Carceri inumane: non solo sovraffollamento, anche il rischio di uscire peggiori di prima Il Mattino di Padova, 14 gennaio 2013 La Corte europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per violazione dei diritti umani: dovrà pagare 100mila euro a sette detenuti come risarcimento morale per quella che il nostro Presidente della Repubblica ha definito “l’incapacità del nostro Stato di garantire i diritti elementari” alle persone recluse, e dovrà soprattutto trovare soluzioni al sovraffollamento delle nostre carceri entro un anno. E ci sono più di 500 ricorsi che potrebbero ricevere risposte analoghe. In questi giorni è l’Europa che ci costringe a parlare di carcere e delle condizioni insopportabili in cui si vive al loro interno. Ma le testimonianze dei detenuti dicono anche un’altra cosa: che il problema non è costituito solo dalle ristrettezze del sovraffollamento, quanto piuttosto dal fatto che le persone che usciranno da queste carceri a fine pena rischiano di essere più pericolose di quando ci sono entrate. Un paese civile? In un paese civile, ogni detenuto viene accompagnato in un percorso di reinserimento nella società. Non gli si fa scontare fino all’ultimo giorno la pena, “marcendo in galera”, ma si cerca di insegnargli un mestiere e di garantirgli una assistenza sanitaria decente, anche perché se non va curato il detenuto diventa solo un enorme costo. Poi lo fanno uscire, dopo una parte della pena scontata in carcere, a lavorare al mattino, e rientra alla sera. Ha l’opportunità di studiare, di capire il significato dei soldi guadagnati onestamente, di mantenere i rapporti con la famiglia, in modo da non essere abbandonato. Tutto questo ormai avviene sempre meno in Italia, anche se c’è scritto nei codici penali e penitenziari. La mentalità che domina nel nostro Paese è che i detenuti devono stare chiusi in cella e basta, in certi casi è negata anche l’assistenza sanitaria, non viene passata neppure la minima fornitura per la pulizia della cella e per la pulizia personale (sapone, dentifricio, il necessario per farsi la barba), il detenuto si deve comprare tutto. Ma come fa, se c’è gente in carcere oggi che non ha i soldi neppure per una telefonata a casa? Dalle piccole cose si capisce che non c’è ormai quasi niente di civile nelle carceri italiane. Pochi ne parlano, se non è l’Europa a costringerci a farlo, figuriamoci poi se certi giornalisti lo scrivono sui quotidiani, è controproducente per gli interessi politici che difendono. Questo è il sistema italiano, le carceri sono intasate di esseri umani. A volte, quando ho guardato dei documentari sui lager nazisti, ho pensato che almeno lì si poteva camminare sull’erba, anche se poi so che questi paragoni sono insensati perché le persone rinchiuse lì non sono mai tornate a casa loro. Qui in Italia, per i detenuti camminare sull’erba è un lusso, in tante carceri italiane c’è cemento dappertutto. Penso che tanti animali siano più fortunati dei detenuti, almeno loro l’erba la possono calpestare. Angelo M. Lasciato solo in un posto sovraffollato Mi ritengo un detenuto tranquillo, non ho nessun rapporto disciplinare o richiamo. Nei primi 4 anni di carcerazione ho cambiato 2 istituti, 5 sezioni e 6 celle, ho vissuto con oltre 30 compagni di cella di 7 nazionalità diverse. Il primo anno, la mia unica preoccupazione era di non sembrare debole, e il mio unico pensiero era che ero stato “sfortunato”, che mi era andata male. Anche se stavamo in tre in una cella di 9 metri quadrati mi sentivo solo. Tutti ti dicevano cosa NON fare, ma niente su cosa fare, al colloquio del primo ingresso ho ricevuto le indicazioni di NON litigare in sezione, di NON prendere rapporti disciplinari e di NON preoccuparmi, che il prossimo colloquio sarebbe stato dopo un anno, per colpa del sovraffollamento. E con tutti questi NON FARE, sempre per colpa del sovraffollamento, tornavo in cella dove me ne stavo abbandonato in solitudine. Nei giorni successivi ho iniziato a guardarmi intorno per trovare qualche “amico” con cui poter “lavorare” una volta finita la pena per recuperare il tempo perso. Quando hanno finalmente permesso ai reclusi di chiamare i famigliari anche ai telefoni cellulari, dopo un anno e sei mesi ho sentito mio padre. Ci siamo scambiati le prime imbarazzanti parole, gli ho detto che stavo bene con la salute e gli ho spiegato tutta quella serie di divieti. Mio padre, che ha fatto l’insegnante per 35 anni, in quei divieti non ha sentito che ci fosse anche il divieto di studiare, e mi ha chiesto di fargli una promessa, che mi sarei messo a studiare e non avrei sprecato ulteriormente la mia vita. Ho mantenuto la promessa! Oggi ho smesso di cercare un certo tipo di “amici” e sono al terzo anno dell’università. Ho una speranza. Però per mantenere quella promessa, NON ho visto il mio compagno di cella autolesionarsi per attirare l’attenzione sul suo star male, NON ho creduto all’innocenza del mio vicino di cella anche dopo che si è suicidato e NON ho voluto vedere né sentire nessuno dei 30 detenuti che hanno condiviso lo stesso destino e cella con me, ho pensato solo per Me, e NON so se questo è giusto. Sto cercando di fare qualcosa in questo posto, dove NON si fa niente, ma sono lasciato SOLO in un posto sovraffollato. Dove le uniche regole certe sono quelle di cosa NON FARE. Oggi in carcere la maggior parte dei detenuti per darsi una speranza per l’avvenire cerca “l’amico” che gli insegni qualcosa per far soldi in fretta, e questo comporta sempre più ex detenuti che tornano in carcere. E in una sezione come la mia, progettata per 25 persone, ce ne sono ben 75. So che siamo dei delinquenti e che abbiamo commesso anche dei gravi reati, ma se credete veramente nella RIEDUCAZIONE dateci una speranza, l’uomo senza speranza è un uomo MORTO. Diteci cosa possiamo fare. Clirim B. Pensieri di un detenuto sul carcere insensato e quello che ha un po’ di senso Quando ero sempre in sezione rinchiuso in cella a non fare niente, sentivo spesso che in questo carcere ci sono degli incontri con degli studenti che vengono da fuori, e avevo un pensiero fisso: che motivo hanno di venire qui dentro al carcere ad ascoltare noi detenuti, mentre magari la maggior parte di loro pensa che noi non paghiamo abbastanza per i nostri crimini, anzi non paghiamo proprio, che lo stato ci prende in carico e ci dà da mangiare, da bere, un tetto e un lavoro senza nessuno sforzo, e pensa anche che durante gli incontri vogliamo fargli credere che siamo delle vittime, proprio noi che abbiamo commesso dei reati, e abbiamo pure lo sconto della pena per buona condotta, e forse non meritiamo neppure il loro disturbo per ascoltarci, siamo stati cattivi e per questo dobbiamo soffrire. Ma poi ho visto che la curiosità è forte, e ci sono tanti studenti che vengono per vedere cosa abbiamo da dire, e dopo qualche incontro ho osservato tanti studenti andare via soddisfatti delle nostre risposte, e vedo che hanno capito che la galera da sola non basta per eliminare la criminalità dalla strada, e il carcere deve essere una pena di lavoro e di insegnamento per il futuro del detenuto e il futuro della società, una pena che cerchi di tirar fuori il meglio da lui, perché ognuno di noi ha qualcosa di buono e di positivo, e deve esserci qualcuno in grado di aiutarlo e fargli scoprire le sue potenzialità, perché possa cambiare vita, invece di stare rinchiuso dentro una stanza e aumentare il senso di rabbia, e quando uscirà essere solo più cattivo. Ma se fa un percorso di reinserimento, e capisce dove ha sbagliato, in modo che quando sarà scarcerato non ricommetta più l’errore che in passato ha fatto, non dovrà più perdere la libertà. Perché la libertà non ha prezzo, non solo la libertà fuori dalle mura, ma la libertà di chiamare la famiglia lontana, la libertà di fare la doccia quando uno ne ha voglia, la libertà di camminare sotto la pioggia o sotto il sole. Spero che l’idea che il carcere cosi come è adesso è dannoso per tutta la società, perché se si mette dentro qualcuno senza fargli imparare niente di buono, uscirà più delinquente e più pericoloso di prima, giunga, attraverso gli studenti, anche ai loro amici e ai famigliari, così che sempre più gente capisca che il reinserimento del detenuto è un modo per creare sicurezza per tutta la cittadinanza. Sofiane M. Giustizia: a gennaio 2010 dichiarata “l’emergenza carceri”, dopo 3 anni situazione peggiore di Lucia Brischetto La Sicilia, 14 gennaio 2013 È stato depositato al Viminale il documento con le proposte riguardanti l’urgente depenalizzazione dei reati minori, la riorganizzazione del lavoro giudiziario, il lavoro per i detenuti dentro e fuori l’istituto e il presunto stanziamento delle somme utili per l’avviamento al lavoro dei ristretti. Ma nel frattempo biblico che i signori ministri, i funzionari addetti discutono e approntano le riforme richieste da anni, dentro gli istituti penitenziari si soffre, si muore, ci si suicida. Ogni anno negli istituti italiani si suicidano da 50 a 60 detenuti. È ora di dire basta alle condizioni disumane “eterne” e degradanti degli istituti di pena. Occorrono provvedimenti urgenti, occorre salvare la vita e la dignità delle persone ristrette in luoghi angusti, in stanze buie ove la luce del sole non si affaccia mai, in stanze maleodoranti con il vespasiano in camera, in luoghi affollati dai fiati attaccati gli uni agli altri, in locali di pochi metri quadrati ove muoversi in spazi ridottissimi è difficilissimo. Luoghi ove gli spazi ricreativi sono una chimera. Luoghi dove la privacy non esiste. La sperata depenalizzazione immediata è rimasta una promessa sospesa in attesa di tempi migliori. “L’imminente” riforma penitenziaria è sempre in itinere. Si può continuare ad ingannare in siffatta maniera il cittadino e il cittadino detenuto? Addirittura la legge Smuraglia varata nel 2000 e finanziata fino al 2011 oggi non è più rifinanziata. Stante così i fatti ed essendo stata l’Italia richiamata, censurata e “contravvenzionata” dall’Europa (Cedu), alla quale deve pagare 400.000 di multa, non si capisce perché questi soldi non potessero invece essere spesi prima per l’avviamento al lavoro delle persone ristrette e non per pagare sanzioni per non avere ottemperato gli obblighi dovuti alle persone in difficoltà. Pagheremo questi soldi che potevano servire per una dignitosa condizione di vita detentiva. Dice la civiltà della pena che chi ha sbagliato ha diritto di essere reintegrato nella società e non “maltrattato” perché “sconosceva” il luogo della legalità. Legalità che l’istituto gli deve evidenziare per condurlo verso la correttezza e la libertà e non verso la tomba e il ritorno al suo gruppo malavitoso. Pertanto, stando così immobili le cose, continueremo a contare i suicidi, i morti per “cause da accertare”, i detenuti stranieri che non possono essere sentiti dai magistrati perché occorre il mediatore culturale e l’interprete della lingua parlata di quella persona. L’antica emergenza carceri, ufficialmente sancita tre anni fa, non ha sortito alcun effetto e pertanto il tasso di affollamento penitenziario in Italia è oggi di 142,5%. L’opinione pubblica ha capito, si è sensibilizzata e condivide ampiamente i progetti di recupero della dignità delle persone. Ma come si fa in siffatta maniera ad applicare la rieducazione del condannato, il reinserimento sociale e le misure alternative alla detenzione se mancano agenti di polizia penitenziaria, educatori e assistenti sociali penitenziari, magistrati di sorveglianza, risorse finanziarie per il mantenimento, l’assistenza sanitaria, la rieducazione e persino il trasporto dei detenuti nelle sedi dovute. E a questo proposito non si può tacere più il fatto che tanti e tanti detenuti non possono assistere ai loro procedimenti in tribunale perché manca il personale che lo accompagni, perché manca la benzina nei mezzi di trasporto e tutto questo con “l’aggravante”, immaginiamo noi, che il detenuto stesso si vede “costretto” a collaborare firmando un