellezza di 68 milioni di euro, è stata la prima dei nuovi istituti di pena isolani ad entrare in funzione. Con una specificità , rivelata a denti stretti e dopo che era stata annunciata da diverse prese di posizione della classe politica, dai responsabili del dipartimento penitenziario isolano. Nuchis rientra tra i penitenziari italiani denominati “As3”, cioè dotati di “misure di sicurezza tali da garantire e assicurare l’internamento di detenuti a pericolosità media”, spiega il manuale con il quale dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, diretto da Giovanni Tamburino) distribuisce, sul territorio nazionale, i suoi ospiti. La capienza massima del carcere di Nuchis è di 156 detenuti in regime di alta sicurezza, una popolazione carceraria che sarà raggiunta entro la fine di gennaio, con l’arrivo di nuovi ospiti dalle carceri siciliane, calabresi e della Campania. Bari: lavori all’Ipm di Fornelli, baby detenuti in trasferta La Repubblica, 27 gennaio 2013 Aumentano i baby detenuti ma diminuiscono i posti nel carcere minorile. I lavori in corso all’interno dell’istituto penitenziario barese hanno ridotto inevitabilmente la capienza delle celle. Così il destino dei minori sorpresi a rubare o a spacciare nelle città pugliesi è quello di scontare la pena altrove. Proprio in questi giorni è stata sfollata una delle tre sezioni dell’istituto minorile “Fornelli” e i giovanissimi finiti dietro le sbarre sono stati trasferiti in altre carceri per under 18. Nel carcere per i minori di via Giulio Petroni, a Bari, - l’unico funzionante in Puglia - ci sarebbe posto per circa 30 - 35 piccoli detenuti ma, al momento, ce ne sono solo 22 perché un’ala della struttura è stata chiusa per lavori di ristrutturazione. “Abbiamo sfollato una delle sezioni che stiamo riparando - spiega il segretario del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria Federico Pilagatti - sono operative solo due sezioni su tre. I lavori andranno avanti per qualche mese, la capienza dunque è momentaneamente ridotta. Arriveremo fino a 20 - 25 posti su 30 - 35 a disposizione. Gli altri ragazzi sono stati trasferiti in altri istituti per minori di altre regioni”. Per almeno altri tre mesi, dunque, il “Fornelli” sarà a ranghi ridotti. Eppure gli arresti di 15enni e 16enni sono all’ordine del giorno. Proprio ierii carabinieri hanno fermato un baby rapinatore mentre tentava l’assalto nella tabaccheria di corso Vittorio Emanuele al quartiere Palese di Bari armato di pistola giocattolo e coperto da passamontagna. Il 16enne incensurato, originario di Bitonto, è stato arrestato in flagrante e trasferito in carcere su disposizione della procura per i minorenni di Bari. Martedì invece era toccato ad altri due 16enni che, al quartiere Libertà, trasportavano due panetti da 196 grammi di hashish: per loro però l’autorità giudiziaria ha disposto la permanenza in casa. L’elenco dei criminali in erba è molto lungo. In poco più di tre mesi sono stati 35 gli arresti di under 18 fatti da polizia e carabinieri in provincia di Bari. Nella maggior parte dei casi sono stati sorpresi a cedere dosi di hashish e marijuana per strada. Il baby penitenziario di Bariè l’unico in funzione in tutta la Puglia. Il carcere minorile di Lecce, infatti, come ha denunciato una settimana fa l’organizzazione sindacale autonoma di polizia penitenziaria, è chiuso ormai da cinque anni nonostante gli interventi di ristrutturazione siano terminati dal 2011. I minori arrestati in Salento, dunque, vengono portati a Bari e, ora che i posti sono ridotti, vengono trasferiti in altre regioni. Nel “Fornelli”, poi, mancano almeno dieci agenti di polizia penitenziaria. È sempre il Sappe a denunciare la carenza di personale. “Su una pianta organica che prevede 44 agenti ne sono in servizio 33 - fa i conti Pilagatti - ne mancano 11. E la situazione nel carcere