Mandateci le vostre domande, vi risponderanno i “Murati vivi” Ristretti Orizzonti, 21 gennaio 2013 All’interno del nostro sito abbiamo creato uno spazio titolato “Murati vivi” dedicato agli ergastolani ostativi. Si tratta di persone condannate per reati commessi in ambito di criminalità organizzata, che ora si trovano detenuti sotto vari regimi di alta sorveglianza, e pertanto esclusi dalle misure alternative. Nelle pagine di Ristretti abbiamo sempre dato spazio alle loro storie perché sono quelli considerati “non rieducabili”, e quindi persone da buttare via; e abbiamo dato spazio anche ai loro famigliari perché, avendo un loro caro “buttato via”, sono anche esse vittime di una sofferenza ingiustificata. “Murati vivi” è uno spazio che serve anche per creare un canale di comunicazione tra i condannati a vita e la società. Da qui era nata l’idea di invitare la società civile a fare delle domande, e le prime domande sono arrivate. La prima a fare le domande è stata Suor Marta, dal Monastero di Clausura di Santa Chiara, Lagrimone. Un lungo elenco di domande piuttosto “severe” è giunta anche dalla redazione del “Messaggero di Sant’Antonio”. La cosa ha incuriosito poi alcuni studenti universitari che hanno iniziato a raccogliere domande tra i loro amici. Il suo contributo l’ha dato anche la psicologa del carcere di Padova, che ha inviato le sue domande. Di fronte ad un’occasione così ricca di stimoli, alcuni ergastolani ostativi hanno già risposto. Abbiamo pensato quindi di dedicare a questa corrispondenza un capitolo titolato “Gli uomini ombra rispondono”, e continueremo a mettere a disposizione dei nostri lettori tutte le domande che ci arriveranno, e tutte le risposte che raccoglieremo. Anche in questo caso, la nostra speranza è che si crei un tavolo di confronto utile a produrre informazione e conoscenza. La redazione Inventarsi forme nuove di prevenzione Il Mattino di Padova, 21 gennaio 2013 “Siamo consapevoli che nel rapporto con le nuove generazioni la repressione è solo l’ultimo anello di una catena di interventi che devono partire dal dialogo, dall’educazione, dalla prevenzione, coinvolgendo innanzitutto le famiglie”: sono parole del sindaco di Padova, Flavio Zanonato, in risposta alla rabbia di chi abita in zona Duomo, e ha protestato di recente per il degrado causato da gruppi di ragazzi che riempiono il sabato pomeriggio il sagrato. Tutti hanno parlato molto di come avere più telecamere, più polizia, più vigili di quartiere, e poco di prevenzione. Noi dal carcere invece un progetto di prevenzione lo facciamo, proprio in collaborazione con i Servizi sociali del Comune, e incontriamo ogni anno migliaia di ragazzi, ai quali raccontiamo come è facile passare da una piccola trasgressione a un comportamento illegale e al carcere. La repressione è lo strumento meno adatto a risolvere il disagio che i giovani stanno vivendo Oggi, dopo aver letto l’articolo del Mattino di Padova “Duomo violento, le gang del sabato”, che fotografava gli atti di bullismo, l’abuso di alcol, i comportamenti violenti di gruppi di giovanissimi proprio nel centro città nei fine settimana, abbiamo deciso di affrontare questo tema in cerca di qualche risposta, a partire dalle nostre esperienze, per le quali poi siamo finiti in carcere. Personalmente, avendo vissuto in un passato, non troppo remoto, situazioni simili con la mia compagnia, posso assicurare con assoluta certezza che le ricette repressive, chieste dal sacerdote e dai residenti, come schierare più polizia o riempire di telecamere Piazza Duomo, non servirebbero a responsabilizzare i ragazzi, perché otterrebbero solo il loro spostamento in un altro luogo, rendendo senza dubbio la zona del Duomo più pulita, ma il fenomeno dell’alcol e del bullismo tra i giovanissimi rimarrebbe uguale. Allora mi chiedo, se veramente abbiamo a cuore questo problema, se non sia il caso di affrontare questo argomento in modo diverso, con un progetto di prevenzione come può essere raccontare ai ragazzi le conseguenze che possono comportare questi loro atteggiamenti, spiegandogli che il filo che separa un comportamento trasgressivo da un comportamento penalmente rilevante è veramente sottilissimo e che quindi è molto facile fare qualcosa che può portarti a varcare la soglia del carcere. Questa mia convinzione non viene dal nulla, ma deriva da una profonda riflessione fatta nell’arco degli anni, in particolar modo dopo l’esperienza del confronto con le migliaia di studenti che incontriamo ogni anno, nel progetto “La scuola entra in carcere”. Dico questo perché molto spesso i giovani non hanno una reale conoscenza delle conseguenze a cui possono andare incontro con i loro comportamenti trasgressivi, come bere alcolici di tutti i tipi o fumare canne, a volte lo si fa per seguire una logica del gruppo di appartenenza, pensando che quando si vuole si smette, magari prendendo come punti di riferimento persone come la modella Kate Moss, prima scoperta a consumare cocaina e poi di nuovo tornata rapidamente al successo. Come se di una dipendenza ci si liberasse così in fretta, mentre invece la realtà è tutt’altra cosa, perché finire nel baratro della dipendenza fisica vera e propria è facilissimo. Posso quindi affermare oggi con assoluta convinzione che se invece