documento da dove si evince che è lui che non vuole presiedere al suo procedimento. Giustizia: trasformare i detenuti in una risorsa…. si può fare di Federica Cardia www.huffingtonpost.it, 14 gennaio 2013 Ci risiamo. Anche stavolta l’Italia è riuscita a distinguersi per lo scarso valore attribuito al concetto di persona intesa come risorsa sociale: la Corte Europea dei diritti umani di Strasburgo ha, proprio in questi giorni, ammonito e condannato il nostro Paese per la situazione delle carceri e per il “trattamento inumano e degradante” di molti detenuti. E io mi chiedo, come sempre, perché riusciamo sempre a balzare in primo piano per il nostro palese menefreghismo, perché non crediamo o non vogliamo credere nel cambiamento, nell’innovazione e nel recupero repentino delle situazioni disagiate. Siamo così: tiriamo avanti finché non scoppia lo scandalo, della serie “finché la barca va, lasciala andare”, e anziché correre ai ripari per tempo giochiamo i tempi supplementari lanciando qua e là delle belle pezze colorate. Siamo il Paese della disorganizzazione, della burocrazia, dell’imbroglio, preferiamo mimetizzare i rifiuti nel nostro contesto urbano e far finta di non vederli piuttosto che utilizzarli come fonte di energia rinnovabile, come fanno da molto tempo i Paesi del Nord Europa. Stesso discorso per le carceri: ci proclamiamo Paese civile e democratico, non contempliamo la pena di morte, ma le nostre strutture carcerarie esplodono e chi viene privato della libertà, per azioni più o meno gravi, è costretto a vivere in 3 metri quadrati, condannato ad essere un peso per il Paese che, d’altra parte, non fa niente per trasformarlo in risorsa. Passavo, poco tempo fa, di fronte al carcere di Buoncammino di Cagliari, una struttura imponente arroccata sul belvedere della città: sconvolgente osservare i detenuti affacciati, annoiati, imbambolati, privi di obiettivi, costretti semplicemente ad occupare degli spazi, non-luoghi del degrado. Eppure esistono esempi di soluzioni virtuose per il recupero e l’utilizzo dei detenuti come risorsa sociale, soluzioni che mirano a trasformare una reclusione forzata in una strategia organizzativa dalle immense potenzialità economiche per il Paese. Ancora una volta le case histories provengono soprattutto dall’Europa del Nord, dove fortunatamente esiste un’altra mentalità e un diverso investimento sul sociale. Dove un penitenziario femminile islandese ha scelto di appoggiare un progetto eco-sostenibile della OIIO Architecture preparandosi a trasformarsi in una struttura costruita tramite prefabbricati, pannelli solari e spazi all’aperto che mutano a seconda del cambio delle stagioni: ai prigionieri il compito di curare gli spazi e di coltivare piante e fiori locali. In Brasile poi nelle carceri si produce energia pedalando. I detenuti del carcere di Santa Rita do Sapucai pedalano in sella a bici da palestra (ma attenzione, niente a che vedere con i lavori forzati!) producendo così energia elettrica, che viene utilizzata di sera per illuminare la passeggiata lungo il fiume. Oltre ad avere la possibilità di ridurre la pena i detenuti dichiarano di sentirsi utili alla società e finalmente in forma. E noi? Noi veniamo condannati da Strasburgo e non facciamo progetti per cambiare le cose. E quando qualcuno tira fuori dal nulla soluzioni intelligenti, parlo in particolare della proposta del Ministro della Giustizia Severino riguardo alla possibilità di utilizzare il lavoro dei detenuti per la ricostruzione nelle zone terremotate dell’Emilia e della Lombardia, i media si scatenano e si preferisce rinunciare. Problemi di sicurezza? Non ci credo: ormai siamo rintracciabili ovunque, anche se non lo vogliamo, esistono i GPS, i sistemi di localizzazione, gli iPhone e smartphone e chi più ne ha più ne metta, perché fermarsi alla prima difficoltà? Anziché farli marcire in 3 metri per tre, perché non utilizzare i detenuti per scopi virtuosi? Secondo me, per riprendere il titolo di un bellissimo film, “Si può fare”. Giustizia: ministro Severino; sui fondi per lavoro in carcere spero in un “sì” senza sorprese Ansa, 14 gennaio 2013 “Di fronte alla serietà del tema, alla sentenza di Strasburgo e all’opinione pubblica prevalentemente favorevole a questo provvedimento, vogliano far prevalere una logica di responsabilità rispetto a una logica di spartizione dei fondi per gli scopi più vari”. Così il ministro della Giustizia sul decreto legge che prevede di destinare 16 milioni di euro per il lavoro dei detenuti. Il ministro della Giustizia Paola Severino si augura un iter parlamentare senza sorprese per lo schema di decreto legge per destinare 16 milioni per il lavoro dei detenuti, varato dal premier Monti su iniziativa della Guardasigilli. “Auspico fortemente che le commissioni bilancio di Camera e Senato”, ha spiegato Severino a “Prima di tutto” su Rai radio 1, “di fronte alla serietà del tema, alla sentenza di Strasburgo e all’opinione pubblica prevalentemente favorevole a questo provvedimento, vogliano far prevalere una logica di responsabilità rispetto a una logica di spartizione dei fondi per gli scopi più vari”. Lo scopo del provvedimento, ha continuato, “è di stimolare le imprese a finanziare il lavoro in carcere, ma soprattutto di elaborare un progetto di reinserimento sociale del detenuto, perché i ritorni sono straordinari: chi trova lavoro in carcere non torna a delinquere se non nel 2,8% dei casi”. I temi della giustizia “sono tecnici” e per questo “i tempi della campagna elettorale per ora sono prematuri per parlarne, ma credo che alla presentazione dei programmi politici lo spazio per la giustizia ci sarà”. Ne è convinta il ministro Paola Severino che a “Prima di tutto”, su Rai radio 1, ha spiegato il suo punto di vista sul perché la giustizia e le carceri siano ancora così poco al centro della campagna elettorale. “Mi auguro, ma sono anche convinta che lo spazio per la giustizia ci sarà, perché so che i partiti considerano questo tema centrale”, ha concluso il Guardasigilli. Giustizia: il mondo del privato sociale “preoccupato” per i fondi sul lavoro in carcere Vita, 14 gennaio 2013 Il grande Benigni può declamare articoli della Carta costituzionale finché vuole: da oggi però “la più bella del mondo” ha un articolo in meno. Anche se non molti se ne accorgeranno, perché è un articolo che non ha mai goduto di grandi fortune. In queste ore si è decretata la morte dell’articolo 27 della Costituzione Italiana. O perlomeno del suo terzo comma. Ricordate? Quello che recita - poche parole, sintesi di grande umanità e di una grande civiltà del diritto - “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Bene, questa rieducazione è destinata a rimanere lì, sulla carta. Costituzionale, ma pur sempre carta. Mentre le carceri vanno a rotoli (ma è la dignità del nostro Paese che va a rotoli), mentre il sovraffollamento permane inesorabile, mentre si incrementa la fila di chi abbraccia Marco Pannella sotto gli obiettivi dei fotografi e con tanta umana partecipazione, di nascosto, in tutta fretta e all’ultimo minuto, al di là dei proclami di facciata, a prevalere sono gli interessi personali e i calcoli elettorali. I pochissimi euro previsti nel decreto stabilità per rifinanziare la Legge Smuraglia, riguardante il lavoro penitenziario, vengono letteralmente scippati. Pochi soldi, vale la pena ricordare, che servirebbero a porre un argine allo scandalo e a una spesa - questa sì - senza fondo, determinata da un semplice prodotto: 67mila detenuti per una spesa complessiva pro capite al giorno di 250 euro. Lasciamo il compito a chi leggerà questo comunicato di fare in proprio la moltiplicazione. Noi ricordiamo solo due cose: che il prodotto, calcolato su 365 giorni all’anno, dà un risultato di dieci cifre, e che il lavoro penitenziario è il principale presidio medico che argina questa emorragia mortale. Emorragia non solo per il senso di umanità, ma quanto meno per le casse dello Stato. Ci diranno che non è l’unica voce sacrificata e che ci sono tanti problemi più importanti fuori dal carcere. Ma rimane veramente difficile capire il perché di un simile taglio. Ormai anche i bambini sanno che investire in rieducazione e recupero dei detenuti fa risparmiare una valanga di soldi e porta sicurezza sociale. Rubare è un termine appropriato al mondo del carcere, chi ruba è normalmente definito un ladro. Chi ha scelto di non rifinanziare la legge Smuraglia ha rubato qualcosa. Ma non ai detenuti: a tutti noi. Giustizia: detenuto rimane paraplegico dopo coma, Dap condannato a risarcire 1.600mila € www.informarezzo.com, 14 gennaio 2013 Sentenza Tribunale di Firenze del 7.01.2013. Una sentenza assolutamente innovativa che si inserisce nella questione di estrema attualità dei diritti del detenuto. Correva l’anno 1997 quando il giovane aretino C.M., all’epoca tossicodipendente, venne incarcerato nella Casa Circondariale di Arezzo. Dopo qualche giorno di detenzione, venne ricoverato in una condizione clinica di coma all’ospedale di Arezzo. L’anossia cerebrale, provocata da un cocktail di farmaci, aveva causato a C.M. la permanente paraplegia degli arti inferiori. La consulenza disposta dal Giudice di Firenze ha consentito di accertare che il coma e la conseguente anossia cerebrale derivò dalla assunzione in carcere di un micidiale cocktail di oppiacei, in parte somministratigli dal personale della Casa circondariale di Arezzo sotto forma di metadone e farmaci neuro-deprimenti, in parte assunto autonomamente e di propria iniziativa dal giovane. La settimana appena trascorsa, rappresenta un punto di svolta, in ambito giuridico, per i diritti dei detenuti nelle carceri italiane. Come noto, martedì 8.01.2013 la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo, ha condannato l’Italia per trattamento inumano e degradante di 7 carcerati detenuti nel carcere di Busto Arsizio e in quello di Piacenza, condannando l’Italia a pagare ai sette detenuti un ammontare totale di 100 mila euro per danni morali. Il giorno prima, lunedì 7.01.2013, anche la Giustizia italiana si è espressa in modo altrettanto se non maggiormente incisivo, sugli obblighi dello Stato nei confronti dei detenuti. Il Tribunale civile di Firenze, infatti, chiamato a quantificare il risarcimento del danno deciso con una precedente sentenza sempre del tribunale fiorentino del 4.05.2012, ha condannato il Ministero della Giustizia a risarcire ad un giovane residente in provincia di Arezzo, C.M., la somma di oltre 1 milione e seicentomila euro per le lesioni subite a seguito di una intossicazione dovuta ad un mix di farmaci e stupefacenti avvenuta nel carcere di Arezzo. La tutela del giovane è stata affidata allo studio legale Fanfani di Arezzo che lo ha assistito con gli avvocati Laura Giovannacci e Giuseppe Fanfani. È stato quindi convenuto in Giudizio il Ministero della giustizia, il quale ha negato ogni responsabilità; dopo una causa durata oltre un decennio, il Ministero è stato condannato a risarcire a C.M. la notevole somma di oltre 1.600.000,00 euro. I legali hanno sostenuto una tesi innovativa la quale può così sintetizzarsi: siccome il C.M. era detenuto, e per di più era soggetto tossicodipendente, sussisteva un particolare obbligo di protezione da parte della struttura, derivante dall’impulso di tali soggetti a soddisfare il bisogno di sostanza stupefacente, obbligo comprensivo del dovere di impedire la circolazione di sostanza stupefacente nella struttura carceraria, luogo sottoposto (o che comunque tale dovrebbe essere) ad un continuo controllo dell’autorità stessa, nel quale quest’ultima, maggiormente che all’esterno, dovrebbe impedire il verificarsi di situazioni non conformi alla legge. Non solo l’errore nella somministrazione dei farmaci neuro-deprimenti, quindi, ma anche l’omesso controllo per impedire che C.M. assumesse autonomamente eroina, costituiva quindi violazione del predetto dovere di protezione, per cui lo Stato era responsabile delle lesioni. Si legge infatti nella sentenza