minorile è più difficile e tese rispetto agli altri penitenziari perché i giovani sono più complicati da gestire”. I poliziotti, rincara la dose l’Osapp, sono costretti a fare turni anche di nove ore lavorative in maniera continuata. Bologna: quei neonati dietro le sbarre condannati con le madri La Repubblica, 27 gennaio 2013 Con la madre è entrata alla Dozza anche la bambina di tre mesi che deve allattare. È la piccola di Guendalina Femia, 28 anni, figlia di Nicola, il boss legato alla ‘ndrangheta che da Ravenna gestiva il gioco d’azzardo. L’avvocato Matteo Murgo chiederà oggi al gip Bruno Perla di concederle gli arresti a casa a Conselice. E alla Dozza c’è anche un piccolo rom di tre mesi. “Andrebbe evitata la presenza di neonati e bambini in carcere, se non in casi eccezionali”, sostiene la garante dei detenuti Elisabetta Laganà. Laganà cita la relazione del Csm sulla magistratura di sorveglianza, di cui fa parte anche il presidente di Bologna Francesco Maisto, che propone di ridurre al minimo la detenzione per le mamme con figli piccoli, a parte casi gravissimi. “È ingiusto che bambini innocenti vivano in strutture carcerarie per stare con la madre - dice Giorgio Pieri dell’associazione Papa Giovanni XXIII. Da tempo abbiamo offerto le nostre case - famiglia per accogliere le detenute. Per non far entrare più bambini in carcere”. L’associazione ha incontrato Giovanni Tamburino, direttore del Dap, che ha visitato le strutture di accoglienza messe a disposizione. “Però poi Tamburino ci ha detto che la legge non prevede la possibilità di finanziare strutture esterne al carcere. Noi siamo disponibili ad accogliere intanto qualche mamma”. Anche il ministro della Giustizia Paola Severino si è detta d’accordo con questa soluzione. “La situazione attuale va superata - dice anche il procuratore dei Minori Ugo Pastore - Certo, bisogna contemperare varie esigenze, ma un bambino in carcere è un’assurdità”. Intanto oggi l’avvocato Murgo sarà di fronte al gip per le sue richieste. “È una vergogna - dice - che questa donna stia in carcere ad allattare una bimba di tre mesi. Anche gli agenti mi supplicano di fare qualcosa. Non sono cose da paese civile. Sarà anche la figlia di Femia, però è solo accusata di false intestazioni di società”. Alla Dozza cercano di fare il possibile: “Abbiamo attrezzato celle per situazioni simili, oggi rare - dice il capo dell’area educativa Massimo Ziccone. E cerchiamo sempre di accordarci con l’autorità giudiziaria per rendere ove possibile più breve la detenzione”. Foggia: Radicali; tutti vittime della giustizia… la protesta è in fotografia www.quotidianoitaliano.it, 27 gennaio 2013 Nove milioni di processi arretrati, 10 anni di attesa per una sentenza definitiva, 46milioni di euro in risarcimento annuo per la carcerazione preventiva, 75miliardi di euro annui per tribunali e procure, 20 scatti per raccontare le ragioni della lista “Amnistia giustizia e libertà” è l’originale propaganda dell’associazione “Mariateresa di Lascia” contro il regime carcerario italiano. C’è chi si sceglie il profilo migliore, chi fa ritoccare la propria immagine per sembrare più giovane, più bello, con più capelli, con meno rughe. Chi sceglie abbigliamento e luce per sembrare più affidabile, più onesto, nuovo nonostante gli otto mandati alle spalle. Nei loro manifesti elettorali, invece, i radicali dell’associazione Mariateresa di Lascia si presentano come dei galeotti nelle foto segnaletiche. “Anche tu sei una vittima di questa giustizia” è la campagna realizzata per spiegare in 20 scatti le ragioni della lista “Amnistia giustizia e libertà” candidata alle prossime elezioni politiche. Una carrellata di immagini e numeri per dire che l’amnistia è un provvedimento che libererebbe non solo i detenuti, ma anche tutti i cittadini che pagano il sistema ingolfato della giustizia