di reprimerci, riempiendo il centro storico della mia città, Genova, di telecamere e di poliziotti, che facevano su e giù davanti ai nostri punti di incontro, mi avessero fatto partecipare ad un progetto come quello che fanno i ragazzi delle scuole con noi in redazione, sarebbe stato più utile per una riflessione personale su questo tema. Penso questo perché, dopo aver ascoltato le testimonianze di alcuni detenuti e aver visto con i propri occhi le conseguenze che si pagano dopo aver vissuto con un certo stile di vita, non si può far finta di non aver visto o di non conoscere. Sono altrettanto certo che per questo tipo di problemi non ci sia una ricetta magica e che dopo aver vissuto un esperienza simile non ci siano garanzie di risultati positivi, ma senza dubbio capisci più di prima, e non potrai più far finta di non sapere. L’esperienza di chi come me ha vissuto problemi simili sulla propria pelle dovrebbe aiutarci tutti a trovare modi più intelligenti per affrontare questi fenomeni tra i giovanissimi, senza pensare che la repressione sia lo strumento migliore a nostra disposizione. Forse è quello più semplice per ripulire piazza del Duomo, ma il meno adatto a risolvere il disagio che i giovanissimi stanno vivendo. Luigi Guida La paura di non saper aiutare i nostri figli Le cronache dei quotidiani padovani in questi giorni parlano molto di tutti quei giovani, che fanno uso di alcolici in modo smisurato, contribuendo pesantemente al degrado dell’ambiente circostante, con bottiglie rotte in luoghi non adatti per fare certe feste, come il sagrato del Duomo di Padova. Il problema degli eccessi nel bere c’è sempre stato, solo che, quando ero ragazzo io, si faceva in posti più protetti o magari in casa nelle feste private. Le reazioni e la rabbia di chi vive in quelle zone mi ricorda quando a Padova era il degrado per lo spaccio che si faceva sempre più incontrollabile, e l’opinione pubblica non ce la faceva più, perché era costretta a vivere con quel fenomeno proprio sotto casa, gente che spacciava in centro per poi spostarsi al Prato della Valle, ed essere cacciati anche da là, per trovare alla fine ospitalità nella zona di Via Anelli. Tutti questi spostamenti erano un problema, per chi era costretto a vivere con un fenomeno cosi degradante fuori della porta di casa, ma per noi tossicodipendenti era una buona cosa, perché quando andavi in questi posti, sempre trovavi quello di cui avevi bisogno. Io allora ragionavo con la testa del tossico che ha bisogno di trovare subito la sostanza, perché magari eravamo in astinenza, ed allora a noi non ce ne fregava di meno del problema che poteva avere quella gente che abitava in quella zona. Quando si decise di chiudere quei posti sono finiti tutti a spacciare in strada, e in posti dove le persone vivono e lavorano, un pò come succede ora con il fenomeno di quei giovani che bevono e usano droghe, non in casa, ma nel centro delle città, rovinando tutto quello che gli sta attorno. Noi parliamo molto nella nostra redazione in carcere di come fare prevenzione, specialmente con i ragazzi delle scuole che abitualmente vengono a farci visita aderendo al progetto scuola/carcere, e di idee ne vengono fuori molte, ma ci accorgiamo che fare prevenzione non è una cosa facile, specialmente parlando di ragazzi che usano il bere come una valvola di sfogo per disinibirsi o per sballarsi, perché forse non hanno ideali e per questo vivono una vita noiosa. Gli articoli sui “bulli “ del Duomo ci hanno costretti più di tutto a parlare anche di come educare i nostri figli, una cosa molto difficile sapendo che mondo noi genitori gli abbiamo lasciato. Io sono padre di un ragazzo di 17 anni, e questo malessere mi colpisce nel cuore, sapendo che mi trovo in molta difficoltà anche solo per avere un semplice dialogo con mio figlio. Come posso aiutarlo a non cadere in quelle mille trappole che questa vita gli pone, come posso sperare che non faccia gli stessi sbagli che io ho fatto in gioventù? Dobbiamo avere un dialogo con i nostri ragazzi, parlando in modo che loro ci possano capire, senza usare parole violente se vogliamo che loro ci ascoltino, con la speranza che problemi di droga e alcol non li toccheranno mai, come invece hanno toccato e devastato le vite di noi che stiamo in carcere proprio per reati legati al consumo di sostanze. Alain C. Giustizia: il Governo paga subito i sette detenuti vincitori davanti alla Corte di Strasburgo Notizia Radicali, 21 gennaio 2013 “Equo indennizzo per violazione dei diritti e delle Libertà fondamentali definiti dalla Corte Europea dei Diritti Dell’Uomo. Bene… e gli altri 66.000 continuiamo a torturarli? Il Ministero dell’Economia e della Finanze - Dipartimento dell’Amministrazione Generale del Personale e dei Servizi - comunica tempestivamente ai difensori che, in esito alla nota sentenza della Corte Europea avvierà la procedura per il pagamento delle somme accordate dalla Corte sopranazionale”. Lo dichiarano l’On. Rita Bernardini e l’avv. Flavia Urciuoli difensore del detenuto Afrim Sela di nazionalità albanese uno dei sette ricorrenti alla Cedu dei quali ricordiamo i nomi: Fermo-Mino Torreggiani, Bazoumana Bamba; Raoul Riccardo Biondi, Tarcisio Ghisoni, Mohamed El Haili, Radouanne Hajjoubi Bernardini e