Giustizia: elezioni politiche 2013… i problemi delle carceri nei diversi programmi www.leggioggi.it, 17 gennaio 2013 Riforma della giustizia: se c’è un tema che al pari dell’economia ha occupato l’agenda degli ultimi governi, è indubbiamente lo stato del sistema giudiziario in Italia. Più volte, si è accennato a misure drastiche, così come a leggi o leggine per ridefinire la durata dei processi, per limitare le intercettazioni, per cambiare i termini di prescrizione e via dicendo: ambiti esplosivi, che hanno sempre accompagnato le proposte di nuove normative a furenti polemiche. Non ha fatto specie forse l’unico, vero riassetto dell’impalcatura della giustizia andato a buon fine negli ultimi tempi, quello, cioè, varato dal ministro Severino nell’orbita della spending review, che ha portato alla scomparsa di circa 300 uffici dei Giudici di pace e la soppressione dei cosiddetti “tribunalini”. Eppure, tra tempi biblici di attesa delle sentenze - soprattutto sul fronte civile - e carceri in perenne sovraffollamento - ricordiamo a tal proposito la recente condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo - quella giudiziaria non può assolutamente essere esclusa dal novero delle emergenze del Paese. Su questo, per lo meno, le forze politiche sono tutte concordi. Così, con le elezioni alle porte, i vari schieramenti in campo dedicano ampio spazio dei loro programmi a questo tema, sul quale emergono visioni magari in forte contrasto, ma concordi su un unico, fondamentale punto di fondo: la giustizia è una priorità del Paese. Centrosinistra: la coalizione guidata da Pier Luigi Bersani presenta una carta d’intenti dettagliata per l’universo giustizia, affrontando tante delle questioni centrali che spesso si ripropongono. Innanzitutto, viene posto l’accento sulla necessità di un ripensamento globale dell’architettura, per dare vita a una “rivoluzione graduale e condivisa, una Costituente della Giustizia”. Questo, quantomeno, per il lungo periodo. Per l’immediato, invece il Partito democratico si fa portavoce dell’urgenza di stilare un calendario per le cause civili, con l’indicazione di precisi termini di decadenza. Inoltre, viene postulata l’irrinunciabilità di allargare anche ai Giudici di pace residui l’incompatibilità territoriale. Passando al penale, quindi, notiamo come sul centrosinistra prevalga la linea di ribadire l’obbligatorietà dell’azione, impostando, però, l’archiviazione delle accuse anche qualora queste si rivelino particolarmente flebili o, ancora, si sia manifestata “irrilevanza penale del fatto”. Inoltre, si avanza l’ipotesi di rivedere l’iter di custodia cautelare che spesso riempie oltremodo le carceri di tanti in attesa di giudizio; sempre in tema carceri, viene proposto di assumere più addetti di Polizia penitenziaria, assistenti sociali, psicologi. Inoltre, Bersani e i suoi spingono per un’ulteriore digitalizzazione degli atti processuali, proponendo infine, per la magistratura, l’istituzione di un organo di controllo sul rispetto dei doveri da parte dei suoi aderenti. Centrodestra: come noto, Silvio Berlusconi, vuoi per coinvolgimenti personali, vuoi per reale convinzione, ha sempre manifestato la volontà di cambiare radicalmente la giustizia. A questo proposito, il Pdl enuncia 13 punti indispensabili per affrontare una volta per tutte il nodo del sistema giudiziario. Alcuni tra gli intendimenti del partito del Cavaliere, sono noti da tempo: separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti, responsabilità civile dei magistrati, le cui carriere dovranno seguire i meriti e non l’età anagrafica, stretta al ricorso alle intercettazioni, con divieto di pubblicazione sugli organi di informazione. Quindi, altro punto sui generis del programma berlusconiano è quello di dichiarare inappellabili le sentenze di assoluzione, promuovendo, infine, un giro di vite sugli incarichi fuori ruolo dei magistrati. Passando ai penitenziari, il Pdl auspica che si potenzi il principio del lavoro all’interno delle carceri italiane, concordando, invece, col Pd in fatto di informatizzazione degli atti processuali e calcando la mano sul principio del “giusto processo”. Infine, si promette di inasprire le pene per i reati contro il patrimonio, tagliando i tempi della giustizia civile e istituendo una sezione del Consiglio di Stato al Nord. Centro: lo schieramento guidato da Mario Monti ha il proprio manifesto politico nell’Agenda che prende il nome del premier uscente. Senza dubbio, Monti e i suoi continueranno, anche sul fronte della giustizia, sul solco aperto con le misure dell’anno di governo tecnico, anche se il capitolo dedicato a processi e carceri è tra gli ultimi, e tra quelli trattati più frettolosamente, nell’elenco stilato dalla carta programmatica. In particolare, si accenna al ripristino della disciplina sul falso in bilancio, alla riduzione dei termini di prescrizione per prevenire i reati gravi, disciplinando l’ambito delle intercettazioni. Movimento 5 Stelle: i grillini, nel loro programma reperibile online, non dedicano una sezione specifica al tema della giustizia, che è presente in ordine sparso tra i punti principali della battaglia aperta dal comico sul suo blog. Così, tra riduzione degli sprechi, trasparenza e amministrazione al servizio del cittadino, spuntano l’insegnamento della Costituzione con obbligatorietà di esame per ogni funzionario pubblico, la cancellazione del lodo Alfano, l’ineleggibilità a cariche pubbliche dei condannati. Quindi, si segnala la proposta di pubblicare le leggi in rete almeno tre mesi prima della loro promulgazione e la contestuale abolizione delle varie Authority. Fare per fermare il declino: l’outsider Oscar Giannino, nei suoi intenti, propone la distinzione delle carriere tra magistrati e la progressione in base ai meriti, con corrispondente eliminazione del principio di anzianità. Il movimento del giornalista, punta a difendere con ogni mezzo l’indipendenza della magistratura, intendendo sia i pm che i giudici, e introducendo la garanzia di un procedimento “terzo” per valutare l’operato delle toghe. Quindi, viene enunciata come non rinviabile la decongestione del carico pendente in sede di giustizia civile, con disincentivo economico per gli avvocati a prolungare la durata dei processi. Per il penale, freno alla carcerazione preventiva, certezza della pena, potenziamento del sistema informatico delle notifiche. Sul tributario, Fare propone di accrescere gli strumenti della sospensiva, mentre, sul tema carceri, vengono richiamate le pene alternative come risposta all’affollamento record. Giustizia: carceri inumane per i poveri, amnistia strisciante per chi può pagare… di Valter Vecellio (direzione Radicali italiani) Il Piccolo, 17 gennaio 2013 Ha ragione il professor Mitja Gialuz quando, nel suo intervento apparso di recente su queste pagine, scrive: “Sarebbe semplicistico limitarsi a proporre l’adozione di un provvedimento clemenziale (amnistia e indulto)”; semplicistico e stupido. Ma né Marco Pannella né i Radicali - credo vada riconosciuto - sono stupidi. Così come ha ragione ad auspicare che il tema delle carceri (e della giustizia in generale) entri nel dibattito pubblico in vista delle prossime elezioni politiche e noi, oltre ad auspicarlo, stiamo facendo di tutto perché ciò avvenga. Perciò gli chiediamo di essere al nostro fianco per raccogliere le firme per presentare la Lista “Amnistia, Giustizia e Libertà”. Abbiamo tempo fino a domenica e i punti di raccolta sono segnalati, per Trieste, sul sito radicalifvg.it. Per entrare ora nel dettaglio dell’intervento di Gialuz va detto che l’iniziativa politica per l’amnistia. Pannella e i radicali lo hanno sempre detto con la massima chiarezza, ovunque è stata data loro la possibilità di farlo - è solo il primo passo per quella urgente, “impellente” riforma della giustizia. L’amnistia si impone per due ragioni: la prima per decongestionare la drammatica e disumana situazione delle nostre carceri. Cito dati ufficiali, forniti dal dipartimento per l’Amministrazione penitenziaria: “I detenuti presenti nelle 206 carceri italiane sono 66.732. Di questi 26.552 sono in attesa di giudizio”. Almeno la metà, secondo le proiezioni del Consiglio Superiore della Magistratura, finiranno con l’essere dichiarati innocenti, estranei ai fatti a loro addebitati. Significa che stanno scontando una pena che non meritano; e la scontano in una situazione a dir poco allucinante: è lo Stato, insomma, che per primo che viola la sua stessa legge! Nelle nostre carceri sono rinchiuse ben 26mila persone più della massima capienza. E questo senza contare le decine di suicidi e morti per cattiva o mancata assistenza ogni anno. La seconda ragione è che l’infame situazione delle carceri è solo la punta dell’iceberg del più generale sfascio della giustizia italiana. Anche i tribunali e gli uffici giudiziari, sommersi da migliaia di procedimenti di ogni tipo e natura, sono al collasso. Occorre “liberare” i magistrati dalle centinaia di procedimenti destinati comunque a “morire”, a finire carta straccia. Perché ogni giorno si consuma quella che si può ben definire amnistia strisciante, clandestina e di classe: è l’amnistia delle prescrizioni, di cui beneficia solo chi si può permettere un buon avvocato e ha “buone amicizie”; clandestina perché è tenuta nascosta, non se ne parla e non se ne deve parlare: sono circa 150mila i processi che ogni anno vengono chiusi per scadenza dei termini. Nel 2008, oltre 154mila procedimenti sono stati archiviati per prescrizione; nel 2009 oltre 143mila. Nel 2010 circa 170mila… Quest’anno si calcola che si possa arrivare a circa 200mila prescrizioni. Ogni giorno almeno 410 processi vanno in fumo, ogni mese 12.500 casi finiscono in nulla. I tempi del processo sono surreali: in Cassazione si è passati dai 239 giorni del 2006 ai 266 del 2008; in tribunale da 261 giorni a 288; in procura da 458 a 475 giorni. Spesso ci vogliono nove mesi perché un fascicolo passi dal tribunale alla corte d’appello. Una situazione, a parte gli irrisarcibili costi umani, che grava pesantemente sui conti dello Stato. I processi per ingiusta detenzione o per errore giudiziario nel 2011 hanno comportato risarcimenti pagati dallo Stato per 46 milioni di euro. L’esasperante lentezza dei processi penali e civili italiani costano all’Italia qualcosa come 96 milioni di euro l’anno di mancata ricchezza. La Confindustria stima che smaltire l’enorme mole di arretrato comporterebbe automaticamente per la nostra economia un balzo del 4,9 per cento del Pil, e anche solo l’abbattere del 10 per