italiana. Uno alla volta, sul fondo a righe, sfilano i candidati e i militanti. Ognuno regge una lavagnetta nera con su scritto con il gesso bianco il dato della denuncia. Dal sovraffollamento (67mila detenuti in 45mila posti) ai suicidi (600 quelli dei detenuti e 100 quelli degli agenti negli ultimi 10 anni), all’attesa di giudizio (per il 42% dei detenuti), alla composizione della popolazione carceraria (30mila detenuti per reati legati alla droga, puniti severamente con la legge Fini - Giovanardi e un detenuto su 4 è tossicodipendente e quindi bisognoso di cure, 3 mila detenuti per il reato di clandestinità, grazie alla Bossi - Fini e 70 bambini innocenti dietro le sbarre). Accanto ai dati sulla situazione dei penitenziari, ci sono poi quelli che riguardano tutti i cittadini, vittime di uno Stato che scarica sulle loro tasche e sulle loro vite i costi di una giustizia al collasso: 9 milioni di processi arretrati, 10 anni il tempo di attesa per una sentenza definitiva, 170mila prescrizioni all’anno, 46milioni di euro il risarcimento annuo che lo Stato sborsa ogni anno per la carcerazione preventiva, 75miliardi di euro la spesa annua per tribunali e procure. Il presidente dell’associazione Antonella Soldo afferma: “La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia più di 2mila volte per trattamenti inumani nelle carceri italiane. L’ultima sentenza 2 settimane fa, in cui la Corte di Strasburgo ha condannato il nostro Paese a un risarcimento di 700mila euro per 7 detenuti che vivevano stipati in celle troppo piccole. Capiamo che in un Paese dove si cerca sempre di far leva sulla paura collettiva e sulle politiche securitarie, gli argomenti sull’aspetto umanitario siano quelli che facciano meno presa sui cittadini terrorizzati. Bene, non vogliamo farne una questione di diritti umani: facciamone una questione di costi e di efficienza. L’amnistia, insieme ad una riforma della giustizia, libererebbe le scrivanie dei magistrati, farebbe crescere il Pil - si calcola che lo smaltimento delle pratiche arretrate frutterebbe il 4,9% del Pil”. Continua la segretaria, Elisabetta Tomaiuolo: “Non possiamo più permetterci una zavorra tale, con tutte le spese in percentuali nettamente superiori a quelle della media europea, e con una tale certezza di impunità: 170mila prescrizioni all’anno sono davvero un dato spaventoso. Le statistiche dicono che il 70% dei furti e l’80% degli omicidi restano impuniti. È davvero questa la sicurezza che vogliamo? Sono queste le ragioni per cui vi chiediamo alle prossime elezioni politiche di barrare il simbolo della lista ‘Amnistia giustizia e libertà’. Un voto giusto”. Milano: i volti dei deportati nei ricami delle detenute di San Vittore La Repubblica, 27 gennaio 2013 Sono luoghi nascosti, quelli della memoria. Ed è esile il filo che li collega, pronto a spezzarsi se mancasse l’impegno dei testimoni e di chi ne vuole cogliere il racconto. Un filo che Alice Werblowsky ha visto a Parigi nel corredo da cucito di una deportata ebrea. Che ha finito per annodare a Milano, dentro il carcere di San Vittore, per raccontare la sua storia tra il 1943 e il 1945. Affidando a 23 detenute di oggi il compito di intessere quell’esile trama di ricordi su semplici lenzuola, realizzandone 20 diverse opere: graffiti che potrebbero essere stati incisi allora sugli intonaci ammalorati del IV Raggio cui possono accedere, oggi e domani, solo quanti si sono prenotati per tempo. Solo loro vedranno quelle celle “blindate” dietro una porta dipinta di azzurro che “nascondono” i teli istoriati che raccontano storie di settant’anni fa. Per chi non ha avuto la possibilità di superare quei cancelli, udire gli scatti delle serrature, salire le scale fino al secondo piano per dare dalle sbarre uno sguardo ad altre sbarre, l’esperienza si può replicare dal 3 al 10 febbraio allo spazio