del 4.05.2012 che: “al potere restrittivo della libertà personale del detenuto, derivante allo Stato dalla titolarità della potestà punitiva nei confronti degli autori del reato, faccia, altresì riscontro un onere di protezione nei confronti dei soggetti che per tale ragione siano allo stesso affidati”. Nel caso specifico, il Tribunale ha ritenuto che alla particolare situazione del detenuto (conosciuto come tossicodipendente) dovesse corrispondere un più pregnante obbligo di protezione, che nel caso in specie è mancato. La decisione del Tribunale di Firenze di lunedì scorso, che ha quantificato il risarcimento dovuto dallo Stato in oltre 1.6000.000,00 euro, colpisce anzitutto per la notevole somma che lo stato dovrà corrispondere a C.M. a titolo di risarcimento per le lesioni subite. Ma ciò che ancor più rileva, è l’aver sancito l’esistenza in capo allo struttura carceraria di un preciso obbligo di protezione nei confronti del detenuto; struttura che qualora non impedisca la circolazione al proprio interno di sostanza stupefacente, può essere chiamata a rispondere anche delle lesioni che il detenuto si è autonomamente procurato con l’assunzione dello stupefacente! Tale decisione, del resto, è perfettamente in sintonia con il generale dovere di tutela del benessere psico-fisico del detenuto che la Corte europea, ancora la scorsa settimana, ha ritenuto violato da parte dello Stato Italiano. I legali che hanno seguito il caso Laura Giovannacci e Giuseppe Fanfani esprimono tutta la loro soddisfazione, sottolineando come la sentenza enuncia un principio di grande civiltà nel momento in cui sancisce il generale dovere dello Stato di tutelare e proteggere tutti i cittadini inclusi coloro i quali, essendo detenuti in carcere, sono affidati alla sua custodia. Giustizia: Sindacalista Sappe in sciopero di fame e sete per le carceri “mi lascerò morire” Adnkronos, 14 gennaio 2013 Da 34 giorni in sciopero della fame, e al quinto giorno di sciopero della sete: il sindacalista del Sindacato di polizia penitenziaria Sappe, Aldo Di Giacomo, afferma di volersi “lasciar morire se non si interverrà sullo stato delle carceri” italiane, come si legge in una nota del Sappe. “L’attuale disastrosa situazione della giustizia e delle carceri in Italia - afferma Di Giacomo - è sicuramente colpa del mondo della politica che da un ventennio non ha il coraggio di affrontare il problema in modo strutturale, ma sempre in modo emergenziale con amnistie ed indulti dai quali ne è scaturito un progressivo peggioramento del sistema fino ad arrivare al collasso attuale con nove milioni di processi in sospeso, centottanta mila prescrizioni l’anno e le carceri nella situazione che tutti conoscono”. “È sconcertante che ancora oggi - prosegue - si parli di amnistie ed indulto e non di depenalizzazioni e misure alternative alla detenzione. Questo significa che la politica finge di non capire il disastro combinato fin ora e continua rimandare il problema con amnistie ed indulti che sono il vero cancro della nostra giustizia, una resa dello stato. Oggi uno stato civile come il nostro non può più continuare su questa strada”. Di Giacomo lamenta la mancata attenzione del mondo della politica e dei media alla sua protesta: “molta solidarietà ma niente fatti come al solito, ma mi sconcerta la mancata attenzione dei media impegnati solo ad rendere visibile ancora una volta chi chiede indulti ed amnistie. Continuerò la mia battaglia costi quel che costi anche se dovessi morire. Chi ci rappresenta non può più comportarsi in modo irresponsabile, oggi la politica deve dimostrarsi ragionevole facendo quelle riforme che realmente necessitano al sistema anche se da queste dovesse scaturire impopolarità”. Giustizia: Gerardi (Radicali); Governo Monti si è occupato poco di situazione delle carceri Agenparl, 14 gennaio 2013 Dichiarazione di Alessandro Gerardi, candidato nella Lista “Amnistia Giustizia Libertà”, consigliere generale dell’Associazione Luca Coscioni: “Il Ministro Severino si augura che la giustizia diventi il tema centrale della prossima campagna elettorale, sebbene la stessa faccia parte di un Governo che non ha mostrato il benché minimo interesse per questi temi nel corso del suo mandato. Come da tempo sostengono i radicali e Marco Pannella, in un’agenda politica seria, la voce “giustizia” coincide con la voce “democrazia”, eppure al momento le varie forze politiche in campo - con l’unica eccezione della Lista Amnistia Giustizia Libertà - non hanno ancora saputo spiegare agli elettori in che modo pensano di uscire da quella condizioni criminale che fa della nostra Repubblica un sorvegliato speciale in Europa. Peraltro ogni tanto sarebbe bene che il Ministro ricordasse anche che il sovraffollamento carcerario è solo un aspetto di un problema più complessivo i cui i nodi da sciogliere riguardano il gigantismo del pubblico ministero, la gestione discrezionale dell’azione penale senza alcuna verifica, la debolezza del controllo disciplinare, il numero eccessivo dei magistrati distaccati presso i ministeri, l’assenza di reale terzietà dei giudici, la responsabilità civile dei magistrati, la riforma del codice penale e l’efficienza dell’apparato giudiziario. Queste sono le vere patologie del sistema che il Ministro Severino e il Governo Monti non hanno voluto né saputo affrontare e di cui i mezzi di informazione, a partire dalla Rai Tv, non parlano minimamente contravvenendo con ciò ai propri obblighi di legge, ragione per la quale decine di dirigenti radicali stanno portando avanti una azione nonviolenta di sciopero della fame e della sete”. Giustizia: Associazione LeG; no all’amnistia, sì a modificare leggi causa di carcerizzazione Ansa, 14 gennaio 2013 Per affrontare il problema delle carceri serve un pacchetto di interventi interconnessi, quali le pene alternative, la revisione della Bossi-Fini, il ripristino della Gozzini, mentre amnistia o indulto si tradurrebbero come già successo in passato tante volte in “tamponi i cui effetti sono stati regolarmente annullati nel giro di un paio di anni”. Questo, in sintesi, quanto affermano tre direttori di carceri siciliani - Rita Barbera dell’Ucciardone di Palermo, Letizia Bellelli della casa circondariale di Enna, Antonio Gelardi della casa reclusione di Augusta - in un intervento pubblicato da Libertà e Giustizia, di cui sono soci. “Il disegno di legge sulle pene alternative - si legge nell’ intervento - stabiliva che per reati non gravi la pena comminata direttamente dal giudice di cognizione potesse essere di tipo non carcerario: permanenza presso il proprio domicilio, messa in prova ossia una forma di sospensione della pena con lo svolgimento di lavoro di pubblica utilità e un’altra serie di forme di limitazione della libertà con varie graduazioni (la detenzione e l’arresto presso l’abitazione o altro luogo di privata dimora, anche per fasce orarie o giorni della settimana). Una svolta culturale e di sistema”, osservano i responsabili dei tre istituti, che “unita a un ragionevole piano carceri (un limitato non faraonico aumento di posti letto) e al recupero delle strutture detentive già esistenti potrebbe fare uscire dall’emergenza”. “Ancora - aggiungono i tre direttori, sarebbero da rivedere la Bossi-Fini (legge sull’immigrazione) e la Fini-Giovanardi (legge droga) che contengono risposte in termini di carcerizzazione per fenomeni sociali complessi. Da ultimo, un ripristino della legge Gozzini rimaneggiata negli anni e quasi devitalizzata, nonostante gli ottimi risultati. La legge cosiddetta ex Cirielli, ultimo e più pesante intervento sulla Gozzini, nota per una cospicua abbreviazione dei termini di prescrizione, prevede un aumento del numero di anni trascorsi in carcere per accedere ai benefici esterni nei casi anche lievi di recidiva (cioè per tutti i detenuti)”. Giustizia: Organismo Avvocatura; crisi endemica, agenda di priorità per le forze politiche Adnkronos, 14 gennaio 2013 L’Organismo unitario dell’avvocatura chiede un’agenda di priorità per affrontare la crisi endemica della giustizia, e programma una serie di incontri con le forze politiche. Il neopresidente Nicola Marino e la Giunta, riferisce una nota, hanno delineato, nella prima riunione tenutasi lo scorso fine settimana, le attività da programmare, e sottolineato che “l’attuale momento elettorale deve essere utilizzato per la concreta interlocuzione con la politica, cui sottoporre le questioni non solo dei punti critici della riforma della professione appena approvata (accesso, giovani, rappresentanza, previdenza) ma anche dei rimedi alle attuali gravi carenze della giustizia civile e penale (eccessiva durata dei processi, costi, qualità, geografia giudiziaria, carceri)”. Temi per i quali l’Avvocatura “ha e rivendica un ruolo centrale, che l’Oua vuole, con decisione, portare avanti, con i modi e quell’unità di intenti che la classe forense ci ha rassegnato al Congresso di Bari”. Con i contributi di tutte le componenti, Ordini e Associazioni, l’Oua si appresta dunque a dettare l’Agenda giustizia, avviando da subito un’interlocuzione con tutti gli schieramenti impegnati nella prossima campagna elettorale, per prospettare il punto di vista dell’Avvocatura sulla base delle mozioni approvate nel recente Congresso nazionale di Bari. “Per fare ciò - dichiara il presidente Marino - occorre il contributo di tutti: nessuno può andare da solo perché il Congresso di Bari ha indicato una linea chiara che l’Oua intende rispettare e portare avanti”. Sarà dunque particolarmente importante la prossima Assemblea dell’Organismo, fissata per venerdì, 18 gennaio, dedicata a questi temi, nella quale anche Ordini e Associazioni potranno esprimere le proprie indicazioni. Giustizia: Ilaria Cucchi (Rivoluzione Civile); serve urgentemente legge contro la tortura Ansa, 14 gennaio 2013 Ilaria Cucchi, candidata per Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia, ricorda a Pietro Grasso del Pd: “Ero bambina e sentivo parlare del problema carceri. Sono diventata madre e mio fratello è morto di carcere - aggiungendo - Serve una legge sulla tortura subito. Questa una delle emergenze nel nostro Paese”. Ilaria Cucchi, candidata nelle liste di Rivoluzione Civile di Ingroia, ha chiara la battaglia che porterà in Parlamento. Oltre che lottare per un sistema carcerario che rispetti la vita psicofisica del detenuto, la sorella di Stefano Cucchi, morto in custodia cautelare in ospedale dopo un arresto per possesso di alcuni grammi di hashish, cocaina e antiepilettici (il 31enne geometra romano era epilettico), risponde da Sky Tg24 a Pietro Grasso, ex procuratore nazionale antimafia passato nelle fila del Pd, sottolineando che “mentre voi fate i vostri programmi la gente muore in carcere”. Ilaria Cucchi ricorda quindi: “Ero bambina e sentivo parlare del problema carceri. Sono diventata madre e mio fratello è morto di carcere”. Per questo, la candidata di Rivoluzione Civile - Ingroia afferma l’urgenza di introdurre in Italia “una legge sulla tortura subito”. Una legge, quella contro la tortura, che oltretutto sta attendendo da anni anche le Nazioni Unite. Già nel 2010 il Consiglio diritti umani dell’Onu formulò all’Italia una serie di raccomandazioni, tra cui l’introduzione di una definizione esplicita del concetto di “tortura”1 nel nostro Codice penale. Nel giugno 2010, però, l’Italia ha respinto questa richiesta affermando che avrebbe ratificato il protocollo facoltativo relativo alla Convenzione contro la tortura “quando si sarà dotata di un meccanismo nazionale di prevenzione indipendente”. Giustizia: Naga; sentenza Corte Strasburgo, alcune proposte e un’unica soluzione possibile Ristretti Orizzonti, 14 gennaio 2013 Martedì 8 gennaio 2013. La Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha condannato l’Italia, con una sentenza definita “pilota”, per aver violato l’art. 3 della Convenzione europea sui diritti dell’uomo che vieta negli istituti circondariali e di detenzione la tortura e il trattamento inumano