Giustizia: perché l’amnistia serve a tutti i cittadini (anche a quelli liberi)… Notizie Radicali, 11 gennaio 2013 La definizione di Amnistia nell’ordinamento giuridico italiano è “provvedimento generale di clemenza, previsto nell’articolo 79 della Costituzione italiana, con cui si estinguono dei reati”. Consiste nella rinuncia, da parte dello Stato, a perseguire determinati reati. Di conseguenza è come se determinati, singoli reati non fossero stati mai commessi, perché non esistono più come violazione in senso penale delle legge. È il Parlamento che deve emanare una Amnistia sotto forma di legge. Formulando tale legge il Parlamento dovrà scegliere determinati reati da depenalizzare perché non si agisce estinguendo la pena (come per l’indulto), ma si agisce estinguendo il reato. Il Parlamento può usarla come strumento polivalente quando, per ragioni politiche o sociali, interviene la necessità di sfoltire la straripante popolazione carceraria, ma non è detto che attraverso un provvedimento di amnistia persone pericolose per la collettività possano riacquistare la libertà. L’ultimo provvedimento di amnistia in Italia risale al 1990. Come è possibile parlare di Amnistia di fronte alle notizie di violenza e omicidi che ci propongono continuamente i mass media? Proporre l’adozione di un’amnistia legale non significa stare dalla parte dei violenti. L’amnistia è quella che noi identifichiamo come soluzione per arrivare a una giustizia certa che tuteli soprattutto le vittime. Questo grazie alla sua ricaduta sul lavoro dei magistrati: l’amnistia estingue alcuni reati determinati esplicitamente dal legislatore, magari quelli non violenti come il reato di “clandestinità” introdotto con la legge “Bossi - Fini” o quelli legati all’equiparazione delle droghe leggere a quelle pesanti introdotti con la legge “Fini - Giovanardi”, consentendo così alla magistratura di svolgere il proprio lavoro occupandosi dei “reati veri” - che in questo modo non cadranno più in prescrizione - e non intasando la macchina della giustizia. Perché l’amnistia serve a tutti i cittadini e non solo ai carcerati? Una Giustizia che funzioni serve a tutti i cittadini. Se un cittadino non può contare sul sistema della giustizia del proprio Paese, vengono meno le basi dello stato di diritto, quindi le basi della democrazia. In Italia ci sono 9 milioni di processi pendenti, la durata di ognuno è irragionevole - come ci dice anche l’Europa. Le nostre carceri sono più che sovraffollate perché ospitano 66.685 detenuti a fronte di una capienza di poco più di 45.000: il 40% di loro è in attesa di giudizio e almeno 13.000 di questi verranno riconosciuti innocenti o estranei ai fatti. Di più: a causa della macchina della giustizia inceppata ogni anno 180 mila processi vanno in prescrizione. I colpevoli scamperanno la pena perché hanno potuto pagarsi buoni avvocati che prolungassero la causa quel tanto necessario a far “scadere il reato”. Ancora di più: far ripartire il sistema della Giustizia, significa anche agire sui 6 milioni di processi civili arretrati che costano al nostro Paese 96 miliardi di euro in termini di mancata ricchezza (quasi l’1% del Pil italiano). Il centro Studi di Confindustria nel 2011 ha stimato che smaltire l’enorme mole di pratiche accumulate frutterebbe alla nostra economia il 4,9% del Pil, ma basterebbe abbatterne il tempo di risoluzione anche del 10% per guadagnare ogni anno lo 0,8% di Pil. Come si collega l’Amnistia alla riforma della giustizia? Bisogna ristabilire la certezza del diritto. Bisogna far ripartire la macchina della giustizia attraverso una grande riforma. Ma qualsiasi sia la direzione di questa riforma occorre ripartire dalla legalità, dal rispetto delle leggi, soprattutto da parte dello Stato stesso. Per questo è necessario fare tabula rasa con un provvedimento di Amnistia, perché lo Stato possa rispettare le sue stesse leggi e riguadagnare di credibilità e rispetto nei confronti dei suoi cittadini e del resto del mondo. L’amnistia realizzerebbe immediatamente quanto ci viene chiesto da norme e condanne europee: non si tratterebbe di un “gesto di clemenza”, ma di un atto per ristabilire la legalità costituzionale nei tribunali e nelle carceri di un Paese in cui essa viene sistematicamente violata. Per questo motivo, da anni ormai i Radicali conducono una serie di battaglie per promuovere l’amnistia propedeutica a una grande Riforma della giustizia penale e civile, la cui paralisi penalizza i cittadini e le imprese, scoraggia gli investimenti esteri e comporta costi enormi per la società e l’economia nazionale. Perché si dice che la giustizia europea tratta l’Italia come un criminale abituale? L’Italia è lo Stato europeo con il maggior numero di condanne per violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: oltre duemila sentenze della Cedu, soprattutto per irragionevole durata dei processi e per le condizioni delle nostre carceri; è lo Stato con il maggior numero di sentenze della Corte di Strasburgo non eseguite, con il maggior numero di condanne per irragionevole durata dei processi, con il più alto tasso di sovraffollamento delle carceri dopo la Serbia. Siamo stati dichiarati dall’Europa colpevoli di tortura a causa del trattamento subito dai detenuti nelle nostre carceri. E per questo lo Stato italiano verrà chiamato a risarcire i danni morali e materiali di coloro che ha torturato con il denaro pubblico. Quello che non ha investito per riformare la giustizia in toto e anche per rendere le sue carceri dei luoghi di riabilitazione come prevede la Costituzione. Ancora su Amnistia e Giustizia, di Gianni Golotta Dato che l’articolo non lo dice limitandosi ad esaltare l’amnistia come rimedio sufficiente alla cura del male, penso non sia inutile chiarire a quanti seguono a vario titolo l’attività dei Radicali Italiani quale nesso eziologico intercorra tra l’amnistia (che riguarderebbe solo i condannati per reati con sentenza definitiva, indagati per reati commessi fino alla data fissata come limite temporale di efficacia del provvedimento di clemenza ed imputati in attesa di giudizio sempre per reati commessi fino alla data fissata come limite temporale di efficacia del provvedimento di clemenza) con la durata dei processi civili che, come viene ben detto, causano annualmente un danno quantificato in quasi un punto percentuale del Pil. La verità, secondo me è che tra le due cose non v’è relazione e la situazione - gravissima per la giustizia civile - sarà destinata nel tempo ad aggravarsi e a peggiorare. Di recente, infatti, con l’intenzione di ridurre il contenzioso (una sorta di “amnistia civile”) anziché intervenire sull’organico degli uffici giudiziari (sia in termini di magistrati addetti sia in termini di personale di cancelleria sia, infine, per accelerare i tempi degli adempimenti processuali mercé l’introduzione del processo telematico) si è pensato bene di agire sulla leva dei costi: aumentandoli con l’obbiettivo di riperimetrare l’area dell’accesso alla giustizia includendo solo quanti possano permettersi per censo un giudizio ed escludendo quanti un tempo venivano eufemisticamente definiti come ceti “meno abbienti”. Basti pensare che molta gente non ricorre più contro una sanzione amministrativa o una cartella “pazza” dell’importo di 50,00 euro perché per la sola iscrizione a ruolo della causa dovrà spendere 37,00 euro più 8,00 euro per la “marca registro” e, quindi 45,00 euro. 5,00 euro in meno dell’importo della sanzione. Meglio, quindi, molto meglio, pagare subito. Con la duplice conseguenza di rendere l’azione della PA e degli enti impositori, libera da ogni controllo ed i cittadini sempre più sudditi. Delle conseguenze dei ritardi dell’amministrazione della giustizia civile, viene fatto cenno nel pezzo comparso sul sito, ma s’è taciuto sulla necessità di metter mano a riforme che interessino la produttività dei magistrati e l’organizzazione degli uffici. Non è pensabile che un magistrato possa tenere udienze nelle quali si trattano contemporaneamente a volte oltre 150 cause; e per di più senza assistenza del personale di cancelleria. Per molti cittadini è mortificante assistere alle udienze che li riguardano ed ascoltare, al termine di esse (nelle quali si da corso ad un brevissimo colloquio tra giudice ed avvocati) all’emanazione frettolosa di un provvedimento di rinvio o di “riserva” che, se va bene, serve a spostare la causa di sei sette mesi in avanti nel tempo. Peggiore è la situazione nelle Corti d’appello. In quella di Reggio Calabria ad esempio, le cause introdotte nel 2010 verranno decise nel 2018. Nell’anno in corso verranno decise (forse) quelle introdotte nel 2002 - 2003; mentre pendono ancora cause del 1971. Anche per le cause l’appello s’è intervenuto allo scopo di scoraggiare il ricorso alla Corte mediante la doppia leva dell’istituzione di una sezione “filtro” e l’aumento fino al doppio del contributo unificato quale sanzione per l’eventuale soccombenza!! Come si vede gli interventi che il Legislatore ha effettuato sulla materia sono tutti diretti a vanificare, nella sostanza, quanto disposto dall’art. 24 della Costituzione sul quale, com’è noto, si fonda il diritto di “Tutti” (cittadini e non) di “agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”. Non v’è allora dubbio sul fatto che l’azione dei Radicali debba indirizzarsi con eguale incisività sul versante civile battendosi (e l’elenco è solo esemplificativo e non esaustivo) per: a) l’aumento dell’organico dei magistrati, mediante un’iniezione di professionisti preparati da selezionare con un concorso non più affidato alla lotteria dei temi ma a criteri che facciano premio sulla valutazione delle esperienze professionali e di studio degli aspiranti, mediante una valutazione del curriculum di ciascuno degli aspiranti; b) un più massiccio e rapido (ora la legge di stabilità prevede qualche piccola novità ma solo a partire dal giugno del 2014!) ricorso al processo civile telematico rendendo possibile la formazione del fascicolo telematico e rendendo l’istruttoria davanti al magistrato una fase dai tempi contenutissimi a corredo probatorio già raccolto nel rispetto del contraddittorio affidato alle parti; c) la concentrazione dell’attività giurisdizionale in un unico organismo con conseguente abolizione della giustizia amministrativa e di quella tributaria; mi chiedo che senso abbia l’esistenza di vari “poli” di amministrazione se alla fine la domanda del cittadino è sempre e comunque domanda di “Giustizia”; d) la richiesta di una revisione, adeguata alle novità, dell’organico del personale di cancelleria. In tale contesto l’amnistia diventa un elemento senza dubbio utile a cancellare le vergogne dell’attuale stato dei detenuti, ma sussidiario rispetto agli altri rimedi e, come tale meglio “digeribile” dall’opinione pubblica. Giustizia: dall’Europa una scossa sui diritti di Mario Cavallaro Europa, 11 gennaio 2013 L’Unione europea, in verità poco sollecita nell’aiutarci a tenere sotto controllo i flussi migratori, ha messo sotto accusa il nostro sistema carcerario. Chi non ha conoscenza diretta delle cose può pensare a un’esagerazione buonista, ma basta visitare anche occasionalmente il pianeta carcere per verificare che nella gran parte dei penitenziari nessun cittadino del civile occidente terrebbe più anche solo un animale da cortile. L’urgentissima realizzazione delle nuove strutture carcerarie, e non soltanto la faticosa esecuzione di rabberci delle fatiscenti ed inadeguate strutture esistenti che sembra preferita dall’amministrazione penitenziaria, è la prima cosa da fare. Basta con il circuito non virtuoso della mancanza di soldi e della conseguente paralisi della realizzazione del piano straordinario dell’edilizia penitenziaria, da anni nelle aule parlamentari e nei ministeri e poco