Giustizia: la ministra Severino e il bilancio 2012 “meno detenuti e risparmi dalle riforme” La Repubblica, 23 gennaio 2013 Nel documento inviato al Parlamento, il Guardasigilli sottolinea il contenimento dei costi derivato dal taglio dei tribunali. Sul fronte carceri, soddisfazione per la diminuzione del numero dei detenuti e accento sul progetto di legge sulle misure alternative, da cui deriverebbe un alleggerimento del sistema non a scapito della sicurezza. In calo le pendenze nel civile, tendenza opposta nel penale: tempi lunghi dovuti all’appello, il vero “collo di bottiglia”. Il Guardasigilli, Paola Severino, ha illustrato lo stato del sistema giudiziario italiano relativo all’anno 2012 nella relazione inviata al Parlamento. Nel documento, il ministro rileva come le riforme nella geografia giudiziaria e il taglio dei tribunali abbiano consentito risparmi, così come la riduzione delle intercettazioni. Sul fronte delle carceri, il Guardasigilli sottolinea con soddisfazione la diminuzione del numero dei detenuti e pone l’accento sul progetto di legge sulle misure alternative, da cui deriverebbe un alleggerimento del sistema senza andare a scapito della sicurezza. In calo le pendenze nel civile, tendenza opposta nel penale, dove i tempi lunghi sono dovuti soprattutto all’appello, un vero “collo di bottiglia”. Aumentati i procedimenti penali. Rispetto all’anno precedente, nel 2012 è aumentato del 2,2% il numero complessivo di procedimenti penali pendenti presso gli Uffici giudiziari. In particolare, gli Uffici giudicanti hanno registrato un aumento dei dibattimenti, mentre quelli requirenti hanno evidenziato una lieve diminuzione delle pendenze (-0,2%). Tempi più lunghi per i processi penali. L’incremento delle pendenze nel settore penale “incide negativamente sulla durata media prevedibile dei processi che fa registrare un allungamento dei tempi”. Tale allungamento è “piuttosto limitato” in primo grado (342 giorni nel 2011 contro 326 nel 2010) e in Cassazione (218 giorni nel 2011 contro 204 nel 2010), mentre è più significativo in Corte d’Appello, “vero collo di bottiglia del sistema” (947 giorni nel 2011 contro 839 nel 2010). Ancora in calo le pendenze nel civile. È proseguita la riduzione degli affari pendenti presso tutti gli uffici in materia di giustizia civile: erano 5.922.674 a giugno 2009, sono 5.488.031 a giugno 2012. La contrazione è del 3,5% nei tribunali, dell’1,3% nelle Corti d’Appello, del 7% negli uffici del Giudice di pace. Il calo è associato in buona parte alla riduzione nelle iscrizioni - pari al 10,4% negli ultimi due anni - legata in particolare alle ricadute di diversi interventi legislativi relativi alla soluzione di alcune controversie in materia previdenziale, all’incremento del contributo unificato in alcune materie, all’introduzione della mediazione civile obbligatoria. Quest’ultima, fino alla bocciatura da parte della Consulta, tra il marzo 2010 e l’ottobre 2012 ha visto circa 210.000 mediazioni con una percentuale del 48% di accordi raggiunti. Solo nel 31% dei casi in cui era obbligatoria la mediazione le parti si sono presentate. Previsti risparmi dal taglio dei tribunali. Le riforme sulla geografia giudiziaria e sul filtro in appello porteranno “risparmi di spesa significativi” rileva il Guardasigilli nella sua relazione. Un risparmio stimabile in circa 55 milioni di euro per il 2012 e 95 milioni di euro per gli anni successivi, oltre ad assicurare “rilevanti benefici in termini di maggiore efficienza ed efficacia degli uffici”. Per effetto del filtro all’appello, poi, si stima una riduzione di circa 55mila cause civili sopravvenute all’anno per un costo medio per ogni processo pari a 517 euro. Il risparmio complessivo stimato è di circa 28 milioni di euro l’anno. Nuove piante organiche da definire con Csm. “Si stanno ora definendo, di concerto con il Csm, le nuove piante organiche, che consentano di assicurare che i benefici potenziali derivanti dalla riorganizzazione geografica vengano realizzati al meglio” afferma ancora il ministro della Giustizia, Paola Severino, in merito alla riforma della geografia giudiziaria e alla conseguente ridefinizione delle piante organiche per i magistrati. A palazzo dei Marescialli, ad occuparsene sarà la settima commissione. In lieve calo costo intercettazioni. Dall’analisi del ministro si rileva una “lieve diminuzione” del costo delle intercettazioni (-4,6% nel 2011). Per le intercettazioni, si legge nella nota di sintesi alla relazione, “si beneficia ancora della norma contenuta nella finanziaria del 2010 che ha azzerato i costi per la produzione dei tabulati da parte delle compagnie telefoniche”. Si registra anche una riduzione nel numero dei “bersagli telefonici” intercettati (-3%). Corruzione, riforma rafforzerà il contrasto. “Gli interventi hanno avuto l’obiettivo di rafforzare l’efficacia e l’effettività delle misure di contrasto alla corruzione” spiega Paola Severino in uno specifico passaggio della sua relazione, in cui fa riferimento alla riforma anticorruzione varata nello scorso autunno. “Con le riforme si è dato un importante riscontro alle indicazioni provenienti dalle istituzioni internazionali - osserva il ministro - oltre che una risposta a una diffusa domanda di intervento su una tema, quale quello della corruzione, molto avvertito, dal forte connotato simbolico e dalle pesanti ricadute economiche”. “La nuova legge - sottolinea il Guardasigilli - si muove nella direzione di un complessivo rafforzamento dei presidi penali, sia sul terreno delle fattispecie criminose, sia sul fronte della confisca e delle pene accessorie”. Progressiva riduzione del numero dei detenuti. Tema caldissimo, le carceri. “Nel complesso - comunica Paola Severino - si è avuta, per la prima volta negli ultimi anni, una progressiva riduzione della popolazione detenuta”, passata da 68.047 al 30 novembre 2011 a 66.888 del 31 ottobre 2012. Nella relazione, il ministro sottolinea l’impatto del decreto salva carceri e dell’ampliamento della detenzione domiciliare. Importante il calo delle persone interessate dal fenomeno delle “porte girevoli”: si è passati dal 27% nel 2009 al 13% al 31 ottobre scorso. Sensibile incremento, poi, dei detenuti ai domiciliari, pari oggi a 8.647, di cui 2.393 stranieri. Carceri: con misure alternative sicurezza e alleggerimento sistema. Il progetto di legge sulle misure alternative, che non è diventato legge prima della fine della legislatura, “ha il pregio di coniugare sicurezza sociale e deflazione, sia processuale che detentiva” rileva ancora Paola Severino, parlando di uno dei progetti che ha avuto più a cuore durante il suo mandato di ministro. Le misure previste del disegno di legge “avrebbero potuto interessare nell’immediato una platea di oltre 2.800 detenuti, oltre a generare benefici significativi in termini di flussi carcerari”. L’ottica in cui è nato questo ddl è quella di “recuperare la centralità dell’idea del carcere come extrema ratio”, ricorda Severino, per la quale la questione carceraria ha costituito, nella sua attività di ministro, “un filo continuo di azione, mai interrotto”. Il guardasigilli, nel corso del 2012, ha visitato più di venticinque istituti di pena. Poste le basi per le riforme future. Sono diversi i temi in relazione ai quali “si sono poste le basi per future iniziative legislative” rileva infine il Guardasigilli. Il ministro, in particolare, ricorda l’avvio al Ministero della commissione di studio sulla prescrizione e il gruppo di lavoro sull’autoriciclaggio “con l’obiettivo di analizzare l’assetto normativo vigente e formulare proposte di modifica, nonché il tavolo tecnico sulla depenalizzazione che “concluderà i lavori entro la fine della legislatura, consegnando al ministro un elaborato normativo”. Severino, poi, ricorda che “al fine di fornire una possibile guida per interventi futuri” è stata predisposta una proposta normativa in tema di smaltimento dell’arretrato giudiziario civile, ed è in “avanzatissimo stadio di elaborazione” la riforma organica della magistratura onoraria. Altro punto che bisognerà affrontare in futuro è quello della mediazione: “La declaratoria di illegittimità costituzionale della norma - spiega Severino - dovrebbe essere colta come occasione per ridisegnare la disciplina valutandone l’ambito oggettivo e apportando possibili migliorie”. Giustizia: elezioni; Amnesty chiama i leader politici a rispondere sui diritti umani in Italia Adnkronos, 23 gennaio 2013 “I diritti umani vanno rispettati e protetti, senza eccezioni”. Partendo da questo assunto, la sezione italiana di Amnesty International ha inviato a tutti i leader delle coalizioni politiche che si presentano alle elezioni del 24 e 25 febbraio un decalogo di impegni su cui rispondere con un sì o con un no, avvertendo che ogni promessa sarà poi monitorata nel corso della legislatura, verificando se verrà mantenuta o disattesa. Mario Monti, Silvio Berlusconi e Pierluigi Bersani, Beppe Grillo e Antonio Ingroia, Marco Pannella e Oscar Giannino, vengono esortati a impegnarsi su dieci temi: la trasparenza delle forze di polizia e il reato di tortura; il femminicidio e la violenza contro le donne; la protezione dei rifugiati e il controllo dell’immigrazione; le condizioni dei detenuti nelle carceri; la lotta all’omofobia e alla transfobia; la discriminazione dei rom; la creazione di un’autorità indipendente sui diritti umani; le garanzie da parte delle multinazionali; la lotta alla pena di morte nel mondo; il controllo sul commercio delle armi. “Si tratta di dieci obiettivi che riteniamo fondamentali per garantire il pieno rispetto dei diritti umani in Italia”, affermano nella conferenza, convocata alla sede dell’Associazione Stampa Estera, Christine Weise e Carlotta Sami, rispettivamente presidente e direttore generale di Amnesty International Italia. “Ricordati che devi rispondere” è il titolo della campagna lanciata da Amnesty, che oltre ai leader delle coalizioni interesserà anche tutti i candidati delle circoscrizioni elettorali. “Il benessere di un Paese si misura anche dal rispetto dei diritti umani - sottolinea Christine Weise - e oggi, alla luce dei fatti, in Italia questo rispetto non è assicurato”. E cita alcuni esempi: “Essere donne, partecipare a una manifestazione, essere immigrati, rom, gay, detenuti, significa rischiare di subire violazioni dei diritti umani”. Infatti, spiega, “nonostante i richiami dei comitati internazionali di monitoraggio e le richieste della società civile, le falle del sistema e scelte politiche fuori luogo hanno prodotto in questi anni violazioni, ingiustizie, sofferenze e disgregazioni sociali. Ecco perché noi non ci accontenteremo delle promesse dei candidati premier e dei loro partiti, ma le andremo a verificare, nel corso dell’intera legislatura, punto per