cento i tempi degli attuali processi, procurerebbe un aumento dello 0,8 per cento del Pil. Grazie al cattivo funzionamento della giustizia le imprese ci rimettono oltre 2 miliardi di euro l’anno. Per tutte queste ragioni i radicali chiedono e si battono per l’amnistia. Per mettere in moto quel meccanismo virtuoso che altrimenti resterà, come è rimasto finora, inceppato. La lista di “scopo” per l’Amnistia, la Giustizia e la Libertà ha appunto questo obiettivo. I radicali, Pannella offrono un’”agenda”, come si dice ora. C’è chi ha proposte migliori e alternative per uscire da questo sfascio? Al momento si sente solo un assordante silenzio. Giustizia: Bersani (Pd); no all’amnistia, sì a pene alternative e seria depenalizzazione Agi, 17 gennaio 2013 “Noi non siamo per delle amnistie perché il giorno dopo si è daccapo, siamo per usare molto di più le cosiddette pene alternative e ricorrere a delle significative depenalizzazione. Bisogna sfoltire la presenza nelle carceri perché è veramente inumana”. Lo ha detto Pier Luigi Bersani a “Italia domanda” su Canale 5. Giustizia: intervista ad Andrea Orlando (Pd) “l’amnistia? rischia di essere una lotteria” di Gaetano Veninata Public Policy, 17 gennaio 2013 No all’amnistia, la questione carceri va risolta alla radice. E su anticorruzione e riforma forense dovremo lavorare per migliorare i testi votati la scorsa legislatura. Parola di Andrea Orlando, spezzino classe 1969, ex Pci-Pds-Ds, oggi responsabile Giustizia e portavoce nazionale del Pd (dal 2008) e capolista in Liguria alla Camera alle prossime politiche. D. Quali devono essere le priorità del prossimo governo per quanto riguarda la giustizia? R. Le priorità devono essere sicuramente la riforma della giustizia civile, la questione dell’emergenza carceri e più in generale l’assetto organizzativo. Questi sono i tre punti essenziali. D. La legge anticorruzione del ministro Severino va ritoccata? R. Assolutamente sì, vanno rivisti alcuni punti che riguardano il tema dell’autoriciclaggio, la reintroduzione del reato del falso in bilancio (che è una delle cause per le quali si riesce a realizzare la provvista per la corruzione) e poi probabilmente anche un inasprimento dell’ineleggibilità per le cariche istituzionali. D. Cosa fare per le carceri? R. Intanto approvare rapidamente i provvedimenti che sono rimasti a metà, penso a quello sulle pene alternative che è stato approvato dalla Camera ma non ancora dal Senato, poi portare avanti un provvedimento di depenalizzazione anche come elemento di alleggerimento del sistema penale. E ancora: una seria politica di integrazione tra carcere e territorio, tornare a investire sul fronte del reinserimento, rilanciare il lavoro in carcere. Insomma: tornare a investire nel carcere anche dal punto di vista della riabilitazione. D. Se ci fossero le condizioni parlamentari, sareste favorevoli a provvedimenti di amnistia? R. Noi riteniamo che siano preferibili interventi che affrontino strutturalmente il problema e non in modo congiunturale. D. È un no? R. Diciamo che l’amnistia rischia di essere una sorta di lotteria, perché alla fine ne beneficia soltanto chi si trova in una situazione congiunturale e sta in quel momento in carcere. Invece vorremmo che si trovi un meccanismo per smontare i fattori di carcerizzazione di questi anni. In primo luogo la ex Cirielli (legge del 2005 in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di usura e di prescrizione; Ndr) che è stata una delle cause dell’incremento della carcerizzazione (restringe tempi e ammissibilità per i benefici penitenziari; Ndr). D. E la Fini-Giovanardi sulle droghe? R. Sicuramente va rivista. D. Come? R. Rimettendo al centro il tema della comunità piuttosto che quello del carcere, facendo anche un bilancio su che cosa ha comportato in termini di recidive la carcerizzazione dei tossicodipendenti. D. Come si può abbreviare la durata dei processi senza che ci vada di mezzo la giustizia? R. Per quanto riguarda il civile una prima risposta sarebbe la costituzione di un ufficio per il processo che accompagni il giudice nel lavoro. Per quanto riguarda il penale, ci sono una serie di passaggi che possono essere rivisti, che nati con finalità di garanzia rischiano soltanto di essere strumenti di dilazione: penso alla revisione delle modalità delle notifiche, il ricorso indiscriminato all’appello in Cassazione, penso al tema dei processi contumaciali. E poi va rivisto il rapporto tra udienza preliminare e giudizio di primo grado, che rischiano spesso di essere una duplicazione dello stesso passaggio. D. Rivedrete la riforma dell’ordine forense? R. Ci sono alcune questioni che vanno ritoccate, anche se consideriamo quella uscita dal Parlamento (a fine legislatura; Ndr) una base di partenza accettabile. D. Qual è il suo giudizio in merito alle polemiche sui magistrati in politica? R. In verità è una polemica poco fondata perché se guardiamo ai numeri i magistrati in politica in questa tornata saranno meno che in quella precedente. Io credo che i magistrati siano un pezzo da cui si attinge per la formazione della classe dirigente. La cosa sui cui riflettere è invece l’utilizzo politico, talvolta, delle vicende giudiziarie. Giustizia: Ucpi; carceri e Cie sono nel degrado, è un’emergenza da risolvere al più presto Agenparl, 17 gennaio 2013 Due sentenze che “stigmatizzano” le condizioni di “degrado” delle carceri italiane e dei Cie, dove le violazioni della dignità umana continuano a essere all’ordine del giorno. Così, l’Osservatorio dell’Unione Camere Penali commenta le ultime pronunce che hanno dato ragione alle proteste di detenuti e immigrati dei Centri di identificazione e espulsione. Sulla sentenza “pilota” della Cedu, che ha riconosciuto a un gruppo di reclusi il diritto a “poter godere di condizioni di detenzione adeguate”, l’Osservatorio ricorda come la stessa Cedu abbia fatto notare che “non è un fatto isolato, ma trae origine da un problema sistemico, che deriva da una disfunzione cronica propria del sistema penitenziario italiano, suscettibile di colpire ancora in futuro numerose persone. Peraltro il carattere strutturale del problema trova conferma nelle centinaia di ricorsi pervenuti alla Corte e che continuano ad aumentare”. Il dato “forse più inquietante che emerge dalla sentenza”, fanno notare i penalisti, è l’affermazione che “a causa del sovraffollamento l’Italia pone in essere in modo sistematico e legalizzato trattamenti inumani e degradanti in costante violazione della Carta Costituzionale e della Convenzione Europea”. Nell’attuale situazione di emergenza, l’unica soluzione, aggiunge l’Osservatorio, è un “immediato provvedimento d’indulto e amnistia per consentire di porre mano a quelle riforme che consentano la drastica riduzione dei detenuti e il ripristino della legalità”. E ancora, sulla situazione ancor meno rosea dei Centri di espulsione, l’Osservatorio ricorda la sentenza del Giudice di Crotone che il 12 dicembre scorso ha assolto tre extracomunitari che avevano indetto una protesta all’interno del Cie Sant’Anna di Isola Capo Rizzato a ottobre, scardinando grate, finestre, ringhiere e rubinetterie, lampade e staccando intonaci, salendo sui tetti e lanciando i materiali indicati. “Nella lunga ed articolata motivazione, peraltro contestuale, il Giudice monocratico finisce per ritenere giustificata - concludono i penalisti - la condotta dei trattenuti, stabilendo che essi abbiano agito per difendere i loro diritti fondamentali (dalla libertà personale e alla dignità umana) da una iniqua ed ingiusta aggressione posta in essere”. Giustizia: le carceri italiane sono una discarica sociale di Ilaria Cucchi www.clandestinoweb.com, 17 gennaio 2013 La mia famiglia ha subito l’ennesimo affronto dalla Procura di Roma. Un’altra presa in giro contro chi si è messo in discussione per avere giustizia. I periti incaricati di stabilire le cause della morte di mio fratello, Stefano, hanno detto che la colpa è stata dei medici. È chiaro che si tratti di un processo politico, c’è la volontà che si dica tutto, tranne che mio fratello è stato massacrato dalle forze dell’ordine dello Stato. Mercoledì siamo andati al processo con i nostri consulenti, affinché fossero loro a fare le domande ai periti. I legali hanno accettato la nostra richiesta ma il pm si è opposto. Non riesco a capire, non riesco più a tollerare tutto questo… Siamo stanchi e pretendiamo scuse. Siamo al massacro, io e la mia famiglia abbiamo dato fondo a ogni risorsa economica, abbiamo ipotecato casa per portare avanti le spese del processo. I nostri avvocati ci vengono incontro ma i costi sono comunque altissimi, per non parlare poi dei costi emotivi… E alla fine cosa ci vengono a dire? Che Stefano è morto di fame e di sete? Ormai tutti hanno capito qual è la verità. Si sono addirittura giustificati sostenendo che non avevano un radiologo e che i segni sul corpo di Stefano siano stati causati post mortem. Poi hanno inventato una presunta celiachia che Stefano non ha mai avuto. Ma chi vogliono prendere in giro? Per non parlare poi del fatto che si siano rifiutati di sentire l’unico testimone del pestaggio. Il pubblico ministero oggi si dice soddisfatto, anche se le valutazioni dei periti distruggono la sua tesi iniziale. Tutto questo non è sopportabile, non è immaginabile. Ma cosa abbiamo fatto di male per meritarci tutto questo? Ora mi candido. Non lo faccio per me. Lo faccio per Stefano. In passato tante volte mi è stato chiesto di entrare in politica ma io ho sempre rifiutato. A dire il vero prima non ci avevo mai pensato. Poi, dopo la tragedia che ho vissuto, mi sono avvicinata alle carceri, ai tribunali. Ho visto cose, ho conosciuto storie che meritano di aver voce. Una volta un direttore di un istituto di pena mi ha detto che i suoi problemi per i turni di piantonamento sono più importanti della vita di un detenuto. A Varese, invece, un giudice sta umiliando la famiglia di Giuseppe Uva, riempito di botte in una caserma. Da quattro anni le prove sono chiuse in un cassetto e la sorella è stata anche sbattuta fuori dall’aula del processo. Come d’altronde è successo anche a me. Non è possibile che le vittime di un reato diventino vittime due volte. Non è possibile che un cittadino paghi ciò che non gli è dovuto a causa di un pm, di troppi pm, che non fanno bene il loro lavoro. La giustizia deve essere uguale per tutti. Vorrei che i pm non avessero paura di andare contro il potere. Un paese civile non può permettersi queste cose. Vorrei dire anche basta al carcere per reati minori, sono favorevole all’amnistia e mi