Energolab di via Plinio 38 dove “Il filo dimenticato - 1943 - 1945 Gli anni bui di San Vittore” verrà riallestita per permettere a tutti di seguire quel filo che ha portato ebrei e detenuti politici dal carcere ai campi di sterminio. In quelle celle c’erano intere famiglie e bambini. E fra loro, allora tredicenne, Liliana Segre, registrata con un numero al suo ingresso a San Vittore, l’8 dicembre 1943. Il 30 gennaio del 1944 attraversava il cortile della prigione per raggiungere i camion che avrebbero trasportato 605 persone poco lontano, in via Ferrante Aporti, dove al Binario 21 si allestivano i convogli dei deportati. Un altro luogo “segreto” della storia di Milano dove ora si sta allestendo il Memoriale della Shoah. A San Vittore Liliana Segre è tornata per la terza volta e, oggi, ricorda con lucida rabbia: “Quando attraversammo il cortile, solo dalle celle ci arrivò la “manna”: “Vi vogliamo bene, non avete fatto niente di male. Che Dio vi benedica”. Era una pietà che gli aguzzini non avrebbero mai dimostrato. E gli indifferenti? “C’era anche chi, tornata a Milano, mi chiedeva: “Ma dove eri finita?”. E, loro, sapevano. “Solo noi non sapevamo”, ricorda Goti Bauer, arrestata con la sua famiglia sul confine svizzero, tradita dai contrabbandieri, che ancora ricorda come un detenuto politico, Emil De Mistura, ex diplomatico svedese, si congedasse da lei quel giorno raccomandandole: “Qualsiasi cosa succeda, devi farcela”. Dentro quelle mura c’era anche Andrea Schivo, guardia carceraria. Un Giusto tra le nazioni nel Giardino dei giusti dello Yad Vashem a Gerusalemme. È morto a Flossenburg il 19 gennaio 1945. Lo avevano arrestato le SS il 17 luglio 1944: lui dava da mangiare ai bambini ebrei chiusi nelle celle e portava le lettere dei detenuti ai familiari. Solo per questi gesti di umana pietà ha meritato una condanna a morte. Anche per lui una foto e un drappo ricamato nella cella 208 di San Vittore. Liliana Segre da San Vittore uscì su un camion, in una città “inconsapevole”. Ma oggi sul portone di piazza Filangieri resta murata la targa, recentemente restaurata, che ricorda: “In questo carcere, dove nei venti anni della dittatura furono detenuti innumerevoli cittadini credenti nella democrazia, dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945 centinaia di italiani soffrirono umiliazioni, patimenti, torture per avere cospirato e combattuto per la libertà e per l’onore della Patria. Il Comune di Milano, nella ricorrenza del XX anniversario della liberazione della città pose, come segno di ricordo, di gratitudine, di ammonimento. 25 aprile 1965”. A chi nel Giorno della Memoria seguisse quei fili mancherebbe soltanto la voce, sempre più esile, dei sopravvissuti. Che si spezza nel racconto anche di chi si è impegnato nella testimonianza come Roberto Jarach, vicepresidente del Memoriale e dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, di rientro da Auschwitz per far tappa al Binario 21 per prepararne l’inaugurazione di domenica e quindi a San Vittore per la mostra delle detenute. Un viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio per ricordare l’indicibile, la storia dei sommersi, con le parole dei salvati come fu per Primo Levi. Ma questo nessuna mostra potrà davvero raccontarlo. Televisione: domani a “Brontolo” (Rai 3) Papa, Marino e Della Vedova parlano di carceri Agi, 27 gennaio 2013 La situazione delle carceri in Italia: un dramma che è costato al nostro Paese il monito dell’Unione Europea e che purtroppo viene spesso pagato con la vita dai detenuti stessi. Uno ogni 6 giorni, infatti, decide di suicidarsi pur di non scontare la propria pena. A meno di un mese dalle elezioni, i partiti come intendono affrontare questo problema? Se ne parlerà nella puntata di Brontolo, intitolata “Patrie galere”, in programma lunedì 28 gennaio alle 9.00 su Rai3. Le carceri