Giustizia: intervista al ministro Paola Severino; “Pene alternative… che occasione persa” di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 10 gennaio 2013 “Quando si visitano luoghi come San Vittore o Poggioreale e si vede coi propri occhi la sofferenza di chi vi è detenuto, ci si rende drammaticamente conto di come ogni giorno dietro le sbarre sia una sofferenza in più. Il mio avvilimento dopo la sentenza della Corte di Strasburgo è dovuto a questo: sapere di avere affrontato il problema di quelle persone, di averlo avviato verso la soluzione ma di non averlo definitivamente risolto, perché occorre dell’altro tempo...”. Parte da qui, l’intervista col ministro della Giustizia, Paola Severino, che a fine legislatura traccia un bilancio degli interventi fatti per alleviare la grave situazione in cui versano 65mila detenuti, di quelli “non realizzati perché il Parlamento aveva forse qualche altra legge più importante da approvare” e di quelli “che si possono ancora fare”. Un paio, non decisivi ma fortemente simbolici, li porterà a compimento lei stessa, prima che l’orizzonte della legislatura volga al termine: “Un mio rammarico è stato il taglio dei fondi destinati al lavoro per i detenuti, che abbassa notevolmente il rischio di recidiva. Restano per ora solo 16 milioni di euro, ma mi sono impegnata affinché tale cifra venga interamente destinata a questo scopo, prima che io lasci via Arenula”. E l’altro, ministro Severino? È la prossima inaugurazione del carcere di Arghillà, circa 300 posti, in provincia di Reggio Calabria. La stampa l’ha giustamente portato ad esempio di dispendio di denaro pubblico senza alcuna utilità. È uno di quei casi di nuove strutture penitenziarie dove, per carenza di una strada o di un impianto elettrico a norma, l’apertura non era possibile. Quegli ostacoli sono stati risolti e spero di poterlo inaugurare nei prossimi giorni. E cosa accadrà di altri penitenziari “minori”, tuttora chiusi? Bisogna ragionare in termini di costi - benefici, come si è fatto per i piccoli tribunali. Per restare in Calabria, a Laureana di Borrello, ce n’è uno dotato di circa ottanta posti, chiuso da alcuni mesi: ospitava una ventina di detenuti, con costi di mantenimento assolutamente sproporzionati. Secondo il Dap, se portato alla sua effettiva capienza, potrà essere dotato di una quarantina di addetti e funzionare a pieno regime. E gli interventi di edilizia carceraria, previsti dal Piano varato nel 2010? Come procedono? Nonostante gli stanziamenti originari siano stati decurtati di 228 milioni di euro, il piano è stato rimodulato per consegnare entro il 31 dicembre 2014 11.700 posti letto, ossia 2.273 in più rispetto al progetto precedente: già nel 2012 sono stati consegnati 3.178 nuovi posti, ai quali se ne aggiungeranno 2.382 entro giugno. Sono stati ricavati grazie a fondi straordinari, ma anche stanziamenti ordinari. Basteranno a risolvere entro un anno il “sovraffollamento strutturale”, come chiede la sentenza di Strasburgo? Non è solo questione di realizzare nuovi padiglioni o nuovi penitenziari. La nostra azione, sin da gennaio, si è articolata su tre direzioni: oltre a rimodulare il piano per l’edilizia, abbiamo varato il decreto “salva carceri”, per incidere sia sul fenomeno delle cosiddette “porte girevoli” (gli ingressi per soli due - tre giorni), sia sulla durata della pena in detenzione domiciliare (portata da 12 a 18 mesi). Con quali risultati? La popolazione di detenuti è scesa da 68.047 (novembre 2011) ai 65.747 di oggi. Gli ingressi per pochi giorni sono passati dal 27% del totale (nel 2009) al 13% di quest’anno e ben 8.363 persone hanno potuto scontare la pena presso il domicilio. In istituti come Piazza Lanza, a Catania, le porte girevoli sono state quasi del tutto eliminate e i detenuti sono diminuiti di oltre 100 unità, un sesto del totale. Ottimi numeri, ma anche questo intervento da solo non bastava. Così siamo partiti dai disegni di legge presentati in Parlamento e abbiamo scritto il ddl sulle misure alternative. Che però, nonostante il suo impegno, non ha visto la luce. Non è servita neppure la “moral suasion” del Quirinale. Perché? Purtroppo il Senato non ha varato il testo in via definitiva, nonostante il provvedimento fosse stato approvato alla Camera a larghissima maggioranza. Qualcuno dice che avrebbe riguardato un numero basso di detenuti... Nelle stime effettuate dal Dap e riportate dai relatori del provvedimento in commissione giustizia si parla di cifre non trascurabili. E comunque bisogna avere presente come in Italia l’82% delle condanne si sconti in