nei cantieri. La legge ora prevede che ci siano tutti i soldi necessari per partire con gli appalti; è giusto, ed allora, si prelevino dal fondo unico della giustizia o da qualunque altra parte, anche ad evitare la prevedibile onerosa pioggia di condanne europee per violazione dei diritti dei detenuti. La prima condizione è avere nuove carceri dignitose e un numero di posti adeguato al prevedibile flusso di detenuti. La seconda cosa è smetterla di pensare di agire attraverso misure improprie come l’amnistia e l’indulto; fra l’altro, non sono destinate a far diminuire stabilmente e cospicuamente il numero dei detenuti. In un paese civile i processi durano poco e, se si concludono con sentenze di condanna, le pene sono scontate subito e senza pietismi. Agendo sulla prescrizione e sull’organizzazione del processo si deve ottenere l’obiettivo di determinare sia una durata massima dei processi sia l’estinzione, dopo un ragionevole decorso del tempo, della potestà punitiva dello stato, vanificando tutti i tentativi dilatori di allungare il brodo processuale. Finora la destra al governo, blandendo l’ossessione securitaria anche per distrarre da altri ben più gravi problemi, ha creato un sistema che produce molti detenuti senza fra l’altro garantire maggior sicurezza collettiva. La detenzione cautelare e l’espiazione di pene derivanti da sentenze non definitive devono divenire del tutto eccezionali; solo chi è stato condannato con sentenza passata in giudicato, chi è socialmente pericoloso o vuole sottrarsi con la fuga alla giustizia per fatti gravi merita il carcere. Bisogna rivedere tutto il sistema delle pene: intollerabile irrogare ad un ambulante senegalese, per la vendita di ed taroccati, una pena di 12 anni e sei mesi di reclusione, che talvolta non è irrogata neanche per un omicidio. Gli istituti della recidiva e del cumulo delle pene vanno rivisti; è giusto aumentare le condanne per la gravità e il numero dei delitti, ma è ridicolo aumentarle senza proporzione. Più che la discutibile misura generale di applicare la detenzione domiciliare a tutte le condanne superiori a tre anni, si dovrebbero introdurre ed utilizzare gli istituti della messa alla prova con sospensione del processo e della archiviazione per irrilevanza del fatto. In diversi casi, chi ha commesso un reato perché ha agito in una situazione del tutto particolare deve risarcire le vittime, redimersi e percorrere percorsi rieducativi sotto il controllo della magistratura, non finire in galera. Con le archiviazioni o assoluzioni per irrilevanza del fatto si sgombrano le aule di giustizia di fatti che sottraggono tempo ed energie al contrasto alla criminalità, specie organizzata, vero scopo delle forze dell’ordine e della magistratura. Stesso discorso per la depenalizzazione generale, sempre annunciata mentre poi ogni nuova legge contiene qualche nuova fattispecie penale. Due sono, infine, le attuali grandi fabbriche, ci si perdoni il termine, di detenuti: le norme in materia di clandestini e quella sugli stupefacenti, che non solo colpevolizza anche il semplice uso personale di droghe, che non va incoraggiato ma non può certo ritenersi reato, ma soprattutto rende difficile l’applicazione di misure alternative al carcere ai tossicodipendenti, di regola anche piccoli spacciatori, che in carcere percorrono solo una spirale di perdizione che conduce alla morte o all’annientamento di sé. La clandestinità negli ingressi in Italia va combattuta in via amministrativa assicurandosi, con una breve permanenza in ambienti idonei, dell’identità del fuggitivo e della mancanza di condizioni per il riconoscimento del diritto di asilo e poi rispedendolo al mittente. Una nuova stagione dei diritti, insomma, da applicare subito e con rigore anche a chi è detenuto, perché è da lì, non dai proclami roboanti, che si determina la civiltà di una cultura giuridica e di un paese. Giustizia: proposta di legge di iniziativa popolare, per cercare di “alleggerire” le carceri di Antonella Barina Venerdì di Repubblica, 11 gennaio 2013 Era il 30 gennaio del 2010 quando fu dichiarato lo stato d’emergenza per il sovraffollamento delle carceri. Si stanziarono fondi per la costruzione di nuovi istituti e l’ampliamento di quelli esistenti. Ma finora - a tre anni esatti di distanza - non è stato creato un posto letto in più. Anzi, i detenuti sono aumentati (da 64mila 791 a 66mila 529) e il tasso d’affollamento ha raggiunto il 141,4 per cento, contro una media Ue del 99,6. I nostri penitenziari sono i più affollati d’Europa. “Una realtà angosciosa”, secondo il presidente Napolitano nel suo discorso dì fine anno. Lo denuncia l’Osservatorio di Antigone, associazione che si batte per i diritti e le garanzie nel sistema penale, nel suo ultima rapporto sulle condizioni di detenzione. Già il titolo, Senza dignità, grida alla negazione dei diritti. I dati raccolti rivelano troppe piaghe aperte. Più del 40 per cento dei detenuti non sconta una condanna definitiva, ma è in custodia cautelare. Neanche un terzo usufruisce di misure alternative. Meno di un quinto svolge attività lavorativa in carcere (con stipendi spesso di 30 euro al mese) e meno di un quarto segue corsi scolastici. La maggior parte delle persone, quindi, esce di cella solo nelle “ore d’aria”: in genere quattro al giorno. La loro salute? Non ci sono dati nazionali affidabili, ma in Toscana è ammalato il 73 per cento dei detenuti e non c’è motivo di ritenere che altrove sia diverso (anche se il 40 per cento ha meno di 35 anni). Nel 2012 si sono registrati 154 morti, di cui 60 suicidi. E ministro Severino ha cercato di alleggerire alcuni drammi, ma c’è ancora moltissimo da fare. E ora Antigone e altre realtà non profit lanciano una proposta di legge di iniziativa popolare. Prevede, tra l’altro, gli arresti domiciliari per chi ha un residuo di pena inferiore ai tre anni e una revisione delle leggi che più provocano sovraffollamento, come la Fini-Giovanardi, la Bossi-Fini e l’ex Cirielli, eccessivamente dure con tossicodipendenti e immigrati irregolari. La sì può leggere e firmare su associazioneantigone.it. Giustizia: l’irrisolto problema delle carceri e la condanna della Corte di Strasburgo di Mariano Colla www.italiamagazineonline.it, 11 gennaio 2013 È noto che proprio in questi giorni la Corte di Strasburgo ha denunciato il nostro paese per chiara violazione dei diritti dei detenuti, laddove essi sono stati confinati in celle con superficie utile inferiore a 3 metri quadrati. La sentenza rileva, inoltre, che il problema delle carceri italiane è di natura strutturale. In particolare, la Corte europea ha condannato il nostro paese a pagare una somma di 100 mila euro a 7 reclusi, detenuti nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, per danni morali causati da trattamento inumano e degradante. La sentenza invita l’Italia a risolvere quanto prima l’annoso problema del sovraffollamento delle carceri, anche adottando, ove possibile, soluzioni alternative al sistema penitenziario tradizionale. La reazione del nostro ministro di grazia e giustizia, Paola Severino, si sintetizza nel seguente commento: “C’era da aspettarselo”. “Sono profondamente avvilita ma, purtroppo, l’odierna condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo non mi stupisce. Per le carceri italiane sono urgenti misure strutturali”. Questa condanna segue un’altra sentenza del luglio 2009, riguardante un detenuto nel carcere di Rebibbia di Roma, sentenza che determinò, almeno così pare, la predisposizione di un “piano carceri” che programmava l’edificazione di nuovi penitenziari, oltre alla ristrutturazione e all’ampliamento degli edifici già esistenti. Anche il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ha sottolineato, con amarezza, “la mortificante conferma della incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esecuzione di pena. In questa direzione il Parlamento avrebbe potuto, ancora alla vigilia dello scioglimento delle Camere, assumere decisioni, e purtroppo non l’ha fatto”. Con ciò Napolitano si augura che il problema sia affrontato con la massima priorità dal nuovo esecutivo che si instaurerà dopo le elezioni del 24-25 febbraio. Il fatto è che le più alte voci istituzionali più volte, in questi ultimi anni, si sono levate per sollecitare provvedimenti nel nostro sistema penitenziario, ma la politica non sembra aver fatto il suo dovere. L’Italia resta il paese con le carceri più sovraffollate nell’Unione Europea. Il tasso di affollamento attuale è, infatti, del 142,5% (oltre 140 detenuti ogni 100 posti: la media europea è del 99,6%). Al 31 ottobre la capienza regolamentare complessiva dei 206 istituti penitenziari era di 46.795 posti, a fronte di una presenza di 66.685 detenuti. È quanto emerge dal IX rapporto sulle condizioni di detenzione senza dignità, predisposto dall’Associazione Antigone e presentato a Roma il 19 Novembre 2012. Tuttavia, pur dinanzi a una situazione così precaria gli unici provvedimenti che la politica e gli organi esecutivi han saputo realizzare sono state forme di amnistia o di indulto che, in sostanza, attenuano il problema e non lo risolvono alla radice. In un paese in cui l’industria del mattone è tra le più attive, e in cui gli stanziamenti per opere pubbliche sono particolarmente rilevanti in merito a nuove strade, viadotti, centri commerciali e, non ultimi, quelli effettuati per il fantomatico ponte di Messina, la futura Tav, l’Expo, i vari G8 E G20, sorprende che non vi siano fondi sufficienti per migliorare la situazione carceraria, soprattutto alla luce di una immagine del paese che, progressivamente, assume connotazioni terzomondiste. In un paese in cui sotto la gestione pubblica languono, disseminati sul territorio nazionale, relitti di caserme, ospedali, strutture in disuso o mai usate, meglio note come cattedrali nel deserto, risultato di speculazioni politiche di dubbia moralità, per usare un eufemismo, è lecito chiedersi perché non vengono avviati lavori di bonifica tali da consentire un parziale recupero di disponibilità da impiegare nell’ambito del sistema carcerario. Tuttavia, eventuali nuove carceri rappresenterebbero una soluzione parziale del problema. Il problema, come anzidetto, è strutturale e proprio in questo senso serve una riforma con la quale, dopo aver analizzato le peculiarità degli abnormi flussi di talune categorie di carcerati - es.: extracomunitari, tossicodipendenti - , rivedere la normativa penale sottesa al regime sanzionatorio, non tanto o non sempre per depenalizzare un reato oggi esistente, quanto per valutare forme alternative di punizione che, per gli illeciti più lievi, prevedano misure diverse da quelle detentive vere e proprie. Non dobbiamo, infatti, dimenticare che uno degli scopi principali del sistema penitenziario non è tanto la detenzione quanto la rieducazione quale veicolo per poter reinserire nella società persone che, per varie ragioni, ne sono state espulse. Il numero di operatori specializzati, di educatori, di psicologi dovrebbe adattarsi a tale funzione di reinserimento, funzione che potrebbe contribuire in modo significativo a ridurre la quantità di detenuti. Sarà pur vero che la crisi in corso sembra aver prosciugato i salvadanai della finanza pubblica, ma il problema carcerario non è di questi giorni. È stato, almeno in teoria, nell’agenda dei vari governi che si sono succeduti in questi anni, anche in tempi in cui il denaro pubblico girava e la finanza era particolarmente allegra. Il punto è che in termini di priorità il problema carcerario non ha mai goduto delle necessarie attenzioni, forse perché elettoralmente paga meno di altri impegni della politica. Sostiene Mario Palma, nella sua prefazione al su menzionato rapporto di Antigone sull’esecuzione penale e le condizioni di detenzione :”osservare il sistema