punto”. Spiega Carlotta Sami: “Quello che la sezione italiana di Amnesty International ha deciso di sottoporre ai leader che si presentano alle prossime elezioni politiche è un vero e proprio programma di riforme nel campo dei diritti umani, basato su dieci richieste prioritarie, sulle quali chiediamo che chi si candida a guidare il Paese prenda una posizione netta e chiara. E il non rispondere al nostro questionario - avverte - sarà giudicato più grave di eventuali risposte negative e lo faremo sapere prima del voto”. Agenda in 10 punti per leader coalizioni “Il benessere di un Paese si misura anche dal rispetto dei diritti umani. Oggi in Italia questo rispetto non è assicurato”: a partire da questa pesante premessa, la sezione italiana di Amnesty International ha deciso, per la prima volta nella sua storia, di sottoporre ai leader delle coalizioni che si presentano alle elezioni politiche del 24 e 25 febbraio un’Agenda in dieci punti, ai quali l’organizzazione umanitaria chiede di rispondere “in maniera netta e chiara, con un sì o un no, entro le prossime quattro settimane”. L’Agenda è stata presentata oggi a Roma in una conferenza stampa, insieme al lancio di una campagna dal titolo “Ricordati che devi rispondere. L’Italia e i diritti umani”. In Italia, secondo la presidente di Amnesty Italia Christine Weise, c’è “una disattenzione storica verso i diritti umani, un atteggiamento di superficialità, l’argomento viene trattato sempre in modo generico e fumoso. Nei discorsi dei politici italiani spesso manca una cultura dei diritti umani, ancora oggi non c’è la dovuta serietà e si tende a considerarlo un tema che non riguarda l’Italia ma altri Paesi”. E invece, ha sottolineato, “essere donne, partecipare a una manifestazione, essere migranti, rom, gay, detenuti in Italia significa rischiare di subire violazioni dei diritti umani. In tempi di crisi economica, con l’aumento delle tensioni sociali e l’accento della politica sulle sole questioni finanziarie, questa situazione potrebbe aggravarsi”. Perciò Amnesty ha deciso di sottoporre ai leader delle coalizioni e a tutti i candidati un vero e proprio programma di riforme, basato su 10 richieste: garantire la trasparenza delle forze di polizia e introdurre il reato di tortura; fermare il femminicidio; proteggere i rifugiati, fermare lo sfruttamento dei migranti e sospendere gli accordi con la Libia sul controllo dell’immigrazione; assicurare condizioni dignitose nelle carceri; combattere l’omofobia e garantire tutti i diritti umani alle persone lgbt; fermare gli sgomberi dei rom; creare un’istituzione nazionale indipendente per la protezione dei diritti umani; imporre alle multinazionali italiane il rispetto dei diritti umani; lottare contro la pena di morte nel mondo; garantire il controllo sul commercio delle armi. “L’imparzialità è nel nostro Dna - ha concluso Weise - ma non vogliamo più stare lontano dal dibattito, vogliamo dire la nostra, confrontarci. E non ci accontenteremo di promesse elettorali, ma faremo verifiche rigorose e ripetute che saranno rese pubbliche”. Giustizia: il “grande silenzio” sulle carceri in campagna elettorale www.imgpress.it, 23 gennaio 2013 Il silenzio, non appartiene solo a chi non può parlare, a chi non ha voce, alle persone gravemente malate, ma può appartenere anche a soggetti che sono ancora più deboli: quelli che spesso posseggono tanta voce, ma hanno paura, non hanno il coraggio di assumere una posizione e di parlare. È quanto afferma in una nota Giuseppe Maria Meloni, presidente di Clemenza e Dignità. Questa è una campagna elettorale, - prosegue - dove la tragedia delle carceri, in maniera del tutto ingiustificata, non trova alcuna dignitosa collocazione programmatica, e non è nemmeno considerata argomentazione degna di menzione e di brevissimo cenno negli innumerevoli discorsi che si susseguono in tutti questi giorni. In una situazione - osserva - altamente distruttiva per la dignità umana e spesso addirittura per la stessa vita degli uomini e delle donne, in un sistema che non di rado e nel caso delle madri detenute, coinvolge, in maniera assurda, anche l’esistenza di bambini, il grande silenzio sulle possibili soluzioni al dramma delle carceri è qualcosa di inconcepibile e imbarazzante. Questa voce, - conclude - come è naturale e giusto, non potrà mai essere forte e amplificata come quella dei partiti, ma il silenzio, certamente, non la riguarda e non gli appartiene, poiché questa voce che è debole, ora viene utilizzata tutta, ma proprio tutta, per gridare, a ridosso di questa competizione politica elettorale, la urgente necessità di provvedimenti e riforme atti a fermare questa grande tragedia. Giustizia: in carcere si entra che si è commesso un reato… e si esce che si è subito un reato di Umberto Ciarlo Cronache di Napoli, 23 gennaio 2013 “In carcere si entra che si è commesso un reato, dal carcere si esce che si è subito un reato”, don Franco Esposito, cappellano del carcere di Poggioreale e direttore dell’ufficio di pastorale carceraria della chiesa di Napoli, ha introdotto con queste parole i lavori del convegno diocesano di volontariato carcerario ieri mattina nella basilica dell’Incoronata a Capodimonte. Il riferimento esplicito, come poi ricordato più volte nel medesimo convegno, alle condizioni di detenzione nelle carceri italiane, che hanno portato l’Italia a diverse condanne internazionali. È un sistema giustizia che non funziona, illegale sotto tanti aspetti, certamente bisognoso di riforme profonde, quello che viene fuori dall’esperienza diretta di chi, attraverso l’attività di volontariato o per lavoro, è a contatto diretto con i luoghi di detenzione ed i reclusi, che nel caso di Poggioreale, ha commentato il suo cappellano, “su 2800 presenti, 2000 sono poveri disgraziati che potrebbero dare un contributo positivo per la società se solo trovassero un compagno capace di indirizzarli lungo la loro strada”. Tanti di questi compagni erano radunati ieri al convegno, quelli dell’associazione di volontariato Liberi di Volare Onlus, del gruppo Carcere Vivo, della conferenza nazionale Volontariato e giustizia, rappresentata dalla presidente Elisabetta Laganà, relatrice. Ed ancora chi in altri modi si batte per la legalità e giustizia, come l’associazione radicale ‘Per la Grande Napolì, che ad un tavolino, presente Emilio Martucci, ha raccolto firme per la presentazione alle elezioni della lista di scopo radicale che vede nell’indulto e nell’amnistia l’unico modo per porre immediatamente fine alle condizioni illegali di detenzione causate dal sovraffollamento. Ma le presenze positive sono anche quelle di quegli operatori della giustizia che ricordano le falle del sistema in cui essi stessi operano. Come Francesco Cascini, direttore dell’ufficio per l’attività ispettiva e di controllo del dipartimento di amministrazione penitenziaria, che ha ricordato che: “Il regolamento penitenziario prevede camere di pernottamento, spazi per le ore d’aria, camere per le attività diurne che seguano determinati criteri, refettori dove mangiare tutti assieme, ma queste regole non vengono mai applicate in toto. In particolare in nessun penitenziario c’è un refettorio. Io non so cosa succederebbe a Poggioreale con un refettorio, ma so quello che succede ora: migliaia di casi di autolesionismo all’anno, aggressioni continue. Noi siamo molto bravi solo per ad inquadrare e dare un nome giuridico ad un fatto, e la storia di una persona viene presa in considerazione solo per quantificare una pena, poi della persona non c’è più nulla, solo un numero.” Aprire le celle, spazi comuni, in cui sia possibile ai volontari ed gli altri operatori inondare di positività i luoghi di reclusione nella loro interezza. Il cardinale di Napoli, Crescenzio Sepe, ha chiuso il convegno con un breve intervento ed una parola d’ordine: “Umanizzare”, “parola”, ha ricordato il porporato, “che si sente sempre di più e sempre più spesso resta solo una parola”. Giustizia: manifestazione del Sappe a Roma contro Capo e vice Dap Tamburino e Pagano Comunicato stampa, 23 gennaio 2013 “Nonostante la pioggia battente sulla Capitale, sono tantissimi i poliziotti penitenziari che stanno arrivando a manifestare a Roma davanti al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Per la quarta volta in un anno il Sappe manifesta contro una Amministrazione penitenziaria distante dalla realtà e dai suoi poliziotti, che pensa che con le chiacchiere e comunicati stampa può nascondere il disastro di un Dap al collasso. Mi chiedo quando avranno il tempo di pensare ai poliziotti penitenziari che non hanno percepito in busta paga le indennità accessorie dal 2011, gli assegni di funzione e gli avanzamenti di grado; agli idonei al concorso per vice ispettore bandito dieci anni fa (!) e non ancora partiti per il corso; agli idonei dei concorsi per agenti che non hanno alcuna notizia sul loro futuro; ai poliziotti con figli e parenti disabili che non vengono trasferiti per assisterli ed ai sovrintendenti ed ispettori che attendono il trasferimento da anni; alle poliziotte ed ai poliziotti vittime di una tensione detentiva nelle sovraffollate celle italiane fatta di risse, aggressioni, suicidi e tentativi suicidi, rivolte ed evasioni che genera condizioni di lavoro dure, difficili e stressanti per le donne e gli uomini della Polizia Penitenziaria. L’Amministrazione Penitenziaria guidata da Giovanni Tamburino e Luigi Pagano è incapace di risolvere i problemi e per questo centinaia di aderenti al primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, stanno manifestando davanti alla sede del Dap”. Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione di Categoria. “Nonostante le chiacchiere di Tamburino e Pagano, la vigilanza dinamica dei penitenziari voluta dall’Amministrazione Penitenziaria per alleggerire l’emergenza carceraria è una resa dello Stato alla criminalità. Pensare a un regime penitenziario aperto; a sezioni detentive sostanzialmente autogestite da detenuti previa sottoscrizione di un patto di responsabilità favorendo un depotenziamento del ruolo di vigilanza della Polizia Penitenziaria, relegata ad un servizio di vigilanza dinamica che vuol dire porre in capo ad un solo poliziotto quello che oggi lo fanno quattro o più Agenti, a tutto discapito della sicurezza e mantenendo il reato penale della “colpa del custode”; ebbene, tutto questo è fumo negli occhi. La realtà penitenziaria è la Polizia penitenziaria ha settemila agenti in meno, che i Baschi Azzurri non fanno formazione ed aggiornamento professionale perché l’Amministrazione evidentemente ha altro a cui pensare, come anche per le conseguenze di quell’effetto burn out dei poliziotti determinato dall’invivibilità di lavorare in sezioni detentive sistematicamente caratterizzate da eventi critici - suicidi, tentati suicidi, aggressioni, risse, atti di autolesionismo, colluttazioni. Non ha fatto niente il Dap, su tutto questo. E proprio per questo stiamo manifestando davanti al DAP: per chiedere l’allontanamento del Capo Dipartimento Tamburino e del Vice Capo Pagano, primi responsabili di tutto ciò. E continueremo a farlo fino a quando non saranno avvicendati dalla guida del Dap”. Giustizia: Fabrizio Corona si consegna e piange “temo per la mia vita nelle carceri italiane” Corriere della Sera, 23 gennaio 2013 “Mi volevo costituire qui a Lisbona perché ritengo la sentenza di Torino del tutto ingiusta e temo per la mia vita nelle carceri italiane”. Questo il contenuto della telefonata fatta mercoledì mattina da Fabrizio Corona al suo avvocato milanese Nadia Alecci. Corona ha detto alla sua legale di essere in quel momento in una sede della polizia di Lisbona. Qui il fotografo dei vip si è consegnato agli agenti della città portoghese, dopo quattro giorni di latitanza. Ora sarà riportato in Italia, dove deve scontare 7 anni e 10 mesi (con la fuga, ha perso il beneficio dell’affidamento in prova ai servizi sociali). Sull’episodio la Polizia di Stato ha precisato che Corona, vistosi braccato, ha anticipato l’arresto consegnandosi alla polizia portoghese. Sulle sue tracce c’erano da giorni gli uomini della polizia di Milano e quelli dell’Interpol. “Più che costituito si è arreso”, è il commento dei vertici milanesi della Questura. Innanzitutto è stato il gps dell’antifurto dell’auto usata per la fuga, una Fiat 500, a tradire Fabrizio Corona. Gli inquirenti hanno seguito il suo percorso: era passato da Narbonne, in Francia, dove è stato “agganciato” la prima volta. Per varcare il confine aveva scelto il Colle di Tenda, dove però era rimasto bloccato dalla neve per un paio d’ore e aveva dovuto attendere che la carreggiata venisse liberata. Sull’auto inoltre era stato montato un Tom Tom, un navigatore satellitare, acquistato solo due giorni prima della fuga. È stato un amico, che verrà indagato, a portargli l’auto venerdì scorso all’uscita della palestra. La 500 è intestata a una terza persona, che molto probabilmente non verrà indagata. Corona non era solo nella fuga, ma era accompagnato da un uomo. Gli investigatori hanno parzialmente ricostruito l’accaduto anche grazie all’interrogatorio dell’amico che l’ha aiutato ad allontanarsi da Milano. L’uomo non ha potuto negare il suo coinvolgimento ed è stato denunciato in stato di libertà per favoreggiamento. A Cascais, una cittadina alle porte di Lisbona, Fabrizio Corona aveva delle conoscenze in una altolocata famiglia portoghese dalle quali, probabilmente, contava per un aiuto. Grazie alle informazioni reperite dagli accertamenti milanesi, gli investigatori hanno potuto organizzare il dispositivo internazionale, culminato con una serie di perquisizioni a casa dei conoscenti portoghesi di Corona, che gli hanno fatto capire che per lui ormai la fuga era terminata. Fabrizio Corona, sentendosi ormai braccato, ha dato appuntamento nella stazione ferroviaria metropolitana di Monte Abraham, località Queluza, d agenti portoghesi a cui si sono affiancati gli investigatori italiani. Dopo l’arresto, questi ultimi gli sono rimasti accanto perché, hanno raccontato, appare “sconfortato” e “avvilito”, e “piange”. Come fa per ogni cosa, Fabrizio Corona ha trasformato anche la sua “resa” in un evento mediatico, facendo inserire dal suo staff un messaggio audio su socialchannel.it. “Sono arrivato adesso in Portogallo dopo quattro giorni di viaggio, mi sto consegnando spontaneamente alle autorità portoghesi”, dice Corona nel videomessaggio, parlando al telefono con un collaboratore. La resa è arrivata dopo quattro giorni di silenzio: Corona aveva fatto perdere le sue tracce venerdì scorso, dopo la notizia della condanna definitiva emessa dalla Corte di Cassazione. Fabrizio Corona ha annunciato alla polizia portoghese, dopo il suo fermo, di voler dare pubblicità al video. Per questo motivo, come confermato dalla Procura generale di Torino, le autorità di polizia portoghesi e italiane hanno deciso di divulgare immediatamente la notizia della fine della fuga, per impedire che fosse lo stesso latitante, attraverso la diffusione del video su internet, a fornire per primo una sua versione sul fatto. Un comunicato della polizia spiega l’attività investigativa che ha portato agli sviluppi di mercoledì mattina: “Da ieri, un gruppo di lavoro costituito da investigatori della Squadra Mobile di Milano, dall’ufficiale di collegamento Interpol nonché da operatori delle locali Autorità di Polizia, stava lavorando in territorio portoghese all’individuazione di Fabrizio Corona, in quanto le attività investigative avevano fin da sabato permesso di raccogliere elementi circa la probabile presenza del ricercato a Lisbona. La scorsa notte alcuni soggetti, ritenuti vicini al latitante, sono stati identificati e sottoposti a controllo, anche presso le loro abitazioni, da parte del personale preposto alle indagini. Nella mattinata odierna, il ricercato si è arreso alle Autorità Portoghesi”. L’arresto di Corona ha immediatamente cancellato anche le polemiche emerse nei giorni scorsi, quando il fotografo era riuscito a dileguarsi. Il procuratore generale di Torino Marcello Maddalena si è congratulato telefonicamente con gli uomini della squadra mobile di Milano “per l’ottimo lavoro svolto” con la cattura di Fabrizio Corona. “Sì, sì, ci ha fatto i complimenti in diretta”, hanno confermato in Questura. “Non mi sento di dire nulla, siamo ancora troppo scossi”, risponde al telefono il fratello minore di Fabrizio Corona, Federico. “L’unica cosa che posso aggiungere - sottolinea Federico- è che siamo contenti che stia bene perché eravamo preoccupati per la sua incolumità”. Nei giorni scorsi la famiglia e gli amici, tra cui Lele Mora, avevano rivolto vari appelli a Corona perché si costituisse. Giustizia: il “caso Sallusti” alla Corte di Strasburgo… la legge sulla stampa sotto processo di Anna Maria Greco Il Giornale, 23 gennaio 2013 L’Italia rispetta la libertà di stampa, secondo gli standard comunitari? È la domanda che si pone il Consiglio d’Europa, dopo la condanna a un anno e due mesi di reclusione del direttore del Giornale, Alessandro Sallusti, graziato a dicembre da Giorgio Napolitano. Domani le norme italiane sulla diffamazione a mezzo stampa saranno esaminate a Strasburgo dall’assemblea parlamentare, dopo l’approvazione di ieri all’unanimità della richiesta della commissione per i media. Per fornire la sua testimonianza sulla clamorosa vicenda che ha suscitato proteste anche a livello comunitario, Sallusti sarà ascoltato in conference call, poiché non può ancora muoversi dall’Italia. Infatti, non è tornato in possesso dei documenti per l’espatrio. Secondo l’emendamento della commissione, inserito nel rapporto sulla libertà dei media in Europa, bisogna accertare se la legislazione italiana rispetti le regole fissate dall’organizzazione paneuropea sulla libertà di stampa. In particolare, l’articolo 10 della convenzione europea sui diritti umani che difende la libertà di espressione e include, testualmente, “la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche”. Paradossalmente, proprio questo articolo è stato citato nella sentenza di condanna di Sallusti, mentre per i giudici della Corte europea per i diritti umani si traduce nel principio basilare che punire con il carcere un reato a mezzo stampa non è compatibile con la libertà di espressione dei giornalisti. La prigione viene ammessa solo in casi di gravità eccezionale ed è questo il varco utilizzato dalla Cassazione. “Questo emendamento non è un giudizio sulle leggi italiane”, spiega il parlamentare svedese Mats Johansson del Ppe, relatore del rapporto sulla libertà dei media. Ma se domani ci sarà la seconda e definitiva approvazione da parte dell’organizzazione internazionale che promuove la democrazia e i diritti dell’uomo, il parere sulle leggi italiane verrà dalla commissione di Venezia. E questo organismo consultivo del Consiglio d’Europa, che si occupa di questioni di diritto, si è già pronunciato negativamente su due leggi italiane del 2004 sui media, la Gasparri sul sistema audiovisivo e la Frattini sul conflitto d’interessi. Nel rapporto che verrà votato domani viene chiesto di stabilire se l’Italia le ha modificate come richiesto. La condanna di Sallusti, confermata a settembre dalla Cassazione, riguardava un articolo pubblicato da Libero nel 2007, quando lui lo dirigeva. Era firmato con lo pseudonimo Dreyfus e solo a fine giudizio l’autore, il deputato Renato Farina, si è autodenunciato in parlamento. In Senato si è cercato per quasi due mesi di accordarsi su una nuova legge che escludesse il carcere per i giornalisti, ma i partiti sono riusciti a peggiorare la legge e, alla fine, il testo si è arenato. Mentre Sallusti scontava la detenzione ai domiciliari è dovuto intervenire il Quirinale, commutando la condanna al carcere in sanzione pecuniaria e sollecitando il parlamento a fare una legge “più equilibrata ed efficace”. Lombardia: l’allarme del Garante; un’amnistia per i reati meno gravi è necessaria Il Giornale, 23 gennaio 2013 “Se non si avrà il coraggio di approvare un’amnistia per i reati meno gravi la situazione nelle carceri non potrà che peggiorare”. Lo ha spiegato il Garante dei detenuti della Regione Lombardia Donato Giordano, che ieri ha visitato il carcere di Busto Arsizio (Varese), dopo la condanna della Corte europea dei diritti umani all’Italia per le condizioni dei detenuti nelle carceri. L’amnistia, secondo il Garante, “non sarà comunque sufficiente se questa non sarà affiancata da misure più strutturali, come il maggior ricorso alle pene alternative previsto dal decreto del Ministro Severino, che un Parlamento sotto elezioni non ha voluto approvare, e una riforma della giustizia che permetta di avere una sentenza in tempi certi e brevi”. Giordano si impegnerà quindi per attivare i supporti per le attività riabilitative e fisioterapiche, già completati cinque anni fa e mai entrati in funzione, con l’obiettivo di costituire nel carcere di Busto Arsizio “un polo fisioterapico-riabilitativo in Lombardia per quei detenuti le cui disabilità sono tali da far sì che prevalga l’interesse a ricevere cure adeguate rispetto al criterio della vicinanza agli affetti familiari”. Giorni fa, il 16 gennaio, anche il sindaco Giuliano Pisapia ha nominato il Garante dei detenuti per il carcere di San Vittore, così come aveva stabilito il consiglio comunale con un voto bipartisan. A raccogliere le richieste e tutelare i detenuti sarà Alessandra Naldi, già presidente regionale dell’Associazione Antigone. Sardegna: in Regione mozione di Lina Lunesu (Pdl) per la territorializzazione della pena L’Unione Sarda, 23 gennaio 2013 Riportare i