voglio fare carico di tutte queste questioni. Qualcuno ha criticato la mia candidatura. Mi hanno detto che lo faccio solo perché ho vissuto quello che ho vissuto. Ma è ovvio che sia così! Solo quando guardi le cose da vicino ti rendi davvero conto della loro importanza. Di carceri, ad esempio, non si parla mai e questo succede perché fa comodo che non si approfondisca il tema e non si scopra la portata dell’emergenza: le carceri italiane sono una discarica sociale! Giustizia: Ilaria Cucchi; in Parlamento mi occuperò dell’inciviltà delle carceri, sì amnistia di Corrado Zunino La Repubblica, 17 gennaio 2013 Ilaria Cucchi, si è candidata con Rivoluzione civile di Antonio Ingroia per avere giustizia nel processo sulla morte di suo fratello? “Di certo non mi sarei mai candidata se non mi fosse capitata questa tragedia. Vorrei occuparmi di cattiva giustizia, sì. Di mio fratello. Un giudice non ha capito che Stefano era stato massacrato di botte solo perché per venti minuti non lo ha guardato in faccia. A Varese un altro giudice sta umiliando la famiglia di Giuseppe Uva, riempito di botte in una caserma. Da quattro anni le prove sono chiuse in un cassetto e la sorella è stata anche sbattuta fuori dall’aula del processo. Già lo so, tutto sarà archiviato”. Ingroia è uno dei più importanti procuratori italiani: la appoggerà in questa battaglia contro la magistratura? “Sono contro quella parte di magistratura italiana forte con i deboli, come mio fratello, e debole con i forti. Purtroppo è la gran parte. Sono contro i processi fotocopia. Antonio Ingroia è il pm che avrei voluto per mio fratello, uno che non ha paura di andare contro i poteri, che fa inchieste difficili e pericolose. Oggi non si sente neppure dire che la legge è uguale per tutti. I criminali, quanto sono più potenti e pericolosi, tanto meglio sono trattati. Quanto più sono diseredati, inoffensivi ed emarginati, tanto peggio vengono considerati. Fino a morirne. Tanti mi avevano chiesto di scendere in politica, lo faccio ora perché di Ingroia mi fido”. Lei e la sua famiglia, ieri, avete fortemente contestato la perizia disposta dai giudici del Tribunale di Roma… “Secondo i periti la morte di mio fratello è avvenuta per colpa medica, ma questa è la tesi della procura fin dal primo momento. Una perizia così serve a proteggere forze dell’ordine e agenti di polizia penitenziaria. Siamo al massacro, io e la mia famiglia abbiamo dato fondo a ogni risorsa economica, abbiamo ipotecato casa. Siamo stanchi e pretendiamo scuse. In aula abbiamo portato i nostri consulenti, ma il pm non ha permesso che interrogassero i periti. I miei genitori, a cui è stato massacrato e ucciso un figlio, vengono umiliati da un magistrato che vuole portare avanti un banalissimo caso di colpa medica”. Di che altro si occuperà, se entrerà in Parlamento? “Delle carceri italiani, oggi una discarica sociale. In larga percentuale i detenuti non sono pericolosi e non dovrebbero stare lì: vorrei un’amnistia per i reati minori. Delle carceri sovraffollate sento parlare da quando sono bambina e mio fratello, si sa, è morto di carcere. Lo sa che ho sentito un direttore di un istituto di pena dire che i suoi problemi per i turni di piantonamento erano più importanti della vita di un detenuto?”. La sua prima iniziativa, in Parlamento... “Una legge che introduca in Italia il reato di tortura. C’è in tutta l’Europa civile, l’Onu ci ha persino sanzionati”. Giustizia: caso Cucchi. Il papà di Stefano: il ministro si scusi per la morte di mio figlio Corriere della Sera, 17 gennaio 2013 “Pretendo le scuse dal ministro della Giustizia. Ho consegnato mio figlio allo Stato sano. È stato ucciso e io sono costretto a subire affronti in aula”. È lo sfogo del padre di Stefano Cucchi, Giovanni, all’uscita dell’udienza di ieri in Corte d’Assise dove è stato completato l’esame della perizia commissionata al laboratorio “Labanof” di Milano. “Ho ipotecato casa per pagare i miei consulenti, ma il pm si è opposto a far sì che fossero loro a porre le domande al posto degli avvocati per una supposta comodità “tecnica”, ha insistito l’uomo. Le analisi degli esperti, ribadite in aula, convergono sulle tesi della Procura. “I medici del Pertini, non trattando il paziente in maniera adeguata ne hanno determinato il decesso. Hanno avuto una condotta colposa a titolo di imperizia o negligenza” ha spiegato ai giudici Marco Grandi, a capo del pool di medici. “La morte di Cucchi era prevedibile per il forte stato di malnutrizione e poteva essere evitata. Ma lui non fu avvertito e rifiutò di nutrirsi”, è la sintesi delle analisi. Inoltre, secondo la perizia - consegnata a dicembre dopo sette mesi - le lesioni e gli ematomi sul cadavere sono solo in minima parte dovuti a traumi recenti (la cui origine è incerta) anche se più probabilmente originata da una caduta (anche in seguito a una spinta) che non dalle botte (che avrebbe lasciato, dicono i periti, molti più segni). Il pestaggio, insomma, non è provato e non sarebbe comunque stato decisivo: “La successione cronologica degli eventi attesta come la patologia traumatico-contusiva sia stata sovrastata da una patologia da privazione di acqua e cibo, dotata di compiuta autonomia lesiva e responsabile del decesso, a prescindere dalla patologia traumatica recente”, si legge nel documento di 189 pagine. Stefano Cucchi, arrestato il 15 ottobre 2009 per droga, morì una settimana dopo in ospedale. Sotto processo ci sono sei medici, tre infermieri e tre agenti penitenziari accusati (a seconda delle posizioni) di favoreggiamento, abbandono d’incapace, abuso d’ufficio, falsità ideologica, lesioni ed abuso di autorità. La famiglia del 3ienne ha chiesto con forza in questi anni che gli agenti venissero processati per omicidio colposo. Due gli elementi portati a sostegno da questa tesi: una frattura alla vertebra lombare L3 e il decisivo peggioramento del quadro clinico dovuto alla frattura dell’osso sacro. Elementi entrambi smontati dalla perizia, che ha retrodatato al 2003 la lesione e dimostrato l’incongruenza scientifica del secondo punto. Giustizia: caso Cucchi: Il Sappe: la Polizia Penitenziaria ha agito rispettando le leggi Tm News, 17 gennaio 2013 “Ho il massimo rispetto per la triste e dolorosa vicenda che ha visto coinvolta la famiglia di Stefano Cucchi. Credo però che la magistratura debba essere lasciata libera di giudicare, senza condizionamenti e con l`abituale serenità ed obiettività. Per questo non condivido i giudizi espresse dalla sorella di Stefano Cucchi, Ilaria, oggi candidata al Parlamento, rilasciate nel corso di un`intervista a La Repubblica. E` certamente importante e fondamentale rilevare che le conclusioni della perizia esperita dai periti della Terza Corte d`Assise sulla morte del fratello Stefano è avvenuta per sindrome da inanizione e non da presunti pestaggi. Attendiamo dunque tutti, con serenità, gli accertamenti della magistratura”. Lo dice in una nota Donato Capece, segretario generale del Sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe). “Ribadisco una volta di più che il Sappe ha il massimo rispetto umano e cristiano per il dolore dei familiari di Stefano Cucchi come lo abbiamo per tutti coloro che hanno perso un proprio caro in stato di detenzione. Ma non possiamo accettare - prosegue Capece - una certa (tendenziosa e falsa) rappresentazione del carcere come luogo in cui quotidianamente e sistematicamente avvengono violenze in danno dei detenuti come talune corrispondenze giornalistiche hanno detto e scritto nei giorni immediatamente successivi la morte del ragazzo”. “Ricordo a me stesso che la rigorosa inchiesta amministrativa disposta dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria sul decesso di Stefano Cucchi escluse responsabilità da parte del Personale di Polizia penitenziaria, in particolare di quello che opera nelle celle detentive del Palazzo di Giustizia a Roma. La nostra convinzione è che a Piazzale Clodio la Polizia Penitenziaria ha lavorato come sempre nel pieno rispetto delle leggi, con professionalità e senso del dovere. Ci auguriamo che anche gli approfondimenti giudiziari confermino questa nostra convinzione. Di sicuro rigettiamo ogni tesi manichea che ha associato e associa più o meno velatamente al nostro lavoro i sinonimi inaccettabili di violenza, indifferenza e cinismo”, conclude il rappresentante del Sappe. Giustizia: Aldo Di Giacomo (Sappe) in sciopero della fame per le carceri, Schifani solidale Il Tempo, 17 gennaio 2013 Il presidente del Senato ha espresso il suo personale impegno ad occuparsi della questione della riforma della giustizia e del sovraffollamento delle carceri. E informato di quanto sta accadendo dal segretario nazionale del Sappe Donato Capece, ha invitato il coraggioso sindacalista e agente di polizia penitenziaria a interrompere lo sciopero della fame e della sete, per non compromettere seriamente la salute. La stessa richiesta Schifani aveva fatto nei mesi scorsi al leader radicale Marco Pannella. “Il Parlamento che sarà eletto il 24 e 25 febbraio - ha dichiarato Schifani - dovrà immediatamente porre all’ordine del giorno il problema delle carceri, dando modo alle persone di buona volontà di agire e di rimediare alle insufficienze della legislatura che si sta chiudendo. Personalmente - ha aggiunto - mi sono già impegnato ad agire, se rieletto parlamentare, e mi adopererò con forza per portare a soluzione la questione del sovraffollamento delle strutture penitenziarie che mortifica il nostro Paese. Per questo - ha detto rivolgendosi a Di Giacomo - la invito a desistere dall’iniziativa che sta conducendo, con giustificata e meritoria passione, ma anche con gravi rischi per la sua salute”. Il presidente del Senato ha quindi ricordato la recente condanna dell’Italia fatta dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, per il gravissimo sovraffollamento degli istituti penitenziari. “Sono convinto che occorra uno scatto di orgoglio - ha concluso - ritengo indispensabile che venga aperto un dialogo e che il Parlamento ascolti tutti gli operatori delle carceri, in primo luogo proprio gli agenti di polizia penitenziaria come lei, che tutti i giorni si confrontano con questa durissima realtà”. Medico: Di Giacomo deve cessare sciopero fame e sete “Sono molto preoccupato, deve assolutamente sospendere lo sciopero. La sua salute è a serio rischiò. Lo dichiara Felice Di Donato, il medico che sta seguendo Aldo Di Giacomo, il consigliere nazionale del Sappe (Sindacato autonomo di Polizia penitenziaria) giunto al 38/o giorno di sciopero della fame e al nono della