penitenziario è già agire in esso, dare un contributo alla sua evoluzione. Resistenze, mancanza di risorse e, in definitiva, disinteresse verso un mondo che si vuole separato dalla società o - meglio - che la società vuole separato da se stessa, sono all’origine del ripetuto fallimento dei timidi tentativi di riformare le patrie galere. Ma se il carcere è irriformabile, torna in campo il vecchio motto che invitava a liberarsi dalla sua necessità. Un impegno certo più ambizioso, ma che ha il merito di indurre alla riflessione attiva sulle alternative al carcere e sulla loro perseguibilità”. Donatella Ferranti, deputato capogruppo Pd in commissione giustizia, scriveva su il giornale “Il domani d’Italia”, sempre in materia di sovraffollamento delle carceri: “dinanzi all’immobilismo e l’inadeguatezza dell’azione governativa e alle condizioni intollerabili in cui versano le carceri italiane, diventa sempre più pressante, da parte di alcune forze politiche, la richiesta di discutere di un provvedimento di clemenza, in particolare di amnistia, che dia nel frattempo respiro al sistema carcerario. Il problema però non è di facile soluzione e non può essere considerato sempre e soltanto con l’ottica dell’emergenza: da un lato il buon funzionamento del sistema carcerario e il corretto trattamento dei detenuti è infatti il più importante indicatore del grado di civiltà e democrazia, dall’altro le riforme strutturali che consentano al sistema giudiziario penale di funzionare e garantiscano l’effettività della sanzione non possono più essere rinviate”. Sono sicuramente belle parole, assai propositive, direi, ma se sono rimaste lettera morta è anche perché la pervicace adozione della formula dello scarica barile, per cui ogni governo trasferisce sul successivo o sul precedente la responsabilità dell’immobilismo esecutivo in materia, ha messo in secondo piano i valori civili di una società, tra cui la dignità delle persone, siano esse carcerate o meno, valori che dovrebbero andare al di là del colore dello schieramento politico. La cittadinanza assiste, impotente, all’incancrenirsi della situazione, ma in realtà, dietro a questa impotenza, si radica, maliziosamente, un senso di distacco e di insensibilità verso problematiche apparentemente remote, ma che ci toccano sul vivo quando l’illegalità intercetta i ritmi e le convenzioni della nostra quieta vita sociale. La politica, utilitaristica e spregiudicata, avverte questo distacco, interviene sull’illegalità esaltando mediaticamente la tempestività dell’azione repressiva ma segue, con ben diverso impegno e organizzazione, gli effetti della propria azione, intervenendo poi, retoricamente, quando qualcuno, come la Corte europea, ci richiama ai nostri doveri istituzionali. Gli elettori, si sa, possono avere diverse priorità e dimenticare almeno per un po’ gli effetti di un giustizialismo mal applicato. Il fatto che, periodicamente, il problema ritorni a galla, produce, in molti, frasi di circostanza e una retorica che non muta le cose. All’atto pratico poco cambia e, se fate attenzione agli interventi attualmente in corso nella campagna elettorale, il tema delle carceri viene si e no sfiorato, con buona pace di chi sta fuori e con rassegnato scetticismo di chi sta dentro. Giustizia: intervista a Pietro Grasso; ecco le tre leggi da cambiare per svuotare le carceri di Eleonora Martini Il Manifesto, 11 gennaio 2013 “Cosa mi distingue da Antonio Ingroia? L’età”. Si lascia andare ad una battuta, Pietro Grasso, l’ex procuratore nazionale antimafia che oggi si definisce “un tecnico prestato alla politica”. Ed è questa, spiega, la “differenza sostanziale” con l’altro eccellente magistrato “salito” nell’agone politico: “Lui ora è un leader di un movimento”. Grasso potrebbe essere il prossimo ministro di Giustizia, con Bersani presidente del consiglio: “Se si riuscirà ad avere un programma armonico e organico, condiviso da tutti, senza il rischio di vederlo smontato dalle coalizioni parlamentari, allora sarà possibile parlare di riforme globali. Se ci si mette tutti insieme, come in una forma costituente, perché la giustizia è trasversale, si potrà dare un buon servizio ai cittadini. Si potrà attuare una vera rivoluzione della giustizia”. Avrebbe un anno di tempo per risolvere il problema “strutturale” del sovraffollamento carcerario: ce lo chiede l’Europa, è il caso di dirlo. Come se ne esce? È un problema complesso che riguarda l’intero sistema della giustizia, di cui il carcere è una costola. Se il 42% dei detenuti è in attesa di giudizio è perché i processi durano 10-12 anni. Quindi il problema dei tempi della giustizia è basilare per dare certezza, anche all’esecuzione della pena. In secondo luogo va analizzata la tipologia della popolazione carceraria. Ho passato molti anni, per lavoro, dentro le prigioni e mi sono reso conto che ad un certo punto c’è stato un balzo negli ingressi che non si compensava più con le uscite. Un innalzamento dovuto al combinato disposto di tre leggi: la Bossi-Fini, la Fini-Giovanardi e la ex Cirielli. È evidente che bisogna trovare subito il posto per 20 mila persone, quelle in più rispetto alla capienza attuale degli istituti, oppure diminuire i detenuti di 20 mila soggetti. Vuole costruire nuove carceri? Questa è una foglia di fico che si è perseguita per molto tempo senza fare una vera analisi dei problemi. Ci sono carceri vuote perché manca il personale di polizia penitenziaria e da tempo non si fanno concorsi per i direttori penitenziari. C’è poi il problema dell’assistenza trattamentale al di fuori del carcere o collegata al recupero del detenuto, visto che i Sert non vengono finanziati. Giovanardi dice che il numero di tossicodipendenti in carcere è diminuito. Lei invece cambierebbe la Fini-Giovanardi? Bisogna cercare di aumentare la parte trattamentale dei tossicodipendenti nei centri di recupero. Poi c’è un problema della depenalizzazione di certe figure di reato: l’improcedibilità per tenuità del fatto eliminerebbe a monte il reato. Faccio un esempio: se si ruba qualcosa in un supermercato - un tipo di reato che è aumentato con la crisi economica - si rischia una pena da 3 a 10 anni. Che è veramente sproporzionata rispetto all’esigibilità. E poi c’è il decreto Severino che si è bloccato al Senato per fare posto alla legge sugli avvocati... Che però riguardava qualche centinaio di detenuti, al momento. Circa duemila. Le misure alternative che non sono risolutive, però era un primo passo. Così, se si elimina quel fenomeno delle porte girevoli aumentando il numero di processi per direttissima, evitiamo di far entrare in carcere persone che vi rimangono pochi giorni. Sono piccole soluzioni... che impiegano più di un anno... Certo. Allora la prima cosa da fare è un’analisi della popolazione carceraria che metta a fuoco i problemi. A Busto Arsizio, per esempio, c’è un bellissimo centro per detenzione di disabili munito perfino di piscina per la terapia che però è vuoto per mancanza di polizia penitenziaria e ci sono 78 detenuti disabili in altre carceri prive di strutture adeguate. Cosa significa? Che prima di affrontare il problema di nuove prigioni, bisogna revisionare quelle esistenti. L’amnistia non la considera proprio? Intanto l’amnistia richiede una maggioranza di due terzi in Parlamento che è difficile da raggiungere. Poi non risolve completamente il problema del sovraffollamento perché in genere le amnistie estinguono reati per cui non si va nemmeno in carcere. Però forse risolve l’intasamento delle aule di giustizia. Sì, ma cancellare con un colpo di spugna i milioni di procedimenti pendenti non è la priorità, non risolve il problema che l’Europa ci pone con urgenza. Non possiamo ancora sopportare il carcere della vergogna. Vorremmo invece trasformarlo nel carcere della speranza, con interventi strutturali a tutto campo, come dice la Corte di Strasburgo, e attuando il dettato costituzionale che prescrive il recupero dei condannati. Non abbiamo bisogno di nuove leggi ma di finanziare quelle esistenti, come la Smuraglia, una bellissima legge inattuata perché non più finanziata. Sulla custodia cautelare: i giudici la usano forse con troppa nonchalance, non crede? Per esempio: il procuratore di Torino Giancarlo Caselli è stato molto criticato per le ordinanze di custodia cautelare emesse nei confronti di alcuni esponenti del movimento No Tav. Cosa ne pensa? Non sono abituato a dare opinioni sulle iniziative giudiziarie dei miei colleghi. La custodia cautelare si valuta di volta in volta, se ci sono i requisiti richiesti dalla legge, tranne i casi in cui è obbligatoria. Non credo invece nell’uso disinvolto da parte dei magistrati, che spesso sono stati accusati dell’opposto. Invece vanno rimosse le càuse per le quali si ricorre alla custodia cautelare, che è una conseguenza dei tempi lunghi dei processi. Dobbiamo incidere sui problemi strutturali, come dice la Corte europea. Non solo l’Europa ma anche l’Onu ci chiede di introdurre il reato di tortura nel codice penale, come prescritto dalla Convenzione firmata dall’Italia. Lei è d’accordo? Certo. Anche se bisogna definire cos’è tortura: ce ne sono alcune così raffinate, psicologiche, che sono difficili da definire.. Giustizia: Sindacalista del Sappe in sciopero della fame e della sete per carceri più umane www.direttanews.it, 11 gennaio 2013 Mentre i Radicali italiani hanno deciso di intraprendere lo sciopero della fame e della sete per protestare contro il silenzio della Rai sulle loro richieste di amnistia, continua da ormai 32 giorni lo sciopero della fame del dirigente sindacale della polizia penitenziaria, Aldo Di Giacomo, segretario nazionale del sindacato autonomo Sappe, che da qualche giorno ha intrapreso anche lo sciopero della sete per affermare il diritto dei detenuti a condizioni di vita carceraria più decenti. In un comunicato stampa Di Giacomo parla di “una situazione carceraria da terzo mondo, oltre settanta suicidi all’anno, mille eventi critici e cento poliziotti morti per suicidio in dieci anni. Come confermato dall’ennesima sentenza della corte di giustizia Europea, di oggi, l’Italia viola i diritti dei detenuti tenendoli in celle dove hanno a disposizione meno di 3 metri quadrati”. Il segretario del Sappe ricorda come “la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha quindi condannato l’Italia per trattamento inumano e degradante”, facendo presente come la sentenza rappresenti “un nuovo grave richiamo per l’Italia ed è una mortificante conferma della incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esecuzione di pena. Una giustizia malata, centottantamila processi prescritti all’anno, 67mila detenuti a fronte di 45mila, il 39% della popolazione detenuta in attesa di giudizio di cui il 20% di primo giudizio”. Solidarietà a Di Giacomo da parte del capogruppo Pdl alla Camera, Maurizio Gasparri, che precisa: “Il problema del sovraffollamento delle carceri si risolve in primo luogo con una giustizia giusta, rapida e certa. Con Alfano ministro della Giustizia molto è stato fatto per rendere più snello il sistema, a cominciare dall’informatizzazione delle procure. Ma la strada è ancora lunga ed i rilievi dei giudici di Strasburgo impongono un’accelerazione. Condivido quindi le motivazioni di Di Giacomo e lo invito a desistere dalla sua protesta in considerazione delle sue precarie condizioni di salute. E sollecito tutte le istituzioni a dare risposte immediate”. “Esprimo solidarietà a Aldo Di Giacomo, Consigliere nazionale del Sappe, in sciopero della fame e della sete per richiamare l’attenzione delle Istituzioni e della politica sui gravi problemi della giustizia italiana messi in luce in questi giorni anche dalla Corte Europea di Strasburgo” - afferma il leader di Sel Nichi Vendola. “Condivido particolarmente la sottolineatura che