Urciuoli, così proseguono: “Lo stato italiano, si affretta a riconoscere il danno da lesione dei diritti e delle libertà fondamentali definiti dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo. L’ennesima prova che la lotta per la situazione delle carceri portata avanti dai radicali Italiani, combattuta su diversi fronti, compreso quello giudiziario, si allarga e diffonde nelle coscienze, anche quelle istituzionali finora così sorde nei fatti, ma molto ciarliere nelle promesse mai mantenute. Il problema serio da affrontare immediatamente è però quello di che cosa vogliano fare le istituzioni - dalle minime alle Massime - nei confronti delle altre decine di migliaia di sequestrati nelle carceri italiane, detenuti sottoposti come i sette che lo stato italiano deve risarcire a trattamenti inumani e degradanti. Già perché non ci sono solamente le altre 500 istanze di detenuti pendenti alla Cedu, ma tutti gli altri che, non sono stati posti nelle condizioni di ricorrere a Strasburgo. Tutto ciò pone il nostro Paese - come scrive Guido Rossi oggi sul Sole 24 ore nel suo articolo “Non si può privatizzare lo Stato di diritto” - in una condizione “particolarmente umiliante” in Europa anche perché “si accompagna alle già ripetute condanne sull`inefficienza e il ritardo nell`applicazione della giustizia nel nostro Paese”. Ecco perché siamo orgogliose - concludono Bernardini e Urciuoli - che questi temi cruciali per la vita futura del nostro Paese siano tutti rappresentati e promossi dalle nostre Liste Amnistia Giustizia Libertà, le uniche che abbiano il coraggio di voler curare la cancrena putrescente dell’immoralità istituzionale italiana”. Giustizia: il 31 marzo chiusura degli Opg ma non ci sono strutture per ricoverare i degenti di Marida Lombardo Pijola Il Messaggero, 21 gennaio 2013 Saful Islam è minuscolo, sottile, mingherlino, è un bimbo di 22 anni con la pelle d’ambra. Chissà dove ha trovato l’energia per fare a pezzi col coltello il suo “principe”, il senatore Ludovico Corrao, il leggendario artefice della rinascita di Gibellina, di cui era badante, figlioccio, chissà cosa. Nel carcere di Marsala ha tentato di uccidersi sbattendo la testa contro le inferriate; nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Barcellona Pozzo di Gotto tenta di sopravvivere galleggiando alla deriva di un spazio vuoto. Si sfila dalla tasca ritagli di giornale sulla legge che dispone la chiusura degli Opg entro il 31 marzo, li mostra al ministro Paola Severino con l’ansia di chi vuol metterla al corrente, “ecco, vede, c’è scritto che bisogna chiuderli, io voglio essere curato, non voglio stare qui”. Lei lo ascolta, lo guarda con tenerezza, rilascia una carezza della voce: “Sì, hai ragione”. Lei è un ministro della Giustizia, ed è una mamma, ed è una nonna, e ascolta tutti, e chiede di vedere “le cose più brutte”, e ce l’ha scritto negli occhi quel che pensa, quel che è venuta a dire qui. Che hanno ragione tutti, in questo deposito della follia, dove 219 uomini si spengono da vivi nel tempo immobile del nulla, “perché la detenzione non è il percorso giusto per chi ha bisogno di essere curato, e dunque questo edificio verrà riconvertito in un penitenziario, ed i malati verranno trasferiti in adeguate strutture ospedaliere”. Via tutti. Hanno ragione. Devono andar via da qui. Solo farmaci Ha ragione Andrea, che nessuno è in grado di soccorrere, mentre grida contro il muro delle sue ossessioni, con energie vocali innaturali, per rovesciare rabbia contro i suoi ricordi, il suo destino, l’omicidio che un fantasma interiore ha commesso al posto suo. E ha ragione Nicola, gigante stanco, triste, intorpidito, a dire che qui non riesce a emanciparsi dai suoi incubi: “Ho ucciso Satana, e dopo, per la felicità, ho ucciso anche mia madre, ma non volevo, nessuno mi capisce”. Farmaci, solo farmaci, che rendono opachi suoi pensieri, che rallentano il ritmo delle sue parole. Farmaci e basta, da mettere via per tentare il suicidio, qualche volta. Farmaci per questi uomini che stanno ammucchiati nelle celle del palazzo liberty dell’Opg, al quale è stato fatto un maquillage dopo il sequestro disposto dalla commissione di Ignazio Marino. Sembra sinistramente accogliente, adesso. Quasi non sembra ciò che è, un contenitore di ostaggi di menti disturbate, intrappolati in un circolo vizioso: nessuna cura, nessuna guarigione, nessuna possibilità di uscire, di riacquistare l’identità di esseri umani. La discarica sociale “Questa è una pattumiera umana, una discarica sociale, lo dice persino il direttore”, assicura don Pippo Insana, il cappellano. Sgrana sequenze di risse e di violenze, disegna sagome di uomini disperati, annientati, abbrutiti dall’inerzia. “Abbandonati nella solitudine, nella promiscuità, buttati a letto tutto il giorno, cinque per cella senza uno sgabello, nell’assenza di psicoterapie e di attività socializzanti, per mancanza di personale”. E allora hanno ragione pure i sanitari che non ce la fanno. “È molto dura”, ammette Nunziante Rosa-nia, ultimo dei direttori medici “alienisti”. Tra poco cambierà mestiere, come i cinque colleghi che dirigono gli altri Opg in chiusura. Tornerà a essere medico e basta, non più custode di un inferno. Tra poco i dannati torneranno ad essere pazienti. Chi si