detenuti sardi nell’isola e trasferire gli agenti penitenziari. La richiesta arriva dal Pdl che, attraverso una mozione che ha come prima firmataria il consigliere regionale Lina Lunesu, chiede la territorializzazione della pena e la possibilità, per chi svolge il proprio lavoro lontano dall’isola, di rientrare. L’argomento della mozione è di stretta attualità poiché coincide con l’ultimo atto di autolesionismo messo in atto da un detenuto algerino rinchiuso a Cagliari, che protestava per il mancato trasferimento al “Marassi” di Genova, città in cui vive il fratello, unica persona che potrebbe fargli visita in prigione. La mozione. “Sono circa 160 i detenuti sardi che stanno scontando la pena negli istituti penitenziari della penisola”, ha spiegato Lina Lunesu, “in violazione dei loro diritti e del principio di territorializzazione”. Il problema riguarda soprattutto le famiglie “costrette ad affrontare ulteriori spese per poter raggiungere la penisola per il colloquio”, ha sottolineato l’esponente del Pdl, “inoltre è una spesa in più anche per lo Stato che sostiene il trasferimento temporaneo in Sardegna in occasione dei diversi gradi di processo”. Per quanto riguarda gli agenti penitenziari il consigliere del Pdl ha ricordato che “sono numerosi e da anni svolgono il proprio lavoro fuori dal territorio regionale. Per loro sarebbe auspicabile un ritorno in Sardegna”. Il Consiglio. La Lunesu ha ricordato il lavoro svolto dal Consiglio regionale negli ultimi anni, citando “il protocollo d’intesa siglato il 7 febbraio 2006 tra il Ministero della Giustizia e la Regione, in cui proprio gli uffici del Guardasigilli si impegnavano a dare attuazione del principio generale di territorializzazione della pena”, ha spiegato la consigliera pidiellina. I problemi legati alla detenzione e al servizio all’interno delle carceri sono stati affrontati anche attraverso “due risoluzioni della Seconda commissione”, ha sottolineato l’esponente del Pdl, “sulle problematiche del settore penitenziario in Sardegna e sull’attuazione del Protocollo d’intesa”. Risoluzioni che avevano l’obiettivo di “impegnare la Giunta a farsi portavoce nei confronti del Governo per trovare una soluzione alla complicata situazione degli istituti penitenziari della Sardegna”. Calabria: Nucera (Pdl); occuparsi dei calabresi degenti in Ospedali Psichiatrici giudiziari Asca, 23 gennaio 2013 “Non possiamo ignorare il destino degli infermi di mente calabresi rinchiusi negli Ospedali Psichiatrici giudiziari”. È quanto sostiene il Segretario Questore del Consiglio regionale della Calabria, Giovanni Nucera, a poche settimane dalla data di chiusura definitiva degli Opg fissata al 31 marzo 2013, tra cui quello di Barcellona Pozzo di Gotto, di cui è stato disposto il sequestro, dove sono attualmente ospitati una quarantina di infermi di mente della Calabria. “Strutture che si sono dimostrate assolutamente inidonee. Purtroppo - rileva Nucera - la Riforma che avrebbe dovuto superare questa emergenza è ancora in itinere, non avendo il Governo reso ancora operativo il decreto di riparto tra le Regioni. So che la Regione Calabria ha già predisposto un progetto di massima con la creazione di un ospedale unico regionale da istituire nella ex struttura psichiatrica di Girifalco, dove già opera un ottimo Dipartimento di Salute mentale. Ma per il suo utilizzo - spiega il Segretario Questore del Consiglio regionale - è necessaria una profonda ristrutturazione dei locali che richiederà almeno un anno di tempo. Nel frattempo i carcerati psichiatrici calabresi saranno costretti ad un forzato trasferimento in centri di altre Regioni. Una scelta di inaudita crudeltà verso questi malati, che mortifica lo stesso spirito della legge e creerà enormi ed insuperabili problemi alle loro famiglie. Ma soprattutto - sottolinea l’on. Nucera - toglierà a questi malati l’opportunità di un importante supporto psicologico basato proprio sui contatti con i familiari”. “Altro che Riforma - sostiene Nucera. Sarà, invece, un ulteriore danno sociale per questi malati e per le loro famiglie. In attesa del finanziamento da parte del Ministero, sarebbe opportuno a questo punto utilizzare strutture già esistenti, ed idonee ad accogliere, anche in via temporanea questi ammalati psichiatrici. Penso ai centri in dotazione a strutture regionali e sub regionali, o anche a strutture di proprietà comunale nella città di Reggio Calabria”. “Credo sia questa la soluzione migliore in questa fase di transizione. Basterebbe poco, infatti, per mettere a norma queste strutture e rendere operativo un servizio da cui la Calabria ed i calabresi potranno trarne solo risparmi e benefici. Ma stando attenti, come è stato rilevato da numerose associazioni che operano nel sociale e nell’assistenza a questi malati, a non ripetere l’errore di creare nuovi ghetti, veri e propri centri dell’abbandono. Capisco le difficoltà e la necessità di assicurare programmi di riabilitazione psichiatrica e socio-lavorativa adeguati. Ma non possiamo accettare, a fronte dei ritardi che caratterizzano l’applicazione di questa riforma, ulteriori disagi e difficoltà sempre e comunque sulle spalle dei calabresi, sia essi ammalati che le loro famiglie. Senza allentare, nel frattempo, l’attenzione sulla erogazione dei fondi ministeriali che dovrebbe dare il via definitivo alla riforma degli Opg anche in Calabria, per non essere sempre ultimi negli adempimenti che ci vengono richiesti o imposti”. Udine: per il Tribunale Savino Finotto era compatibile con la detenzione, ma ora è morto di Luana de Francisco Messaggero Veneto, 23 gennaio 2013 La rabbia del difensore del detenuto morto in ospedale sei ore dopo il ricovero. Il giorno prima, il magistrato aveva rigettato l’istanza di detenzione domiciliare. “Considerato che dalla relazione sanitaria emerge che è in discreta condizione di salute” e “osservato che le attuali condizioni di salute non sono particolarmente gravi e tali da comportare cure e costanti contatti con servizi sanitari non praticabili durante la detenzione”, il magistrato di sorveglianza respinge l’istanza di detenzione domiciliare. In calce, accanto alla firma della dottoressa Lionella Manazzone, la data del 18 gennaio. Cioè del giorno precedente il malore che, di lì a sei ore, avrebbe portato Savino Finotto alla morte. È un retroscena abbastanza sconcertante quello che descrive gli ultimi giorni di vita del 70enne di Staranzano, trovato in stato cosiddetto soporoso, alle 23.40 di sabato, nella cella della casa circondariale di via Spalato nella quale si trovava rinchiuso da fine dicembre per scontare un cumulo pene di 3 anni e mezzo di reclusione. Soccorso dalla guardia medica chiamata dall’agente di Polizia penitenziaria, l’uomo era stato immediatamente trasportato in ospedale e ricoverato in Terapia intensiva, dove era deceduto alle 5.40 di domenica. Informato dell’episodio, al fine di accertare le esatte cause della morte, lunedì il procuratore capo di Udine, Antonio Biancardi, ha disposto l’autopsia sul cadavere. L’esame sarà eseguito domani dal medico legale Lorenzo Desinan. Intanto, però, la notizia ha scatenato la sdegnata reazione dell’avvocato Roberto Michelutti, il legale che Finotto aveva nominato difensore di fiducia, pochi giorni dopo il trasferimento dal carcere di Gorizia a quello di Udine, proprio al fine di rappresentare al tribunale la gravità del proprio quadro clinico e chiedere il beneficio della detenzione domiciliare provvisoria. L’istanza era stata depositata all’Ufficio di sorveglianza il 10 gennaio. “Premesso che Finotto è nato nel 1942 - aveva sottolineato il legale, è affetto da diabete, è privo della gamba sinistra e deambula con una sedia a rotelle, si chiede la sospensione dell’esecuzione della pena per motivi di salute o, in subordine, la detenzione domiciliare trattandosi di persona di età superiore ai 60 anni, inabile e in condizioni di salute particolarmente gravi”. Non a caso, fin dal suo arrivo in via Spalato, l’anziano era stato sistemato nell’unica cella della struttura attrezzata per ospitare portatori di handicap con problemi di deambulazione, in compagnia di un altro detenuto. Tutt’altro l’esito del decreto emesso dal magistrato. Che, richiamandosi alla relazione sanitaria acquisita una settimana dopo (il 18 gennaio), aveva concluso definendo le condizioni di salute di Finotto “non particolarmente gravi”. E che, ricordando “la specifica pericolosità sociale del condannato, pluripregiudicato e con irrisolte problematiche di alcol dipendenza”, aveva peraltro ritenuto necessario “attendere la formulazione di un programma di trattamento”. Da qui, il rigetto della richiesta. E, ieri, il fax dell’avvocato Michelutti alla Procura, per sollecitare un approfondimento istruttorio del decesso di Finotto. “Non è la prima volta che succedono casi del genere - ha commentato il legale - e la causa va spesso ricercata nella frequenza con la quale i consulenti esterni nominati dai magistrati dichiarano i detenuti compatibili con il regime carcerario”. Alghero: detenuto tunisino di 42 anni s’impicca in cella, è stato salvato per miracolo La Nuova Sardegna, 23 gennaio 2013 Ancora un tentato suicidio a San Giovanni. E il Sappe replica ai medici sulle perquisizioni corporali. Non c’è davvero pace nel carcere di San Giovanni. Mentre tra il personale sanitario in servizio nell’istituto e la polizia penitenziaria infuria la polemica sulle perquisizioni corporali che sarebbero state eseguite su medici e infermieri, lunedì sera un detenuto tunisino di quarantadue anni (fine pena nel 2018) è stato salvato in extremis da un suo compagno di cella e da un agente con il basco blu proprio quando - dopo essersi stretto al collo la cintura dell’accappatoio - si stava impiccando facendosi penzolare dal terzo piano di un letto a castello. Il che ripropone insistentemente il problema della cosiddetta sorveglianza dinamica con le telecamere, che l’amministrazione penitenziaria vorrebbe attivare anche nel carcere di via Vittorio Emanuele, raccogliendo però le critiche dei sindacati della polizia penitenziaria. “Se lunedì non ci fosse stato un collega fisicamente pronto a intervenire - denuncia Antonio Cannas, segretario provinciale del Sappe - non saremo mai riusciti a salvare la vita al detenuto”. Poi Cannas interviene anche per replicare al medico del carcere che non accetta di essere sottoposta a perquisizioni personali, considerandole ingiustificate. Una procedura, questa delle perquisizioni, avviata cinque giorni dopo il fallito tentativo di evasione da parte di tre detenuti albanesi. “Siamo rimasti allibiti - spiega il sindacalista - nel leggere le dichiarazioni del medico che afferma di aver subito presunti controlli fisici in piena violazione delle norme. Forse alla dottoressa sfugge che la polizia penitenziaria