sete per sensibilizzare la politica sulla ‘disastrosa situazione della giustizia e delle carceri in Italia. Ho ricevuto una telefonata da padre Ciro Benedettini, vicedirettore della Sala Stampa del Vaticano - riferisce il dottor Di Donato - che si è informato sulle condizioni di salute del mio paziente”. Di Giacomo lamenta che l’Italia “da un ventennio non ha il coraggio di affrontare il problema in modo strutturale, ma sempre in modo emergenziale con amnistie e indulti da cui è scaturito un progressivo peggioramento del sistema, fino al collasso attuale: 9 milioni di processi in sospeso, 180mila prescrizioni l’anno e carceri nella situazione nota”. Per il dottor Di Donato il sindacalista “non è più in condizione di sopportare un carico così grande dal punto di vista sia fisico sia psicologico, è disidratato. Conto nelle prossime ore di farlo desistere dalla sua iniziativa”. Sicilia: l’appello di tre direttori di carceri per fronteggiare l’emergenza sovraffollamento La Repubblica, 17 gennaio 2013 Rita Barbera, Letizia Bellelli e Antonio Gelardi pensano alle pene alternative e raccontano i retroscena di un disegno di legge che avrebbe potuto risolvere molti problemi. Per far fronte all’emergenza nelle carceri italiane, dovuta al sovraffollamento in cella, non servono riforme costose. Anzi, si potrebbe attuare una riforma a costo zero. Parola di tre direttori di case circondariali siciliane. Rita Barbera, Letizia Bellelli e Antonio Gelardi, responsabili rispettivamente dell’Ucciardone, dei penitenziari di Enna e Augusta, hanno scritto una lettera appello, che inizia in modo chiarissimo: “Uno dei disegni di legge naufragati con la fine della legislatura, è quello sulle pene alternative”. I tre direttori, soci dell’associazione Libertà e Giustizia, spiegano: “Ancora oggi Il nostro sistema penale è incentrato sulla pena detentiva in carcere. Il fascismo, sistema deprecabile, si servì tuttavia di fior di giuristi; uno di questi fu l’allora guardasigilli Alfredo Rocco, artefice di un codice penale che nella sua struttura portante sopravvive ancora oggi e prevede, anche per reati di lieve entità, come pena principale quella detentiva in carcere. Poi la pena non sempre viene applicata, ma la sanzione comminata nominalmente, come autorevolmente sottolinea il Consiglio superiore della magistratura nel suo parere al disegno di legge Severino sulle pene alternative, risponde più all’esigenza di rassicurare l’opinione pubblica che a quella di dare una risposta reale ed efficace al crimine”. Ecco, dunque, quello che accade oggi: “Un giudice, quello cosiddetto di cognizione, commina la condanna a una pena detentiva in carcere - spiegano i tre direttori - poi, in alcuni casi interviene un altro giudice, quello di sorveglianza, che converte la pena in una misura alternativa al carcere. Si tratta quindi di un beneficio da concedere caso per caso, che richiede comunque un ulteriore passaggio processuale e in parecchi casi non impedisce un breve, inutile e dannoso passaggio in carcere. In tale contesto poi, sono i detenuti appartenenti alla cosiddetta marginalità sociale (extracomunitari, tossicodipendenti di lunga data, disagiati psichici e psichiatrici) che rappresentano la percentuale maggiormente significativa di detenuti, ad avere le maggiori difficoltà di accesso alle misure alternative esterne per l’assenza di idonei riferimenti: lavoro, domicilio, riferimenti familiari in grado di sostenere praticabili percorsi di inclusione sociale e per la difficoltà di avvalersi di una valida difesa”. Il disegno di legge sulle pene alternative prevedeva invece che il giudice potesse subito assegnare una pena diversa dal carcere: “La permanenza presso il proprio domicilio - spiegano ancora i tre direttori - la messa in prova, ossia una forma di sospensione della pena con lo svolgimento di lavoro di pubblica utilità e un’altra serie di forme di limitazione della libertà con varie graduazioni (la detenzione e l’arresto presso l’abitazione o altro luogo di privata dimora, anche per fasce orarie o giorni della settimana). Una svolta culturale e di sistema”. Secondo Rita Barbera, Letizia Bellelli e Antonio Gelardi, le nuove norme unite “a un ragionevole piano carceri (un limitato non faraonico aumento di posti letto) e al recupero delle strutture detentive già esistenti potrebbe fare uscire dall’emergenza”. I direttori propongono anche di rivedere la legge Bossi-Fini sull’immigrazione, e la Fini-Giovanardi sulla droga, perché, spiegano, “contengono risposte in termini di carcerizzazione per fenomeni sociali complessi”. I direttori bocciano invece le amnistie, che definiscono “tamponi i cui effetti sono stati regolarmente annullati nel giro di un paio di anni”. Infine, l’appello: “Ci auguriamo che nel centro sinistra ci si ricordi che l’indulto del 2006, a cui seguì il nulla nella politica carceraria, segnò un picco negativo di consensi per il governo Prodi e forse contribuì all’inizio della fine di quell’esperienza governativa. E ci auguriamo che tutte le forze politiche presenti nel parlamento prossimo venturo guardino all’Europa non solo per lo spread o per il fiscal compact, ma anche per i diritti civili”. Sardegna: mozione su carceri; territorializzazione della pena e agenti al lavoro vicino casa Il Velino, 17 gennaio 2013 La territorializzazione della pena e la possibilità, per i tanti agenti penitenziari che operano nelle carceri della penisola, di svolgere il loro lavoro in Sardegna. È questo l’argomento di una mozione del Pdl, prima firmataria Lina Lunesu che, manco a farlo apposta, coincide con l’ultimo atto di autolesionismo messo in atto da un detenuto algerino rinchiuso a Cagliari, che protestava per il mancato trasferimento al Marassi di Genova, città in cui vive il fratello, unica persona che potrebbe fargli visita in prigione. “In questi anni il Consiglio regionale ha prodotto tanto - dichiara Lina Lunesu. Ad esempio il protocollo d’intesa siglato il 7 febbraio 2006 tra il Ministero della Giustizia e la Regione autonoma della Sardegna, in cui proprio gli uffici del Guardasigilli si impegnavano, in attuazione del principio generale di territorializzazione della pena previsto dalla legge n. 354 del 1975 “a destinare e/o favorire il rientro in istituti della Sardegna dei detenuti di origine, residenza o interessi nel territorio sardo che aspirano a tale rientro”. “In seguito - prosegue - ci sono state due risoluzioni della Seconda Commissione. la n. 1 del 16 aprile 2009 (Sulle problematiche del settore penitenziario in Sardegna) e n. 15 del 3 marzo 2010 (sull’attuazione del Protocollo d’intesa tra Ministero della Giustizia e Regione autonoma della Sardegna). Queste risoluzioni impegnano la Giunta regionale a portare all’attenzione del Governo le problematiche nelle quali versano le carceri sarde e ad attivare tutte le misure necessarie all’attuazione del Protocollo d’Intesa”. “Per ultimo, il 6 marzo scorso il Consiglio regionale della Sardegna ha approvato la mozione n. 168/16 nella quale è denunciato il rischio che le carceri sarde vengano trasformate in istituiti di massima sicurezza e nella quale viene costatata la completa inattuazione del principio di territorializzazione della pena”. “La mia mozione, quindi, rafforza quanto già prodotto negli anni dal Consiglio regionale - afferma l’esponente politico - e che probabilmente non è stato sufficiente per scuotere il problema. Ma la cosa particolare sono i numeri di tutta questa storia - aggiunge - perché si parla di circa 160 detenuti sardi che stanno scontando la pena in istituiti penitenziari situati fuori dalla Sardegna in violazione dei loro diritti e del principio di territorializzazione della pena. A questo, occorre sommare le spese che i familiari sono costretti ad affrontare per recarsi nella penisola ogni volta che viene accordato un colloquio con i loro congiunti, ma anche una spesa inutile per lo Stato nei casi in cui questi detenuti devono essere trasferiti, in maniera temporanea in Sardegna in occasione dei diversi gradi di processo”. “Inoltre, sono numerosi gli agenti penitenziari sardi che lavorano da anni fuori dal territorio regionale - conclude Lina Lunesu - e che, dopo un ragionevole periodo, auspicano un trasferimento in Sardegna”. Emilia Romagna: la Garante Desi Bruno scrive a direttori carceri, su diritto voto detenuti Ansa, 17 gennaio 2013 In vista del voto del 24 e 25 febbraio, Desi Bruno - Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale - ha inviato una lettera agli undici Direttori degli istituti penitenziari dell’Emilia Romagna con una richiesta di collaborazione “affinché possa essere pienamente garantito il diritto di voto delle persone detenute in possesso dei requisiti di legge per esercitarlo”. La brevità dei tempi disponibili richiede infatti, rileva, una sollecita e capillare informazione sui documenti da presentare al seggio, con particolare riferimento alla tessera elettorale. La Garante suggerisce di procedere attraverso l’affissione di appositi cartelli, per consentire a chi può il diritto di voto di attivarsi in tempo utile. Scrive la Garante che va reso esigibile l’esercizio di un diritto fondamentale per la partecipazione alla vita politica del Paese di persone che hanno bisogno di sentire riconosciuto il loro diritto di cittadinanza. La Legge 136/1976 (articoli 8 e 9) dispone che le persone detenute al momento della consultazione elettorale possano esercitare il diritto di voto nel luogo di reclusione, dove va installato un seggio elettorale speciale. Per esercitare il suo diritto, il detenuto deve far pervenire al sindaco del Comune nelle cui liste elettorali è iscritto una dichiarazione della propria volontà di esprimere il voto nel luogo in cui si trova, con in calce l’attestazione del Direttore dell’Istituto comprovante la sua detenzione; a quel punto, il sindaco potrà iscrivere il richiedente nell’apposito elenco e gli fornirà la tessera elettorale; se questa fosse andata smarrita, se ne può chiedere il duplicato, ma è necessario che l’intera procedura sia conclusa tre giorni prima (21 febbraio) della votazione. Liguria: Piredda (Idv); emergenza carceri e istituzione degli Icam per le detenute madri Asca, 17 gennaio 2013 “È necessario che riparta in tempi brevi l’iter in Conferenza unificata sull’istituzione degli Icam, gli istituti di custodia attenuata per madri con figli”. Così Maruska Piredda, capogruppo di Italia dei Valori in Regione, che questa mattina ha presentato un’interrogazione all’assessore alle Politiche sociali Rambaudi per conoscere le intenzioni della Regione