Di Giacomo fa sulle carenze strutturali del sistema carcerario sia sul piano dei diritti che delle condizioni materiali di vita della popolazione detenuta. L’Italia è un Paese sotto osservazione per la violazione di diritti umani nel circuito penitenziario e la realtà del sovraffollamento è in se lesiva di diritti fondamentali dei cittadini detenuti”. Solidarietà a Di Giacomo, che ha annunciato per domani una conferenza stampa per la presentazione dei propri non candidati alle prossime politiche e regionali, perché “è ora che il mondo della politica abbia al proprio interno esponenti che rappresentino a pieno il mondo carcerario e soprattutto prenda impegni concreti per la soluzione dei problema della giustizia è giunta nelle scorse ore anche da molti esponenti politici come presidenti di Regione e consiglieri regionali”. Vendola: solidarietà a consigliere Sappe in sciopero “Esprimo solidarietà a Aldo Di Giacomo, consigliere nazionale del Sappe, in sciopero della fame e della sete per richiamare l’attenzione delle Istituzioni e della politica sui gravi problemi della giustizia italiana messi in luce in questi giorni anche dalla Corte Europea di Strasburgo”. Lo afferma Nichi Vendola, presidente di Sinistra Ecologia Libertà. “Condivido particolarmente la sottolineatura che Di Giacomo fa sulle carenze strutturali del sistema carcerario - continua il leader di Sel - sia sul piano dei diritti che delle condizioni materiali di vita della popolazione detenuta. L’Italia è un Paese sotto osservazione per la violazione di diritti umani nel circuito penitenziario e la realtà del sovraffollamento è in se lesiva di diritti fondamentali dei cittadini detenuti”. “La ricerca di soluzioni adeguate ai problemi della giustizia - conclude Vendola - è tra gli impegni più importanti della nostra campagna elettorale e della nostra proposta di governo”. Giustizia: Comi (Pdl); agevolare ritorno detenuti stranieri in patria, molti di loro lo chiedono Ansa, 11 gennaio 2013 “Bisogna risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri a livello europeo e agevolare il ritorno dei detenuti stranieri nei loro paesi d’origine: sono loro stessi che lo chiedono”. Lo ha detto Lara Comi, europarlamentare e vicecoordinatrice regionale del Pdl lombardo. Comi oggi ha visitato il carcere di Busto Arsizio, in provincia di Varese, una delle strutture italiane coinvolte dalla condanna della Corte dei diritti umani di Strasburgo per il problema del sovraffollamento. “Ho parlato con i detenuti stranieri, che rappresentano il 60 per cento della popolazione di questo carcere, e mi hanno detto che vorrebbero tornare nel paese dove si trovano le loro famiglie; - ha continuato l’eurodeputato - l’Italia potrebbe trovare un accordo con gli Stati del Maghreb, che sono i più presenti nelle nostre strutture carcerarie”. Secondo Comi, la prima soluzione che invece il parlamento nazionale dovrebbe attuare, per risolvere la questione del sovraffollamento negli istituti di pena, è la riduzione dei tempi processuali. “Gli italiani detenuti nel carcere sono convinti che i politici possano fare qualcosa per loro, ma non vogliono metterci la faccia. E chiedono un rinnovamento nella classe politica del paese”, ha concluso l’eurodeputato. Giustizia: il detenuto Provenzano e la legge dello Stato di Lara Cardella La Repubblica, 11 gennaio 2013 C’è un interrogativo in questi giorni che la cronaca ci costringe a non ignorare, nonostante ponga seri problemi etici e di coscienza: la richiesta di stralcio della posizione di Provenzano nell’ambito del processo sulla trattativa Stato - mafia nasconde un problema di fondo che è già stato sollevato dal figlio del boss. Provenzano avrebbe tentato il suicidio il 9 maggio scorso, poi sarebbe caduto più volte, sarebbe incapace d’intendere e di volere, il suo stato di salute risulterebbe incompatibile con la vita da detenuto (in questo momento, infatti, si trova in ospedale). Ora, se una distinzione davvero forte caratterizza lo Stato dalla mafia è l’assenza nel primo del carattere vendicativo della pena, del piacere nell’infliggere sofferenza, nell’umanità e civiltà che la mafia non possiede. È giusto quindi lasciare in carcere un uomo che starebbe patendo, incapace di effettuare i gesti minimi, come ci viene detto? Il pensiero va, naturalmente e ovviamente, alle vittime della mafia: hanno avuto la possibilità di non soffrire? Sono state sottoposte a giusto e regolare processo per le loro presunte colpe? I familiari hanno avuto il diritto di vederle un’ultima volta da vive, preoccuparsi della loro salute, chiamare un medico, pronunciare un “Ti voglio bene” prima che morissero? Le vittime hanno avuto un loro avvocato difensore? Ecco, se il ragionamento da seguire è questo, chiaramente non c’è spazio per un confronto, non può esserci, sarebbe oltraggioso per la memoria dei tanti Borsellino, Falcone, Livatino. Ed allora proviamo a seguire un altro percorso, restando nei limiti dello Stato di diritto. Che cos’è l’ergastolo? La massima pena detentiva che lo Stato possa infliggere ad un uomo, il carcere a vita cioè. Ora, che la posizione di Provenzano venga stralciata o no, il problema resta lo stesso: è disumano costringerlo a morire in carcere? Ammesso e non concesso che non sia in condizioni d’intendere e di volere chi tenta il suicidio, così come parrebbe abbia fatto, ed ammesso e non concesso che davvero qualcuno stia cercando di ucciderlo, come egli stesso avrebbe confessato, per non farlo parlare; ecco, ammesso tutto questo, no, non mi sembra vi sia alcuna ipocrisia da parte dello Stato nel lasciare che in cella Provenzano ci muoia. Non è una forma edulcorata di pena di morte, è esattamente ciò che il nostro codice prevede e non trovo motivo alcuno perché si debba andare contro al nostro codice. Se qualcuno lo ritiene disumano, inizi a proporre l’abolizione del carcere a vita, possibilmente indicando a quale pena debba mai essere condannato chi ha ucciso più volte con lucidità e freddezza, chi ha trascorso decenni a cercare di sfuggire alla galera, chi, dopo essere stato finalmente incarcerato, ha cercato ancora di mettersi in contatto con l’esterno. Non si sa attualmente quanto possano essere stati simulati i suoi malesseri, se davvero il boss non è più in grado d’intendere e quindi, di fatto, inutilizzabile, in un processo. Lo stabiliranno i periti, com’è giusto che sia. Ciò che mi preme sottolineare è che una certa forma di “umanità” che pretende di essere giusta, buona e che chiama in causa continuamente Beccaria pretendendo di far passare per crudeli gli altri non solo offende le vittime della mafia, ma va contro il significato della parola ergastolo, va contro la legge, va contro la giustizia e gli esseri umani sono connotati proprio dall’ossequio dovuto alle leggi che si son dati. Ci sarebbe, poi, da riflettere su quanto possa essere in grado “d’intendere e di volere” un boss mafioso che ammazza senza il minimo rimorso tra un rosario e l’altro, ma qui si entra in un campo al di fuori delle mie competenze, nel regno dell’assurdo che io non capisco e francamente non ci tengo nemmeno a capire. È concesso dalla Legge che chiunque (sottolineo chiunque) abbia diritto ad essere difeso, che il suo avvocato faccia di tutto per alleviargli la pena e perfino che l’imputato possa mentire senza che ciò sia considerata falsa testimonianza (è la Legge: non sono d’accordo, ma la accetto), ma è sempre la stessa Legge che stabilisce che l’ergastolo sia né più né meno che una condanna alla prigione fino alla morte. C’è solo da rispettarla, l’esatto discrimine fra chi delinque e chi no. Lettere: la politica di Pilato lontana dal sovraffollamento delle carceri di Francesco Lo Piccolo www.huffingtonpost.it, 11 gennaio 2013 Il Comandante della Casa Circondariale di Chieti Valentino Di Bartolomeo, persona che apprezzo e stimo e con la quale mio trovo spesso ad affrontare questioni che riguardano il carcere, la pena e la giustizia, mi ha inviato il suo punto di vista sulla condanna all’Italia emessa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Una riflessione severa e amara e che condivido qui. Già mesi addietro avevo espresso le mie perplessità circa l’uso del termine sovraffollamento riferito al contesto carcerario italiano, perché a mio giudizio evoca la spontaneità dell’afflusso di persone verso luoghi di festa e quindi con l’espressione “sovraffollamento” si riesce ad edulcorare la situazione amara dei luoghi di pena della Penisola (le isole le hanno sconsideratamente chiuse da anni). Nel caso del carcere faremmo meglio ad esprimerci con il termine di “ammucchiamento”, perché i detenuti così stanno, “ammucchiati”. È infatti condivisibile la teoria secondo la quale le carceri scoppiano di gente solo perché la società “inventa” reati ed attua così il controllo sociale. Oggi, 8 gennaio 2013, mentre da solo a casa consumavo un panino, il telegiornale mi ha informato, in prima notizia, che l’Europa ha condannato ancora l’Italia per violazione dei diritti umani nelle nostre prigioni, ove gli spazi sono angusti, le condizioni minime di dignità non sono garantite, i detenuti convivono ammucchiati. Non solo per una questione di metri quadri a disposizione, quanto per le carenze di attività, per quello che nel gergo carcerario si definisce “ozio forzato”. Gli addetti ai lavori ed i detenuti lo sapevano e lo sanno che nelle carceri si vive male. Ascoltando il telegiornale però ho scoperto che anche il Ministro si aspettava che l’Europa ci condannasse, anche il Ministro condivide lo stigma verso le condizioni di detenzione, anche il Ministro si è messo nella posizione di coloro che hanno condannato le condizioni di vita in cui vengono costretti i detenuti. Eppure mi hanno insegnato che il Governo, l’Amministrazione, i mega dirigenti, sono bravi se riescono a gestire bene con le risorse che hanno: economiche, umane, strutturali, normative. L’acqua usata da Pilato per lavarsi le mani, oggi è stata sostituita da una espressione semplice ed abusata: “Io lo avevo detto, io lo avevo previsto”. Quanto ci piacerebbe sentire: “Con il poco che ho, questo è quello che ho fatto”; facendo seguire all’incipit l’elenco del quanto fatto. Io sono un addetto ai lavori. Sento solo slogan e frasi coniate: sorveglianza dinamica, regime aperto, riperimetrazione degli spazi. Nessuno che spieghi, con parole semplici, quale articolo dei Decreti abbia fatto modificare o proposto di modificare, quale circolare abbia elaborato, quale filosofia della pena condivida (se ancora esiste una filosofia della pena). Ed anche: se la Corte di Strasburgo ci ha concesso un anno di tempo per adeguare il trattamento riservato ai detenuti agli standard europei di dignità, il Ministro e l’Amministrazione hanno un progetto o vorranno ancora lamentarsi di una presunta inerzia del Senato? E gli oltre 500 ricorsi già incardinati avanti la Corte europea dei diritti dell’uomo? Non sono pervenute circolari a firma del Ministro, nemmeno del Sottosegretario. Non dico che avrebbero risolto il problema ma almeno lo avrebbero definito compiutamente, analizzato, fornito di legittimazione politica nelle proposte di soluzione. Macché! La politica, anche questa politica dei tecnici, mi pare si tenga ben lontana dai problemi del carcere e del cosiddetto “sovraffollamento”. Si tiene lontana dalla dignità dell’uomo. Ma, soprattutto, la governance, (come si fa chiamare oggi per non essere identificata), sconosce anche le buone prassi di chi veramente lavora e non le utilizza per evitarci le condanne dell’Europa. Ed allora, a lavorare bene senza che ci venga almeno riconosciuto, chi ce lo fa fare? Modena: Camera penale; quattro metri quadrati per ogni detenuto, situazione umiliante di Carlo Gregori Gazzetta di Modena, 11 gennaio 2013 L’Italia viola i diritti dei detenuti tenendoli