prenderà cura di loro? La palla passa in mano alle Regioni. “Alcuni sono pericolosi, spero che trovino strutture in grado di garantire i cittadini”, scuote la testa un agente. Lui ha visto di tutto, a Barcellona. Non può sapere, però, cosa succede rovesciando la follia. Campania: Sappe; al via ispezioni negli Istituti penitenziari campani, urge dare risposte Adnkronos, 21 gennaio 2013 Inizia oggi da Avellino il tour di visite negli istituti penitenziari della Campania del segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria (Sappe), Donato Capece. Accompagnato dal segretario nazionale per la Campania Emilio Fattorello, Capece ha tenuto una conferenza stampa sulla situazione del carcere avellinese e delle altre strutture detentive della regione. “La nostra presenza in Campania - afferma Capece - vuole per prima cosa testimoniare la vicinanza e la gratitudine del primo sindacato della polizia penitenziaria alle colleghe ed ai colleghi delle 17 carceri campane, quotidianamente impegnati in una situazione di costante sovraffollamento con significative carenze di organico”. “Alla data del 31 dicembre scorso - si legge in una nota - in tutta la Campania erano detenute 8.165 persone (4.149 imputati, 3.767 condannati e 249 internati) rispetto ai 5.794 posti letto regolamentari. Donne e uomini della Polizia Penitenziaria che il carcere lo vivono quotidianamente nella prima linea delle sezioni detentive, svolgendo quotidianamente il servizio con professionalità, zelo, abnegazione e soprattutto umanità in un contesto assai complicato per l’esasperante sovraffollamento”. Capece ricorda poi che “nei primi sei mesi del 2012, nelle sovraffollate carceri campane, i detenuti hanno posto in essere 279 atti di autolesionismo e 42 tentativi di suicidio: le morti per cause naturali in carcere sono state 8. 56 sono stati i ferimenti e 299 le colluttazioni”. “La manifestazioni di protesta individuali - continua Capece - hanno visto 258 detenuti fare nel corso dell’anno lo sciopero della fame, 130 rifiutare il vitto, 36 detenuti coinvolti in proteste violente con danneggiamento o incendio di beni dell’Amministrazione penitenziaria”. Per dare risposte ai detenuti, e per “avere un nuovo Capo della Polizia Penitenziaria e un ricambio dei vertici del Dipartimento di Amministrazione Penitenziaria (Dap)”, il Sappe ha indetto per il 23 gennaio una manifestazione a Roma, le cui ragioni saranno spiegate nel corso della conferenza stampa. “Servono risposte concrete ad un problema grave come il sovraffollamento penitenziario - ammonisce - quello che invece non serve è la delegittimazione del ruolo di sicurezza affidato alla Polizia Penitenziaria, come invece previsto da una nota del Capo Dap Tamburino che vorrebbe consegnare le carceri all’autogestione dei detenuti attraverso fantomatici patti di responsabilità”. “Una nota - prosegue Capece - che il Vice Capo Pagano cerca di presentare in giro come una positiva rivoluzione normale delle carceri, favoleggiando di un regime penitenziario aperto, di sezioni detentive sostanzialmente autogestite da detenuti previa sottoscrizione di un patto di responsabilità favorendo un depotenziamento del ruolo di vigilanza della Polizia Penitenziaria ma mantenendo però in capo ai Baschi Azzurri il reato di colpa del custode (articolo 387 del Codice penale)”. “Di fatto, da quando è operativa questa disposizione del Dap - sottolinea il segretario Sappe - abbiamo constatato un aumento di aggressioni, di suicidi, dei tentati suicidi sventati per fortuna sventati dai poliziotti penitenziari, delle evasioni e di quelle tentate, delle risse e degli atti di autolesionismo”. Udine: detenuto 70enne muore poco dopo il ricovero in ospedale, doveva scontare meno di 4 anni Messaggero Veneto, 21 gennaio 2013 Savino Finotto, 70 anni, di Staranzano era in cella da dicembre per espiare una condanna di 3 anni e 9 mesi. Una guardia l’ha trovato già in condizioni molto gravi, ha dato l’allarme. Portato in ospedale, è morto poco dopo. Inchiesta della Procura. Era arrivato nel carcere di Udine a fine dicembre, per espiare una condanna di 3 anni e 9 mesi. Ma nella notte di sabato scorso si è sentito improvvisamente male ed è stato trasferito nel reparto di Terapia intensiva dell'ospedale cittadino, dove è morto di lì a poche ore. Sul decesso di Savino Finotto, 70 anni, di Staranzano, ora, la Procura di Udine intende fare chiarezza. Il medico legale Lorenzo Desinan effettuerà l'autopsia sul suo corpo nel pomeriggio di giovedì. L'obiettivo del procuratore capo, Antonio Biancardi, è stabilire le cause esatte che ne hanno determinato la morte. L'uomo, che si trovava in una cella riservata a detenuti con problemi di deambulazione, è stato trovato in condizioni già molto gravi dall'agente addetto al giro notturno di controllo. Chiamati la guardia medica della casa circondariale e il personale del 118, era stato immediatamente trasportato al "Santa Maria della Misericordia". Da quel momento, però, non aveva più preso conoscenza. Gli accertamenti sono stati delegati alla sezione di Pg della Polizia di Stato. Oristano: il carcere di Massama è nuovo di zecca… ma sembra un lager di Laura Eduati Huffington Post, 21 gennaio 2013 Un carcere nuovo di zecca dove piove dal tetto, il cibo è scarso, le