ha il compito di mantenere principalmente la sicurezza dell’istituto, e questa si ottiene solo eseguendo gli ordini impartiti da chi di competenza e adempiendo a ciò che prevedono norme, ordinamenti e regolamenti. Pertanto - continua Cannas - appare inutile il tentativo grave, se non gravissimo, di gettare fango su chi il proprio compito lo conosce bene portandolo a termine con zelo e dedizione”. Ma nella sua replica ai sanitari Cannas va oltre. “In merito alle presunte perquisizioni corporali - conclude - ci risulta che l’agente (una donna) abbia eseguito i controlli di rito con il rifiuto della dottoressa che non gradiva tale prassi, peraltro riservata a tutti gli operatori, poliziotti compresi. Verona: detenuti denunciano le carenze di Montorio, sei reclami al Giudice di Sorveglianza L’Arena, 23 gennaio 2013 Domani sei reclami davanti al giudice del Tribunale di sorveglianza. “Non si può vivere in quattro in 12,5 metri quadrati: il consiglio d’Europa ne ha previsti sette a persona in una cella”. La prima sentenza che, seguendo l’orientamento della Corte Europea dei Diritti dell’uomo, condannò il Ministero a risarcire un detenuto per aver sofferto per alcuni mesi la carcerazione in una situazione di sovraffollamento lesiva della dignità e del decoro di un essere umano, fu quella pronunciata il 9 giugno 2011 dal giudice del tribunale di Sorveglianza di Lecce. A quel magistrato era ricorso un detenuto che, come Sulejmanovic (che a Strasburgo vinse la causa pilota contro l’Italia nel 2009), lamentava una situazione degradante, in pratica “la violazione del diritto a non subire pene o trattamenti inumani in conseguenza del sovraffollamento carcerario”. La sentenza divenne definitiva perché il Ministero propose tardi il ricorso in Cassazione. E lo Stato pagò. È questo il fondamento dei sei reclami che domani verranno discussi davanti al giudice del Tribunale di sorveglianza di Verona, sei reclami presentati da altrettanti detenuti (i loro difensori sono Maurizio Corticelli, Guariente Guarienti, Igor Zornetta, Giovanni Bondardo, Emanuele Luppi e Massimo Pinelli) che si riferiscono non solo al noto e annoso problema del sovraffollamento che affligge anche il carcere di Montorio, ma ad una serie di carenze e disagi che riguardano la vita dei detenuti all’interno della casa circondariale. Sei reclami con i quali si chiede al giudice di adottare le misure necessarie per conformare i locali dei detenuti alle esigenze del rispetto delle condizioni minime richieste. Perché nel reclamo si lamentano carenze strutturali dovute alla presenza, in una cella di 12,5 metri quadrati, di quattro detenuti. “Fu la Corte (nella sentenza Sulejmanovic contro Italia, ndr)”, riporta il ricorso, “a ricordare che il comitato per la prevenzione della tortura e dei trattamenti disumani e degradanti del Consiglio d’Europa, ha fissato a 7 metri quadrati per persona la superficie minima auspicabile in una cella di detenzione”. E la situazione di Montorio, lamentano i ricorrenti, non rispecchia tale criterio “visto il numero doppio dei detenuti rispetto alla soglia di capienza regolamentare”. La decisione della Corte Europea del 2009 rappresentò una “sentenza pilota” poiché ingiunse allo Stato italiano, come ricorda il professor Francesco Viganò, su Diritto Penale Contemporaneo, “di introdurre, entro il termine di un anno dal momento in cui la sentenza della Corte sarà divenuta definitiva, “un ricorso o un insieme di ricorsi interni idonei a offrire un ristoro adeguato e sufficiente per i casi di sovraffollamento carcerario in conformità ai principi stabiliti dalla Corte”. Dopo quello di Sulejmanovic seguirono altri ricorsi, l’8 gennaio la Corte europea ha condannato lo Stato a risarcire a sette detenuti nelle carceri di Busto Arsizio e Piacenza circa 100mila euro per danni morali (le somme vanno dai 10mila ai 23mila euro). Ma ci sono anche decisioni contrarie, come quella del tribunale di sorveglianza di Vercelli che nell’aprile scorso ha dichiarato inammissibile la domanda di condanna dell’amministrazione penitenziaria. Domani sei ricorsi saranno discussi a Verona. Lecce: carcere al collasso, la deputata Teresa Bellanova (Pd) scrive alla ministra Severino www.iltaccoditalia.info, 23 gennaio 2013 La deputata chiede se siano fondate le notizie della costruzione di un nuovo plesso per il carcere e di trasferimento di nuovi detenuti. 1.250 detenuti a fronte di una capienza massima di 700 posti. Succede nel carcere Borgo San Nicola di Lecce. L’effetto si traduce in condizioni di detenzione al limite della vivibilità. E infatti risale a poche settimane fa il suicidio di un detenuto di origini somale, Mohamed Abdi, 38 anni. Il suo nome si aggiunge alla lista di decessi o ferimenti che si sono consumati all’interno del penitenziario. Il sovraffollamento condiziona necessariamente le condizioni di vita all’interno della struttura. Si pensi solo che nel reparto di “alta sicurezza”, dove sono previsti tre agenti per ogni detenuto, ogni guardia deve occuparsi di 80 persone. Partendo da questi dati, la parlamentare salentina Teresa Bellanova (Pd) ha scritto alla ministra della Giustizia Paola Severino per chiedere se siano fondate le notizie della realizzazione di un nuovo plesso da 200 posti a disposizione del carcere leccese e del trasferimento di altri detenuti nella struttura salentina. Ecco la lettera: “Egregio Ministro Severino, il nostro Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, soltanto poche settimane fa ha commentato la seconda condanna ai danni del nostro sistema penitenziario, da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, definendola “una mortificante conferma della incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esecuzione di pena”. Il penitenziario salentino di Borgo San Nicola “accoglie” circa 1250 persone a fronte di una capienza massima di 700 posti. Il sovraffollamento e la conseguente insostenibile riduzione dello spazio vitale a disposizione di ogni singolo detenuto determinano evidentemente una condizione di vivibilità difficile, nonostante gli sforzi profusi quotidianamente da parte della direzione e del personale addetto. Solo poche settimane addietro, purtroppo, nello stesso plesso si è verificato il suicidio di un detenuto somalo di 38 anni, Mohamed Abdi. Da tempo le OO.SS. denunciano sui media una condizione di carenza dell’organico atto ad operare negli istituti penitenziari. Io stessa ho presentato numerosi atti parlamentari per portare all’attenzione del Governo, precedente ed attuale, la situazione del carcere di Borgo San Nicola ed il reale rischio che la funzione rieducativa della misura carceraria, accompagnata da servizi, quale ad esempio quello scolastico, in questo contesto venga meno proprio a causa della carenza di personale. Inoltre nel carcere leccese da quanto si apprende ci sarebbero circa 200 detenuti sottoposti a regime di “alta sicurezza”, il quale dovrebbe prevedere un rapporto di tre guardie per ogni detenuto ma che invece vede ogni agente dover far fronte mediamente alla sorveglianza di circa 80 detenuti. Una situazione evidentemente difficile che speriamo, a questo punto, possa trovare una soluzione proficua nell’agenda del prossimo Governo. Dagli organi di stampa si apprende dell’esistenza di un progetto per la realizzazione di un nuovo plesso, da circa 200 posti, a disposizione del penitenziario leccese. A tal fine le chiedo se questa notizia corrisponda al vero e soprattutto, se corrisponde al vero che a fronte di questo già limitato aumento della capienza, dati i numeri sopra riportati, esisterebbe il rischio di un ulteriore trasferimento di detenuti al carcere leccese. Circostanza che, ove dovesse verificarsi, lascerebbe evidentemente del tutto inalterate le difficili condizioni sopra riportate che caratterizzano oggi l’istituto penitenziario di Borgo San Nicola. Confidando sul sentimento di avvilimento che Lei stessa ha confessato rispetto alla situazione carceraria italiana, in occasione della condanna citata in apertura della presente, sono certa che vorrà fornire, alla comunità carceraria leccese ed agli operatori di sorveglianza ed assistenza, informazioni dettagliate rispetto alle notizie apparse sulla stampa che con questa lettera ho inteso sottoporre alla Sua attenzione. Colgo l’occasione per inviare i miei più cordiali saluti”. Cagliari: Corda (Pd); la Provincia intervenga per migliorare la situazione delle carceri www.sardegnaoggi.it, 23 gennaio 2013 “La Provincia deve inserire il tema carceri all’interno dei Plus (piani locali unitari dei servizi alla persona)”. È la richiesta avanzata, nell’ultima seduta del consiglio provinciale di Cagliari, da Rita Corda (Pd) che, partendo dalla condanna rivolta dalla Corte europea all’Italia per il problema del sovraffollamento carceri, ha rivendicato la funzione rieducativa della pena che chiama in causa tutte le istituzioni. “La Provincia può scendere in campo con l’osservatorio delle politiche sociali per estendere la conoscenza delle condizioni delle carceri e attraversi i centri servizi lavoro - ha proposto - può stipulare un accordo per l’orientamento dei detenuti o per misure alternative alla detenzione”. “La situazione è esplosiva non da oggi - ha detto la presidente della Provincia, Angela Quaquero - e si è deteriorata nel tempo per minori investimenti, per la riduzione del personale e per la scarsa capacità di incidere delle pene alternative. Fondamentale - ha continuato - è un’azione coordinata tra i diversi livelli istituzionali per lavorare durante la detenzione con interventi mirati per il reinserimento e l’inclusione. Da anni la Provincia porta avanti iniziative di supporto e collabora con i 3 istituti di pena di Buoncammino, a Cagliari, Quartucciu e Isili. Nel primo - ha spiegato - operano i nostri mediatori culturali e lavorano diverse associazioni con cui collaboriamo. Nel carcere minorile di Quartucciu siamo intervenuti con la costruzione di un campo di calcio a cinque, un laboratorio di falegnameria e laboratori di fotografia e a Isili abbiamo attivato diverse iniziative attraverso i nostri centri servizi per l’impiego e un servizio di supporto psicologico una volta alla settimana. Stiamo lavorando per attivare un progetto - ha concluso - che permetta alle madri in carcere di stare vicino ai figli. Attualmente li tengono con sé fino ai tre anni e il nostro obiettivo è attivare un’accoglienza specifica”. Salerno: assistenza sanitaria in carcere, l’Asl potenzia mezzi e personale La Città di Salerno, 23 gennaio 2013 Un medico ortopedico e nuovi defibrillatori all’interno della casa circondariale di Salerno. È quanto ha promesso il direttore generale dell’Azienda sanitaria locale di Salerno, Antonio Squillante, durante un incontro che si è svolto lunedì mattina nella sede di via Nizza con i