in merito “all’istituzione di strutture extracarcerarie, simili alle case - famiglia, dove, secondo la legge 21 aprile 2011, n.62, dovrebbero essere ospitate le madri con figli fino ai dieci anni”. “Individuare queste strutture significherebbe garantire ai figli di mamme detenute una permanenza meno traumatica negli istituti di custodia - spiega Piredda - purtroppo gli ultimi governi hanno fatto molto poco, se non addirittura niente, per l’universo carcerario italiano che, come emerge dalle recenti statistiche divulgate, verte in una situazione da Terzo o Quarto mondo. Dal prossimo governo ci aspettiamo, inoltre, un’adeguata copertura economica di supporto a iniziative di accoglienza di minori che ne tutelino l’adeguato sviluppo educativo, riducendo al minimo i traumi causati dalla detenzione insieme alla propria madre. Ritengo comunque necessario che, all’impegno del governo centrale, si affianchi un progetto mirato da parte della Regione Liguria per l’accoglienza in case - famiglia di madri detenute con minori, sull’esempio di quanto già fatto dalla Lombardia, Toscana e Veneto. La “maglia nera” d’Europa conquistata dalla Liguria per condizioni di sovraffollamento carcerario ci fa riflettere su quanto ancora si debba fare per i nostri istituti penitenziari”. Bologna: ai domiciliari da anni perché affetto da Hiv migliora e il giudice lo rimette dentro di Gianluca Rotondi Corriere della Sera, 17 gennaio 2013 In un’altra vita faceva il modello, girava il mondo e sognava ad occhi aperti. Quando le luci della ribalta si sono spente il risveglio è stato particolarmente brusco: rapine, furti, spaccio, evasioni e tanto altro. Stefano Argenti è quello che si dice un criminale “storico”. I poliziotti anziani della Questura se lo ricordano bene quel ragazzo bolognese di bell’aspetto che proprio non riusciva a stare lontano dai guai. Finora ha scontato 7 anni ma nel tempo ha accumulato pene su pene per un totale di 13 anni, 3 mesi e 19 giorni. L’ultimo “soggiorno” prolungato dietro le sbarre risale a diversi anni fa. In tutto questo tempo Argenti, che tolto qualche peccatuccio che l’ha fatto tornare dentro ha tutto sommato rigato dritto, ha usufruito del differimento pena e dei domiciliari per motivi di salute. Da vent’anni Argenti, che oggi ha 51 anni, combatte infatti contro l’Hiv e altre patologie definite da giudici e medici, che di volta in volta si sono occupati del suo caso, “incompatibili col regime carcerario”. Ogni anno, da parecchi anni, un magistrato, sulla base di esami e consulenze, stabilisce che il carcere non è un posto adatto alle sue condizioni di salute. Dal carcere milanese di Opera, che pure ha un centro clinico specializzato, fu infatti dimesso. Il 22 novembre nella consueta udienza davanti al magistrato di sorveglianza è arrivata la doccia fredda: “Dai referti degli esami ematologici eseguiti di recente dal condannato emerge un quadro di relativo benessere, con assenza di grave deficienza immunitaria”, ha scritto il giudice nel provvedimento, tecnicamente ineccepibile, che di fatto lo scorso 11 dicembre gli ha riaperto le porte della Dozza. Pochi giorni dopo le sue condizioni si sono aggravate e la direzione del carcere l’ha trasferito in infermeria dove si trova tuttora. I familiari ora temono per la sua vita e lanciano l’allarme: “Mio figlio sta male, nell’ultimo colloquio mi ha detto che se non esce si ammazza. Ha sbagliato e fatto tante sciocchezze ma non ha mai fatto del male. Non merita questa fine”, dice la madre Filomena che da anni lo accudisce e lo accompagna a fare le terapie all’infettivologia del Maggiore. Il suo legale, avvocato Milena Micele, è in contatto con la direzione sanitaria della Dozza e ha presentato un’istanza uregente di scarcerazione al Tribunale di sorveglianza chiedendo di acquisire tutta la documentazione clinica sul caso di Argenti: “Il magistrato si è basato solo sul Cd4 (il valore dei linfociti stabilito dalla legge per la compatibilità col regime carcerario, ndr) senza valutare, come in passato, le condizioni generali. Siamo invece in presenza di una situazione sanitaria di compromissione così profonda che non può far pensare a un miglioramento. Non si capisce come si possa parlare di relativo benessere”. Il timore del legale e della famiglia del detenuto è che le sue condizioni peggiorino acuendo altre patologie di cui soffre da tempo. Ora il Tribunale di sorveglianza chiederà una relazione alla direzione sanitaria del carcere per capire come stanno le cose: “Chiediamo che nel minor tempo possibile si accertino le sue condizioni. Non si può indugiare perché potrebbe essere in pericolo di vita. Questo non lo dico io ma il medico che l’ha in cura”, sottolinea l’avvocato Micele. Sassari: nel carcere di San Sebastiano è ancora allarme per il sovraffollamento di Giommaria Uggias (Europarlamentare Idv) www.mediterranews.org, 17 gennaio 2013 In attesa della sempre annunciata, ma mai realizzata, apertura del carcere di Bancali, le condizioni di detenzione nel Carcere San Sebastiano di Sassari peggiorano di giorno in giorno. Nella mia recentissima visita ai detenuti del San Sebastiano, grazie anche alla solerte disponibilità del Comandante delle guardie penitenziarie, Giovanni Maria Basile, ho potuto constatare di persona come la situazione resti grave. La capienza del carcere, pur essendo stata ridotta lo scorso anno, passando da 130 a 90 detenuti, non elimina la situazione di critico sovraffollamento che rende ancora più pesante la situazione di detenzione. Spazi ridotti e condizioni generali di disagio si aggiungono peraltro alla riduzione delle attività lavorative causata dal taglio delle risorse economiche da parte del Ministero della Giustizia. In questo contesto assume particolare gravità la mancanza di acqua che, attualmente, viene erogata per sole due ore al giorno. Questo fa sì che per gran parte della giornata i detenuti e gli operatori penitenziari rimangano senza acqua, con gravi rischi dal punto di vista igienico - sanitario tenuto conto, fra l’altro, delle anguste dimensioni delle celle, anche 5 metri quadri per cinque detenuti, con water e lavandino al loro interno. Anche per questi motivi ho ritenuto di inviare contestualmente una lettera - appello al sindaco di Sassari al fine di sollecitare la soluzione del problema idrico attraverso un suo intervento nei confronti della società Abbanoa, che gestisce il servizio idrico. Queste già gravi carenze si sommano ai tristi primati di una struttura che, benché sovraffollata, ospita tra le sbarre addirittura due bambini di pochi mesi. In quadro così desolante assume ulteriore valenza civile ed ammonitrice la protesta di tre detenuti che, da giorni - uno di loro da oltre un mese - attuano lo sciopero della fame, della sete, ed in un caso persino il rifiuto di assistenza farmacologica. Costoro chiedono che vengano garantite quanto meno le condizioni minime di tollerabilità nella espiazione della pena; basti pensare che uno dei detenuti che sta portando avanti la protesta da tempo attende il suo legittimo trasferimento al nord per poter ricevere le visite della famiglia. Non va dimenticato che la scorsa settimana la Corte europea dei diritti dell’uomo ha riconosciuto un risarcimento di 100 mila euro per danni morali a sette detenuti di Busto Arsizio e Piacenza a causa del trattamento inumano e degradante subito. La Corte ha in questo caso rilevato la vergognosa situazione del sistema penitenziario italiano riaffermando il diritto alla dignità della persona umana anche quando è privata della libertà personale. Sebbene personalmente non condivida la volontà del governo italiano di concentrare buona parte delle nuove carceri in Sardegna, prospettando una massiccia migrazione dei detenuti nella nostra isola, non posso fare a meno di segnalare la necessità di completare quanto prima i lavori delle nuovi carceri nella nostra regione rendendo così possibile la immediata chiusura di strutture obsolete ed inadeguate, come il San Sebastiano, al fine garantire condizioni di detenzione degne di uno stato di diritto. Sassari: in carcere da un anno senza processo, detenuto spagnolo inizia sciopero della fame di Elena Laudante La Nuova Sardegna, 17 gennaio 2013 Senza cibo, per oltre una settimana, a cavallo delle feste, per protestare contro la giustizia - lumaca. Nello sciopero della fame di un cittadino di origini spagnole, arrestato con due chili di droga nella valigia, nel 2012, ci sono un po’ tutti i mali della giustizia italiana. Ci sono le carceri fredde e lugubri, come San Sebastiano, con detenuti stranieri che hanno difficoltà a comunicare con i loro avvocati. E poi ci sono i tempi dilatati dei processi, che poi in questo caso non lo sono nemmeno tanto. Arrestato all’aeroporto di Alghero nel gennaio di un anno fa, Carlos Tortosa Vilar, 57 anni, spagnolo di Madrid, a cavallo di Natale ha rifiutato di nutrirsi per protestare contro la lunga custodia cautelare in terra straniera, una terra della quale inizialmente non parlava nemmeno la lingua. I finanzieri lo avevano beccato con due chili di marijuana nella valigia, all’arrivo del volo da Barcellona-Girona. Da lì la permanenza in carcere, e la continua richiesta di essere processato. Poi, quando si è aperta l’udienza preliminare, a dicembre, lui ha chiesto una sentenza rapida, magari per sperare nella scarcerazione. Ma per quantificare l’eventuale pena era necessario stabilire la quantità di principio attivo presente nella droga a lui sequestrata, compito da affidare a un consulente tecnico, come poi accaduto a dicembre. Ma quel rinvio tecnico gli era pesato tanto, e per questo ha iniziato lo sciopero della fame, esasperato anche dalla difficoltà di comunicare in italiano col suo legale, il penalista Maurizio Serra. Poi a lui si è associato un legale che parla spagnolo, e il consulente ha annunciato che la perizia sarà depositata entro il 26 febbraio, quando inizierà il probabile rito abbreviato. Torino: birrificio del carcere di Saluzzo… nascono tra le sbarre le bollicine della libertà di Ilaria Sesana Avvenire, 17 gennaio 2013 L’ultima nata l’hanno battezzata “Hopney” una birra al miele carica di speranza. Non difettano certo di creatività i detenuti del carcere di Saluzzo (Torino) che, sotto la guida del mastro birraio Andrea Bertola, arricchiscono di anno in anno la loro produzione. All’inizio furono la “Chicca” (birra al caffè), la “Tosta” (con note di cacao) e la “Taquamari” (ispirata allo stile Weizen, ottenuta con la fermentazione di riso basmati, amaranto, tapioca e quinoa). “Oggi produciamo tredici birre diverse. Oltre