porte delle celle rimangono sempre chiuse e la palestra è inagibile. A pochissimi giorni dalla condanna di Strasburgo che definisce “inumane e degradanti” le condizioni dei detenuti nei penitenziari italiani, la lettera di 35 condannati descrive la situazione nel carcere “Salvatore Soro”, inaugurato da una manciata di settimane nella frazione Massama di Oristano, descritto sulla carta come “carcere modello” e invece già sottoposto a interventi di ristrutturazione. Il taglio del nastro è avvenuto negli ultimi giorni di novembre 2012, in fretta e furia per rimediare al sovraffollamento degli altri istituti sardi. Eppure sembra andare quasi tutto storto. Così un gruppo di detenuti ha preso carta e penna per descrivere quello che succede: “Non esiste la socializzazione né nelle celle né nell’apposita saletta. Non funziona la palestra né il campo sportivo né è possibile svolgere alcuna attività ginnica. Perfino il cibo è scarso e per dotarsi di qualche tegame si devono fare acrobazie. La situazione è ancora più critica relativamente al vestiario che è ridotto allo stretto necessario e chi non ha colloqui con i familiari non può neanche lavarsi i panni in quanto è vietato stenderli”. Costretti e rimanere dietro le sbarre, senza alcun programma di rieducazione, i firmatari sono preda della depressione: “Le porte delle celle sono sempre chiuse e spesso vengono chiusi gli spioncini. Anche le docce funzionano solo a tratti e così il riscaldamento”. La fretta con la quale il ministero della Giustizia ha voluto aprire il nuovo edificio carcerario, accusano anche i sindacati di polizia penitenziaria, è la ragione del malfunzionamento degli impianti tecnologici che dovrebbero aprire e chiudere automaticamente le celle - senza dunque l’intervento degli agenti. La missiva è arrivata nelle mani di Maria Grazia Caligaris, ex consigliera regionale della Sardegna e presidente dell’associazione Socialismo Diritti e Riforme: “Sappiamo che quando apre un nuovo penitenziario ci vogliono tempi lunghi per mettere in funzione i servizi, ma questo disagio è scandaloso”. Per il provveditore regionale del Dap, Gianfranco De Gesu, le condizioni del carcere di Oristano-Massima sono invece “quasi alberghiere”: “Ogni cella ospita due detenuti e se l’acqua calda è erogata secondo fasce orarie è per risparmiare”. Non nega, De Gesu, che la struttura abbia dovuto essere parzialmente rifatta a causa di difetti di costruzione: la ditta non aveva previsto una guaina di impermeabilizzazione nelle docce e sotto il tetto e così, dopo nemmeno 24 ore, si sono verificate vistose infiltrazioni nelle celle. Un assurdo difetto di progettazione, ancora più grave visto il costo della costruzione del penitenziario: 40 milioni di euro. Delle quattro nuove case circondariali volute dall’allora ministro della giustizia Roberto Castelli, oltre a Oristano-Massima è stata aperta una struttura a Tempio Pausania mentre attendono quella di Uta (Cagliari) e Sassari. Quello che preoccupa maggiormente i detenuti - coloro che hanno firmato la lettera sono 35 su 161 presenti - è comunque la qualità della vita. Pessima. Alcuni di loro provengono dal carcere che sorgeva nel centro di Oristano, ospitato da un edificio di origine medievale e fatiscente dove topi e scarafaggi erano ormai abituali compagni di cella. Con il trasferimento nella nuova struttura avevano sperato di trovare un sistema migliore: “Non possiamo nemmeno acquistare prodotti per la pulizia delle celle. Se queste sono le condizioni in cui siamo costretti a sopravvivere allora è meglio che venga ripristinata la pena di morte”. Piacenza: Sappe, detenuto italiano tenta suicidio, salvato da intervento agente Ansa, 21 gennaio 2013 Un detenuto italiano di 48 anni ha tentato il suicidio oggi nel carcere di Piacenza. Lo ha reso noto il sindacato di polizia penitenziaria Sappe, spiegando che l’uomo, approfittando dell’assenza del compagno di cella che si trovava nella saletta della socialità, insieme agli altri compagni di detenzione, dopo aver fatto un rudimentale cappio con dei lacci che ha legato all’armadietto del bagno ci ha infilato la testa e si è lanciato in avanti. Solo grazie al pronto intervento di un agente della polizia penitenziaria, in servizio nella sezione detentiva, è stato evitato il peggio. L’uomo era rientrato a Piacenza dopo aver trascorso 40 giorni all’ospedale psichiatrico. “Grande professionalità ed attenzione da parte della polizia penitenziaria nell’espletamento dei propri compiti ma purtroppo - afferma il segretario generale aggiunto del Sappe, Giovanni Battista Durante - nulla cambia all’interno delle carceri, dove continuano i tentativi di suicidio, i suicidi, le aggressioni e tutti quegli eventi critici che aggravano ancora di più il lavoro degli agenti, lasciati da soli a fronteggiare un’emergenza ormai cronica, da vero e proprio bollettino di guerra. Ogni anno sono più di mille i detenuti che vengono salvati dalla polizia penitenziaria, nonostante le gravi difficoltà operative, derivanti dal sovraffollamento e dalla carenza di organico”. Lucca: rinnovare il protocollo d’intesa per la formazione dei detenuti idonei… In Toscana, 21 gennaio 2013 Nel 2012 sono due i soggetti che hanno frequentato distinti percorsi formativi gestiti da