consiglieri regionali Gianfranco Valiante (Pd) e Dario Barbirotti (Indipendente) ed una delegazione della Cgil Funzione Pubblica di Salerno. L’iniziativa di tre giorni fa arriva dopo una serie di appelli che i due esponenti regionali avevano sollevato insieme a Donato Salzano dei Radicali Italiani, con il quale avevano anche effettuato alcune visite al carcere di Fuorni, constatando la grave carenza dell’assistenza sanitaria ai detenuti. Il 25 dicembre scorso, a margine della visita, denunciarono anche la storia di una donna nigeriana, le cui gravi condizioni di salute necessitavano un’assistenza continua, ma il trasferimento nei reparti dell’azienda ospedaliera “San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona” avvenne soltanto in seguito all’aggravarsi delle sue condizioni. “Riteniamo positivo l’esito dell’incontro, a cui hanno preso parte anche i rappresentanti della Cgil Funzione Pubblica - ha dichiarato il consigliere regionale Valiante - in quanto il management aziendale ha preso coscienza della condizione difficile in cui versano i detenuti. Auspico che il direttore generale riesca in tempi brevissimi ad assicurare, previa autorizzazione regionale, il reclutamento di un ulteriore medico di guardia e di due infermieri in deroga alla normativa di riferimento”. Moderata soddisfazione esprimono anche Dario Barbirotti e Donato Salzano che chiedono ora al direttore generale del “Ruggi”, Elvira Lenzi, di convocare un incontro per la soluzione dei gravi problemi che affliggono il reparto di detenuti all’interno dell’ospedale salernitano. Milano: carcere di San Vittore… leggere per evadere, una storia di detenuti-bibliotecari Tm News, 23 gennaio 2013 Una biblioteca può cambiare la vita. Soprattutto se si tratta di quella del carcere milanese di San Vittore. Qui, infatti, un gruppo di detenuti ha seguito un corso di formazione professionale per bibliotecari e oggi si raccolgono i frutti dello studio. Paolo è uno dei detenuti che hanno superato il corso. “All’inizio - ci ha raccontato - aiutavo le persone a trovare un libro, le consigliavo. Ma altrettanto cerco di indirizzarli verso una lettura diversa dal solito. Credo fermamente che la lettura sia un privilegio di ognuno e poterla avere è fondamentale”. Francesco, anche lui assegnato al servizio nella biblioteca del terzo raggio, ribadisce l’importanza dei libri per chi è carcerato. “Qui in giro per San Vittore - ci ha spiegato - si possono trovare manifesti che invitano a leggere per evadere. Principalmente l’obiettivo, un po’ fantastico, è quello di convincerli che il libro li aiuterà a non sentirsi in carcere. E funziona, perché il libro questo ti permette di fare”. Soddisfazione per il progetto è espressa anche dalla direttrice della casa circondariale, Gloria Manzelli. “Questo progetto - ha detto ai cronisti - ha anche un valore aggiunto e unisce aspetti importanti per quanto riguarda la fase di recupero dei detenuti: quello del lavoro e dell’attestato professionale da poter spendere anche all’esterno insieme a quello dell’attività all’interno degli istituti penitenziari, in particolare nel settore culturale e della crescita personale”. Tra i promotori del corso anche l’Associazione italiana biblioteche, di cui Stefano Parise è il presidente. “Abbiamo in questo modo - ci ha spiegato - cercato di interpretare due concetti che riteniamo molto importanti: primo che la lettura nelle carceri dà una dimensione di normalità alla permanenza dei detenuti in questa situazione. La seconda è quella di dare degli strumenti alle persone che gestiscono le biblioteche all’interno del carcere di San Vittore per gestire al meglio questo servizio”. Tra i detenuti bibliotecari ci sono anche stranieri, come Issam, che professa una profonda fiducia verso i libri. “Perché qua non ci sono odori, non ci sono sapori. Leggendo un libro - ha raccontato - trovi tutte quelle cose che qui mancano”. Nonostante il clima sereno e in un certo senso “edulcorato” dell’incontro con la stampa, però, i problemi dei detenuti restano molti, a partire dalle difficoltà che, in ogni caso, troveranno al momento di tornare in libertà. Quando esci è uguale - ci ha detto Issam - la crisi è sempre la stessa, non c’è lavoro, non ci sono case, non ci sono fondi. Siamo sempre lì, è una ruota che gira, un cane che si morde la coda”. E se c’è molta soddisfazione per il corso che hanno potuto sostenere, i tre bibliotecari non dimenticano che a molti loro compagni queste possibilità restano precluse. “Ce ne vogliono di più - ha aggiunto Paolo - perché noi siamo tre in questo caso, ma qui ci sono migliaia di persone. Dovremmo estendere queste opportunità un po’ a tutti”. Insomma è possibile che quello che la stampa ha potuto vedere in questa visita a San Vittore non sia esattamente il “vero carcere”, però tutto ciò accade senza dubbio in un carcere vero. E, una volta chiuse le porte della biblioteca, per i detenuti si riaprono inesorabilmente quelle delle celle. Brescia: detenuti trasformati in guide alpine con le lezioni del Fai Corriere della Sera, 23 gennaio 2013 La bellezza salverà il mondo, diceva qualcuno. Loro ci credono e ci sperano. E stanno studiando per guidarci, in una giornata di primavera, a conoscere la nostra città. Sono un gruppo di detenuti del carcere di Verziano che grazie a un’iniziativa congiunta tra delegazione Fai Brescia, associazione Carcere e Territorio, fondazione Cab e Asm, si sta preparando per il 24 marzo, giorno in cui affiancheranno i volontari Fai nella giornata che fa scoprire i tesori del nostro territorio. “L’idea mi è partita, più che dalla testa, dal cuore - racconta Rita Eboli Cerquaglia, delegata Fai e insegnante volontaria - ho frequentato per otto anni il carcere di Verziano seguendo una detenuta nel suo percorso verso il diploma. Conoscendo la realtà del carcere ho pensato: perché non coinvolgere anche i detenuti nel Fai?” Detto, fatto. La prof. Eboli, insieme alla capo delegazione Maria Gallarotti Ratti, ha iniziato a scrivere un progetto che ora è realtà. “È la prima volta in Italia che il Fai organizza un progetto così” sottolinea la Gallarotti. Il programma di “Liberiamoci con l’arte” prevede diversi incontri: l’8 febbraio ci sarà a Verziano l’appuntamento formativo aperto a tutti i detenuti sul tema “Arte e Brescia: i palazzi delle famiglie bresciane tra Quattrocento e Settecento” con videoproiezioni e materiale informativo curato da Federica Martinelli, responsabile Fai giovani. Poi, sempre in carcere, si terrà un incontro formativo specifico per i detenuti selezionati come guide. Infine, il 23 febbraio Verziano aprirà le sue porte alla cittadinanza (per partecipare inviare mail a: info@act-bs.it) con un grande appuntamento di cultura che prevede la presentazione dei palazzi Gambara di Brescia. “Verziano è una struttura che da tempo è aperta all’esterno - ha sottolineato Carlo Alberto Romano presidente Act Brescia - e questa iniziativa lo conferma. Ma non dobbiamo dimenticarci che questi progetti dovrebbero vivere in ogni realtà carceraria. Siamo nella necessità, e ce l’ha ribadito di recente la Cedu con la condanna delle carceri italiane sovraffollate, di cambiare le condizioni di detenzione e di rendere in ogni luogo possibile una diversa gestione degli spazi detentivi realizzando il concetto di “sorveglianza dinamica” che consente al detenuto un reale percorso recuperativo in carcere e nella comunità”. All’appello di Romano si è subito aggiunta la proposta di Agostino Mantovani. “Dopo due anni di lavori - propone il presidente della Cab - il 31 gennaio riapriremo la chiesa di Santa Maria della Trinità. Siamo aperti a una visita dei detenuti”. Tolmezzo (Ud): droga e armi in carcere e tentata evasione; dopo indagine disposti 5 arresti Adnkronos, 23 gennaio 2013 Dalle indagini è emerso che gli indagati avevano previsto l’utilizzo di un elicottero per sorvolare il cortile del carcere di Tolmezzo e prelevare due detenuti durante le ore d’aria giornaliera. I carabinieri del Ros stanno eseguendo 5 provvedimenti cautelari emessi su richiesta della Procura della Repubblica di Tolmezzo (Udine) per tentata evasione, corruzione e traffico di sostanze stupefacenti e armi. L’operazione comprende anche 12 perquisizioni nei confronti di altrettanti indagati a piede libero, tra Friuli Venezia Giulia, Lombardia e Piemonte. E ha consentito di sventare un progetto di evasione dal carcere di Tolmezzo e un traffico di hashish e armi destinato al carcere. Dalle indagini, condotte in stretta collaborazione con il Comando della polizia penitenziaria locale e d’intesa con la direzione centrale per i servizi antidroga, è emerso che gli indagati avevano previsto l’utilizzo di un elicottero per sorvolare il cortile del carcere e prelevare due detenuti durante le ore d’aria giornaliere. Indagato poliziotto penitenziario I carabinieri hanno arrestato 5 italiani, indagati a vario titolo per tentata evasione, corruzione e traffico di sostanze stupefacenti ed armi. In particolare due degli indagati sono stati raggiunti da un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, due da un provvedimento di obbligo di dimora, mentre a il quinto indagato, agente di Polizia penitenziaria in servizio presso la casa circondariale di Tolmezzo, che secondo gli inquirenti avrebbe introdotto nel carcere armi da taglio e la droga a favore di almeno un detenuto, è stata disposta la sospensione dal pubblico ufficio. Sono state inoltre eseguite 12 perquisizioni domiciliari nei confronti di altrettanti indagati a piede libero. I provvedimenti, eseguiti in Friuli Venezia Giulia, Lombardia e Piemonte, sono scaturiti dalle indagini delegate dalla Procura di Tolmezzo al Ros su un traffico di hashish destinato all’interno del carcere di Tolmezzo e ad un progetto di evasione di un detenuto, Maurizio Alfieri, in stato di isolamento per una condanna per tentato omicidio, sequestro di persona, rapina aggravata, traffico di droga e detenzione illegale di armi. Alfieri avrebbe offerto una somma di denaro al poliziotto penitenziario, ora indagato, in cambio della sua disponibilità a fargli ottenere un quantitativo di hashish, anche al fine di verificarne l’affidabilità e valutare quindi l’opportunità di avvalersene in seguito, per realizzare un progetto di evasione che avrebbe previsto il noleggio di un elicottero e di costringere il pilota a sorvolare il cortile del carcere per prelevare Alfieri ed un altro detenuto, durante il periodo d’aria giornaliero. Il sequestro di alcuni quantitativi di droga all’interno della struttura detentiva fa inoltre sospettare la complicità di altri agenti non identificati. L’operazione è stata denominata “Escape”. Livorno: Solimano, ex di Prima Linea e Garante dei detenuti, non sarà assessore comunale Adnkronos, 23 gennaio 2013 Il passo indietro dopo le polemiche