in celle dove hanno a disposizione meno di 3 metri quadrati. La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha quindi condannato il nostro Paese per trattamento inumano e degradante di 7 carcerati detenuti nel carcere di Busto Arsizio e in quello di Piacenza. La Corte ha anche condannato l’Italia a pagare ai sette detenuti un ammontare totale di 100 mila euro per danni morali e ha dato al nostro Paese un anno di tempo per rimediare alla situazione carceraria. E a Modena la situazione non è sicuramente migliore: fino a quattro detenuti per cella, ciascuno con 4 metri quadrati di spazio, quando per i maiali sono previsti per legge 6 mq. Scarsa igiene, senso di vergogna e abbattimento, depressione, difficoltà di ogni genere. È quanto ha raccolto la commissione modenese delle Camere penali nel corso di ripetute visite effettuate soprattutto dall’avvocato Enrico Fontana. Come spiega l’avvocato Luca Brezigar, oggi all’Unione Camere penali di Roma, il problema di Modena potrebbe avere una soluzione con la costruzione delle due nuovi ali carcerarie ma oggi è drammatico e persino umiliante per chi ci vive dentro. Da quanto si è appreso sono già una ventina i detenuti interessati a sporgere un reclamo ufficiale per le sofferenze che devono patire. “Anche se da penalista frequento da sempre il carcere di Sant’Anna per gli incontri con i miei clienti detenuti - racconta Brezigar - devo dire che non mi ero mai potuto rendere pienamente conto delle loro condizioni di vita e della loro sofferenza, che è anche psichica, se non dall’incontro con un cliente che teneva lo sguardo basso durante una visita all’ambiente interno a Sant’Anma. Era uno sguardo abbassato per la vergogna. Mi ha colpito profondamente e oggi sposo in pieno le battaglie civili per fare uscire le carceri italiane da un degrado di lunghissima data, senza che in questi anni sia mai stato fatto nulla; la stessa battaglia che ha spinto Marco Pannella a digiunare recentemente. Tutte le carceri sono oggi in una situazione indegna e Sant’Anna non fa eccezione, soprattutto per la sezione maschile”. Brezigar spiega che l’affollamento di Sant’Anna, un fatto purtroppo ben noto e quasi da record nazionale, ha una pesante ricaduta sulle vite del detenuti. “Per chi non lo sapesse, vorrei aggiungere che quando si parla di detenuti non si parla solo di persone con condanne definitive da scontare - spiega l’avvocato Brezigar - ma di un altro dramma tutto italiano: il 70% a Sant’Anna sono persone in custodia cautelare, una misura per la quale c’è un evidente abuso. Oggi la custodia cautelare viene chiesta e concessa con grande facilità per cui le carceri si riempiono di persone che sono indagate, non di condannati. È una stortura ben nota ma alla quale non si pone rimedio e personalmente reputo che sia uno scandalo del nostro Pese, un segno di grave inciviltà”. Libertà di culto in carcere? “Entrano solo preti e bibbie” Libertà religiosa a senso unico nel carcere di Sant’Anna, con il monopolio dell’assistenza al clero cattolico, salvo qualche sporadica apertura agli ortodossi. A contestare il monopolio spirituale di una religione a discapito delle altre è Sinistra Per Modena che attraverso il capogruppo Francesco Ricci ha presentato un’interrogazione al sindaco per capire cosa è possibile fare per riequilibrare la situazione, visto che i detenuti di altre confessioni sono la grande maggioranza dell’istituto di pena. “Per lo Stato italiano - argomenta l’esponente di Sinistra per Modena - tutti i cittadini dovrebbero essere uguali anche dal punto di vista della libertà di culto. Ma dietro le sbarre questo principio nei fatti viene negato. In attesa di una legge più organica a livello nazionale per garantire pari dignità a tutti i culti cosa è possibile fare a Modena? Stiamo parlando di iniziative concrete come la possibilità di avere colloqui con ministri di culto della propria confessione piuttosto che vedere rispettati i tempi di preghiera della religione a cui si appartiene o ancora avere un luogo per i riti religiosi. Infine significa anche poter disporre di testi sacri che non siano solo quelli della Bibbia cristiana. Dunque è possibile costruire iniziative che vadano in questa direzione?”. Di fatto al S. Anna già da tempo si stanno faticosamente sperimentando forme di coesistenza religiosa, specialmente nei momenti più importanti, dal Ramadan per i detenuti mussulmani al Natale Ortodosso per quelli dell’Est Europa. Il guaio è che i regolamenti carcerari su scala nazionale, e quindi anche nel reclusorio modenese, tendono sempre a privilegiare la sicurezza e quindi anche l’accesso di ministri di culto è rigidamente regolamentato. Tanto per cominciare le varie confessioni religiose devono avere un’intesa in tal senso a livello nazionale e poi i vari rappresentanti devono essere accreditati. La conseguenza pratica è che gli accordi sono facilitati quando ci sono confessioni rigidamente gerarchizzate, come quelle cristiane ma più difficili con quelle islamiche dove gli imam hanno uno statuto diverso. Como: Corti (Cisl); sentenza della Corte europea consentirà ad altri detenuti di fare ricorso Corriere di Como, 11 gennaio 2013 Carcere del Bassone, emergenza infinita. Pochi giorni fa la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato l’Italia per trattamento inumano nei confronti di sette reclusi nelle carceri di Busto Arsizio e Piacenza, accusando il nostro Paese di violare i diritti dei detenuti tenendoli in celle dove hanno a disposizione meno di 3 metri quadrati di spazio. Situazione di sovraffollamento e degrado sono all’ordine del giorno anche a Como. “È una realtà che denunciamo ormai da anni - spiega Massimo Corti, responsabile del sindacato di polizia penitenziaria della Cisl. Questa sentenza apre una strada. Consentirà anche ad altri detenuti di intraprende la via del ricorso”. La Corte europea ha previsto per i sette detenuti un risarcimento di 100mila euro per danni morali. “Basta dire come da noi lo spazio a disposizione dei detenuti si attesti, in media, intorno agli 8 metri quadrati. Ma sempre più spesso all’interno di questa superficie ci sono anche 4 o 5 detenuti - dice Corti. È una situazione difficile per i reclusi ma anche per tutti noi che ci troviamo a dover gestire una realtà molto delicata”. A Como il carcere del Bassone è entrato in attività nel 1985 “per ospitare 176 detenuti - aggiunge l’esponente della Cisl - Nel corso degli anni, la capienza tollerabile è stata elevata a 420. Non solo: è stata stabilita anche la soglia massima, fissata a 581 detenuti”. Numeri impressionanti che però sono addirittura surclassati dalle cifre attuali. “Al 30 novembre del 2012 risultavano presenti nel carcere 51 donne e 493 uomini per un totale di 547 persone. In passato abbiamo raggiunto anche i 620 detenuti”. “Da tempo siamo sotto organico. Avremo bisogno di 80 agenti in più”, spiega ancora Corti. E la situazione regionale non è migliore. Anzi. In Lombardia, a fronte di 6.051 posti stimati, i detenuti attualmente reclusi negli istituti penitenziari sono 9.528. “C’è bisogno di nuove strutture. Più moderne. E, come detto, di più agenti. Se si dovesse andare avanti su questa strada, si potrebbe finire per arrivare a un provvedimento come l’amnistia o l’indulto”, conclude Corti. “I problemi di Como sono cronici. Il sovraffollamento e la mancanza di spazi e servizi adeguati sono una costante da anni - interviene Francesco Panico, in servizio al Bassone e segretario del Sinappe, una delle sigle sindacali della polizia penitenziaria. La sentenza della Corte europea non mi ha sorpreso. Ne ricordo una simile del Tribunale di sorveglianza di Lecce. Il problema, dunque, è ben noto, in tutta Italia e da tempo. Si tratta di carenze strutturali con le quali anche tutti noi agenti dobbiamo convivere”. Gorizia: Antonaz (Rifondazione); il carcere in condizioni pietose, bisogna chiuderlo subito Il Piccolo, 11 gennaio 2013 “Una struttura inumana che va chiusa perché non è in grado di ospitare in modo dignitoso delle persone”. Le parole usate solo 10 giorni fa dal consigliere regionale Roberto Antonaz, in visita al carcere di via Barzellini, sono eloquenti per descrivere la situazione difficile nella quale versa l’edificio, che a breve sarà sottoposto ad una nuova opera manutentiva ma che sente inesorabile il peso del tempo. “I detenuti vivono in condizioni davvero al limite - aveva sottolineato Antonaz - e gli organi di informazione dovrebbero poter entrare in questi luoghi e raccontare alla gente come si vive all’interno di una prigione e quali siano le condizioni in cui tutti, carcerati e dipendenti, sono costretti a stare”. Le difficoltà sono anche di ordine spaziale: nella struttura di via Barzellini la vita dei detenuti davvero ai limiti della sopportabilità. Ci sono esempi di sei persone ospitate in vani creati al massimo per due, con i detenuti che hanno la possibilità di farsi una doccia tre volte alla settimana, passando la loro giornata quasi interamente in questi spazi ristretti: anche per questi motivi tutti non vedono l’ora di uscire. In questa realtà un grande plauso va fatto però al personale del carcere goriziano, che con grande umanità e professionalità cerca di attenuare il più possibile le sofferenze dei carcerati con la loro disponibilità e preparazione nonostante i lavoratori stessi della Casa Circondariale siano costretti, visti i tagli operati dallo Stato, a subire dei disagi lavorando su tre turni invece che su quattro. Grossi disagi sono stati manifestati anche per le condizioni interne di alcune stanze nei diversi piani dell’edificio, invase dalla muffa nonostante da poco siano stati fatti interventi manutentivi atti a migliorare le condizioni della struttura. “Ho avuto corrispondenze con diversi detenuti in questi anni - ha evidenziato Antonaz dopo la sua recente visita - e se la situazione delle carceri in Italia è drammatica, a Gorizia lo è ancor di più. Oltre al problema sovraffollamento, infatti, bisogna fare i conti con una struttura fatiscente e costantemente bersagliata dall’umidità: le docce, ad esempio, sono state rifatte due anni fa, ma oggi sono già rotte e piene di muffa. A breve sarà indetta una nuova gara d’appalto per la manutenzione dell’edificio stimata in un milione di euro: ma l’unica soluzione sarebbe la chiusura della struttura. Se la civiltà di uno Stato e di una regione si vedono dalle condizioni delle carceri, qui siamo messi molto male. Basterebbe depenalizzare le leggi Fini - Giovanardi sull’utilizzo delle droghe e Fini - Maroni sull’immigrazione, e questa struttura si svuoterebbe”. Oristano: tecnici Dap sul nuovo carcere; ha bisogno importanti interventi di manutenzione di Elia Sanna La Nuova Sardegna, 11 gennaio 2013 Sono arrivati di primo mattino per verificare i problemi strutturali del nuovo carcere e accertare i lavori necessari a garantire un corretto funzionamento dell’intera struttura. L’arrivo dei tecnici inviati dal Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria era già programmato ed è avvenuto per combinazione proprio il giorno successivo alla denuncia fatta dalla Maria Grazia Caligaris sul grave stato di disagio nel quale stanno vivendo i detenuti e gli stessi lavoratori. La responsabile dell’associazione Socialismo diritti e riforme ha reso pubblica una lettera - denuncia di 35 detenuti del nuovo carcere Salvatore Soro di Massama. Una struttura, secondo la Caligaris, inaugurata e aperta prima del tempo. “Il nuovo carcere aveva necessità di un opportuno periodo di rodaggio - ha scritto Maria Grazia Caligaris - al fine di verificare i dispositivi di sicurezza e quelli relativi alla vita comune, come i servizi e l’organizzazione interna. Ma anche e soprattutto le attività di reinserimento dei detenuti nella vita sociale”. Sia il Provveditorato che la direzione del