italiane sono le più affollate d’Europa. Nel nostro Paese ci sono 206 istituti di pena per un totale di quasi 66 mila detenuti, anche se la capienza prevista è per 47mila. In altre parole, ci sono 140 detenuti ogni 100 posti ufficialmente disponibili, mentre la media europea è di 99 detenuti ogni 100 posti. La costruzione di nuove carceri è la soluzione? Oppure la strada è quella delle misure alternative e della depenalizzazione proposte dal ministro Severino? Che posto occupa il problema carceri nei programmi elettorali dei diversi schieramenti? Sono le domande che Oliviero Beha rivolgerà ai suoi ospiti, che saranno: Benedetto Della Vedova, capogruppo di Fli alla Camera; Alfonso Papa, ex deputato del Pdl; Ignazio Marino, capolista del Pd in Senato in Piemonte; i giornalisti Alessandro Sallusti, direttore de Il Giornale e Riccardo Barenghi de La Stampa; Tarcisio Ghisoni, ex detenuto che ha denunciato le condizioni delle strutture carcerarie italiane alla Corte europea dei diritti umani. Immigrazione: Sindaco Bologna; calpestata la dignità, il Cie di Via Mattei va chiuso subito di Lorenza Pleuteri La Repubblica, 27 gennaio 2013 “Per una città come Bologna, medaglia d’oro al valore civile, questo è un cuore di tenebra e non si può continuare ad assistere senza dire niente”. Il sindaco Virginio Merola lascia il Cie di via Mattei, più di un’ora a contatto con stranieri e operatori, con un groppo alla gola e parole sofferte. E chi da tempo denuncia le condizioni non umane della struttura e l’indifferenza - a cominciare dalla parlamentare del Pd Sandra Zampa, dalla Cgil e da una rete di associazioni - capisce di aver trovato un alleato pugnace nel primo cittadino, in trasferta qui venti mesi dopo l’elezione, accompagnato all’interno dalla garante dei detenuti Elisabetta Laganà e raggiunto a fine visita dall’assessore Sel al Welfare, Amelia Frascaroli. Il sindaco, sulla stessa linea delle voci “contro”, adesso è netto, duro. “Questi centri non hanno senso. Bisogna chiuderli, occorre studiare possibili “meccanismi alternativi”“. In via Mattei, anche lui ora lo ha visto, “la situazione strutturale, igienico - sanitaria e gestionale deficitaria”. E c’è “il niente”, per uomini e donne rinchiusi in quello che altri chiamano “lager” e “porcile”: “Nessuno - dice il sindaco - è trattato disumanamente, è la condizione oggettiva che è al di sotto della dignità, in una struttura assurda, in una sorta di nuova specie di razzismo. È umiliante vedere l’uso delle forze di polizia: non si possono tenere giovani a custodire altri giovani che hanno solo il difetto di non appartenere a una certa nazionalità”. E allora, in attesa di scelte radicali, subito lo stanziamento dei soldi necessari per rendere vivibile il centro. E un fronte comune, che coinvolga colleghi, candidati e partiti, tutti: “Lavorerò - promette Merola - perché altri sindaci si ribellino: i Cie sono centri di espulsione, dalla condizione umana”. Venezuela: rivolta nel carcere di Uribana causa 55 morti e 90 feriti, tra detenuti e guardie Ansa, 27 gennaio 2013 È di almeno cinquanta morti e novanta feriti il primo bilancio di un ammutinamento in un carcere di Uribana, nello stato di Lara, nel nordovest del Venezuela. Lo hanno riferito fonti ospedaliere. “Alle 20 locali, abbiamo un bilancio approssimativo di novanta feriti, la maggior parte dei quali a colpi di arma da fuoco, con la cifra veramente allarmante di almeno cinquanta morti, trasferiti verso l’ospedale centrale”, ha dichiarato Ruy Medina, direttore dell’ospedale centrale Antonio Maria Pineda, che ha assicurato che tutte le vittime provengono dal carcere di Uribana. “I feriti provenienti dal carcere di Uribana hanno iniziato ad arrivare al pronto soccorso a partire alle 11 di questa mattina (...)”, ha indicato il direttore dell’ospedale. Il ministro degli Affari penali, Iris