scatenate dall’annuncio del sindaco. A pesare sulla decisione sono state sia le reazioni dei parenti delle vittime, sia le pressioni dei vertici toscani del Pd. Marco Solimano, ex terrorista di Prima Linea condannato a suo tempo a 19 anni di carcere, non sarà assessore alla Casa e alle Politiche sociali del Comune di Livorno. Lo ha annunciato il sindaco Alessandro Cosimi (Pd), in Consiglio comunale, dopo le polemiche scoppiate a seguito del suo annuncio dato nella tarda serata di ieri. Stamane il Consiglio comunale avrebbe dovuto iniziare alle 9 ma è iniziato alle 11.30. A pesare sulla decisione di Solimano di fare un passo indietro, sono state sia le reazioni dei parenti delle vittime del terrorismo, sia pressioni dei vertici toscani del Partito democratico. Solimano, 60 anni, insieme al fratello Nicola fece parte negli anni 70 di Prima Linea, la più importante e organizzata struttura terroristica italiana insieme alle Br. A Firenze, il 20 maggio 1978, il suo gruppo organizzò un’evasione di detenuti politici dal carcere delle Murate, durante la quale rimase ucciso Fausto Dionisi, un giovane carabiniere. “Come disse il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano incontrando i familiari delle vittime - commenta la vedova Dionisi, Mariella Magi - ci vorrebbe il buongusto, da parte di chi prese le armi, di stare un passo indietro”. Per quei fatti Solimano venne condannato, nel 1985, a 22 anni di reclusione, poi ridotti a 19. Si è dissociato dalla lotta armata, da 13 anni è presidente dell’Arci di Livorno, e per dieci anni è stato consigliere comunale prima dei Ds, e poi del Pd. Il sindaco Alessandro Cosimi lo ha nominato garante dei detenuti del Comune. Secondo quanto appreso, a far ritornare Cosimi sui suoi passi sarebbero stati i vertici toscani e anche nazionali del Pd, che gli avrebbero fatto notare l’inopportunità di nominare assessore un ex terrorista di Prima Linea a un mese dalle elezioni politiche. Nel rimpasto di giunta (determinato dalle dimissioni dell’assessore al Sociale, Gabriele Cantù e di quello dell’Ambiente e urbanistica, Mauro Grassi) entra quindi solo il nuovo assessore all’Ambiente, Massimo Giulì. Immigrazione: Human Rights Watch; rimpatri in Grecia violano fondamentali diritti umani La Repubblica, 23 gennaio 2013 I bambini non accompagnati e i richiedenti asilo non devono essere rispediti indietro. L’Italia invece rimanda sommariamente indietro i bambini migranti non accompagnati e i richiedenti asilo adulti verso la Grecia, dove affrontano condizioni detentive inumane. Lo afferma Human Rights Watch (Hrw) in un rapporto di 45 pagine pubblicato oggi. L’Italia rimanda sommariamente indietro i bambini migranti non accompagnati e i richiedenti asilo adulti verso la Grecia, dove essi si trovano ad affrontare un sistema di asilo che non funziona e condizioni detentive inumane, afferma Human Rights Watch (Hrw) in un rapporto pubblicato oggi. Migranti scoperti dopo avere viaggiato clandestinamente sui traghetti che arrivano dalla Grecia, fra cui bambini appena tredicenni, sono stati rispediti indietro dalle autorità italiane nel giro di poche ore senza che ne vengano presi in adeguata considerazione i particolari bisogni in qualità di bambini o di richiedenti asilo. Il rapporto di 45 pagine “Restituiti al mittente: Le riconsegne sommarie dall’Italia alla Grecia dei minori stranieri non accompagnati e degli adulti richiedenti asilo” documenta la mancanza di screening appropriati a identificare le persone bisognose di protezione nelle procedure della Polizia di frontiera italiana nei porti adriatici di Ancona, Bari, Brindisi, Venezia, in violazione degli obblighi giuridici dell’Italia. Human Rights Watch ha condotto interviste con 29 bambini e adulti che dai porti italiani sono stati rispediti sommariamente verso la Grecia, 20 dei quali nel 2012. Quei viaggi nascosti sotto i camion. “Ogni anno centinaia di persone rischiano la morte o menomazioni nascondendosi sotto camion e macchine imbarcate sui traghetti che attraversano l’Adriatico”, ha detto Judith Sunderland, ricercatrice senior per l’Europa occidentale di Human Rights Watch. “Troppo spesso l’Italia li rispedisce immediatamente verso la Grecia, ignorando le condizioni spaventose che i migranti incontreranno là”. Affidati ai capitani dei traghetti commerciali, adulti e anche bambini vengono detenuti in celle improvvisate o nelle sale macchine delle navi durante il viaggio di ritorno in Grecia, a volte senza ricevere cibo decente. Gli abusi delle forze dell’ordine. Una volta ritornati in Grecia, i bambini migranti non accompagnati e i richiedenti asilo, come tutti i migranti, sono esposti agli abusi delle forze dell’ordine, a condizioni di detenzione degradanti, e a un ambiente ostile pervaso di violenza xenofoba, afferma Human Rights Watch. Alì M., un ragazzo afgano che aveva 15 anni quando è stato rispedito dall’Italia al porto greco di Igoumenitsa nel marzo 2012, ha raccontato che la polizia greca lo ha portato in un luogo di detenzione nei pressi del porto dove lo ha tenuto rinchiuso in condizioni squallide senza cibo decente per oltre due settimane insieme ad adulti sconosciuti. Senza tutele e rimpatri indiscriminati. Le leggi italiane e internazionali proibiscono l’allontanamento dei bambini migranti non accompagnati a meno che si determini che sia nel loro migliore interesse. Ciononostante, Human Rights Watch ha incontrato 13 bambini di età comprese fra 13 e 17 anni che sono stati rimpatriati sommariamente verso la Grecia. A nessuno di loro era stato concesso un tutore o l’assistenza dei servizi sociali, come invece previsto dalle leggi italiane e internazionali. Sebbene la politica ufficiale del governo italiano sia di concedere il beneficio del dubbio a chi affermi di essere un minore non accompagnato, la ricerca di Human Rights Watch indica che tale politica non viene sempre applicata. Solo uno dei ragazzi intervistati da Human Rights Watch ha detto che era stato sottoposto a una qualche forma di procedura di determinazione dell’età, che nel suo caso si era limitata a una radiografia del polso. Ali M., per esempio, è stato rimpatriato senza che ne venisse determinata l’età: “ho detto loro che avevo 15 anni, non mi hanno ascoltato. Mi hanno messo in biglietteria e poi sulla nave”. Sono soprattutto ragazzi afgani. Le migliori pratiche di determinazione dell’età sono multidisciplinari, e richiedono che qualsiasi esame medico eseguito sia non-invasivo, afferma Human Rights Watch. L’assegnazione a un tutore o all’assistenza dei servizi sociali o le pratiche di determinazione dell’età possono avvenire solo qualora i bambini vengano effettivamente accolti nel Paese. “La maggior parte di quelli che abbiamo incontrato sono ragazzi afgani in fuga dai pericoli, dal conflitto, dalla povertà”, ha dichiarato Alice Farmer, ricercatrice sui diritti dei bambini di Human Rights Watch. “L’Italia deve comportarsi responsabilmente verso questi bambini e garantirgli tutele adeguate, a cui hanno diritto”. Almeno il diritto di fare domanda d’asilo. Anche le riconsegne sommarie dall’Italia alla Grecia dei migranti adulti senza dargli la possibilità di richiedere asilo violano le leggi italiane e internazionali, afferma Human Rights Watch. L’Italia ha senza dubbio il diritto di applicare le proprie leggi sull’immigrazione ma ai richiedenti asilo si deve concedere di potere esercitare il loro diritto di avanzare domanda di asilo, e nessuno dei respinti deve essere messo in condizioni dove possa subire abusi. Le scelte di Italia e Grecia condannate dall’Ue. Prove schiaccianti dei problemi cronici del sistema di asilo e delle condizioni nei luoghi di detenzione in Grecia hanno portato a sentenze storiche delle corti europei per ostacolare le riconsegne a quel Paese eseguite in base al regolamento Dublino II, che in generale prevede che ogni domanda di asilo venga esaminata dal primo Paese di ingresso nell’Unione Europea. Numerosi Paesi dell’Ue hanno conseguentemente sospeso i ritorni verso la Grecia. L’Italia non ha sospeso i “trasferimenti Dublino” verso la Grecia ma afferma di prendere in considerazione il rischio di abusi quando ne contempla la possibilità, però le riconsegne sommarie eseguite nei porti contraddicono questa politica, dice Human Rights Watch. Chi chiede asilo non deve essere “rispedito al mittente”. La maggioranza delle persone intervistate hanno detto di non avere potuto esprimere il loro desiderio di avanzare domanda di asilo, e cinque di loro che lo hanno potuto fare nei porti hanno raccontato di avere visto la loro richiesta ignorata dai funzionari della Polizia di frontiera. Secondo la Polizia di frontiera di Bari, solo a 12 dei quasi 900 migranti irregolari scoperti al porto fra il gennaio 2011 e il giugno 2012 è stato concesso di rimanere in Italia. “Alcuni richiedenti asilo possono scegliere di non richiedere asilo, una volta in Italia, anche se gliene venisse data la possibilità, perché vogliono viaggiare verso altri Paesi dove credono che le prospettive di integrazione e di ottenere protezione siano migliori”, afferma Sunderland, “ma quelli che sì vogliono avanzare domanda di asilo non devono essere rispediti al mittente”. Negato l’accesso alle Ong per essere informati. Le organizzazioni non governative sotto contratto per la fornitura di servizi e informazioni ai migranti irregolari scoperti nei porti sono regolarmente impedite a farlo, perché la decisione di concedere di rimanere in Italia è tenuta nelle mani della Polizia di frontiera, dichiara Human Rights Watch. A nessuna delle persone intervistate era stato concesso l’accesso alle organizzazioni non governative e nemmeno informazioni sul loro diritto di avanzare domanda di asilo. Solo sette di loro avevano ricevuto il beneficio dell’assistenza di un interprete. “Tutto il punto di mettere organizzazioni non governative sotto contratto per fornire servizi nei porti è di assicurare che i diritti dei migranti vengano rispettati” dice ancora Sunderland. “Ma queste non possono fare il loro lavoro se non gli viene permesso di avere completo accesso ai migranti in arrivo, e la realtà è che quelli che hanno bisogno di assistenza si perdono nel sistema vigente”. L’imminente sentenza della Corte Europea. La Corte europea dei diritti umani dovrebbe presto emettere una sentenza sul caso Sharife e altri contro l’Italia e la Grecia, riguardante la riconsegna sommaria, avvenuto nel 2009, di 25 adulti e 10 bambini che sostengono che il ritorno fosse in violazione del loro diritto alla vita e alla protezione contro la tortura e i maltrattamenti e a un ricorso effettivo. Il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa Nils Muižnieks e il Relatore speciale dell’ONU per i diritti dei migranti François Crépeau, hanno raccomandato all’Italia di sospendere con urgenza