carcere di Massama, proprio durante la visita della commissione diritti civili del Consiglio regionale e la inaugurazione, avevano ammesso la presenza di una serie di problemi strutturali e annunciato anche come imminenti le attività di socializzazione dei detenuti. Da quanto si è appreso, queste sono partite e stanno interessando con una opportuna rotazione tutti i detenuti. Non ci sono state conferme ma neppure smentite invece sul resto dei problemi denunciati dalla Caligarsi, dalle docce alla struttura sportiva. È stata invece confermata la visita di ieri mattina dei tecnici inviati da Cagliari. Hanno effettuato un accurato sopralluogo accertando i problemi relativi alle infiltrazioni dell’acqua a causa della carenza di impermeabilizzazione sul tetto, e tra i bagni, al mancato cablaggio delle linee telefoniche ai problemi legati agli impianti di allarme e alla climatizzazione. Come era stato accertato e denunciato anche dai sindacati il carcere di Massama non era ancora pronto ad ospitare i detenuti e gli agenti della polizia penitenziaria. La fretta di chiudere piazza Manno è stata prevalente su tutto, soprattutto per il Governo e il Ministro. Ma le fogne saltate pochi giorni fa, gli allagamenti, le disfunzioni degli impianti - come avevano denunciato i sindacati - sarebbero derivati da una serie di irregolarità nella scelta dei materiali e nell’esecuzione dei lavori. Insomma, il carcere di Massama non era terminato ed ora, a distanza di due mesi e mezzo dalla sua inaugurazione occorre appaltare altri interventi. Indiscrezioni dicono che occorrono almeno 400 mila euro, che non ci sono. Una ulteriore beffa se si considera che la struttura è costata 40 milioni di euro e bel 8 di progettazione. Il dubbio, espresso da tanti, riguarda proprio i collaudi. Chi li ha fatti e come siano stati effettuati non è noto. Ma delle presunte irregolarità nell’esecuzione dei lavori nel nuovo carcere si è occupata anche la Procura della Repubblica, senza che peraltro siano stati individuati profili penalmente censurabili. Tanto che l’inchiesta aperta dal sostituto procuratore Armando Mammone è già stata archiviata. Salerno: l’Asl pensa al potenziamento dell’assistenza sanitaria al carcere di Fuorni La Città di Salerno, 11 gennaio 2013 “Valuteremo azioni immediate da compiere per trovare una soluzione su una problematica di estrema importanza e di particolare attenzione per la sua peculiarità e complessità”. Il potenziamento dell’assistenza sanitaria al carcere di Fuorni è nell’agenda del manager dell’Azienda sanitaria locale, Antonio Squillante. Ad assicurarlo è stato lui stesso nell’incontro svoltosi in via Nizza martedì pomeriggio al quale hanno preso parte i consiglieri regionali Gianfranco Valiante e Dario Barbirotti e Donato Salzano dei Radicali i quali hanno sottoposto a Squillante i tanti disagi che vivono i detenuti della casa circondariale di Salerno “che - come ha specificato poi Salzano - per legge devono godere della stessa assistenza che viene garantita ai mutuati a piede libero”. Nonostante la diminuzione di risorse economiche conseguenti alla spending review, e nel rispetto dei vincoli del piano di rientro che impediscono l’assunzione di nuovo personale, Squillante ha garantito che cercherà “di individuare altre figure che vanno ad integrare quelle già operanti all’interno della casa circondariale”. La carenza di personale medico e sanitario è proprio uno dei punti sui cui la delegazione sta maggiormente battagliando per garantire una permanenza più sicura a coloro che si trovano nella struttura. “C’è necessità di una maggiore presenza di figure quali cardiochirurghi, dentisti e ortopedici - ha aggiunto Salzano - e di qualche defibrillatore in più visto che il numero dei macchinari, come quello dei medici e degli infermieri, è calibrato per una popolazione decisamente inferiore di quella che attualmente risiede nella struttura di Fuorni. Abbiamo anche chiesto - aggiunge infine Salzano - che si prevedano corsi di pronto soccorso per il personale della polizia penitenziaria in quanto di notte non c’è il medico di guardia”. Squillante pare che abbia preso appunti alle richieste dei membri della delegazione e, in una nota diffusa ieri, in cui si evince un reale interesse a migliorare l’assistenza sanitaria della casa circondariale, ha auspicato di “trovare al mio fianco i sindacati e le forze politiche quando chiederò ai dipendenti di impegnarsi su questo delicato campo”. Il direttore generale ha assicurato alla delegazione che approfondirà l’argomento ed ha poi aggiornato l’incontro al prossimo 21 gennaio con lo scopo di formulare una proposta operativa. Per quelle data il manager si è impegnato a verificare la compatibilità delle esigenze di Fuorni alle ristrettezze di budget imposte all’Azienda dalla Regione Campania con l’obiettivo di potenziare almeno il personale sanitario della struttura. Bollate (Mi): il detenuto-chef indossa la divisa e scopre il galateo di Ilaria Sesana Avvenire, 11 gennaio 2013 Giacca immacolata, guanti bianchi e professionalità impeccabile. “Conoscono alla perfezione il galateo. Hanno imparato a essere molto attenti ai bisogni dell’ospite, ma sempre in maniera discreta”. Silvia Polleri è una donna elegante e precisa. E soprattutto ama le sfide impegnative. “Qualità” e “professionalità” sono le parole d’ordine della cooperativa “Abc. La sapienza in tavola” che porta in giro per l’Italia i suoi strepitosi menu preparati nelle cucine del carcere milanese di Bollate. Nove i detenuti assunti, di cui quattro ammessi al lavoro esterno che si occupano dell’allestimento dei catering. Purtroppo, in questo momento, le assunzioni sono ferme. Colpa dell’incertezza sul destino della Legge Smuraglia, che prevede benefici contributivi e fiscali per le aziende e le cooperative che lavorano in carcere. “Se assumessi un altro detenuto dovrei pagarlo quanto una persona assunta all’esterno - spiega Polleri. Ma con tutti gli svantaggi che comporta il carcere, ad esempio la mobilità ridotta. E l’onere di formarlo da zero”. In questi otto anni hanno lavorato nelle cucine di Bollate circa 40 - 50 di detenuti. “Sono in contatto con molti di loro, che mi raccontano della loro nuova vita fuori dal carcere. Mi mandano le foto dei loro bimbi”, spiega Polleri. Le statistiche sono inoppugnabili (recidiva al 10% tra i detenuti - lavoratori contro il 70% di chi non ha avuto questa possibilità, ndr), ma fredde. Mentre l’esperienza di chi ha portato del lavoro vero all’interno dei penitenziari restituisce dignità e vita ai numeri. “Uno dei miei ragazzi mi ha raccontato che ogni tanto va a guardare le sue buste paga. Le ordina e se le riconta con soddisfazione - dice Silvia Polleri. Ammette che alzarsi tutte le mattine all’alba per essere in cucina alle 6.30 gli pesa. Ma si è reso conto che era proprio questo a mancargli”. Molti degli ex detenuti che hanno lavorato ad “Abc” sono rimasti nel mondo della ristorazione, come cuochi, pizzaioli o camerieri. Ma anche coloro che hanno scelto altre professioni portano sempre con sé le lezioni apprese nella cucina di Bollate: serietà e cultura del lavoro. Un risultato non da poco se si pensa che, al momento dell’assunzione, i detenuti - lavoratori di “Abc” non hanno una formazione specifica, non hanno rispetto per le regole. E spesso non hanno mai lavorato in vita loro. “Io devo trasmettere loro la cultura della quotidianità del lavoro - spiega Polleri. E quello che imparano qui, lo porteranno con sé per tutta la vita”. Un lavoro lungo e faticoso, ma ricco di soddisfazioni. “Ripeto spesso ai miei ragazzi che la società ha dato loro “il fine pena mai”. Che lo stigma del carcere resterà gli resterà attaccato - conclude Polleri. Ma so che quando i miei ragazzi sono in servizio, bellissimi nella loro uniforme, l’abbiamo fatta in barba a tutti”. Alessandria: Sappe; detenuto tenta di gettarsi dal tetto del carcere, altri due di darsi fuoco Ansa, 11 gennaio 2013 A poche ore una dall’altra le due carceri di Alessandria hanno vissuto ieri momenti di tensione. Nel penitenziario Cantiello-Gaeta un detenuto romeno ha cercato di gettarsi dal tetto della struttura, poco dopo in quello di San Michele altri due detenuti magrebini hanno provocato un incendio e tentato di darsi fuoco. Lo comunica il sindacato autonomo di Polizia Penitenziaria (Sappe). I detenuti sono stati salvati dal tempestivo intervento degli agenti. “È evidente - dichiara Donato Capece, segretario generale del Sappe - che le costanti criticità quotidiane delle carceri italiane sono il sintomo palese della loro invivibilità”. La situazione penitenziaria è sempre più incandescente sottolinea. Capece ricorda che ad Alessandria oggi ci sono complessivamente più di 800 detenuti: 395 alla Casa circondariale Cantiello e Gaeta (che ha 260 posti letto regolamentari) e 416 alla Casa di reclusione S. Michele, che ha anch’essa 260 posti letto regolamentari. Insomma, 300 detenuti in più rispetto al previsto. Dal 1 gennaio al 30 giugno 2012 ad Alessandria ci sono stati 18 atti di autolesionismo e 4 tentati suicidi. Bologna: Pd; alla Dozza sovraffollamento in calo, ma rimangono ancora molti problemi Adnkronos, 11 gennaio 2013 “Il calo del numero dei detenuti ha rappresentato una boccata d’ossigeno ma nel carcere di Bologna permangono i problemi di sempre”. Questo in sintesi il messaggio che le parlamentari del Pd Rita Ghedini e Donata Lenzi, il capogruppo Democratico a Palazzo D’Accursio Sergio Lo Giudice e la presidente del Quartiere Porto Elena Leti inviano al termine della visita che hanno effettuato questa mattina alla Dozza, il carcere di Bologna. “La Dozza continua a soffrire dello stesso male, ormai cronicizzato: 878 presenze ad oggi a fronte di una capienza di 460 detenuti e di un margine di tollerabilità fino a 820, anche se per ora siamo lontani da quel picco di 1.200 reclusi che l’aveva trasformata in un girone infernale” ricordano gli esponenti Pd, rimarcando che “la composizione dei reclusi riflette le storture di alcune scelte legislative sbagliate: il 30% dei detenuti sono tossicodipendenti, il 50% sono in carcere per reati legati alla droga, il 60% è composto da stranieri, più del 50% sono in attesa di giudizio”. A questi numeri si aggiungono le carenze nell’organico di polizia penitenziaria: 405 agenti effettivamente in servizio a fronte di un organico previsto di 567 posti. “Ma anche l’area pedagogica è in fortissima sofferenza: il numero totale di 8 educatori provoca un tempo di attesa lunghissimo per i colloqui con i detenuti” proseguono. Non manca un “dato positivo” e cioè l’esperienza dell’officina meccanica attivata dalla Fid (Fare Impresa Dozza) , l’azienda nata dall’iniziativa di Ima, Gd e Marchesini Group che conta 10 detenuti assunti a tempo indeterminato e 15 in formazione, seguiti da tre formatori specializzati e da un tutor. Più in generale, sul piano nazionale, concludono i Democratici bolognesi, “desta ancora rabbia l’occasione perduta con lo stop al decreto sulle misure alternative al carcere presentato dal ministro Severino e bocciato in dicembre da Pdl e Lega”. “Il nostro sistema penitenziario sta esplodendo - chiosano, infatti - e il consolidamento dell’esecuzione penale esterna rappresenta una strada obbligata per restituire dignità alla pena ed evitare la vergogna di ulteriori condanne da parte dell’Europa”. Grosseto: laboratori e corsi per 43 detenuti, nel carcere-modello di Massa Marittima www.ilgiunco.net, 11 gennaio 2013 Non tutti le carceri italiane presentano la stessa situazione. A Massa Marittima i detenuti possono partecipare a corsi di formazione e progetti pensati dal ministero e dalla regione. Si tratta di una struttura nuova, pensata per accogliere in buone condizioni almeno 40 persone e oggi al completo con 43 ospiti. “La struttura comprende ampi spazi interni