e degradante. Da quanto si evince dalla lettura della sentenza, le condizioni delle carceri italiane sono giudicate assolutamente al di sotto degli standard richiesti dalla Convenzione per un’accettabile detenzione conforme ai principi fondamentali dei diritti delle persone. In Italia il sovraffollamento degli istituti di pena ha raggiunto il 143% il che significa che in media ogni detenuto ha a disposizione meno di 3 metri quadrati per vivere e muoversi in una cella di 16-17 metri quadri in cui convivono, talvolta per diciotto ore al giorno, 6 o persino 9 persone. In una situazione di questo genere, che caratterizza la maggioranza delle prigioni italiane, le condizioni igienico sanitarie e i servizi elementari sono a dir poco precari e in molti casi assenti. Lo stato intollerabile della detenzione nelle carceri italiane, contestato più volte dagli organismi comunitari, messo sotto accusa dagli operatori del settore, dalle associazioni, dagli amministratori locali, dai politici sino alle più recenti esternazioni del Presidente della Repubblica e a clamorosi atti di denuncia civile, è stato condannato da un atto formale di uno dei più alti organi giurisdizionali dell’Unione europea. La sentenza della Corte ha accolto il ricorso di 7 detenuti delle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza che hanno denunciato i suddetti istituti di pena e il Ministero della Giustizia per aver dovuto subire, nel corso di prolungati periodi di detenzione, condizioni di vita inaccettabili (spazi assolutamente insufficienti, assenza di acqua calda, scarsa illuminazione, ecc.). Accogliendo i ricorsi la Corte ha sostenuto che non poteva non riconoscere che le condizioni della detenzione sofferte dai detenuti configuravano il reato di “trattamento inumano e degradante”. La Corte ha condannato l’Italia a pagare ai sette detenuti un risarcimento per danni morali pari a centomila euro. Quindi ha ammonito lo Stato italiano a porre rimedio entro un anno ad una situazione che la Corte definisce talmente strutturale e sistemica da aver suscitato, oltre ai sette che sono stati recepiti dalla sentenza, altre centinaia di ricorsi che attendono un giudizio e che, se accolti, configurano un risarcimento iperbolico di 64 milioni di euro. Che fare? In attesa che il Ministero della Giustizia e gli organi preposti, di questo e del futuro governo, diano qualche segnale di discontinuità rispetto all’assoluta indifferenza che ha contrassegnato l’atteggiamento delle autorità competenti, il buon senso e la decenza morale suggeriscono l’adozione assolutamente urgente di alcune misure elementari. Innanzi tutto l’amnistia per i reati minori, con condanne almeno sino a due anni, in modo da svuotare effettivamente e immediatamente le carceri dalla massa di detenuti che stazionano in prigione in condizioni brutali alcuni per brevi o brevissimi periodi di tempo. Quindi, una serie di soluzioni alternative per chi è in attesa di giudizio in modo da attenuare una delle cause principali della saturazione carceraria. Poi lo stanziamento immediato dei fondi regionali e statali per adottare con sistematicità, come esorta la sentenza della Cedu, misure diverse dalla carcerazione e per affrontare, al di fuori di una logica volgarmente repressiva, i problemi della tossicodipendenza e della marginalità. Infine, al cuore del problema, abrogazione e riforma, rispettivamente, della legge Fini Giovanardi sul consumo e spaccio di sostanze stupefacenti; della legge ex Cirielli sulla recidiva; del codice penale, e della Legge Bossi Fini che fa del dispositivo carcerario il baricentro della legislazione e della politica sull’immigrazione. A fronte di una situazione che, sottolinea la sentenza della Cedu, ha oltrepassato il limite della tortura e dell’intollerabile, è ora di rovesciare le strutture nodali dell’impianto sicuritario e criminale delle politiche penali e carcerarie promosse, da oltre venti anni, dalle classi politiche italiane. Giustizia: 699 detenuti in regime di 41-bis, oggi tra loro ci sono più camorristi che mafiosi di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 14 gennaio 2013 A vent’anni dalla sua istituzione, nel 2012 il 41 bis ha fatto il record. Introdotto l’8 giugno 1992 all’indomani della strage di Capaci, tolti i primi sei mesi in cui al “carcere duro” furono spedite più di mille persone per le decisioni prese in gran fretta sull’onda dell’emergenza terroristico-mafiosa, i detenuti costretti al regime di massimo isolamento hanno raggiunto il numero più alto nell’anno appena trascorso: 699, di cui 279 esponenti della camorra, 215 di Cosa nostra, 124 della ‘ndrangheta e il resto collegati altre organizzazioni criminali. Le statistiche dicono che tra il 1992 e il 1993 ci fu il maggiore abbattimento di provvedimenti, passati da 1.041 a 481: un taglio drastico dovuto a una più attenta riconsiderazione delle posizioni, oltre che alle prime decisioni della Corte costituzionale e dei tribunali di sorveglianza. Ma anche, secondo l’accusa della Procura di Palermo, alla cosiddetta trattativa fra Stato e mafia che avrebbe portato alla decisione dell’allora ministro della Giustizia Conso a reinserire oltre trecento detenuti nel circuito ordinario. L’ex Guardasigilli ha dato tutt’altra spiegazione, ma qualunque siano le ragioni di quei numeri, da allora i provvedimenti di “carcere duro” hanno avuto un andamento altalenante, con aumenti e diminuzioni che alternavano di anno in anno. Sino al 2002, quando la riforma della legge si accompagnò alle bocciature in serie da parte dei tribunali di sorveglianza di rinnovi giudicati non adeguatamente motivati, anche per i capimafia riconosciuti. Fino al 2006 i 41 bis sono scesi di 133 unità, cominciando a risalire solo dal 2007, a seguito di un efficace coordinamento tra la Direzione dell’amministrazione penitenziaria e la Procura nazionale antimafia guidata da Piero Grasso. Negli anni successivi c’è stata una costante crescita, da 526 ai 680 detenuti del 2010. Nel 2011 s’è registrato un fisiologico calo di 7 unità e nel 2012 s’è raggiunta la cifra record. Fra i 699 detenuti che attualmente subiscono i rigori di quella norma ci sono anche quattro donne: la brigatista rossa Nadia Desdemona Lioce, arrestata nel 2003, e tre affiliate alla camorra napoletana con ruoli che gli inquirenti considerano dirigenziali. Giustizia: utilizzo di internet da parte dei detenuti… è giusto? da Paola Sparano www.leggioggi.it, 14 gennaio 2013 Un recente caso in Inghilterra riapre un dibattito che conserva numerosissimi contrasti di opinione pubblica; è giusto che i detenuti abbiano libero accesso ad internet? In seguito ad un’inchiesta, del quotidiano Yorkshire Evening, cinque detenuti del penitenziario di massima sicurezza di Wakfield, nel nord dell’Inghilterra, sono stati accusati di possedere un profilo personale su Facebook. Il quotidiano, sulla base dell’atto che regolamenta il trattamento dell’informazione delle pubbliche autorità (Freedom Information Act 2000), ha spinto il Noms (National Offender Management Services) a verificare le identità dei detenuti e ottenere la chiusura dei profili ritenuti illegali. L’episodio ha sollevato un dibattito sulle restrizioni che oggi sono da ritenersi sufficienti per la sicurezza della comunità. Se è vero che l’accesso ad internet può essere una minaccia per la comunità e per le vittime dei condannati della “casa dei mostri” (così è chiamato il carcere di Wakfield), è altrettanto vero che il profilo virtuale non implica una relazione diretta con la persona fisica: risulta infatti dall’inchiesta che alcuni detenuti gestissero il proprio account di Facebook attraverso l’attività di parenti e amici. Il portavoce della sicurezza ha ribadito che “i detenuti non hanno accesso a internet”, ma rimane ancora da sciogliere il nodo delle limitazioni d’accesso alla rete per le persone in stato di reclusione. Intanto, la sicurezza della prigione di Wakfield viene garantita dal portavoce che assicura il divieto d’accesso anche per i prigionieri in attesa di una sentenza. Questa vicenda offre notevoli spunti di riflessione. Alcuni tipi di reato per la loro stessa natura o per la loro gravità risultano essere assolutamente incompatibili con l’utilizzo di internet e dei social network. Ma l’opinione pubblica si è scissa in due fazioni, la prima che si oppone fermamente alla possibilità di far collegare i detenuti al mondo virtuale e la seconda che ne è favorevole. Mentre la prima fazione motiva il diniego affermando che il mondo virtuale può offrirsi come un’opportunità per reiterare alcuni tipi di reato o per facilitarne il compimento di altri, la seconda fazione ritiene che vietare l’utilizzo dei social network ai detenuti sia un illegittimo spossessamento dell’identità virtuale nonché un impedimento alla riabilitazione del soggetto nel contesto sociale. A tal proposito è bene rammentare che parte dei detenuti si trova in carcere per espiare una pena e che risulta indispensabile una distinzione obiettiva di questi in base ai reati da loro compiuti. Non bisogna altresì dimenticare che tutto ciò che entra o esce dal carcere deve essere meticolosamente controllato così come la corrispondenza; dare l’opportunità ai detenuti di avere una casella di posta elettronica o un account Facebook renderebbe alquanto faticoso se non addirittura impossibile un controllo dei messaggi o delle pubblicazioni di questi. Concedere l’accesso alla rete in generale o a Facebook ai detenuti condannati per reati sessuali o di camorra, significherebbe dar loro la possibilità di poter continuare a perseguitare le proprie vittime o contattare e continuare a gestire o comunque favorire organizzazioni malavitose. Sul punto ci saranno sempre opinioni contrastanti ma la possibilità di far usufruire del mondo virtuale ai detenuti potrà avverarsi solo quando si attuerà una netta distinzione tra chi è detenuto per espiare una condanna e chi è detenuto in attesa di sentenza; chi è stato condannato per reati informatici, di violenza sessuale, stalking, diffusione di materiale pornografico o pedopornografico, associazione di tipo mafioso, ect. e chi invece è stato condannato per furto, etc.; ma soprattutto, una volta appurate le dovute distinzioni suesposte, la tecnologia dovrà soccorrere il diritto attraverso la creazione di un sistema informatico con il quale controllare scrupolosamente tutti i contenuti degli accessi ad internet dei detenuti che precedentemente siano stati ritenuti meritevoli dalle Autorità Giudiziarie di tale tipo di riabilitazione sociale. Lettera aperta a Totò Cuffaro… (di Mario Iannucci, psichiatra del Carcere di Sollicciano) Ristretti Orizzonti, 14 gennaio 2013 Egregio Collega, sono uno psichiatra e lavoro in carcere dal 1979. Lavoro “anche” in carcere. Vorrei che mi consentissi, come collega, di darti del tu, nonostante la differenza della nostra posizione: io sono sempre stato soltanto un medico, mentre tu sei stato un arcinoto Governatore di Regione (poco importa che tu non lo sia più: resta sempre, come sai bene, qualcosa del ruolo istituzionale che si è rivestito, non solo nel “titolo” che si conserva). Ho letto, su “Ristretti Orizzonti”, l’articolo-intervista di Bruno Vespa, pubblicato originariamente su Panorama. L’ho letto e, nel complesso, l’articolo non mi è piaciuto. Non mi piace granché Bruno Vespa, ma questo è affare mio e la mancanza di simpatia per Vespa non sposta di un millimetro il giudizio sul contenuto dell’articolo e sul suo stile. “Lo stile è l’uomo”, come ci ha insegnato Monsieur de Buffon. Una frase che Jaques Lacan ha indicato come possa prendere un valore aggiuntivo se solo si introduce un apostrofo: “l’ostile è l’uomo”. Di certo l’accostamento a Silvio Pellico, evocato dal titolo dell’articolo di Vespa (Toto Cuffaro e “le sue prigioni” ), mi pare un po’ ardito (“non l’ho scelto io il titolo”, mi dirai, forse non lo ha scelto nemmeno Vespa: ma le cose non avvengono mai per caso). Vorrei parlarti di molte cose in questa mia lettera, ma