i rimpatri sommari verso la Grecia. Le raccomandazioni all’Italia di HRW. Human Rights Watch ha raccomandato all’Italia di intraprendere il cambiamento di numerose procedure, fra le quali: 1) Sospendere immediatamente le riconsegne sommarie verso la Grecia; 2) Assicurarsi che chiunque, raggiunta l’Italia, affermi di essere un minore non accompagnato venga accolto sul territorio italiano, gli siano dati accesso a un adeguato processo di determinazione dell’età e le adeguate tutele; 3) Condurre screening degli adulti appropriati, atti a identificare tutti quelli che abbiano bisogni speciali di protezione, siano in particolare condizione di debolezza o esprimano il desiderio di chiedere asilo; 4) Assicurarsi che le organizzazioni non governative autorizzate abbiano accesso completo e senza limiti a tutti i migranti, in modo che esse possano fornire tutela legale e assistenza ai migranti; 5) Garantire che a tutte le compagnie di navigazione che operano tra la Grecia e l’Italia abbiano delle chiare linee guida per il trattamento umano e sicuro dei clandestini scoperti a bordo e di quelli riportati in Grecia. Droghe: legge Fini-Giovanardi… la parola alla Corte Costituzionale di Franco Corleone Il Manifesto, 23 gennaio 2013 Oggi pomeriggio a Udine si tiene un seminario organizzato dalla Società della Ragione sull’incostituzionalità della legge Fini-Giovanardi sulle droghe, alla vigilia del processo contro Filippo Giunta, creatore del festival Rototom Sunsplash e accusato di agevolazione all’uso di sostanze stupefacenti. Sono sette anni che questa legge provoca effetti disastrosi sul funzionamento della giustizia e sulle carceri, determinando il sovraffollamento che è alla base delle condanne della Corte di Strasburgo per trattamenti disumani e degradanti. La proposta di Gianfranco Fini fu presentata nel 2003, ma vide la luce solo nel 2006 grazie a un colpo di mano del sottosegretario Carlo Giovanardi: il disegno fu trasformato in maxi emendamento, inserito nel decreto legge dedicato alle Olimpiadi invernali di Torino. L’opposizione fu tenace e incalzante, in Parlamento e nel Paese. Fu sconfitta solo per uno stupro istituzionale e per la latitanza del Quirinale. Sul mensile Fuoriluogo vennero poste le questioni di legittimità costituzionale: per la prima volta il legislatore cancellava la volontà espressa dai cittadini nel referendum del 1993 a favore della depenalizzazione del possesso di sostanze stupefacenti per uso personale. Furono anche segnalate due altre gravi lacerazioni costituzionali rispetto ai principi del giusto processo e delle competenze regionali. Alcune Regioni sollevarono la questione di legittimità costituzionale per le norme che ledevano la loro autonomia legislativa e organizzativa. L’Emilia-Romagna denunciò l’inserimento strumentale delle misure antidroga nel decreto Olimpiadi, che configurava, già di per sé, “un autonomo vizio di costituzionalità”. Tale rilievo non si traduceva tuttavia nella specifica denuncia della violazione dell’art. 77 della Costituzione, poiché all’epoca la giurisprudenza della Consulta non si era ancora consolidata nel senso della possibilità di verificare i requisiti di “necessità e urgenza” dei decreti legge anche dopo la conversione. Dopo le pronunce della Corte del 2010 e del 2012, le condizioni sono mutate: le sentenze hanno dettato criteri vincolanti per l’approvazione dei decreti legge, stabilendo in particolare il divieto per il Parlamento di inserire disposizioni estranee all’oggetto e alle finalità del testo originario del decreto di urgenza. Un gruppo di lavoro, coordinato da Luigi Saraceni, ha messo a punto un documento di analisi legislativa e di ricostruzione storica della vicenda, predisponendo una sorta di modello per sollevare davanti all’Autorità giudiziaria la questione di legittimità costituzionale. Anche da questo versante “giudiziario”, ci sono dunque tutte le ragioni per riprendere la battaglia per un cambio della politica delle droghe in Italia, mettendo in luce il vizio d’origine di una svolta repressiva che ha prodotto gravi guasti umani. La predisposizione di questo “schema” intende fornire agli avvocati impegnati ogni giorno nella difesa di giovani consumatori o tossicodipendenti, uno strumento per fermare la macelleria giudiziaria. È auspicabile che la parola passi presto alla Corte Costituzionale. La cancellazione del decreto non produrrebbe un vuoto normativo (tornerebbe infatti in vigore la legge precedente), ma creerebbe le migliori condizioni per una riforma sostanziale della legge. Afghanistan: dal rapporto della missione Onu “nelle carceri di Kabul si pratica la tortura” Reuters, 23 gennaio 2013 L’ultimo rapporto della missione Onu, Unama. Un anno di inchiesta rivela un quadro inquietante: nel paese “liberato” dai talebani, i detenuti - anche minorenni - vengono picchiati e violentati. Nell’Afghanistan “liberato” dagli integralisti Taleban e sotto occupazione internazionale, ancora si pratica la tortura. È quanto sostiene senza mezzi termini l’ultimo rapporto di Unama, la missione delle Nazioni unite a Kabul. A un anno dal primo rapporto sui detenuti nelle carceri afghane redatto dall’Onu, a pochi mesi dall’analogo rapporto dell’Afghanistan Independent Human Rights Commission e di Open society Foundation, Unama torna a investigare sul sistema penitenziario del paese centroasiatico. Il rapporto, come recita il titolo, riguarda i detenuti legati al conflitto che sono sotto custodia afghana, consta di 139 pagine fitte e si basa su una serie di interviste realizzate con 635 detenuti in 89 centri di detenzione in 30 delle 34 province afghane tra ottobre 2011 e ottobre 2012. Un anno di inchiesta tra gli istituti di pena gestiti dai diversi organi della sicurezza: polizia nazionale, polizia locale, esercito nazionale e servizi segreti (National Directorate of Security). Il risultato è netto, e parla di un paese dove, a dispetto della retorica sui diritti umani e sulla necessità di esportare la democrazia, la tortura è pratica corrente, anche su ragazzi di appena 14 anni: secondo i ricercatori delle Nazioni unite più della metà (326) dei 635 detenuti intervistati ha subito maltrattamenti e forme diverse di tortura nei 34 istituti gestiti dalla polizia nazionale e dai servizi segreti. Negli istituti della polizia nazionale la pratica è perfino cresciuta rispetto all’anno scorso: oggi infatti la percentuale di detenuti che denunciano maltrattamenti è salita al 43% rispetto al 35 dei dodici mesi precedenti. Mentre negli istituti gestiti dai servizi segreti la percentuale è scesa, dal 46 al 34%. Tra questi, sono due i centri nei quali la tortura viene praticata sistematicamente: “Kabul 124”, una prigione che si trova nell’area di Shashdarak, a due passi dal Ministero della Difesa, dei quartieri generali dell’Isaf e dell’ambasciata americana, e la prigione di Kandahar. Secondo il rapporto, “fonti multiple hanno preoccupazioni condivise sul fatto che alcuni detenuti possano essere stati uccisi quando erano sotto custodia” a Kandahar. Il quadro tracciato da Unama è dunque preoccupante, “molto preoccupante”, secondo le parole usate da Jan Kubis, il rappresentante speciale in Afghanistan del segretario generale dell’Onu. Nel corso della presentazione del rapporto, domenica a Kabul, Kubis ha sottolineato che “molto rimane da fare per impedire la tortura”, a dispetto degli “sforzi visibili e incoraggianti fatti dal governo afghano per affrontare questi abusi”. Le dichiarazioni diplomatiche del rappresentante dell’Onu nascondono con difficoltà una realtà cruenta, fatta di strumenti di tortura diversi tra cui elettroshock, torsione dei genitali, sospensione per aria dei detenuti per i piedi o per le braccia, minacce, punizioni con bastoni e corde, violenza sessuale. Tutto lo strumentario che gli esportatori dei diritti umani imputavano con disprezzo al regime taleban, ereditato a quanto pare anche dai funzionari del nuovo governo Karzai. E in cui sono coinvolti anche gli “internazionali”: dei 79 detenuti catturati con il coinvolgimento delle forze Isaf-Nato, 31 sono poi stati torturati. Ha gioco facile l’analista Kate Clark, sul sito dell’Afghanistan Analysts Network, a dichiarare il fallimento del programma dell’Isaf inaugurato un anno fa - subito dopo la pubblicazione del primo rapporto Onu sui detenuti - per addestrare i funzionari afgani e monitorare i centri di detenzione. E appaiono rituali le risposte di Aimal Faizi, portavoce del presidente Karzai, secondo il quale “il governo non è implicato nei crimini contro i detenuti e la tortura e gli abusi non sono certo una nostra politica”. I più smaliziati tra gli osservatori afghani ricordano invece che gli stranieri non possono impartire lezioni di legalità: secondo un rapporto di gennaio 2012 redatto dalla Commissione indipendente afghana per l’attuazione della Costituzione, ci sarebbero “molti casi di violazioni della costituzione afghana e di altre leggi sui diritti umani” nel Parwan Detention Center, la prigione gestita dagli americani nella base area di Bagram. La prigione di cui Karzai rivendica la sovranità, sulla base di un memorandum d’intesa firmato con Washington, e su cui Obama non vuole ancora mollare. Il rapporto dell’Onu gioca a favore del presidente degli Stati uniti. Tailandia: giornalista condannato a 11 anni per “lesa maestà”, l’Unione europea protesta Tm News, 23 gennaio 2013 Un giornalista e attivista vicino al movimento tailandese delle “camicie rosse”, accusato di aver insultato la famiglia reale, è stato condannato oggi in Tailandia a undici anno di carcere. Immediate sono giunte le critiche al provvedimento da parte dell’Unione Europea e di altre organizzazioni che si battono per la difesa dei diritti umani. Somyot Prueksakasemsuk, redattore capo del magazine “Voice of Thaksin”, giornale che sostiene l’ex premier in esilio Thaksin Shinawatra, è stato condannato per la pubblicazione di due articoli, nel febbraio e nel marzo 2010, giudicati diffamatori nei confronti dell’85enne re Bhumibol Adulyadej. “Faremo appello”, ha detto il suo avvocato Karom Polpornklang. £Posso confermare che non aveva intenzione di violare l’articolo 112 (di lesa maestà). Faceva il suo lavoro di giornalista”. Secondo l’Unione Europea, “il verdetto colpisce duramente il diritto alla libertà di espressione e alla libertà di stampa”. Inoltre, si legge in un comunicato della delegazione Ue a Bangkok, “incide anche sull’immagine della Thailandia come paese libero e democratico”. Il re Bhumibol viene considerato in patria una specie di semi-dio. Sebbene non abbia alcun ruolo politico ufficiale, la famglia reale è comunque protetta da una legge tra le più severe al mondo. Negli ultimi anni si sono moltiplicati gli arresti e le condanne per frasi considerate offensive nei confronti del sovrano.