cooperative locali. Sarà riconvocato prima della metà di febbraio dalla Provincia (ente capofila) il tavolo istituzionale per il rinnovo del “Protocollo carcere” che, tra l’altro, prevede una specifica attività formativa per alcuni detenuti. Lo annunciano congiuntamente gli assessori provinciali Mario Regoli (politiche formative) e Federica Manieri (politiche sociali) i quali intendono rinnovare in questo ambito la collaborazione tra amministrazione provinciale e Direzione del “S. Giorgio” di Lucca per continuare a promuovere iniziative di formazione professionale come quelle attivate nel 2012 che hanno portato due detenuti a frequentare specifiche lezioni legate ad ambiti lavorativi diversi. La Provincia, attraverso il Centro per l’impiego di S. Vito e la Direzione del carcere, infatti, dopo la riattivazione dell’attività di sportello svolta dalla struttura provinciale, intendono proseguire con la formazione per i detenuti con l’obiettivo di favorire il loro reintegro nel società anche attraverso l’ingresso o il reingresso nel mercato del lavoro. “Il bilancio dell’attività dell’anno appena conclusosi - spiegano il Direttore del carcere Francesco Ruello e il responsabile del Centro per l’Impiego Giuseppe Fanucchi - è di tutto rispetto anche se i numeri potrebbero far pensare al contrario. Tra i 10 soggetti inizialmente individuati come idonei al percorso formativo (svolto in esterno) ne sono stati selezionati 4. Due di questi stanno frequentando i corsi, degli altri due uno ha rinunciato per motivi personali e l’altro aveva finito la sua pena detentiva”. Nello specifico i corsi frequentati sono quello per operatore di pannelli fotovoltaici curato dalla cooperativa Sol&Co, e l’altro relativo all’inclusione sociale nel settore agricolo e della ristorazione biologica gestito dalla cooperativa Zefiro. La partecipazione alle attività formative è stata possibile grazie alla applicazione dell’art. 21 della legge 354/75 che consente l’uscita dei detenuti idonei dalla casa circondariale per partecipare alle lezioni e alle esercitazioni pratiche. Da sottolineare, infine, che l’attività di sportello curata dagli operatore del Centro per l’impiego si svolge all’interno del carcere con la differenza, rispetto al passato, che i detenuti incontrano i consulenti dopo la preselezione effettuata dalla direzione della casa circondariale. In particolare vengono avviati ai colloqui coloro che sono vicini alla fine della pena detentiva o hanno le caratteristiche per ottenere i benefici della legge 354/75. Napoli: detenuti tossicodipendenti al lavoro in sito archeologico Gaiola Adnkronos, 21 gennaio 2013 Sarà presentato domani, alle ore 12, nella sala della Giunta di Palazzo San Giacomo, sede del Comune di Napoli, il progetto “Gaiolavoriamo insieme”, rivolto a tossicodipendenti detenuti in regime di misure alternative alla detenzione. Il progetto patrocinato dall’Assessorato al Welfare guidato dall’assessore Sergio D’Angelo, nasce dall’incontro delle rispettive esperienze maturate dal Centro studi interdisciplinari Gaiola onlus e dal Sert Centro Palomar Asl Napoli 1, d’intesa con la Soprintendenza speciale per i Beni archeologici di Napoli e Pompei. Il progetto vuole contribuire a costruire strategie per ridurre l’affollamento delle carceri implementando progetti di socializzazione e inclusione sociale per i tossicodipendenti detenuti nelle carceri napoletane. Le attività del progetto “Gaiolavoriamo insieme” si realizzeranno nell’ambito dell’opera di manutenzione e di recupero del Parco marino della Gaiola, di inestimabile valore archeologico e ambientale, già avviato dal Csi Gaiola Onlus e dalla Soprintendenza. Il Parco della Gaiola pur essendo uno dei siti naturali e archeologici più rilevanti del territorio napoletano, viveva fino a pochi anni fa in uno stato di degrado ed abbandono. La sinergia tra la Soprintendenza e la Csi Gaiola Onlus ha valorizzato con costi contenuti l’area archeologica, restituendola alla cittadinanza anche per la balneazione. Il progetto “Gaiolavoriamo insieme” amplifica le sinergie istituzionali già messe in atto garantendone la continuità: gli attori del progetto sono persone che scontano una pena con una misura alternativa alla detenzione, che realizzano azioni di manutenzione, pulizia, educazione ai valori ambientali e artistici dell’area, dando così un contributo attivo al loro recupero e alla conservazione. Napoli: Cardinale Sepe; necessaria riforma delle carcei, la rieducazione è primo obiettivo Il Mattino, 21 gennaio 2013 Il cardinale: tutelare anche la dignità di chi ha sbagliato. La Chiesa è in prima linea. Un appello al futuro governo “affinché sia attuata una riforma della normativa penale per guardare più alle persone che al fatto” è stato lanciato dal cardinale Crescenzio Sepe, concludendo ieri nella sala riunione del Basilica di Capodimonte i lavori del convegno diocesano sul volontariato carcerario. “Bisogna creare intorno alla persona che ha sbagliato - ha proseguito Sepe - un sistema che si preoccupi non solo dell’errore commesso ma anche del futuro delle stesse persone”. Negli istituti di pena, ha aggiunto l’arcivescovo di Napoli, “il primo obiettivo deve essere quello della rieducazione e quindi bisogna tener conto della dignità dei reclusi”. La