non c’è né tempo né spazio. La lettera non può che essere breve. Alcune cose te le dirò in maniera diretta, per altre userò delle metafore. Vorrei dirti, in primo luogo, che apprezzo molto il fatto che tu abbia ripreso gli studi, poco importa che si tratti degli studi di giurisprudenza. Il valore della Legge, si sa, è fondante per l’uomo e per la società, anche se l’uso che si fa delle leggi, specie in questa Italia impoverita, è spesso destinato a negare quel valore (della Legge). L’auspicio che formulo è che l’uso che hai fatto, durante la tua attività istituzionale, della vantata competenza in materia di legislazione degli Enti Locali, non sia andata nel senso di una negazione della Legge. Ti sono anche grato per avere accennato al carattere “leggendario” di quella “rieducazione” carceraria di cui parla l’art. 27 della Costituzione. Io non amo il termine rieducazione, ma sono in ogni caso d’accordo sul carattere del tutto inappropriato di quella riabilitazione (riabilitazione è “termine dè legisti e canonici” - per dirla col Tommaseo - che viene molto usato anche in medicina e che mantiene tutto il senso che ha assunto negli ambiti di origine anche quando, come è accaduto con crescente frequenza negli ultimi anni, viene usato in ambito psichiatrico) cui le pene dovrebbero tendere. Perché una riabilitazione possa avvenire, in un luogo come il carcere dove si ammassa (persino nelle Sezioni di Alta Sicurezza) un disagio esistenziale e psichico così grande, occorre la presenza di “operatori della riabilitazione” estremamente qualificati. Occorre preparare costantemente tutto il personale (anche e soprattutto quello della “sorveglianza”) a queste funzioni di riabilitazione. Purtroppo, però, questo non avviene. Ti sono infine grato perché fai alcune osservazioni sul carcere che io reputo profonde. Ancora più le riterrei profonde se le sentissi sincere. “[Il carcere] - tu scrivi - ti dà il tempo per incontrarti con te stesso, se hai voglia di farlo. Allora parli con la tua anima, con la tua coscienza e trovi dentro di te il clima giusto. Se accetti il carcere, ce la fai. Altrimenti la vita qui dentro è devastante. E bada, per farcela non devi avere rancori, risentimenti. Se io li avessi coltivati, il carcere sarebbe stato un inferno...”. Fino a qui tutto bene, dunque, nell’articolo di Vespa. Passiamo invece ai motivi di dissenso. Il primo motivo è l’identificazione che compi tra i detenuti e le cornacchie (quelle di Apollo e Coronide). Ci spieghi anche il perché. “[…] Una volta le cornacchie erano bianche e bellissime. Apollo ne scelse una come custode della sua amante Coronide, una principessa arcade. Ma l’indole umana portò Coronide a innamorarsi di un guerriero greco. Apollo furioso uccise con un dardo Coronide che prima di morire gli confessò di aspettare un bambino da lui. Apollo, pentito, estrasse dal ventre della donna il bambino che sarebbe diventato Esculapio, dio della medicina, e punì la cornacchia [che non aveva vigilato bene, come era suo compito] facendola diventare nera e con la voce sgraziata”. Trovo che nessuna cosa possa essere meno opportuna della identificazione fra i detenuti e le cornacchie. Abiti il carcere da un tempo sufficiente per sapere che quei “custodi” che sono venuti meno al loro compito, diventando complici o artefici di malefatte quando avrebbero dovuto vigilare affinché quelle malefatte non avvenissero, in carcere debbono essere ristretti in sezioni speciali, le cosiddette sezioni “protette”, poiché non vengono certo veduti di buon occhio dagli altri detenuti. Forse sarebbe bene che tu riflettessi sulla identificazione di te stesso con una “cornacchia”. Ma ti prego: non identificare tutti i detenuti con delle “cornacchie”. Il secondo motivo di dissenso riguarda quel “dialogo con l’anima” che, stando a ciò che dici, ti ha portato ad “accettare il carcere”. Come mi ha insegnato l’amico Alessandro Margara, “il carcere è il più grande produttore di innocenza che ci sia”. Al suo interno è difficile trovare qualcuno “che si dichiari colpevole”. Mi capita frequentemente, come puoi capire, di parlare con imputati, sottoposti alla custodia cautelare in carcere, che professano con forza la loro innocenza. Ho assistito taluni carcerati che sono poi stati assolti per non avere commesso il fatto. Agli imputati che si dichiarano ingiustamente detenuti, io mi rivolgo a volte con queste parole: “Lei sa bene se è innocente o colpevole delle accuse che l’hanno portata in prigione. Se è colpevole, provi a immaginare cosa avverrebbe nel caso ammettesse le sue colpe (le sue, non quelle degli altri): il giudice non infierirebbe e le sarebbe consentito l’accesso ai benefici previsti dalle leggi. Se invece è innocente, si batta con le unghie e con i denti per vedere riconosciuta la sua innocenza e ripristinati i suoi diritti che ora vengono calpestati”. Come puoi capire, egregio collega, non avrei avuto bisogno di rivolgermi in questo modo, qualora avessi avuto la fortuna di incontrarli, a Silvio Pellico, ad Antonio Gramsci, a Sandro Pertini. Nemmeno a Enzo Tortora, che ho casualmente incrociato durante la mia lunga attività. Sarebbe cosa molto buona, quando si è condannati innocenti, se si riuscisse a non nutrire rancore e risentimento: come uomini, tuttavia, non sempre riusciamo a tenere a bada i nostri sentimenti. Ma non si può e non si deve accettare un giudizio ingiusto, una ingiusta carcerazione. Solo chi è colpevole è bene che “accetti il carcere”. Talora non riesce ad accettarlo nemmeno chi è colpevole, magari di una colpa fra quelle che, ahinoi, erano e restano estremamente “comuni” fra i potenti: persino fra coloro che sanno di essere colpevoli, i modi, i tempi e i fini di una prigionia risultano inaccettabili. La lettera-testamento di Gabriele Cagliari, del luglio 1993, la conosci senz’altro. Un’altra cosa, caro collega: siccome sono in carcere da molti anni, quell’invito che, come ti ho detto, rivolgo talora agli imputati che proclamano la loro innocenza, evito di rivolgerlo ai “mafiosi”: non siamo degli sprovveduti, né io né i mafiosi, e sappiamo benissimo a quali conseguenze nefaste, per sé e per i propri familiari, porterebbe la risoluzione di quel tipo di complicità nel male (per dirla con Sant’Agostino) che si instaura con il patto mafioso. Fra il “pentimento” previsto dalle norme sui “collaboratori di giustizia” e il pentimento interiore (la teshuvah, il “ritorno” che porta all’accettazione della condanna) ci corre un oceano. Nella “presentazione” che di te hai fatto negli anni (riguarda la tua foto, mentre, sorridente fra sostenitori affamati, “sposti il vassoio di cannoli”) e che continui a fare, io non vedo traccia di quella sottomissione alla Legge (a Euristeo) e di quella fortificazione attraverso le prove che consentono a Eracle di emendare le sue colpe, la folle “strage dei suoi figli” (si fa “strage dei propri figli” anche pervertendo l’uso delle Istituzioni). Manasse (II Cron 33), negli ultimi tempi della sua vita, fu un giusto re di Giuda. Ma agli inizi del suo regno aveva restaurato l’idolatria e addirittura “sacrificato i suoi figli”. Allora il Signore fece sconfiggere Giuda dai capi dell’esercito del re d’Assiria, che catturarono Manasse con uncini e lo condussero prigioniero a Babilonia. Manasse, “nella sua angoscia, implorò il Signore, suo Dio, e si umiliò profondamente davanti al Dio dei suoi padri. Lo pregò e Dio si lasciò placare. Esaudì le sue suppliche e lo ricondusse a Gerusalemme nel suo regno”. Manasse, nel suo cuore, aveva davvero “accettato e rispettato la sentenza” e la punizione, ma non perché era “frutto del lavoro delle istituzioni”. Le istituzioni che sbagliano vanno arditamente combattute: ce lo insegnano Silvio Pellico e gli altri. La citazione del Vecchio Testamento, così come i riferimenti al Mito, non vogliono avere, collega che mi stai senza dubbio a cuore per la condizione nella quale ti trovi, alcun valore “rieducativo” e didattico. So bene che siamo tutti peccatori e non scaglierò non la prima pietra e nemmeno le successive. Ma per favore caro collega, appena uscirai dal carcere o anche prima se potrai, riguarda le tue foto con i cannoli, ascolta i comizi nei quali parli di cannoli, di cassate e di mousse. Poi, dopo avere dialogato con la tua anima fuori dai riflettori, restituisci a tutti noi l’immagine di un mentsh, di un uomo responsabile, che fa le cose giuste, non di cameriere che “sposta cannoli”. Questo è l’auspicio che mi sento di formulare, augurando a te ogni bene, a tua moglie medico, a tuo figlio che lo diverrà, e anche a te, di essere sempre degli ottimi medici nel solco di Esculapio e di Ippocrate, a tua figlia che studia giurisprudenza di riconoscersi costantemente nel valore della Legge. Lettere: dopo otto giorni di sciopero di fame e sete ho ottenuto la fissazione dell’udienza… di Giulio Petrilli Ristretti Orizzonti, 14 gennaio 2013 Dopo otto giorni di sciopero della fame e della sete, per protestare contro il mancato risarcimento per ingiusta detenzione, durata sei anni, con l’accusa di essere uno dei capi dell’organizzazione terroristica “ Prima Linea”. Assoluzione definitiva in Cassazione nel luglio 1989. Sentenza di assoluzione ritenuta importante, ma non vincolante per concedere il risarcimento da parte della Corte d’Assise d’Appello di Milano che ha rigettato la mia istanza, in quanto frequentavo persone sbagliate. Dopo questo sciopero della fame, ho ottenuto la fissazione dell’udienza alla Corte di Cassazione il 30 maggio prossimo. Un piccolo ma importante passo. Lettere: intervenire sulle carceri è una priorità… di Luigi Cancrini L’Unità, 14 gennaio 2013 Secondo i giudici della Corte europea le nostre carceri sono una prigione fatale. Ci sono 21 mila detenuti di troppo. Lo spazio è striminzito. C’è un suicidio ogni 924 detenuti e mancano 7 mila agenti penitenziari. Il presidente della Repubblica ci è rimasto male. La ministra della Giustizia se l’aspettava. Non ci facciamo proprio una bella figura. Le carceri sono lo specchio della civiltà di un Paese. Sono la carta d’identità della democrazia. Fabio Sicari La condanna della Corte Europea per i diritti dell’uomo è uno schiaffo per il nostro Paese. Meritato perché dopo aver dato (2006, con il governo Prodi) il segnale dell’indulto, governi e Parlamento hanno accettato che un nuovo ingorgo si determinasse continuando di fatto ad ignorare il problema: su cui.il Governo che verrà dovrà dare almeno tre risposte fondamentali. Ampliando drasticamente, prima di tutto, le misure alternative alla pena detentiva per riportare in comunità o in uno spazio comunque terapeutico i tossicodipendenti e le persone che stanno evidentemente male, come gli autori di violenze famigliari. Provvedendo ad una riforma forte, in secondo luogo, dell’istituto carcerario dove il lavoro di custodia deve essere sostituito progressivamente da quello centrato sulla riabilitazione dei recidivi e degli autori di crimini più gravi. Dando vita, in terzo luogo, ad un piano ampio di edilizia carceraria che includa il superamento definitivo degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e che permetta di verificare, al recluso e a chi lavora con lui, l’idea per cui in primo piano, e da rispettare sempre, c’è la dignità degli essere umani. Razionalizzare la spesa pubblica è soprattutto questo, infatti: capacità di utilizzare meglio i soldi pubblici spesi malissimo oggi nelle carceri. Investendo anche qualcosa. Per non sprecare vite. Preziose oggi e per il domani. Torino: marocchino condannato per omicidio tenta il suicidio in carcere, salvato Ansa, 14 gennaio 2013 Uno dei marocchini condannati a 17 anni per l’omicidio del pensionato torinese Sabino Lorè, ucciso a bottigliate la notte del 13 febbraio 2006, ha tentato il suicidio impiccandosi con dei lacci a una finestra del carcere delle Vallette. L’uomo, 38 anni, è stato salvato dalla polizia penitenziaria e trasportato in ospedale. “Gli agenti - dice Leo Beneduci, segretario generale del sindacato