ed esterni - afferma il direttore Carlo Mazzerbo. Amministrazione Comunale e società hanno inoltre creato intorno ai detenuti una rete di supporto con l’attivazione di vari progetti e attività. La dimensione umana di questa struttura, ha permesso l’instaurarsi di un ottimo rapporto tra operatori e detenuti. Aiuta molto il fatto che gli ospiti dalle nove del mattino alle otto di sera abbiano le celle aperte e possano così passare la giornata in spazi comuni come la biblioteca, la palestra, una stanza in cui svolgere lavori di hobbistica ed una sala ricreativa”. A questo si aggiungono le quattro ore d’aria, due al mattino e due al pomeriggio, previste dall’amministrazione penitenziaria durante le quali i carcerati possono uscire nel cortile della struttura o lavorare l’orto allestito per un corso di agraria. Per gli ospiti esistono molti altri progetti: un corso di apicoltura e produzione di miele promosso dal Ministero, un laboratorio teatrale finanziato dalla Regione Toscana, un corso di giornalismo tenuto dal direttore del periodico cittadino La Torre Massetana, corsi di italiano per gli stranieri e laboratori del gusto organizzati da anni presso la struttura dalla condotta locale di Slow Food. Inoltre per gli ospiti dell’istituto, tutti detenuti a fine pena, il comune di Massa Marittima, gli Uffici per l’Esecuzione Penale Esterna di Siena e Grosseto e la casa mandamentale di viale Martiri della Niccioleta, hanno recentemente stipulato una convenzione per l’affidamento di attività di volontariato in favore della collettività da parte di soggetti in esecuzione di pena. Si tratta di un progetto di rieducazione sociale e reinserimento dei detenuti dell’istituto carcerario attraverso la predisposizione di contratti che consentano agli ospiti della casa mandamentale di svolgere attività di volontariato presso associazioni ed enti che operano nel settore della solidarietà. A gennaio come spiegano il direttore del carcere e l’educatrice Marilena Rinaldi che segue i detenuti in tutte le loro attività, il progetto verrà attivato con ore di volontariato di alcuni detenuti presso la residenza per anziani Falusi di Massa Marittima. È inoltre ancora attivo il progetto di inserimento al lavoro di detenuti a fine pena: già tre di loro hanno permessi giornalieri per recarsi a lavoro rispettivamente presso la cooperativa sociale il Nodo, la Parrocchia ed un’azienda che produce erbe aromatiche. “La struttura - conclude Mazzerbo - offre buone opportunità ai detenuti di rieducarsi ed inserirsi agevolmente nella società una volta giunti a fine pena. C’è invece ancora spazio per un potenziamento del personale in particolare della figura della psicologa assegnata”. Genova: a Marassi inizio lavori per costruzione del “Teatro dell’Arca”, con detenuti operai Ansa, 11 gennaio 2013 Abbattere i muri del carcere con l’ariete della cultura. È la frase simbolo con cui l’Associazione Teatro Necessario ha presentato l’inizio dei lavori al cantiere per la costruzione del “Teatro dell’Arca”, nella casa circondariale di Marassi, a Genova. Si tratta della prima volta in Italia che un teatro viene costruito, ex novo, all’interno di un carcere e con la manodopera dei detenuti. “Noi non ci siamo mai fermati nelle attività di reinserimento sociale dei detenuti - ha sottolineato il Direttore del carcere, Salvatore Mazzeo - nonostante il forte sovraffollamento che, purtroppo, ci caratterizza. Il teatro è un’iniziativa molto importante che si affianca agli altri laboratori che servono per dare ai detenuti professionalità o, perlomeno istruzione alla legalità”. Il Teatro dell’Arca, reso possibile grazie ai contributi delle Fondazioni Carige e San Paolo, sarà una sala polifunzionale, tutta costruita in legno, con una capienza di circa 200 posti, dotata di tutte le attrezzature necessarie per la rappresentazione di spettacoli, l’organizzazione di mostre, convegni e conferenze. “Il teatro sarà realizzato nell’intercinta - ha spiegato Mirella Cannata, coordinatrice del progetto - in un luogo simbolico, tra dentro e fuori, per dare l’idea di un ponte che comunica con la citta”. Piacenza: lite tra detenuti, due all’ospedale; i sindacati chiedono un’audizione in giunta www.liberta.it, 11 gennaio 2013 Lite questa mattina tra due detenuti del carcere delle Novate. I due, rimasti feriti, hanno dovuto ricorrere alle cure del Pronto Soccorso. Le loro condizioni non sono preoccupanti. Intanto i lavori proseguono a pieno ritmo, per la seconda metà del 2013 il padiglione - bis del carcere delle Novate potrebbe essere operativo. Volgono al termine quasi due anni di cantiere iniziati con la posa della prima pietra che risale al marzo 2011 con l’allora ministro Angelino Alfano Ad annunciare l’imminente realizzazione è Gennaro Narducci, segretario dell’Ugl penitenziaria, che però interviene anche su tutte le problematiche legate al carcere. All’indomani della condanna della Corte Europea per il sovraffollamento, oggi sono più che altro le carenze strutturali a preoccupare i sindacati, perché se è vero che i detenuti sono 315 a fronte di un limite fissato a 250, è vero anche che il problema del sovraffollamento è migliorato negli ultimi tempi. Per ottimizzare la struttura Narducci chiede invece un incontro con le istituzioni. In particolare propone un’audizione alla Giunta per fotografare la situazione e spingere Roma a intervenire. Preoccupa anche il nuovo padiglione. Due i principali interrogativi al riguardo: “Cosa si intende fare dei nuovi spazi pensati per 250 detenuti? Resteranno aperti anche i locali in funzione oggi?”. Cassino (Fr): volontari in carcere… al via il percorso formativo organizzato dalla Caritas www.ilpuntoamezzogiorno.it, 11 gennaio 2013 La Caritas Diocesana di Montecassino, da anni in prima linea per sollevare le condizioni di vita dei detenuti e aiutarli a ricostruire un positivo percorso di vita, in sinergia con la Casa Circondariale “S. Domenico” di Cassino e l’Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale, promuove un Corso di formazione per coloro che aspirano a diventare Volontari in carcere. L’iniziativa nasce dall’esigenza di essere più presenti in una realtà complessa quale è quella di un carcere e di farlo con competenza, in modo particolare in questo momento storico per la situazione drammatica in cui versano le carceri italiane soprattutto a causa del sovraffollamento. È di questi giorni la notizia della condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo per “Violazione di diritti umani”. Per il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, la sentenza della Corte europea è “un nuovo grave richiamo per l’Italia ed è una mortificante conferma dell’incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esecuzione di pena”. La Caritas constata che sono ancora pochi i cittadini consapevoli dei problemi delle persone detenute e che occorre sensibilizzare la popolazione su questa realtà; ritiene inoltre che la presenza del volontario nel carcere sia indispensabile soprattutto per ascoltare e per dar voce ai bisogni dei detenuti con l’obiettivo di restituire loro la dignità. E per far sì che il volontario che entra in carcere sia preparato e formato, promuove un percorso apposito di formazione, al quale sono stati invitati anche tutti gli operatori delle Caritas del Lazio che hanno il carcere sul loro territorio. Percorso formativo per Volontari in carcere presso Casa Circondariale S. Domenico ore 15.00 - 18 gennaio 2013 ore 14.30 “Introduzione ai lavori” Dott.ssa Irma Civitareale - Direttore Casa Circondariale Cassino Ore 15.00 “La natura della pena e la sua trasformazione nel tempo” Dott. Antonio Minchella - Magistrato di Sorveglianza - 25 gennaio 2013: “Struttura organizzativa degli Istituti Penitenziari” Dott.ssa Irma Civitareale - Direttore Casa Circondariale Cassino - 15 febbraio 2013: “Elementi del trattamento - funzione del volontariato” Dott.ssa Irma Civitareale - Direttore Casa Circondariale Cassino - 20 febbraio 2013: “Il rapporto tra l’Ordinamento Penitenziario e la società civile” Dott. Antonio Minchella - Magistrato di Sorveglianza - 26 febbraio 2013: “Il Volontariato nel Carcere” Prof.ssa Maria Rosaria Lauro - Direttore Caritas Diocesana di Montecassino - 1 marzo 2013: “Stare dentro e stare fuori: i luoghi della detenzione” Prof. Giovanni De Vita - Presidente Corso di Laurea interfacoltà Servizio Sociale - 8 marzo 2013: “L’uomo delinquente di Cesare Lombroso. E poi?” Prof. Giovanni De Vita - Presidente Corso di Laurea interfacoltà Servizio Sociale - 12 marzo: “Il metodo Caritas nel Carcere: l’ascolto alla persona reclusa” Prof.ssa Maria Rosaria Lauro - Direttore Caritas Diocesana di Montecassino Ancona: un po’ di carcere... a Natale per oltre 20 senigalliesi www.viveresenigallia.it, 11 gennaio 2013 Concluso il periodo natalizio è tempo di ringraziare chi, pur festeggiando con le proprie famiglie e amici, non ha dimenticato le persone recluse nelle carceri marchigiane e in particolare quelle dell’Istituto di pena di Montacuto. Una dozzina circa le persone di Senigallia coinvolte, nella settimana prenatalizia dal 18 al 21 dicembre, nelle attività ludico ricreative per i bambini dei detenuti. Come ogni settimana dell’anno, infatti, anche in quella che precede il 25 dicembre si sono tenuti i colloqui tra detenuti e familiari. Come è facilmente prevedibile, però, sotto il periodo natalizio in questi appuntamenti si registra un afflusso maggiore di parenti rispetto ad altre settimane dell’anno. Dunque i tempi di attesa possono dilatarsi e i bambini… stancarsi. Ecco perché, in occasione dei colloqui tra detenuti e familiari durante la settimana natalizia, i volontari senigalliesi hanno allestito giochi e attività per i più piccoli che venivano ad incontrare i propri parenti. Ogni mattina, dalle 8.30 alle 13.30, grazie alla collaborazione del centro per l’infanzia Stranalandia che ha messo a disposizione i materiali, i volontari hanno intrattenuto i bimbi e, in qualche caso, anche i più grandi che erano in attesa. Inoltre, a conclusione dei corsi di tastiera e chitarra tenuti da circa un anno dai docenti della scuola Musikè di Senigallia ai detenuti, cittadini, negozi e ditte senigalliesi si sono offerti di preparare pacchi regalo contenenti dolciumi e pasta, ma anche generi di prima necessità come carta igienica e prodotti per l’igiene personale, che sono stati consegnati il 17 dicembre. Il periodo delle festività ha visto l’apice con le Sante Messe del giorno di Natale tenute all’interno dell’Istituto. Due le celebrazioni eucaristiche: una alle 8.30 per i detenuti comuni del carcere e l’altra alle 10 per i detenuti delle sezioni di Alta Sicurezza, animate sia dai volontari senigalliesi che dagli stessi detenuti partecipanti ai corsi musicali. Un’occasione speciale per condividere insieme alle persone private della libertà personale il momento più importante dell’intero periodo natalizio, appunto le Sante Messe. Un grande ringraziamento, dunque, a tutte queste persone che, affiancandosi a quanti già operano all’interno dell’Istituto di pena di Montacuto, hanno portato un po’ di “festa” e sorrisi all’interno delle mura di cinta: Alessandro Di Nardo, Andrea Celidoni, Brenno Costanzi, Claudia Marchetti, Cristina Deromendi, Davide Del Vicario, Erbolario Senigallia, Federica Ubertini, Francesco Vernelli, Giorgio Berrettini, Giovanni Spinozzi, Laura Mandolini, Giulia Torbidoni, Giusy Guidini, Lucia Vernelli, Mara Marinelli, Marika Profili, Marisa Sabatini, Matteo Alessandroni, Matteo Celidoni, Michela Sebastianelli, Nicoletta Bartolini, Rita Fagnani, Silvia Fabri, Scout Senigallia1, Sonia Boldreghini, Tiriboco Grandi Cucine. Brescia: inaugurata mostra “Graffiati-Parole dal carcere”, resta aperta fino al 13 gennaio di Francesca Roman Giornale di Brescia, 11 gennaio 2013 Un graffio