Chiesa proseguirà a garantire, ha assicurato infine il presule, la sua opera “attraverso l’opera dei volontari, dei religiosi”. Ne corso del convegno diocesano è intervenuto don Virgilio Balducci, ispettore capo dei cappellani penitenziari, secondo cui la giustizia non deve essere “intesa come un pareggio di conti” ma deve essere un percorso che porti alla rieducazione. “Innanzitutto dobbiamo interrogarci - ha affermato don Balducci - su quale tipo di giustizia realmente vogliamo. La giustizia vera è quella che salva e non è quella che semplicemente condanna”. Non bisogna però dimenticare, ha ammonito don Virgilio, “le vittime dei reati, la loro sofferenza ma è sempre possibile procedere su percorsi di riconciliazione”, che normativamente si potrebbero tradurre “nella mediazione penale che va a vantaggio di tutti”. Per migliorare le condizioni di vita nelle carceri bisognerebbe dare piena attuazione all’ordinamento penitenziario: è questo l’appello che è arrivato infine dal direttore dell’Ufficio per l’attività ispettiva e di controllo del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria), Francesco Cascini, che ha ricordato quanto stabilisce l’articolo 6 dell’ordinamento penitenziario, che prevede negli istituti di pena, oltre alle camere di pernottamento, anche refettori e spazi per la socializzazione. Ma sono davvero pochi gli istituti che dispongono di tutti questi spazi. E non va trascurato il fatto che in numerose carceri il vero problema è quello del sovraffollamento. Iran: impiccati autori di rapina-shock con machete Ansa, 21 gennaio 2013 In Iran sono stati impiccati oggi gli autori di una rapina che aveva destato scalpore nel paese dato che era stata condotta usando un machete e le immagini dell’aggressione erano state diffuse sulla tv pubblica dopo che su internet. Lo riferisce l’agenzia iraniana Isna. Nel video di 37 secondi postato su Youtube, peraltro censurata in Iran e a stento utilizzabile anche con i software anti-censura a causa delle lentezze della rete iraniana, si erano visti quattro uomini mascherati avvicinare in moto la vittima all’uscita di una banca: due dei rapinatori l’avevano aggredito strappandogli borsa e cappotto e colpendolo col lungo coltello simile ad un machete prima di allontanarsi. Le immagini avevano destato scalpore sui media e le autorità giudiziarie avevano promesso di punire i rapinatori con la prevista pena capitale. I due, sui vent’anni, sono stati riconosciuti colpevoli di “Moharebeh” (guerra contro Dio) e, a dicembre, era scattata la condanna a morte per impiccagione eseguita stamani usando due alti bracci meccanici quando era ancora notte a Teheran. “La questione della sicurezza della nostra gente è più importante anche del pane quotidiano”, aveva detto al momento della condanna il capo dell’apparato giudiziario iraniano, Sadeq Larijani, sottolineando che quell’aggressione aveva causato una “sensazione di insicurezza” in Iran. I due complici sono stato condannati a dieci anni di carcere e 74 frustate, precisa l’Isna. L’Iran è fra i paesi che fa maggior ricorso alla pena di morte. Iraq: nazionale calcio sconfitta, guardie torturano 20 detenuti connazionali arbitro saudita Aki, 21 gennaio 2013 Follia in un carcere iracheno dopo la finale di Coppa del Golfo persa dall’Iraq contro gli Emirati per 2 a 1. Alcuni secondini avrebbero picchiato e “torturato” 20 detenuti sauditi per vendetta contro il comportamento dell’arbitro, il loro connazionale Khalil al-Ghamdi, che per i carcerieri avrebbe provocato la sconfitta della loro nazionale. A denunciare l’accaduto all’emittente al-Arabiya è stato Thamer Balheed, direttore della commissione che si occupa delle condizioni dei detenuti sauditi in Iraq. Secondo Balheed, a fomentare la rabbia delle guardie sarebbero state le accuse di parzialità rivolte all’arbitro dal giornalista a cui era stata affidata la telecronaca dell’atteso incontro. La denuncia delle “torture” sui detenuti giunge in una fase di rilancio dei rapporti tra Iraq e Arabia Saudita, i cui governi di recente hanno anche discusso di un possibile scambio di prigionieri. Balheed in passato aveva affermato che oltre 60 detenuti sauditi sono rinchiusi nelle carceri irachene, la maggior parte in condizioni deplorevoli. Georgia: amnistia per i detenuti politici, il presidente sotto attacco di Giovanni Bensi www.eastjournal.net, 21 gennaio 2013 Tutte le notizie più o meno significative che negli ultimi mesi provengono dalla Georgia, parlano della pressione a cui sono sottoposti i sostenitori del presidente Mikheil Saakashvili e della graduale riduzione delle prerogative del capo dello stato. Questa tendenza, a giudicare dalle ultime dichiarazioni del premier Bidzina Ivanishvili, l’oligarca leader del partito di maggioranza “Kartuli otsnebi” (“Il sogno georgiano”) potrebbero anche arrivare alla piena estromissione di Saakashvili dalla vita politica del paese, e per giunta in tempi abbastanza rapidi. Intanto in Georgia è entrata in vigore la legge di amnistia più ampia nella storia del paese. Questa legge era stata approvata dal parlamento nel dicembre 2012 e successivamente firmata dal presidente del parlamento David Usupashvili dopo che si era rifiutato di farlo il capo dello stato, Saakashvili. Fra i beneficiari