a un ottimo sidro”, spiega con orgoglio Marco Ferrerò, presidente della cooperativa “Pausa cafè”. Nata nel 2004 a Torino, “Pausa cafè” è oggi attiva in diverse carceri piemontesi. Oltre alle “Vallette” di Torino e al carcere di Saluzzo è stato da poco lanciato un progetto innovativo all’interno del “San Michele” di Alessandria: “Faremo del carcere un presidio di biodiversità”, spiega Ferrerò senza nascondere l’entusiasmo. La direzione ha messo a disposizione un appezzamento di tre ettari dove in primavera inizieranno i lavori della fattoria agricola biologica. “Oltre a ortaggi e frutta, coltiveremo varietà pregiate del territorio come l’asparago di Santena e la fragolina di Tortona, una piccolo frutto dal profumo straordinario ma facilmente deperibile”, spiega Ferrerò. I quattro detenuti assunti impareranno da contadini esperti a prendersi cura di queste varietà pregiate. Sempre all’interno del carcere di Alessandria è stato completato un grande forno a legna (cinque metri di diametro) che permetterà di produrre oltre 2.500 chilogrammi di pane al giorno. Pane biologico, ovviamente, con farine macinate a pietra e lievitato con pasta madre. La produzione è stata affidata a un gruppo di cinque detenuti che hanno imparato il mestiere da maestri panificatori. Da anni “Pausa Cafè” si ingegna per portare sempre più lavoro all’interno delle carceri. Ma soprattutto lavoro qualificante, che dia una professionalità. “Chi produce una buona birra acquista consapevolezza di sé e delle proprie capacità - spiega Ferrero. Solo da qui si può ripartire per costruirsi una nuova vita”. Molti degli ex detenuti oggi hanno trovato la loro strada nel mondo della ristorazione, come cuochi o pizzaioli, altri hanno creato una piccola impresa dando vita a un’attività autonoma. Male cooperative, da sole, possono fare poco: “Serve uno sforzo corale - sottolinea Ferrero - bisogna avere il coraggio di investire sul lavoro in carcere”. Fedele a questo progetto la cooperativa torinese ha puntato sulla qualità. Sulla torrefazione di pregiate miscele di caffè dei presidii internazionali Slow Food, sull’attività di catering su un Bistrot a Grugliasco (To) dove hanno trovato lavoro alcuni degli ex detenuti precedentemente impiegati nelle attività intra moenia e alcuni ammessi alle misure alternative. Oristano: Pes (Pd); per il nuovo carcere carenza personale e necessari lavori manutenzione Ansa, 17 gennaio 2013 Alcuni dei gravi problemi segnalati dai detenuti con una lettera indirizzata all’Associazione Socialismo, Diritti, Riforme sono stati risolti o comunque avviati a soluzione, per esempio quelli relativi alla fruibilità degli spazi sociali, ma il nuovo carcere di Massama presenta ancora molte criticità. Questo in sintesi il quadro proposto dalla deputata del Pd Caterina Pes e dai responsabili dell’associazione, Maria Grazia Caligaris e Gianni Massa, al termine della visita di questa mattina nelle sezioni già occupate dai detenuti. “In termini di vivibilità e di rispetto della dignità dei detenuti - ha detto Pes - la nuova struttura rappresenta un grosso passo avanti rispetto al vecchio carcere di piazza Manno”. Ma questo non basta, hanno ammonito Caligaris e Massa, se a fronte di un raddoppio del numero dei detenuti, passato da 120 a poco più di 200 e destinato ad aumentare di altre 40 unità fra qualche settimana, rimane invariato il numero degli agenti di polizia penitenziaria, che per il momento è fermo a 160. “Allo stesso modo non è aumentato il numero degli educatori, erano tre e tre sono rimasti, e senza agenti e senza educatori - hanno denunciato la deputata e i rappresentanti dell’Associazione - anche la buona volontà e i buoni propositi della direzione e del personale rischiano di essere vanificati”. Un altro problema segnalato è quello dell’assistenza sanitaria. Attualmente c’è una sola infermeria e la presenza del medico è garantita soltanto per 14 ore al giorno. Con 250 detenuti presenti, inoltre, sarebbe auspicabile che Oristano avesse un magistrato di Sorveglianza in sede e non debba dipendere da Cagliari come succede adesso. Molti dei problemi denunciati dai detenuti, è stato spiegato al termine della visita, non ci sarebbero se il Ministero, pressato dal sovraffollamento delle carceri, non avesse avuto troppa fretta di aprire e se progetto e esecuzione dei lavori fossero stati all’altezza dei costi sostenuti. Il caso più clamoroso è quello della mancata impermeabilizzazione della struttura, che sta determinando livelli di umidità insostenibili. Per la cronaca, secondo le informazioni fornite oggi, i 40 carcerati che arriveranno nelle prossime settimane a Massama sono tutti detenuti comuni come quelli già reclusi. Napoli: oggi e domani sit-it dei Radicali davanti al carcere di Poggioreale Ansa, 17 gennaio 2013 L’associazione radicale “Per la grande Napoli” ha indetto per oggi e domani una manifestazione presso il carcere di Poggioreale per continuare il dialogo con i familiari dei detenuti e per chiedere la sottoscrizione alla lista Amnistia Giustizia e Libertà di Marco Pannella e dei Radicali. “Stiamo tentando una impresa resa difficile dall’inesistenza di un Servizio Pubblico di autenticazione - dichiara il candidato capolista al Senato Luigi Mazzotta, promotore di numerosi sit-in al penitenziario napoletano svoltisi lo scorso anno. È incredibile che Pannella, con la sua storia politica, debba raccogliere decine di migliaia di firme in pochi giorni per presentarsi alle elezioni politiche. In questi anni abbiamo denunciato e documentato le disumane condizioni dei detenuti nelle carceri campane e lo sfascio della Giustizia nella nostra Città. Chiediamo a coloro che credono in una giustizia rapida e giusta di sottoscrivere la Lista e permettere ai Radicali di continuare le lotte per le garanzie e i diritti civili dei cittadini”. Piacenza: il Garante Gromi; solo per il 5% dei detenuti il carcere è davvero rieducativo www.piacenza24.eu, 17 gennaio 2013 Relazione in commissione consigliare. “Sul sovraffollamento la situazione è migliorata anche se siamo lontani dagli standard”. La situazione del carcere piacentino delle Novate è analizzata in sede di commissione consiliare oggi, giovedì 17 gennaio, con l’audizione del garante dei detenuti di recente riconfermato dal sindaco Paolo Dosi. Una situazione che merita grandissima attenzione, secondo il garante Alberto Gromi, soprattutto dopo la sentenza della Corte europea di Strasburgo che condanna l’Italia per il problema del sovraffollamento anche “per colpa” delle condizioni in cui vivono i carcerati della casa circondariale piacentina. Qualche dato: al 27 dicembre i detenuti del carcere della Novate di Piacenza sono 326. “Rispetto al 2010 il problema del sovraffollamento è decisamente ridimensionato - ribadisce Gromi - anche si è ancora lontani dall’ottimale. Nella sezione comune ci sono pochissime celle con tre detenuti; la gran parte ospitano due detenuti, anche se - lo ricordiamo - sono per uno”. Secondo Gromi, tuttavia, la vera piaga è un’altra. “Ho ribadito più volte la mia preoccupazione - ha detto - Il problema del sovraffollamento è un problema gravissimo ma se anche ogni detenuto avesse una cella da albergo a cinque stelle, ciò non cambierebbe il più grave dei problemi del carcere piacentino e in genere dei penitenziari italiani, e cioè la carenza del programma di rieducazione”. A margine della commissione, il garante ha dato la misura di quanto in effetti risulti carente la rieducazione dal suo punto di vista: “Direi che ogni 100 detenuti la pena può dirsi rieducativa per cinque, massimo dieci di loro” E ancora: “Come può attuarsi la rieducazione se non c’è tempo e modo per riflettere sulla loro colpa, se non c’è nessuno che li aiuta? Per quanto riguarda gli educatori a Piacenza sono quattro per tutti i detenuti: è già più di qualche anno fa ma non è assolutamente sufficiente. Facendo i conti, lavorando tantissimo, ben oltre gli orari prestabiliti, a ogni detenuto possono essere dedicati tre minuti al massimo”. Indicativa in tal senso la testimonianza di un detenuto, riferita dallo stesso garante: “Come posso aprirmi con la psicologa se so che poi il percorso che inizio non proseguirà? Quindi non parlo”. Ed ecco spiegata la frase con la quale molto spesso si esauriscono le relazioni degli specialisti: “Il detenuto non collabora” È fondamentale in questo senso la responsabilizzazione del detenuto, secondo il garante. “Ora il detenuto non decide nemmeno a che ora fare la doccia - spiega Gromi - La prima cosa da fare è un patto di responsabilità con i detenuti. Esiste una circolare ed è stata chiamata la circolare delle “celle aperte”. Se invece che tenerli chiusi in cella per 20 ore, le celle venissero aperte ora come ora non ci sarebbero spazi dove riunirli. Bisogna lavorare in questo senso” Tornando sul tema sovraffollamento, ricordiamo che la capienza regolamentare del carcere delle Novate è di 178 detenuti ma ce n’è anche una, per così dire, tollerata di 346 detenuti. Quindi ora si è sotto la cosiddetta capienza tollerata anche se, si chiede Gromi, non si capisce in base a che criterio si stabilisce la tollerabilità. La seduta della commissione è poi proseguita con gli interventi dei consiglieri commissari. Dopo le testimonianze e valutazioni di Vittorio Curtoni e Giovanni Castagnetti (che ha ricordato l’esempio virtuoso del carcere di Bollate), ha preso la parola il consigliere Marco Colosimo che ha chiesto cosa possa fare di concreto un Comune, e non lo Stato centrale spesso troppo lento, per i detenuti e il loro reinserimento in società. Un problema serio rispetto al quale, secondo Colosimo, a Piacenza sono ancora forti i pregiudizi: “L’opinione pubblica va educata a comprendere la questione in modo corretto” ha detto. Lucia Rocchi ha posto alcune domande, tra le quali la curiosità di sapere chi abbia aiutato nel ricorso alla Corte di Straburgo i detenuti piacentini che l’hanno presentato. Paolo Garetti pone un problema così come viene sentito dalla gente, sulla strada. Invece che tenere chiusi in cella i detenuti venti ore al giorno, non è possibile mandarli a fare lavori utili per la comunità? Giulia Piroli, presidente della commissione, ha sottolineato un dato e ha invitato alla riflessione: è più difficile la ricaduta nei reati se i detenuti scontano pene alternative rispetto al carcere. Giovanna Palladini, assessore comunale al welfare, ha fornito una prima risposta ai quesiti di Colosimo che chiedeva cosa possano fare i comuni rispetto ai problemi del carcere. “Va chiarito che i Comuni non hanno giurisdizione in