sul muro, quello di una firma, di un disegno, sia esso stilizzato o più elaborato. Un graffio nell’anima, quello provocato dalla reclusione, dalla privazione della libertà, dall’isolamento. Un gesto che diventa espressione di uno stato psicologico estremo, ma non per questo incapace di comunicare. Questo il filo conduttore della mostra “Graffiati - Parole dal carcere”, inaugurata mercoledì mattina a Santa Giulia, e aperta fino al 13 gennaio. L’esposizione si articola in tre sezioni, come ha spiegato Angelo Canori, presidente Vol.ca (Volontariato Carcere), realizzate in collaborazione con l’Associazione carcere e territorio e la Caritas di Brescia. Alla sezione “Graffiti” appartengono alcuni grandi pannelli che supportano una rielaborazione grafica di “Palinsesti dal carcere”, il lavoro svolto dal regista Gabriele Raimondi per l’Associazione culturale Wunderk di Milano. Sono scatti fotografici di graffiti carcerari, presenti in circa trenta luoghi di detenzione italiani, e realizzati tra il XV e il XX secolo. La curatrice della sezione, Serena Marutto, spiega come in queste raffigurazioni siano presenti alcune tematiche chiave per comprendere i motivi che spingono i carcerati a scrivere sui muri: il tempo, fissato nel suo scorrere, l’identità, di cui è necessario lasciare un segno, e infine l’evasione, che avviene attraverso l’immaginazione. Scorrendo lungo il corridoio s’incontrano poi dei disegni, realizzati a matita da un detenuto nel braccio della morte in Oklahoma, e giustiziato lo scorso anno. Da questi fogli emerge il desiderio di sognare ancora, d’immaginare la bellezza e la spontaneità della vita, nel corpo nudo di una donna o nel muso dolce di un delfino. La terza sezione è infine dedicata alle sculture realizzate dai detenuti delle carceri bresciane. Le terrecotte monocrome sono state eseguite dagli studenti che seguono il corso del professor Agostino Ghilardi dell’Accademia Santa Giulia, ed erano già state esposte a Verziano lo scorso dicembre. Le altre piccole sculture, di esecuzione e realizzazione decisamente diversa, ma di forte impatto emotivo, sono accompagnate dalle parole di chi le ha realizzate, ed esprimono il disagio, il senso di colpa e la speranza che permeano gli edifici di reclusione. La mostra si pone l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica in merito alla finalità rieducativa del carcere, così come previsto dall’articolo 27 della Costituzione. Una finalità che si coglie appieno nelle parole di Elisabetta, autrice di alcune terrecotte: “L’arte insegna a rispettare il mondo, e a rispettarsi reciprocamente”. Immigrazione: da Crotone una sentenza storica “ribellarsi è giusto… anche nei Cie” di Annamaria Rivera Il Manifesto, 11 gennaio 2013 Nei lager per migranti le rivolte e la loro repressione, così come gli atti di autolesionismo, sono talmente endemiche che ormai non fanno più notizia, se non allorché convenga tornare ad additare il pericolo pubblico dei “clandestini”. Sicché quello che si è consumato fra il 9 e il 15 ottobre scorsi nel Cie “S. Anna” di Isola Capo Rizzuto è stato solo uno dei tanti episodi di ribellione alla illegittima sottrazione della libertà personale e a condizioni di reclusione intollerabili: negazione di cure sanitarie basilari, materassi lerci e privi di lenzuola, latrine altrettanto luride, pasti ridotti al minimo e consumati per terra… Nel corso di quella rivolta alcuni “ospiti” salirono sul tetto e lanciarono grate e altre suppellettili divelte contro il personale di servizio e di vigilanza. Tre di loro - un algerino, un marocchino e un tunisino - si arresero dopo ben sei giorni di rivolta e di digiuno, e furono arrestati con l’accusa di danneggiamento e resistenza a pubblico ufficiale. Come spesso accade, ad accendere la miccia della rivolta erano state alcune odiose pratiche routinarie. Ad A.A., onesto cittadino algerino che viveva a Viareggio lavorando come cameriere, erano stati sottratti alcuni innocui effetti personali durante una “operazione di bonifica” del Cie, come si dice con formula eufemistica degna di un lager. Ad A.H., altrettanto onesto cittadino marocchino, che abitava con la famiglia a Gioia Tauro e lavorava da artigiano, era stato rifiutato il permesso di visitare la madre moribonda. Quanto al terzo, D.A., cittadino tunisino, egli, che viveva a Cosenza da molti anni con la sua compagna, allora incinta di tre mesi, si era ritrovato di punto in bianco ammanettato per strada, imprigionato in una caserma di polizia, poi trascinato in quell’inferno. Si dirà che tutto questo non è che la consueta banalità del male. In tal caso, però, è l’esito processuale ad essere tutt’altro che consueto e banale: il 12 dicembre scorso il giudice del tribunale di Crotone, Edoardo D’Ambrosio, ha assolto e resi liberi i tre rivoltosi - anzi “dimostranti”, come li definisce rispettosamente - con una motivazione che non potrebbe essere più limpida e più fedele alla Costituzione italiana e alla Convenzione europea dei diritti umani: reagire ad offese ingiuste, scrive il giudice, è un atto di legittima difesa. Allorché la dignità umana è calpestata e la giustizia oltraggiata, egli afferma, ribellarsi è legittimo. E lo è non solo sul piano morale, ma anche su quello specifico del diritto, nazionale ed europeo. Il giudice D’Ambrosio non si limita a enunciare un principio, bensì lo inserisce nel contesto concreto. I tre cittadini stranieri, scrive nella sentenza, “sono stati trattenuti” in strutture “al limite della decenza, intendendo tale ultimo termine nella sua precisa etimologia, ossia di conveniente alla loro destinazione: che è quella di accogliere essere umani”. E rimarca: “esseri umani in quanto tali, non in quanto stranieri irregolarmente soggiornanti sul territorio nazionale”, i quali andrebbero trattati secondo lo standard qualitativo che si applica (o dovrebbe applicarsi) al cittadino medio, senza distinzione di origine, nazionalità, condizione sociale. E non solo. Egli contesta che il “trattenimento” dei tre cittadini stranieri nel Cie sia stata una misura proporzionata all’entità della violazione amministrativa e, fra le righe, mette in dubbio la stessa legittimità dei lager per migranti: l’offesa alla dignità umana, soggiunge, è ancor più grave per il fatto che si tratta di persone le quali, “costrette ad abbandonare i loro Paesi di origine per migliorare la propria condizione”, sono state private della libertà personale senza aver commesso alcun reato. Quella del tribunale di Crotone è una sentenza che non è ampolloso definire storica. Se poi si considera che due giorni fa la Corte europea per i diritti umani con voto unanime ha condannato l’Italia per il trattamento inumano inflitto a sette detenuti nelle carceri di Busto Arsizio e di Piacenza, si può auspicare che qualche crepa vada aprendosi nel fortilizio lugubre del sistema detentivo italiano. Ma il parlamento e il governo che scaturiranno dalle prossime elezioni vorranno occuparsi della violazione dei diritti fondamentali di coloro che sono ristretti nelle carceri e nei Cie? L’esperienza ci rende pessimisti, la volontà politica ci fa sperare. Iraq: evasi 12 detenuti, tra loro anche militanti al-qaeda Aki, 11 gennaio 2013 Almeno 12 detenuti sono evasi stamani dal carcere di Taj, a nord di Baghdad. Lo riferisce il sito di notizie iracheno ‘al - Sumaria News’, citando fonti della sicurezza locale, secondo le quali tra i detenuti fuggiti figurano anche alcuni militanti di al - Qaeda in attesa di essere giustiziati. Secondo le fonti, alcuni secondini sono stati arrestati con l’accusa di aver agevolato la loro fuga, fornendo anche armi ai detenuti. Subito dopo l’evasione, l’ennesima degli ultimi mesi, si è scatenata una caccia all’uomo in città. Stamani, intanto, sempre a Taj, tre poliziotti iracheni sono rimasti uccisi in un attacco contro un checkpoint sferrato da un commando di uomini armati. Siria: ribelli, Assad era contrario a scambio detenuti, costretto da Teheran Adnkronos, 11 gennaio 2013 Le trattative per la liberazione di 48 iraniani e quattro turchi fatti prigionieri dall’Esercito siriano libero, che lotta contro il regime del presidente Bashar al-Assad, in cambio del rilascio di 2.126 detenuti siriani nelle carceri del regime, si sono conclusi solo grazie a un diktat di Teheran, visto che Assad si opponeva a una soluzione. È così che il portavoce del Consiglio militare rivoluzionario a Damasco, Abu Iyyad, ha svelato i retroscena dell’accordo tra governo ed Esercito libero, dopo negoziati che “sono durati circa tre mesi, con incontri in un hotel di Damasco”. In alcune dichiarazioni al quotidiano londinese “Al-Sharq al-Awsat”, la fonte ricorda che l’accordo non è stato ancora attuato totalmente, visto che la seconda tranche di detenuti siriani doveva essere rilasciata ieri, ma il governo ha deciso di posticipare l’operazione a domani “a causa della tempesta di neve che ha colpito più di una città siriana e ha comportato la chiusura di molte strade”. Abu Iyyad ha spiegato che le trattative hanno coinvolto il capo del Comitato di soccorso umanitario turco e rappresentanti del Qatar, del regime di Damasco e dell’Iran e i rappresentanti dell’Esercito libero, in particolare il capitano disertore Abdel Naser Shmayr, leader della Brigata al-Baraa che ha rivendicato il sequestro degli iraniani e dei turchi. Ma ora gli oppositori temono che il governo stia compiendo un’altra delle sue “manovre” e che “non manterrà le sue promesse, come al solito”, ha detto Abu Iyyad. “Era previsto che quei detenuti uscissero dal carcere di Adra e da quello militare di Saydnaya e fossero consegnati al comando di polizia militare di al-Qabun”, alla periferia di Damasco, ha sottolineato la fonte, affermando che i detenuti liberati ieri “erano in pessimo stato, indossavano abiti estivi e alcuni erano scalzi, mentre due di loro sono morti poche ore dopo a causa di un virus contratto in carcere”. Come ha rivelato Abu Iyyad, “il regime ha tergiversato molto durante il periodo delle trattative, ma poi si è dovuto piegare ai diktat dell’Iran, che gli ha imposto di accettare le richieste dell’Esercito libero, pur restando fermo nel suo rifiuto di liberare alcuni detenuti che i ribelli avevano inserito nella lista”. Anche il portavoce politico dell’Esercito libero, Bassam al-Dada, ha confermato ad ‘Al - Sharq al - Awsat’ che “trattare con i rappresentanti del regime non è stato facile per tutto il periodo dei negoziati, poiché ogni volta si rimangiavano le loro promesse, ma l’Iran è riuscito a fare pressione, soprattutto dopo che è emerso chiaramente che il regime è ormai a un passo dalla caduta”. Teheran infatti “non avrebbe mai lasciato i suoi cittadini nelle mani dell’Esercito libero”, ha aggiunto Dada, svelando che il governo di Damasco “ha cercato più volte di bombardare i siti dove si trovavano i prigionieri iraniani, anche se l’Esercito libero li spostava continuamente, e questo per sfuggire ai negoziati e accusare l’Esercito libero di averli uccisi”. Marocco: re Mohammed VI grazia 413 detenuti in occasione di festa nazionale Nova, 11 gennaio 2013 Il re marocchino Mohammed VI ha emanato oggi un decreto di grazia in favore di 413 detenuti presenti nelle carceri del suo paese. Lo ha annunciato l’agenzia di stampa marocchina “Map”. La decisione stata presa in occasione di una festa nazionale marocchina, quella della commemorazione della presentazione del Manifesto di indipendenza, avvenuto l’11 gennaio 1944. Si tratta di una festa molto sentita dai marocchini perché ricorda quello che viene considerato un punto di svolta nel processo della lotta del popolo marocchino, in sintonia con il trono, per il recupero della libertà e indipendenza del Marocco dal protettorato francese. In quell’occasione per la prima volta il partito dell’Istiqlal rivendicava l’indipendenza del paese.