autonomo Osapp - hanno operato con professionalità nonostante la grave carenza di organico”. Cosenza: Laratta (Pd); per gestione Casa circondariale di Paola occorrono più risorse Agenparl, 14 gennaio 2013 Venti visite in carcere nel corso degli ultimi anni. Piena adesione al progetto nazionale “Natale in carcere” e “Ferragosto in carcere” promosso da deputati Pd e radicali. Una costante attenzione verso il pianeta carcere che “presenta aspetti drammatici che ci ha portato alla dura condanna dal parte dell’ Europa”. Questi sono i numeri del deputato del Pd Franco Laratta resi noti prima di entrare stamane nel carcere di Paola (Cs) di primo mattino. Una visita durata alcune ore. “In un oceano di gravissime violazione dei diritti umani e degli più elementari diritti dei carcerati, ho potuto constatare come nell’Istituto di pena di Paola sia in corso un positivo e interessante progetto di formazione scolastica che coinvolge gran parte dei 270 detenuti (quasi il doppio del consentito). In un clima buono, nonostante tutto, si registra il successo di questa esperienza di formazione scolastica primaria e superiore. Ma il dato ancora più interessante sono i laboratori di cucina e ristorazione messi in atto. Al carcere di Paola si formano chef e camerieri, professioni ancora molto richieste sul mercato, che già si rendono utili gestendo la grande cucina dell’Istituto che sforna pranzo e cena i pasti per i detenuti, differenziando i menu per i musulmani, i diabetici e a altri con particolari patologie. Parlare con i detenuti è un piacere, perché li trovi impegnati, soddisfatti e convinti di poter un giorno, una volta fuori da carcere, trovare anche un’occupazione che consenta loro il pieno reinserimento nel mondo del lavoro. L’istituto penale di Paola, ben gestito da molti punti di vista, ha però bisogno di risorse finanziarie per sostenere l’impiego dei carcerati, ha bisogno di rafforzare l’assistenza sanitaria (funziona 24 ore su 24, ma ad esempio manca di un ecografo per il quale mi sono subito rivolto all’Asp di Cosenza), ha bisogno di personale (la polizia penitenziaria è ormai ridotta ai minimi termini, ha bisogno di un fotocopiatore per la sezione scolastica che ne è priva. Il carcere ha bisogno di molto, ma quello di Paola tenta di uscire dalle condizioni devastanti di quasi tutte le carceri italiane, provando a rispettare i diritti umani e i diritti fondamentali delle persone, soprattutto in carcere.” “È grave che il parlamento, bloccato dai veti di Pdl e Lega, non sia riuscito ad approvare, prima dello scioglimento, il piano del ministro Severino, che puntava a rafforza le pene alternative al carcere. Una sconfitta per tutti noi che ci è costata la dura condanna dell’Europa!”. Novara: “cella in piazza”… 7 metri quadri per 4 detenuti, in carcere trattati come bestie di Massimo Mathis La Stampa, 14 gennaio 2013 La denuncia degli avvocati penalisti che hanno ricostruito una cella in piazza per far capire come si vive dietro le sbarre. Quattro uomini, due letti a castello, sei armadietti, tre sgabelli e un tavolino mobile. In tutto sette metri quadri. Il bagno-cucina annesso è meno di due metri per due e contiene: water, lavandino, piano-cottura, armadietto per pasta e caffè. Non è un monolocale Ikea ma la cella dove sopravvivono, venti ore al giorno, 365 giorni l’anno, i sessantacinquemila detenuti rinchiusi nei duecento sei penitenziari italiani. Metti una cella in piazza per capire l’emergenza carceri. L’idea è venuta a chi in prigione ci lavora, volontari e avvocati. L’ultima tappa a Novara dove la campagna in collaborazione con La Fraternità di Verona - qui patrocinata dal Comune - è arrivata a pochi giorni dalla sentenza della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo che ha condannato l’Italia per trattamento inumano e degradante di sette carcerati di Busto Arsizio e Piacenza. Strasburgo ha inoltre imposto un risarcimento di 100 mila euro per danni morali e ha dato al governo un anno di tempo per rimediare alla situazione carceri. La cella, che è stata allestita in un container dai detenuti di Padova, non è passata inosservata vicino ai portici di piazza delle Erbe, pieno centro a Novara. Dietro le sbarre pitturate di smalto rosso, si riproduce fedelmente la vita in prigione. “Spazi omologati per due ma “tollerati” per quattro - denuncia l’avvocato Renzo Inghilleri, della giunta nazionale dell’Unione Camere penali, se sono in sette fanno i turni per stare in piedi. La gente stenta a crederci ma le assicuro che è così. Ho girato molte strutture, la cosa che colpisce ogni volta è lo sguardo dei detenuti che si stringono alle grate: un misto di curiosità e malinconia. Una stretta al cuore, sembrano bestie. Spesso sono trattate così. E non è colpa del personale, che fa di tutto per creare condizioni migliori: il sovraffollamento rende disumano qualsiasi luogo”. Delle ventimila persone “di troppo” al fresco, oltre il 40 per cento è in attesa giudizio definitivo. “Basta questo dato - prosegue Inghilleri - a dimostrare che in Italia c’è un costante abuso della custodia cautelare in cella”. La soluzione? “Non nuovi istituti ma una riforma del sistema penale, la galera deve essere riservata solo ai reati più gravi. Occorre depenalizzare. Indulto e amnistia non cambiano le cose, ma in emergenza ben vengano”. Le carceri italiane sono tra le più sovraffollate d’Europa; la politica elude il problema. Dall’associazione Antigone piovono accuse: “La pena diventa sempre più strumento di violenza e di espropriazione della dignità umana. E le carceri non sono mai abbastanza: più prigioni si costruiscono, più se ne riempiono”. L’ultima fotografia del ministero è del 31 dicembre 2012: 65.701 detenuti contro una capienza “regolamentare” di 47.040. I turni li fanno anche per respirare. In confronto, Novara è un motel due stelle. Nei bunker di via Sforzesca, che hanno ospitato pure il boss Bernardo Provenzano (tuttora vi sono 70 detenuti sottoposti al regime del 41 bis, il dieci per cento del totale in Italia), 197 detenuti a fronte di una capienza regolare di 179; un quarto sono stranieri. Fra questi solo 89 hanno condanne definitive. L’orrore è altrove. Poggioreale, Napoli: 1.300 detenuti in più rispetto al massimo consentito. Visitato a fine 2012 dal presidente della Camera penale di Napoli, Domenico Ciruzzi, con una delegazione dell’Unione delle Camere penali italiane che sta girando tutti gli istituti di pena, è stato definito “una pattumiera sociale, una situazione intollerabile per un Paese civile, il fallimento totale della nostra politica”. Rischia di scoppiare anche Regina Coeli. Nella casa circondariale della capitale capienza 600 detenuti, a ottobre ne risultavano 1.044 - l’VIII sezione è parzialmente chiusa, mentre la V e la VI lo sono per intero perché giudicate inadeguate dal punto di vista abitativo. Così diventano dormitori anche gli spazi destinati alla vita in comune, alla scuola e alle attività penitenziarie. Nuoro: Sdr; affollamento nel carcere di Macomer, 81 detenuti per 46 posti regolamentari Ristretti Orizzonti, 14 gennaio 2013 “Il sovraffollamento carcerario in Sardegna non fa eccezione rispetto alle altre realtà della Penisola. Anzi in alcuni casi, come Macomer, si sfiora il 100%. I dati diffusi dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, che fotografano la realtà detentiva al 31 dicembre 2012, sono chiari: a Macomer in 46 posti regolamentari sono ristretti 81 detenuti”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, ricordando che “in diverse strutture penitenziarie, in particolare quelle della provincia di Nuoro, si registra una maggiore sofferenza”. “Un esempio significativo è quello di Bad’e Carros dov’è ancora chiusa un’intera sezione e quindi i dati (251 posti - 173 detenuti presenti di cui 14 donne) non rispecchiano le reali condizioni dei cittadini privati della libertà. Insomma in alcuni casi i detenuti sono costretti a vivere in spazi ridotti anche se i numeri non lo rivelano. Un altro caso eloquente è quello di Mamone-Lodè dove sono ristretti 292 detenuti (269 dei quali stranieri) contro 378 posti. In realtà da circa 20 anni sono chiuse due diramazioni che limitano drasticamente i posti disponibili. Analogamente a Isili si trovano reclusi 162 detenuti (129 stranieri) per 235 posti ma la disponibilità degli spazi non è anche in questo caso completa. La situazione per i detenuti è pesante a Lanusei dove nel vecchio convento adibito a struttura penitenziaria ci sono 44 posti e 59 detenuti (14 stranieri)”. Nella provincia di Cagliari, la sofferenza maggiore si registra come al solito a Cagliari dove a fronte di 345 posti regolamentari convivono 537 cittadini privati della libertà (91 stranieri e 18 donne). La situazione però è grave anche a Iglesias dove a fronte di 62 posti convivono 108 persone (27 stranieri). Ad Arbus 176 posti per 146 detenuti (134 stranieri). Ad Oristano- Massama si trovano 158 detenuti comuni per 212 posti, la Casa Circondariale è tuttavia interessata da lavori di ristrutturazione. Meno problematica appare la situazione nel Nord Sardegna. A Sassari 140 detenuti per 190 posti (ma le condizioni di vita sono molti difficili per la vetustà della struttura dove molte celle sono malsane per l’umidità. Anche a Tempio nella Casa Circondariale “Pittalis” ci sono 159 posti attualmente occupati da 107 detenuti (25 stranieri). Ad Alghero invece per 159 posti ci sono 170 detenuti (79 stranieri). “Nelle ultime settimane, a cadenza costante, è in atto - conclude Caligaris - uno sfollamento delle strutture dove il numero dei detenuti grava maggiormente determinando anche condizioni di difficile convivenza. Il sovraffollamento infatti ha ripercussioni in particolare sulla disponibilità dei beni di prima necessità, sull’assistenza sanitaria e sulla sicurezza. Aspetti non secondari nell’equilibrio del sistema”. Spinazzola (Bat): il “carcere modello” aperto nel 2004, chiuso nel 2006, oggi è abbandonato di Cosimo Forina Gazzetta del Mezzogiorno, 14 gennaio 2013 “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione”, disse Voltaire nel Settecento. Due giorni fa i giudici della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo a Strasburgo hanno sancito che nelle carceri italiane continua ad esserci un trattamento disumano. I giudici hanno condannato l’Italia a risarcire per 100mila euro sette detenuti: tre del carcere di Piacenza quattro di quello di Busto Arsizio, costretti a scontare la loro pena in non più di tre metri quadrati. Per il capo dello Stato Giorgio Napolitano, il quale ha sollecitato (inutilmente) più governi ad affrontare la questione carceri, si tratta di “una mortificante conferma della incapacità dello Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esecuzione di pena”. “Avvilita ma non stupita” il ministro della Giustizia Paola Saverino. Più preoccupata ad ammonire: “Vietato fare sulla pelle dei detenuti campagna elettorale”. Quella sentenza potrebbe costituire un precedente per gli oltre cinquecento ricorsi che ben impacchettati potrebbero giungere presto alla Corte di Strasburgo. Altri risarcimenti potrebbero essere imposti allo Stato, cioè a tutti i cittadini italiani. E per l’Italia, chiamata a stringere sino all’ ultimo buco della cinghia per risanare i conti dello spreco, potrebbe essere un altro bel salasso. Oltre a collezionare giudizi non di certo gratificanti. Quelle brutte figure di cui tener veramente conto, da evitare, se si vuole salvare la faccia, all’estero. Le carceri italiane stanno letteralmente scoppiando. Negli spazi destinati a 45mila posti regolamentari, ammassati all’ inverosimile, si contano 65mila detenuti. Non sardine, ma uomini e donne con il diritto di esistere, pur dovendo scontare la loro pena che dovrebbe essere rieducativa. Ed invece è un bollettino di guerra. Perché in ragione di quelle condizioni: autolesionismo e soprattutto i suicidi sono in aumento. Tanto tra i detenuti che tra gli uomini della Polizia Penitenziaria, pochi rispetto all’ organico necessario, costretti loro malgrado a lavorare in condizioni oltre ogni limite della ragionevolezza. Da queste parti, in terra di Murgia, quando si parla di sovraffollamento delle carceri non si può che sentirsi doppiamente indignati. Perché qui e non altrove si è scelto in modo paradossale di chiudere, non solo il carcere a Spinazzola, divenuto nel frattempo una eccellenza, ma non è stato mai aperto neppure il carcere di Minervino Murge. Edifici costruiti con progetti fotocopia, con capienza possibile sino a 100 posti, costati miliardi di vecchie lire, del tutto uguali a quello di Genoano di Lucania, a pochi chilometri da Spinazzola, anche questo vuoto. Inutilizzato. Simboli dello spreco e della indifferenza. La singolare storia del carcere di Spinazzola raccontata in ogni sfaccettatura dalla “Gazzetta” è esempio della più marcata contraddizione. Perché la struttura funzionante, scippata al territorio, nonostante il pellegrinaggio di parlamentari di ogni sigla politica, consiglieri e assessori regionali, garante dei detenuti è stata chiusa per due motivi incredibili: l’impossibilità di reperire altro personale e perché d’improvviso, dopo anni dal suo funzionamento, con un blitz di tecnici arrivati dal Dipartimento che aveva avuto ripensamenti sulla chiusura è stata dichiarata inidonea e antieconomica. Già l’anti economicità. Nell’Italia dello spreco se il parametro della detenzione con decenza non rientra nella tabella della presunta “buona spesa” questa è da considerate consumo improponibile. Come la penseranno ora in quel del ministero della Giustizia, dove le loro relazione erano state ampiamente contestate dal sindacato Ugl Polizia Penitenziaria per il carcere di Spinazzola, circa il dispendio di denaro pubblico che lo Stato dovrà sborsare per i risarcimenti ai detenuti? Il popolo dei 65mila internati non sono un corpo estraneo della società ma il suo più degenerato risultato, quando accertata la colpa. Ogni costo sul recupero, contro ogni recidiva, è un investimento nel futuro. Quindi le aspettative dei detenuti ci appartengono e nessuno può dirsi estraneo. A dirla come Adriano Sofri, giornalista, scrittore, ex leader di Lotta Continua, condannato a 22 anni di carcere - quale mandante dell’omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi: “Può capitare a chiunque, anche a voi di finire in galera. Al contrario, è probabile che non vi capiti affatto. Tuttavia, anche se non andrete dentro, c’entrate. C’entriamo tutti”. Se lo sciopero della fame e della sete del radicale Marco Pannella non è servito a fare un passo in avanti verso l’amnistia, una risposta possibile all’ indecente sovraffollamento delle carceri, forse ci riuscirà l’ultimatum fissato da Strasburgo che obbliga l’Italia entro un anno a porre rimedio. E Spinazzola, con le altre carceri del territorio vuote ed inutilizzate, potrebbe essere richiamata a svolgere un ruolo. Hotel Mille Sbarre Ci hanno persino ironizzato pensando ad un utilizzo diverso del carcere di Spinazzola dopo il suo abbandono. Trasformarlo in un hotel con nome strafottente: “Hotel Mille Sbarre”. Ma ora che agli occhi dell’Europa e del Mondo l’Italia viene declassata nei diritti umani, per la condizione in cui sono costretti a vivere i detenuti, quella struttura vuota non può che pesare come un macigno sulle coscienze. A prevalere la sua storia, vergognosamente sconsiderata. Una costruzione inutilizzata, non presieduta, tutelata, rispettata. Per convenienza: un edificio fantasma. L’Istituto Penitenziario di Spinazzola su cui dentro e fuori è piombato il silenzio non è solo emblema dello spreco. È rinuncia di un presidio dello Stato, sottrazione alla rieducazione dei detenuti, negazione del diritto alla loro dignità. Le celle svuotate da ogni suppellettile come gli uffici sono li a testimoniarlo. Gli appelli scaturiti verso il Ministero della Giustizia dal consiglio comunale e provinciale non sono serviti nulla. Ed ora sarebbe invece il caso di ricominciare a ribadire da parte delle istituzioni del territorio la necessità della riapertura del carcere di Spinazzola che altrimenti resterebbe vuoto per sempre. Per non sentirsi complici nelle motivazioni che hanno portato la Corte di Strasburgo alla condanna dell’Italia. Il dito puntato è grave: “Trattamento inumano e degradante”. Una colpa se pur indiretta della città che non ha saputo e voluto agire, se non formalmente, all’ennesimo scippo sul suo suolo. Quello di Spinazzola ricordiamolo, era un carcere modello. Dove si stava sperimentando un percorso, unico in Italia, finanziato dalla Asl/Bt contro la recidiva di reati odiosi come quelli che toccano la sfera sessuale. Un cammino approvato in commissione parlamentare da tutti i rappresentanti delle forze politiche. Una eccellenza che forse deve aver dato fastidio, visto che poi invece di potenziare la struttura, come ci si aspettava, la si è smantellata, smembrata di ogni bene, affinché nessuna traccia rimasse di un percorso positivo. Del carcere di Spinazzola, come se la beffa non dovesse mai aver fine, si è continuato a parlar bene sulle riviste ufficiali del pianeta carcere, finanche dopo che questo era stato chiuso. Cento i posti della sua capienza, da poter occupare. Altrettanto ve ne sarebbero in quello di Minervino Murge, ed ancora nella struttura di Genoano di Lucania, ma anche ad Irsina. Il Governo dei tecnici divenuti politici, prima di andare a casa o il prossimo imminente, decida di potenziare il corpo della Polizia Penitenziaria, con nuove formazioni e assunzioni. Investendo nelle strutture lasciate al declino. Qui, in questo tratto di paese, dove è anche Italia, è già possibile non negare il diritto alla dignità per oltre 300 detenuti. Ecco tutte le tappe di una brutta storia L’istituto penitenziario di Spinazzola è stato attivato il 1° dicembre 2004 per volontà del provveditore Rosario Cardillo. Nel maggio 2005 con decreto del Ministero il carcere assunse la denominazione di “Istituto penitenziario per adulti sezione staccata di Trani”. Per gli effetti del provvedimento di indulto voluto dal ministro Clemente Mastella, nel 2006 l’istituto penitenziario fu svuotato e il personale distaccato fu fatto rientrare in Basilicata. In seguito, il provveditore dell’amministrazione penitenziaria Angelo Zaccagnino riapre l’istituto, dirottandovi tutti i detenuti sex offender, ovvero persone macchiatesi di reati a sfondo sessuale. L’on. Pierfelice Zazzera dell’Italia dei Valori in visita al carcere il 15 agosto 2009 presenta una interrogazione al ministro Alfano, finalizzata a far potenziare il carcere di Spinazzola. L’interrogazione ripercorre la significativa storia di questo istituto di pena. A questa prima interrogazione parlamentare segue un’altra del senatore Luigi D’Ambrosio Lettieri (Pdl) dopo l’audizione della direttrice Mariella Affatato proposta dall’on. Benedetto Fucci (Pdl) alla Commissione Parlamentare di inchiesta sugli errori in campo sanitario e sulle cause dei disavanzi sanitari regionali, presidente on. Leoluca Orlando (Idv). In quella occasione viene presentato il progetto sperimentale nazionale contro le recidive di reati a sfondo sessuale. Dopo il decreto di chiusura del 16 giugno 2011, terza interrogazione parlamentare. Stavolta la presentano i deputati Radicali eletti nel Pd con cui si chiede al ministro della Giustizia Nitto Francesco Palma l’immediata riapertura dell’Istituto Penitenziario. Sempre a cura dei Radicali, Annarita Digiorgio, propone una mozione al consiglio regionale recepita dal consigliere Ruggiero Mennea con cui si chiede al governatore Nichi Vendola di intervenire personalmente presso il ministro. Con decreto del ministro Angelino Alfano il 16 giugno 2011 inspiegabilmente il carcere di Spinazzola viene chiuso. La notizia è nota alla direzione dell’Istituto solo il 26 luglio. Nel giro di pochi giorni prima si ha il trasferimento dei 35 detenuti e del personale. La struttura è stata poi svuotata anche di arredi e strumentazione in modo selvaggio. Nessuno ha pagato i danni causati Il 25 ottobre, il Capo Dipartimento Ionta annuncia la riapertura del carcere di Spinazzola. La “riapertura” non c’è mai stata. Bologna: Durante (Sappe); un altro agente è risultato positivo al test della tubercolosi Adnkronos, 14 gennaio 2013 “Un altro agente della polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Bologna è stato trovato positivo al test della Tbc”. Lo afferma Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto Sappe che in una nota spiega: “L’agente, questa mattina, si è recato all’ospedale Bellaria per ritirare il risultato dell’esame che è stato positivo. È il secondo caso in poco tempo, nel solo carcere di Bologna, dopo i quattro verificatisi in un istituto penitenziario della Campania”. “Ricordiamo che nel carcere di Bologna - prosegue la nota - poco tempo fa, un detenuto era risultato positivo al test. Il personale di polizia penitenziaria, con un generico avviso affisso nel posto di lavoro, era stato invitato, libero dal servizio, con i propri mezzi, a recarsi al Bellaria per effettuare i controlli. Quindi, oltre al danno, anche la beffa di provvedere personalmente - sottolinea Durante - impiegando il proprio tempo libero e le proprie risorse, quando, invece, avrebbe dovuto provvedere l’amministrazione, considerato che la stessa potrebbe essere ritenuta responsabile del danno arrecato al personale che lavora in assoluta assenza di ogni idoneo mezzo di prevenzione, come le mascherine”. “Inviteremo gli agenti interessati ad avanzare eventuale richiesta di risarcimento danni, e li sosterremo in ogni iniziativa che vorranno intraprendere - conclude la nota. Nel frattempo invitiamo l’amministrazione ad assumere seri provvedimenti a tutela del personale di polizia penitenziaria che lavora in situazioni a rischio”. Alghero: Uil-Penitenziari; sventata evasione di tre detenuti, erano già arrivati a muro cinta Agi, 14 gennaio 2013 Tre detenuti albanesi questa mattina all’alba hanno tentato di evadere dal carcere di Alghero, ma sono stati bloccati dalla polizia penitenziaria quando stavano per scavalcare il muro di cinta. A renderlo noto è Eugenio Sarno, leader della Uil Penitenziari. I tre, dopo aver segato le sbarre della cella alla sezione F (operazione effettuata tra sabato e ieri) sono saliti sui terrazzi per guadagnare il muro di cinta, ma sono stati avvistati dal personale di vigilanza alla sala regia. Immediatamente è scattato l’allarme e i tre sono stati catturati prima che potessero giovarsi dell’aiuto da alcuni complici che li attendevano all’esterno del carcere, che accortisi del fallito tentativo si sono dati alla fuga con una Fiat Panda. I tre aspiranti fuggitivi erano detenuti per reati legati allo spaccio di stupefacenti e per associazione a delinquere. Dopo il loro arresto da parte della polizia penitenziaria, sono stati associati alla stessa Casa Circondariale. Durante le operazioni di ispezione corporale addosso ad uno dei tre è stato rinvenuto un telefono cellulare. “Questo tentativo di evasione - ricorda Sarno - è il terzo sventato nel giro di pochi giorni dalla polizia penitenziaria (gli altri due a Busto Arsizio e Caltanissetta) dopo la eclatante evasione di quattro detenuti dal carcere di Avellino. Questi episodi rappresentano un vero rischio per l’ordine pubblico e pertanto occorre agire per una prevenzione efficiente ed efficace che deve sostanziarsi con l’erogazione di fondi per l’attivazione di sistemi di allarme ma anche attraverso l’adozione di circuiti penitenziari omogenei che consentano scelte operative ben definite in ragione del livello di pericolosità dei detenuti”. Immigrazione: la tripla pena: sui CIE di Elisabetta Laganà (presidente Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia) Ristretti Orizzonti, 13 gennaio 2013 L’ulteriore condanna della Cedu è appena arrivata, ma l’Italia è già pronta per la prossima. La sentenza di assoluzione, dello scorso 12 dicembre, di alcuni trattenuti che avevano messo in atto una protesta