strutture che dipendono direttamente dall’amministrazione penitenziaria e non devono rendere conto alle amministrazioni comunale. Possiamo svolgere diverse attività, comunque. Una di queste è nominare, ad esempio, il garante. Possiamo poi finanziare determinate attività per i carcerati, possiamo svolgere un ruolo di mediazione eccetera”. Giovanna Palladini ricorda la funzione del volontariato, importantissima, e sottolinea come in un certo senso lo stesso garante - caso rarissimo in Italia - sia volontario visto che non viene pagato. Lecce: Osapp; l’Ipm ristrutturato nel 2011 e mai riaperto, agenti in servizio senza detenuti di Chiara Spagnolo La Repubblica, 17 gennaio 2013 Un carcere per detenuti ragazzini che scoppia, uno inattivo da oltre cinque anni. Accade nella Puglia del sovraffollamento penitenziario, dove all’Istituto penale minorile di Bari si fanno i salti mortali per garantire condizioni dignitose di vivibilità e, a 150 km di distanza, a Lecce, l’unica altra struttura dell’intera regione, resta una scatola vuota nonostante i lavori di ristrutturazione siano terminati da tempo. Gli interventi, iniziati nel 2007, sono finiti nel 2011 e il baby-penitenziario sulla via per Monteroni è stato consegnato al ministero della Giustizia, che finora non ha inteso riaprirlo. A fine estate il capo dell’amministrazione penitenziaria, Caterina Chinnici, è arrivata personalmente in Salento ma, a distanza di mesi, il nodo relativo alla destinazione della struttura non è ancora stato sciolto. “Non abbiamo alcuna notizia su tempi e modi di utilizzo dell’Istituto” spiega il presidente del Tribunale dei minori di Lecce, Ada Luzza. Ovvero non si sa se sarà utilizzato come carcere minorile, “o come struttura in cui attuare servizi a sostegno dei percorsi di messa alla prova e reinserimento dei ragazzi”. Da Roma addirittura qualcuno sussurra che l’immobile di Lecce possa essere trasformato in un appendice della casa circondariale di Borgo San Nicola, che, con una capienza di 700 detenuti, ne ospita stabilmente quasi il doppio. Il Dap sta valutando. E mentre valuta il tempo passa. E gli edifici per cui sono stati spesi milioni di euro, ristrutturandoli nonostante alle spalle ne fossero stati costruiti di nuovi oggi adibiti ad archivio, restano quasi totalmente inutilizzati. Così come la polizia penitenziaria in servizio resta operativa solo in parte. Quindici sono attualmente le unità dislocate al minorile, a cui si aggiungono 7 agenti assegnati provvisoriamente ad altre carceri, che si occupano prevalentemente della vigilanza e custodia dei minori del Centro di prima accoglienza di Lecce, nonché della sorveglianza dell’Istituto penale fantasma. Per l’Osapp tale impiego degli agenti di polizia penitenziaria è simbolo di uno spreco che fa a pugni con “il sovraffollamento detentivo di altre realtà che soffrono di carenza di personale”, come spiega il vicesegretario generale Domenico Mastrulli. Mentre per l’Ugl penitenziari è il segnale allarmante del ritardo “nella riapertura di una struttura di cui c’è assoluto bisogno, perché dovrebbe ospitare i giovani detenuti delle tre province salentine”, aggiunge il vicesegretario nazionale Giampiero Pantaleo. I minorenni destinati al carcere, infatti, oggi vengono trasferiti a Bari e, nei casi estremi, in altre regioni, con ulteriore spreco di soldi pubblici e aumento dei disagi per le famiglie. “Se in una città c’è il Tribunale dei minori, a nostro avviso deve esserci anche l’Istituto di pena a loro dedicato” continua Pantaleo, ipotizzando che per l’apertura della struttura di via Monteroni servano almeno altri 40 agenti”. Da aggiungere ai 15 attualmente in servizio. Che lavorano, ma non a pieno regime. In un carcere aperto ma senza detenuti. Nell’attesa che da Roma qualcuno decida come non sprecare milioni di euro spesi in Salento. Ragusa: Sappe; nel carcere di Contrada Pendente il doppio dei detenuti e metà degli agenti di Michele Farinaccio La Sicilia, 17 gennaio 2013 L’Italia viola i diritti dei detenuti tenendoli in celle dove hanno a disposizione meno di 3 metri quadrati. Lo ha detto nei giorni scorsi la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, che ha parlato, in particolare, di trattamento inumano e degradante di sette carcerati nella casa circondariale di Busto Arsizio e in quello di Piacenza invitando l’Italia a porre rimedio entro un anno al sovraffollamento carcerario. Ma la questione - è sotto gli occhi di tutti - non riguarda soltanto le due strutture carcerarie recentemente balzate agli onori della cronaca. Il carcere di Ragusa, infatti, sarebbe una di quelle strutture non solo da rimodernare al più presto, ma dove dovrebbe alloggiare pressappoco la metà dei detenuti presenti. In questo momento la struttura carceraria di contrada Pendente conta circa 180 detenuti (100 sarebbe il numero ideale), “mentre il nostro organico - dice Salvatore Licitra, segretario provinciale del Sappe (sindacato autonomo agenti di polizia penitenziaria) - è stato ridotto del 50%. Se pensiamo che prima eravamo 117 e ora siamo una sessantina, ci mancano altre 60 unità per potere lavorare in maniera dignitosa. Questo ha creato, ovviamente, diversi disagi, ad esempio la chiusura della sezione femminile per mancanza di personale. E poi ci troviamo a fare i conti con una percentuale sempre crescente che è quella degli extracomunitari che si trovano ad avere problemi di convivenza con i detenuti italiani”. Se, insomma, l’Unione europea dice che dovrebbe esserci un detenuto per cella, qui i detenuti si trovano in sei o anche in sette nella stessa cella. E non si può fare altrimenti. Perché poi, basta che un istituto si svuoti un pò, che viene subito riempito nuovamente dato che scattano i trasferimenti. “Il problema? È sempre quello relativo alla mancanza di risorse - esclama Licitra - si parla di nuove costruzioni o di ampliamento di padiglioni esistenti ma la mancanza di fondi impedisce sempre tutto questo. Inoltre da un lato si vuole assicurare la certezza della pena, e quindi non si possono fare provvedimenti come amnistia e indulto, dall’altro lato ci sono le carceri piene. E un detenuto costa circa 3 - 4000 euro al mese”. Gli agenti più anziani, intanto, vanno in pensione e non vengono sostituiti. Di conseguenza vanno a ridursi sempre di più i controlli. E se i controlli sono sempre di meno, ancora minore è il tempo che le stesse guardie carcerarie possono dedicare ai detenuti. Quattro episodi fotografano il malessere Quattro episodi fotografano il malessere che, almeno fino a qualche mese fa, serpeggiava all’interno della struttura carceraria di contrada Pendente. Tutti si erano verificati tra settembre e ottobre all’interno della Casa circondariale: aggressioni nei confronti delle guardie carcerarie, tentativi di suicidio, perfino casi di autolesionismo a scopo dimostrativo. L’ultimo caso, che si era registrato nei primi giorni del mese di ottobre, aveva visto protagonista un detenuto extracomunitario che improvvisamente e senza alcun motivo apparente, aveva aggredito due poliziotti penitenziari, che avevano riportato leggere contusioni. Tutto era tornato brevemente alla normalità. Prima ancora, il 12 settembre, c’era stato un tentato suicidio quando un carcerato di nazionalità egiziana di 30 anni aveva tentato di togliersi la vita alle prime luci dell’alba utilizzando un lenzuolo che aveva legato alla finestra sopraelevata della cella. Dopo averlo annodato formando un cappio si era lasciato cadere. Solo grazie ai compagni di stanza ed allo stesso personale della Polizia penitenziaria che era intervenuto prontamente, il suicidio era stato scongiurato. Il giovane egiziano era stato soccorso e salvato. Successivamente, un altro detenuto si era scagliato contro uno degli agenti, mentre, il 17 settembre scorso, due carcerati stranieri si erano provocati vistose ferite con alcune lamette per protestare contro l’impossibilità di lavorare durante la detenzione. Gli agenti della Polizia penitenziaria, anche in quel caso, erano riusciti ad evitare conseguenze peggiori. I reclusi erano stati immediatamente soccorsi e curati. Rimandi e suggestioni molteplici per “Sapori reclusi” Rimandi e suggestioni molteplici per “Sapori reclusi”. La mostra fotografica, allestita nelle stanze dell’Enoteca regionale a Vittoria, attraverso gli scatti di Daniele Dutto cerca di raccontare la difficile vita nelle carceri piemontesi e i tentativi di “sopravvivenza” umana e sociale che i detenuti mettono in atto aggrappandosi agli odori e ai sapori della “loro” cucina. Afflati di speranza che si colgono osservando nei bassi del Castello Enriquez (che annovera tra le pagine della sua storia anche un trascorso di carcere borbonico) le intense e forti immagini che immortalano i volti dei detenuti del carcere di Fossano. Immagini che rimandano al libro fotografico “Il gambero nero. Ricette dal carcere” dove gli scatti di Dutto sono accompagnati dalle didascalie del giornalista Michele Marziani insieme al quale il fotografo ha trasformato il proprio progetto artistico in un percorso di recupero sociale portando grandi chef a cucinare insieme ai detenuti di Fossano. “Sapori reclusi” sperimentati e degustati all’inaugurazione quando allo chef dell’Oste nero è stata affidata la preparazione di una delle ricette del “Gambero Nero”. Un modo per assaggiare il sapore di chi cucina da “carcerato” dove persino c’è chi, come Ciro, si è ingegnato a fare la pizza. Siracusa: l’Ugl contesta l’organizzazione del lavoro in carcere… il direttore si dimetta La Sicilia, 17 gennaio 2013 L’Ugl riaccende i riflettori sulle condizioni del carcere di Noto e, in particolare sull’organizzazione del lavoro. Il sindacato della polizia penitenziaria coordinato da Sebastiano Bongiovanni (Ugl) denuncia, ancora una volta, la situazione del penitenziario netino “che viene ancora una volta perpetrata col silenzio - assenso di tutte le parti chiamate in causa, la scrivente non può esimersi dal denunciare nuovamente una direzione che opera in maniera autonoma senza rispettare gli accordi presi in sede decentrata”. Bongiovanni sottolinea come non sia giunta alcuna risposta dopo la segnalazione dello scorso 20 ottobre. “Oggi il personale, oltre a essere stremato dai doppi turni e da turni notturni eccedenti quando stabilito - dice - , si vede anche perseguitato con azioni vessatorie”. Il segretario Ugl ricorda i disservizi nei turni e le conseguenze che ciò comporta nell’organizzazione del lavoro e non solo. “Lo scorso dicembre - ricorda - l’addetto all’ufficio matricola è stato programmato senza turni