Varela, ha annunciato alla televisione pubblica Vtv che una perquisizione per scovare armi ha scatenato scontri tra detenuti armati e autorità, provocando “un indeterminato numero di vittime”. Tra quest’ultime ci sono sia detenuti sia guardie carcerarie, ha specificato Varela, che ha promesso di fornire informazioni dettagliate sui fatti quando le autorità avranno ripreso il “controllo assoluto” sull’edificio penitenziario. I media locali hanno trasmesso immagini di barricate erette intorno al carcere dalla Guardia nazionale, dei trasferimenti di detenuti con i vestiti sporchi di sangue e con i familiari dei prigionieri, soprattutto donne, in attesa di informazioni. Quello di Uribana è solo l’ultimo di una serie di episodi simili nei carceri del Venezuela. Ad agosto, 25 persone sono morte quando due gruppi di detenuti si sono scontrati nella prigione di Yare I, a sud della capitale. Grave è anche il problema del sovraffollamento. Il Paese sudamericano ha 33 istituti penitenziari che potrebbero ospitare circa 12mila detenuti, ma secondo stime ufficiale la popolazione carceraria supera le 47mila persone. Uribana è stata costruita per contenere 850 carcerati, ma ne ospita attualmente 1.400. Ordinata evacuazione carcere rivolta Il ministro per i Servizi Penitenziari del Venezuela, Iris Varela, ha annunciato oggi che il governo ha deciso l’evacuazione totale del detenuti del carcere Uribana, dove una rivolta scoppiata ieri ha fatto registrare un bilancio aggiornato di almeno 55 morti. In una conferenza stampa, la Varela ha detto che si è deciso ‘di procedere all’evacuazione totale del centro penitenziario Uribana, e che dunque si è già iniziato a sgomberare il settore femminile. Il ministro ha precisato che 138 donne detenute e 111 uomini sono già stati trasferiti in altri centri. Varela ha sottolineato che i detenuti rimasti feriti o uccisi (durante la rivolta) presentano ferite prodotte de armi bianche o fabbricate in prigione, ma che ci sono anche vittime con segni di ferite d’arma da fuoco o esplosione. Il ministro si è nuovamente rifiutata di indicare un bilancio certo di morti e feriti, ma secondo l’avvocato Carlos Nieto Palma, impegnato sul fronte dei diritti umani, la rivolta è costata la vita a 55 persone e non si sarebbe neppure conclusa. Finora abbiamo informazioni secondo le quali i morti sono 55, ma non sappiamo cosa stia succedendo dentro al penitenziario perché le autorità di fatto non hanno ancora ripreso il controllo di tutto l’edificio, ha denunciato Nieto all’Ansa. Siria: battaglia nel carcere di Idlib con almeno 10 morti, i ribelli liberano 100 detenuti Tm News, 27 gennaio 2013 I ribelli siriani hanno liberato più di cento detenuti nel corso di una battaglia contro le truppe del regime in un carcere alla periferia di Idlib, nel nordovest del Paese. Lo ha annunciato l’Osdh, l’Osservatorio siriano per i diritti umani. Almeno dieci ribelli sono stati uccisi nei combattimenti all’interno del carcere, ha indicato l’Osdh, che si basa su una rete di attivisti e medici per le sue ricostruzioni. “I ribelli sono riusciti a liberare più di cento prigionieri dalla scoppio dei combattimenti, ma non hanno assunto il controllo della prigione”, ha spiegato il direttore dell’Osservatorio, Rami Abdel Rahman. I video pubblicati dagli attivisti hanno mostrato i ribelli all’interno del penitenziario, che si trova all’ingresso ovest della capitale provinciale. La città resta sotto il controllo del regime, mentre la provincia di Idlib è in larga parte nelle mani dell’opposizione. Decine di prigionieri sono state mostrate uscire dal carcere - sotto la protezione dei ribelli - mentre alle loro spalle si avvertivano raffiche di arma da fuoco ed esplosioni. La battaglia in carcere segue una giornata in cui 168 persone - 63 soldati, 60 ribelli e 45 civili - sono state uccise in tutta la Siria.