nel Cie di Crotone, trova fondamento nel fatto che le condotte di ribellione poste in essere trovano giustificazione nella volontà di ribellarsi al loro stato di detenzione presso il Centro, ritenuto ingiusto per le condizioni in cui erano ospitati. Le proteste erano quindi rivolte ai responsabili di quella loro condizione (il personale di vigilanza del Centro e le forze dell’ordine. Nella sentenza, la rimostranza viene configurata come legittima difesa, in quanto si ritiene necessario verificare se le condotte di protesta possano trovare giustificazione nell’ingiustizia e nell’offesa ai loro diritti fondamentali, in primis quello dignità lesa da condizioni di trattenimento indecenti; inoltre, quello della libertà personale, lesa dall’applicazione della massima misura coercitiva (il trattenimento). La sentenza sostiene che occorre verificare se gli imputati siano stati costretti a commettere i fatti per cui sono imputati dalla necessità di difendere i loro diritti contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, quindi se non avessero altro strumento per difendere i loro diritti che quelli messi in atto nelle forme violente agite. Tra le descrizioni fornire dagli imputati sulle condizioni del trattenimento, vi sono l’essere stati costretti a permanere nel centro in condizioni igieniche difficilissime, in carenza di alimentazione e di spazi aperti; gli asciugamani e le lenzuola non erano mai stati cambiati; i pasti dovevano essere consumati seduti per terra, per l’assenza di tavoli. Un trattenuto ha dichiarato di non aver avuto a disposizione i provvedimenti per i quali è stato ristretto, di aver assistito all’udienza con il giudice che ha convalidato la sua permanenza nel Centro, ma senza alcuna possibilità effettiva di difendersi. Un altro testimone riferisce di avere deciso la protesta violenta quando ha saputo dai familiari che la madre era in coma; di aver quindi chiesto di poter andare a visitare la madre e che tale permesso gli fu negato. L’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo stabilisce che nessuno può essere sottoposto a torture né a pene o trattamenti inumani o degradanti. La Corte si è espressa sul tema con diverse pronunce, accertando la violazione in situazioni obiettive (quali il sovraffollamento carcerario, le precarie condizioni igieniche, ecc.), anche in riferimento al trattenimento di stranieri in Centri preposti per l’ attesa dell’esecuzione di un provvedimento di espulsione o della definizione del procedimento per la concessione dell’asilo politico. In particolare, si cita la sentenza Tabesh c. Grecia, nella quale la Corte ha ravvisato una violazione dell’art. 3 Cedu in ipotesi in cui il ricorrente, trattenuto nel Cie in attesa dell’espulsione, non aveva potuto svolgere l’attività fisica necessaria al mantenimento della propria salute perché le strutture del centro non lo consentivano, e inoltre aveva a disposizione poco più di cinque euro al giorno per acquistare il cibo di cui nutrirsi. Tutto ciò era, pertanto, in netto contrasto con l’art. 14, co. 2 del D.Lgs. n. 286 del 1998, che stabilisce: “lo straniero è trattenuto nel centro con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza ed il pieno rispetto della sua dignità”. Ora, quanti Centri di trattenimento sono nelle condizioni di rispettare la legge? Nei Cie vi è una stragrande prevalenza di persone in stato di abbandono sociale, disagio psichico, vittime di violenze, che necessitano di una effettiva possibilità di difesa legale e di presa in carico socio-sanitaria. Vi convivono persone con status giuridici differenti e negli stessi ambienti si trovano vittime di tratta, di sfruttamento, di tortura, di persecuzioni, così come individui in fuga da conflitti e condizioni degradanti, affetti da tossicodipendenze, da patologie croniche, infettive o della sfera mentale, oppure stranieri che vantano anni di soggiorno in Italia, con un lavoro (non regolare), una casa e la famiglia o sono appena arrivati. Sono luoghi dove coesistono in condizioni di detenzione storie di fragilità estremamente eterogenee tra loro da un punto di vista sanitario, giuridico, sociale e umano, a cui corrispondono esigenze molto diversificate. Si possano considerare vari aspetti problematici rispetto a questo istituto: il primo riguarda la legittimità in sé dell’istituto e la proporzionalità di questo tipo di coercizione personale rispetto alla fattispecie della condizione dell’irregolare. Su questo la Corte Costituzionale non ha mai avuto modo di pronunciarsi: è un problema che resta aperto, in quanto nel nostro ordinamento esistono istituti che consentono delle limitazioni alla libertà personale. La Corte Costituzionale, in passato, ha ritenuto legittimi questi istituti, pur non avendo loro natura strettamente penalistica. È vero, però, che la coercizione della libertà personale che caratterizza questi istituti non è paragonabile a quella che caratterizza i Cie. Si sente parlare, anche troppo, di “riscrivere la Costituzione”. Forse, prima di riscriverla bisogna rileggerla in modo adeguato ai tempi che stiamo vivendo, salvandone quindi i principi più che mai attuali ed attualizzabili. In materia di cittadini stranieri, la Carta si esprime in maniera chiarissima quando parla di diritti inviolabili e di uguaglianza per tutti. È inoltre importante ricordare i valori della solidarietà attraverso la sussidiarietà rimarcata dalla stessa Costituzione quando, nel 2000, l’art. 118 l’ha prevista esplicitamente, in particolare sul tema dei cosiddetti “diversi”, di quelli che rischiano di avere meno dignità, i detenuti, i migranti economici e clandestini. Si pensi alla definizione negativa della parola clandestino. Siamo arrivati a trovare un nome per chi non ha diritto ad esistere: il loro reato è quello di essere nascosti perché non hanno diritto ad esistere. È quindi necessario ed auspicabile che, senza indugio, il Governo si impegni ad affrontare una seria e improrogabile riforma dell’intera normativa in tema d’immigrazione. François Crépeau, Rapporteur delle Nazioni Uniti sui Diritti dei Migranti, ha affermato: “L’immigrazione irregolare non è un crimine, non è un reato contro le persone, non è un reato contro il patrimonio, e non è un reato contro la sicurezza pubblica: è solo l’attraversamento di una frontiera”, per rammentare qual è il presupposto da cui bisogna partire nell’analizzare le politiche migratorie e verificare che vengano tutelati i diritti fondamentali dei migranti. A tal fine il relatore speciale ha elencato una serie di raccomandazioni: pieno accesso alle organizzazioni di tutela dei diritti umani a tutte le strutture di trattenimento, divieto di respingimenti verso paesi a rischio come Grecia e Libia, ma anche attivazione di una procedura più semplice ed equa per chi ricorre e una generale riforma della normativa sulla detenzione amministrativa in Italia. Da questo bisogna partire per fare il punto sul rispetto dei diritti umani nella legislazione e la prassi in tema d’immigrazione. La sentenza Torreggiani, oltre ad avere uno straordinario valore, apre una prospettiva di numerose condanne all’Italia per le condizioni del carcere. Centinaia di detenuti hanno fatto ricorso alla Cedu per la situazione in cui sono stati ristretti. Forse è il tempo di iniziare la stessa pratica per i trattenuti dei Cie, le cui condizioni sono rapportabili a quelle del carcere in senso peggiorativo. Per concludere; cosa possiamo fare? Innanzitutto non stancarci di porre sempre e con maggiore forza la questione di un intervento legislativo che porti al definitivo ed irrevocabile superamento dei Cie, rimarcando l’assoluta inadeguatezza di questi luoghi ed individuando ed indicando ogni altra modalità per gestire il problema legato alla situazione di irregolarità di persone immigrate nel pieno rispetto della loro dignità. In secondo luogo, fare la nostra parte nella realtà in cui siamo chiamati ad operare oggi. Sappiamo che spesso negli ambienti di trattenimento si riscontrano gravi criticità sul piano delle condizioni igienico-sanitarie, con ambienti danneggiati, tali da non consentire condizioni adeguate di tutela della salute e tali da garantire la conformità alle norme previste per l’allocazione di persone. Tale criticità è prioritaria ed è necessario insistere nel portare questo aspetto al centro dell’attenzione di tutte le Istituzioni. In attesa del loro superamento, è necessario far entrare la Sanità pubblica nei Cie, fare in modo che effettui periodici controlli in merito alle competenze che essa esercita in tutti gli altri ambiti di convivenza “forzata” tra persone, quindi private della libertà, come già è avvenuto nel passaggio dalla sanità penitenziaria al SSN per gli istituti di pena per adulti e minori dal Dpcm 1 Aprile 2008 e che, quindi questa funzione di presidio e controllo sia estesa anche ai Cie. È inoltre necessario, da parte di associazioni di tutela e informazione giuridica, attivare un servizio di ascolto e consulenza sui diritti dei trattenuti all’interno dei Centri, che si configuri al pari di un Osservatorio per il monitoraggio e la tutela dei diritti delle persone, al fine di costruire una mappatura dei trattenuti: la provenienza, il percorso migratorio, le relazioni con altre istituzioni (carcere, questura, strutture di accoglienza) i tipi di bisogni e lo status giuridico (richiedenti asilo, protezione sussidiaria, irregolari per permesso scaduto, clandestini). Oggi, 13 gennaio, la Chiesa celebra la Giornata Mondiale del Migrante. Benedetto XVI, sul tema, ha affermato : “L’emergenza in cui si è trasformata nei nostri tempi (...) ci interpella e, mentre sollecita la nostra solidarietà, impone, nello stesso tempo, efficaci risposte politiche”. L’autorevole appello del Papa dopo la visita a Rebibbia, in cui aveva parlato del sovraffollamento come “doppia pena” rimase inascoltato. Forse anche questo seguirà la stessa sorte, finché, probabilmente, l’ulteriore condanna della Cedu obbligherà l’Italia a fare i conti anche con questa realtà, finanche peggiore del carcere. Tunisia: il Presidente grazia per 312 detenuti per festeggiare anniversario di rivoluzione Ansa, 13 gennaio 2013 Il presidente tunisino, Moncef Marzouki, ha concesso la grazia a 312 detenuti in occasione del secondo anniversario della Rivoluzione Il presidente tunisino, Moncef Marzouki, ha concesso la grazia a 312 detenuti in occasione del secondo anniversario della Rivoluzione. Il secondo anniversario della caduta della dittatura di Ben Ali, che sarà celebrato oggi in tutta la Tunisia, ha portato la libertà per 312 detenuti, ai quali il presidente della Repubblica, Moncef Marzouki, ha concesso la grazia. Per altri 1.383 reclusi è stata decisa, con lo stesso provvedimento, una riduzione della pena che accorcerà sensibilmente i tempi della detenzione. Grazia e riduzione di pena sono state concesse da Marzouki sulla base dell’istruttoria fatta da una speciale commissione che ha preso in esame 1702 dossier, dando parere negativo solo su sette di essi. Detenuti incendiano celle nella prigione di Mornaguia Dei detenuti della prigione di Mornaguia, nei pressi di Tunisi, che non avevano beneficiato di un provvedimento di clemenza in occasione del secondo anniversario della rivoluzione, hanno dato fuoco alle loro celle in segno di protesta. Lo ha detto una fonte del ministero della Giustizia. “Dei detenuti delusi per non essere stati graziati hanno messo a fuoco a due materassi nelle loro celle”, ha affermato la fonte. I vigili del fuoco sono accorsi sul posto, mentre le unità della Guardia nazionale (gendarmeria) e dell’esercito sono stati dispiegati attorno alla prigione, ha riferito a sua volta l’agenzia ufficiale Tap. In occasione della celebrazione del secondo anniversario della “rivoluzione dei gelsominI che ha portato alla deposizione dell’ex presidente Zine El Abidine Ben Ali, il capo di Stato tunisino Moncef Marzouki ha graziato 312 detenuti. Per altri 1.300 sono state invece disposte riduzioni di pena.