notturni, dato che non fruisce più dei benefici della legge 104/92. Non è strano? E nel servizio di gennaio sono stati violati nuovamente gli accordi decentrati: infatti la stessa unità è stata programmata senza turni notturni, mentre il personale a turno deve effettuare 4 o addirittura 5 notti al mese. Come se non bastasse l’ufficio servizi rimane chiuso a volte anche per 2 o 3 giorni consecutivi, poiché il personale addetto si assenta, non per motivi di salute, contemporaneamente. E la prova è che nei giorni 14 e 15 dicembre scorsi, mentre l’addetto all’ufficio servizi si trovava in malattia, il coordinatore ha preso 2 giorni di congedo ordinario, tra l’altro non programmati”. “Aspetteremo per l’ultima volta le determine della direzione - conclude - che dovranno essere a tutela del personale tutto e chiediamo le motivazioni dell’operato di una direzione di cui tranquillamente richiediamo il sollevamento dall’incarico sia del comandante che del direttore”. Stati Uniti: prima esecuzione dell’anno con sedia elettrica, modalità scelta dal detenuto Tm News, 17 gennaio 2013 La prima condanna a morte del 2013 è stata eseguita in Virginia, negli Stati Uniti, con la sedia elettrica. È la prima volta dal 2010 ed è stato lo stesso detenuto, Robert Gleason, a scegliere questa modalità per accelerare la sua esecuzione. Gleason era stato condannato a morte per aver ucciso due compagni di cella mentre scontava l’ergastolo per l’omicidio di due persone. “Gleason non aveva espresso alcun rimorso per i suoi orribili crimini”, aveva dichiarato il governatore della Virginia, Bob McDonnell, precisando che il detenuto non aveva fatto appello contro la sentenza di condanna, né aveva presentato domanda di grazia. L’ultima esecuzione con sedia elettrica risaliva al 18 marzo 2010, sempre in Virginia. Sono 157 i detenuti uccisi con tale modalità, di cui 30 in Virginia, rispetto alle 1.320 esecuzioni condotte negli Stati uniti dalla reintroduzione della pena di morte, nel 1976. L’uomo che voleva morire sulla sedia elettrica, di Alberto Sofia (www.giornalettismo.com) Aveva chiesto di essere giustiziato con la sedia elettrica, altrimenti avrebbe colpito ancora. Tanto da aver ucciso anche due detenuti del carcere dove stava scontando l’ergastolo (per un altro omicidio, ndr), per accelerare la sua condanna a morte. Si è la svolta nella notte in Virginia, come spiega Abc.news, l’esecuzione di Robert Gleason, un 42enne che aveva rinunciato anche al suo diritto di appello, nonostante i legali fossero contrari alla sua decisione. Era stato proprio John Sheldon, uno degli avvocati a presentare ricorso contro la scelta di Gleason, spiegando come l’uomo soffrisse di “gravi disturbi mentali”. Ma il ricorso non è stato accolto dalla corte della Virginia, che non ha raccolto le prove presentate dal legale, che ha tentato invano di dimostrare la sua depressione, citando anche i diversi tentativi di suicidio. Gleason non si è limitato a chiedere la condanna a morte: ha anche scelto di morire non con l’iniezione letale, bensì sulla sedia elettrica. Rimettendo così in azione lo strumento di morte, per la prima volta dal 2010. Il legale ha protestato fino alla fine, ma è servito a poco: la sentenza fatale è diventata esecutiva non appena è stato negato anche il ricorso dalla Corte Suprema. Gleason aveva ammesso di aver strangolato quattro anni fa il suo compagno di cella, il 63enne Harvey Watson, nello stesso giorno in cui aveva commesso il delitto per il quale era stato punito con l’ergastolo. Da tempo richiedeva di essere giustiziato, tanto da aver pure ucciso un altro compagno di cella, il 26enne Aaron Cooper, utilizzando la rete di protezione del cortile del carcere. Ovviamente, era stato il primo a dichiararsi colpevole. Come riporta l’Huffington Post, è stato il governatore Bob McDonnell ad aver spiegato come l’uomo non avesse espresso alcun rimorso per gli omicidi. Anzi, aveva dichiarato che, se non fosse stato giustiziato, avrebbe continuato ad uccidere. “Per i giudici competenti ha agito in modo cosciente”, si è difeso, contro le critiche del suo legale. Spiegando in passato la sua scelta macabra, Gleason aveva sottolineato come avesse ucciso “in passato soltanto criminali, mai persone innocenti”, ma che avrebbe fatto di tutto per “mantenere la promessa ad una persona cara”: “Soltanto così potrò spiegare ai miei figli cosa succede se diventi un omicida”, aveva dichiarato l’uomo. Delle 1320 condanne a morte, da quando la pena è stata reintrodotta nel 1976, 157 sono avvenute attraverso la sedia elettrica. secondo quanto spiega il Death Penalty Information Center. Honduras: sovraffollamento delle carceri, prolungato di un anno lo stato di emergenza di Luca Pistone www.atlasweb.it, 17 gennaio 2013 L’Honduras ha esteso per un altro anno lo stato di emergenza in 9 dei suoi 24 carceri per far fronte al problema del sovraffollamento che regna nei centri penitenziari del paese. La proroga è stata approvata ieri dal presidente Porfirio Lobo, su richiesta del segretario alla Sicurezza Pompeyo Bonilla, secondo il quale il governo sta esaminando “piani per la riabilitazione e il reinserimento nella società dei detenuti”. Nel luglio del 2010 Lobo aveva decretato lo stato di emergenza nelle carceri di San Pedro Sula, El Progreso, Yoro (nord); Santa Barbara, La Esperanza, Puerto Lempira (ovest); Puerto Cortés, La Ceiba e Trujillo (Caraibi). Questa è la terza volta che viene esteso. Nel marzo del 2012, tredici detenuti del carcere di San Pedro Sula erano rimasti uccisi in una colluttazione, mente il 14 febbraio, un incendio, nel carcere centrale di Comayagua, aveva provocato la morte di 359 detenuti. Comayagua ha una capacità di 400 detenuti, ma ne ospitava quasi 900. Nel maggio del 2004, un incendio, sempre nel carcere di San Pedro Sula, aveva ucciso 107 prigionieri; 68 invece le vittime (comprese due donne e una bambina in visita), nell’aprile del 2003, di una rissa tra alcuni detenuti del carcere di El Porvenir. Dopo questi incidenti, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (Unhcr) e la Commissione Interamericana per i Diritti Umani (Cidh) avevano denunciato “l’allarmante sovraffollamento delle carceri latinoamericane”. Secondo l’Unhcr, “in media, le prigioni dell’America Latina ospitano il 30% di detenuti in più rispetto a quanto consentirebbero le loro strutture, ma in molti casi arrivano fino al 100%, cosa che facilita le tragedie”. Sudafrica: giornalisti e Commissione parlamentare assistono al pestaggio di un detenuto Tm News, 17 gennaio 2013 La stampa ha assistito ieri al pestaggio di un detenuto da parte dei secondini, mentre accompagnava una Commissione parlamentare in un carcere di massima sicurezza del Sudafrica dove la scorsa settimana c’era stata una rivolta. È quanto riporta oggi la stampa nazionale. “La commissione parlamentare aveva lasciato il posto. Poi, attraverso la recinzione, abbiamo visto una folla di secondini aggredire un uomo vestito di arancione, apparentemente un prigioniero indifeso, che si contorceva e gemeva di dolore - ha scritto The Star di Johannesburg. “Non sappiamo chi sia, né cosa gli sia accaduto dopo. Ma noi abbiamo visto passare l’uomo da uno all’altro, percosso brutalmente. Mentre le macchine fotografiche scattavano, seguendo l’azione, gli uomini in marrone (i guardiani, ndr) hanno continuato a picchiare il prigioniero”. Il Times racconta oggi la stessa storia. Secondo uno dei giornali, le fotografie sono state cancellate dalla polizia nella successiva perquisizione dei giornalisti. Il 7 gennaio scorso i detenuti del carcere di Groenpunt, a Deneysville, nel centro del Paese, hanno dato fuoco a un’ala del penitenziario per denunciare le loro condizioni di vita. La rivolta ha causato il ferimento di 50 detenuti e di nove secondini, oltre al trasferimento in altri istituti di 500 persone. Brasile: apre primo supercarcere fabbricato e amministrato da privati, costato 100 mln € Ansa, 17 gennaio 2013 A partire da domani, oltre 600 detenuti saranno trasferiti in un nuovo penitenziario fabbricato e amministrato da privati a Ribeirao das Neves, nella regione metropolitana di Belo Horizonte, in Brasile. Si tratta della prima iniziativa di questo tipo nel Paese sudamericano. Il supercarcere, che sarà inaugurato ufficialmente il prossimo 28 gennaio, è stato costruito da un consorzio, formato da cinque imprese, dopo aver vinto un appalto da oltre 100 milioni di euro. In cambio, il consorzio riceverà dallo Stato circa 800 euro al mese per ogni recluso per i prossimi 27 anni. Gli investitori privati provvederanno all’alimentazione, salute ed educazione dei detenuti, che svolgeranno appositi corsi per imparare a cucire e a fare scarpe e mobili di arredamento. Il lavoro nel carcere sarà obbligatorio. Molti fondi sono stati destinati alla sicurezza: materassi ignifughi, lampade a bassa tensione, pareti senza prese elettriche per evitare di caricare le batterie dei cellulari. Anche la chiusura e l’apertura delle celle sarà comandata elettronicamente: una misura che secondo gli specialisti ridurrà il pericolo di sommosse. Slovenia: ministero esteri nega indiscrezioni su arrivo di due detenuti di Guantánamo Nova, 17 gennaio 2013 Il ministero degli Esteri sloveno e l’ambasciata degli Stati Uniti a Lubiana hanno negato le indiscrezioni trapelate sulla stampa locale secondo cui due detenuti del carcere di Guantánamo saranno trasferiti in Slovenia nella prossime settimane. Dalla sede diplomatica statunitense hanno fatto sapere che queste affermazioni sono “completamente false”, mentre il dicastero sloveno ha reso noto che il governo non ha adottato alcuna risoluzione in merito a questa vicenda. La notizia uscita sul sito web d’informazione sloveno “Siol.net”, secondo cui due detenuti di Guantánamo, per la precisione due cinesi di etnia uiguri, sarebbero stati trasferiti entro breve tempo in Slovenia. Anche il ministro dell’Interno sloveno, Vinko Gorenak, ha smentito fermamente la notizia: “Non assolutamente vero. Il governo non ha mai discusso di questa tematica”, ha detto il ministro citato dal quotidiano “Slovenia Times”. Nel 2011 il parlamento sloveno ha approvato alcuni emendamenti proposti dal governo precedente che consentono al governo di Lubiana di accettare il trasferimento di detenuti provenienti dal carcere di massima sicurezza di Guantánamo. Queste misure sono legate al programma del governo statunitense per chiudere il carcere e la questione, prima di essere approvata dall’assemblea parlamentare, stata oggetto di discussione con alcuni esponenti del governo degli Stati Uniti.