dell’amnistia vi sono 190 persone riconosciute dal parlamento in novembre-dicembre 2012 come detenuti politici. Queste persone sono state liberate in massa dalle varie prigioni, nel giro di due ore, il 13 gennaio 2013. Le televisioni locali hanno mostrato scene di liberazione di coloro che erano stati arrestati nel 2005-2011 per aver partecipato attivamente a varie manifestazioni dell’opposizione. In base alla legge nei prossimi due mesi, dopo le procedure previste dalle regole in vigore, saranno liberati circa 3.000 detenuti condannati per reati lievi o colposi e per diversi reati di carattere economico. L’assoluta maggioranza dei carcerati, se non verranno messi in libertà, godranno di una riduzione di pena. Il 27 dicembre dell’anno scorso Saakashvili pose il veto proprio a quella parte della legge che riguarda l’amnistia ai detenuti politici. Egli definì “sbagliata l’inclusione nell’elenco dei prigionieri politici di alcune persone condannate per spionaggio a favore della Federazione Russa e di alcuni militari condannati nel 2009 per aver tentato di rovesciare il potere statale”. Tuttavia “Il Sogno georgiano” definì queste dichiarazioni di Saakashvili “un tentativo di giustificare gli arresti illegali e le persecuzioni per motivi politici”. Il 28 dicembre il parlamento, per la prima volta nella storia della Georgia non tenne conto di un veto opposto dal presidente. Il giorno precedente, il 27 dicembre , in un’intervista alla compagnia televisiva Imedi (“Speranza”) il premier georgiano aveva ammesso di aver personalmente provocato, per così dire, “a bella posta”, l’arresto di alcuni funzionari dell’amministrazione di Saakashvili. “Per guarire una malattia di solito in principio la si acutizza e poi, quando essa si manifesta in pieno si incomincia a curarla”: questa la curiosa ricetta proclamata da Ivanishvili. A detta dello stesso premier, nessuno del “Sogno georgiano” sapeva che “il suo leader provocasse apposta dei processi”. Il premier ha poi fatto il seguente ragionamento: “Io a ragion veduta non mi sono mai immischiato in quello che funzionari e burocrati facevano nella prassi quotidiana. Non ho mai dato indicazioni agli organi preposti all’ordine pubblico su come dovessero operare, anche se avrei potuto bloccare quegli arresti che suscitavano particolare allarme negli europei e negli americani, oltre che nella maggior parte della popolazione georgiana. Il mio scopo era di smascherare sia di fronte ai partner stranieri che alla Georgia stessa il sistema criminale creato da Saakashvili, per essere in grado più tardi di strappare il paese a questo sistema”. Contemporaneamente “volevo curare lo stesso Saakashvili”, ha concluso il primo ministro. Comunque le “rivelazioni” sul passato del miliardario georgiano, da un momento all’altro divenuto il più popolare leader del paese, non sono così interessanti come i suoi piani per il futuro. Attualmente in Georgia si sente dire sempre più spesso che i cambiamenti politici sono da aspettarsi in aprile quando si compiranno sei mesi dal momento in cui si è insediato il nuovo parlamento e il presidente, secondo la Costituzione in vigore, avrà il diritto di sciogliere l’assemblea legislativa e di indire nuove elezioni. Cina: nuovo annuncio abolizione campi lavoro, ma c’è scetticismo tra gli osservatori Ansa, 21 gennaio 2013 Un alto funzionario cinese ha affermato che la chiusura dei campi di lavoro noti come “laojiao” è “imminente”, secondo la stampa cinese. Il funzionario, Chen Jiping della China Law Society, ha precisato in un’intervista al quotidiano China Daily che la chiusura deve essere sanzionata dall’Assemblea Nazionale del Popolo (Npc nella sigla inglese), il Parlamento cinese che terrà in marzo la sua sessione annuale. I laojiao non vanno confusi con i laogai - i campi di lavoro nei quali si veniva mandati dopo una condanna penale - che sono stati aboliti nel 1997 (ma che secondo molti esistono ancora, anche se vengono chiamati prigioni). La detenzione nei laojiao è una misura amministrativa decisa dalle autorità di polizia, che possono infliggere condanne fino ai 3 anni senza che sia necessario l’intervento della magistratura. Nei laojiao sono detenuti di solito piccoli criminali, come gli spacciatori di droga al dettaglio e le prostitute. L’annuncio della chiusura dei laojiao era stato già dato due settimane fa in dichiarazioni attribuite ad un membro del potente Politburo comunista, ma era sparito da Internet dopo un paio di giorni, suscitando dubbi tra gli osservatori. Russia: detenuto gli paga vacanze in Egitto, direttore del carcere condannato a 3 anni Ansa, 21 gennaio 2013 Aveva accettato di farsi pagare da un detenuto le vacanze in un hotel egiziano di lusso in cambio di una cella migliore e dell’uso del telefonino, ora però l’ex direttore del carcere di San Pietroburgo è stato condannato a tre anni di reclusione con la condizionale, ad una multa pari a 12 mila euro e a tre anni di interdizione dai pubblici uffici. Lo riferisce il quotidiano Kommersant. L’ex dirigente del penitenziario, Nikolai Nesterenko, non aveva disdegnato dal carcerato neppure alcuni cellulari. La clemenza dei giudizi è stata spiegata con il fatto che l’ex direttore ha riconosciuto la sua colpa e collaborato con gli inquirenti.