carcere, mentre in Paesi come Gran Bretagna e Francia il 75% delle condanne comporta misure alternative. Perciò, le soluzioni strutturali sollecitate anche dalla Corte di Strasburgo devono portare a un cambio di rotta: il carcere deve essere l’extrema ratio. Questo Parlamento aveva una grande chance e l’ha sprecata. Mi auguro che la prossima legislatura sappia coglierla, considerandola una priorità per il nostro Paese. Giustizia: il carcere-modello di Laureana… chiuso e abbandonato per carenza di personale di Domenico Marino Avvenire, 10 gennaio 2013 Il giorno dell’inaugurazione il ministro degli Interni, Roberto Maroni, definì l’istituto penitenziario “Luigi Daga” di Laureana di Borrello, nel Reggino, la struttura “per il trattamento del detenuto più avanzato del Paese”. Successivamente il guardasigilli Angelino Alfano lo indicò come “carcere modello”. È mirato anzitutto ai giovani finiti nei guai con la giustizia, per i quali prevede attenti percorsi di reinserimento sociale e lavorativo grazie a tre serre, una falegnameria e un laboratorio di ceramica. Può ospitare 68 persone, per lo più tra 18 e 34 anni. Ma da quattro mesi è chiuso per carenza di personale. Uno stop che ha prima sorpreso e poi indignato, tanto da provocare la creazione d’un comitato civico di lotta per la riapertura, l’organizzazione di manifestazioni pubbliche e consigli comunali aperti. Oltre all’iniziativa di parlamentari e uomini di chiesa, come l’arcivescovo di Cosenza - Bisignano, Salvatore Nunnari, che a inizio ottobre ha scritto al ministro della giustizia, Paola Severino, sottolineando d’avere “il cuore ferito perché come per tutti i calabresi quella casa costituiva un segnale di grande speranza nell’opera educativa di tanti giovani che dopo tanti efferati delitti, trovavano l’ambiente più consono a un nuovo cammino di redenzione”. Il presule ha chiesto l’immediato intervento del ministro, e aggiunto: “Ho avuto la gioia di seguire qualcuno di loro e ho riscontrato la serietà e l’impegno con cui i giovani venivano seguiti e preparati professionalmente ad affrontare il non sempre facile rientro nella società”. In coda l’arcivescovo era molto duro: “Ora una decisione avventata e una scusa poco credibile, mancanza del personale di custodia in altre case, ha interrotto questo percorso educativo e in modo traumatico con un blitz che ha offeso la dignità dell’uomo”. A fine novembre il ministero ha risposto al deputato calabrese del Pdl, Nino Foti, sottolineando che la chiusura sarebbe stata temporanea ed entro i primi tre mesi di quest’anno l’istituto sarebbe tornato in piena attività. Ma i cancelli sono ancora chiusi e i giovani detenuti sistemati in altri penitenziari, non dotati come il “Daga” anzitutto di percorsi di reinserimento lavorativo che tanti benefici hanno garantito a quanti sono stati rinchiusi nel carcere modello della Piana di Gioia Tauro. Nell’ultimo anno, a esempio, grazie alla falegnameria attiva al suo interno, pur operando a singhiozzo a causa dei tagli di bilancio, ha fornito i mobili per arredare il penitenziario di Crotone. Giustizia: le carceri, vergogna italiana (e problema di bilancio) di Dimitri Buffa L’Opinione delle Libertà, 10 gennaio 2013 “Le stanze in cui si svolge la vita dei detenuti devono essere sufficientemente spaziose e illuminate da luce naturale o artificiale per consentire lavoro e gioco, ventilate o riscaldate quando le condizioni lo richiedono e attrezzate con servizi sanitari privati, di tipo discreto e razionale. Tali servizi devono essere mantenuti e puliti correttamente. I locali in cui i detenuti trascorrono la notte sono celle singole o collettive. Particolare attenzione deve porsi nella la scelta di coloro che sono collocati in celle condivise”. Per l’Europa, che martedì con una “sentenza pilota” ha condannato l’Italia a risarcire con circa 100mila euro tutti gli ex detenuti (principalmente stranieri) ricorrenti contro la situazione di degrado e inciviltà che da anni caratterizza i penitenziari italiani, gli standard cui il nostro paese dovrebbe uniformarsi sono questi. Roba da fantascienza per un paese fondamentalmente sciatto e menefreghista, che irride le lotte non violente di Marco Pannella e dei radicali italiani e transnazionali per la giustizia e per l’amnistia. Vocaboli che invece connoteranno le liste radicali alle prossime elezioni politiche e regionali di fine febbraio. Ma questa Italia giustizialista che ha sabotato persino un timido tentativo legislativo, quello della ex ministra di Giustizia, Paola Severino, per la depenalizzazione di alcuni reati e per l’affidamento in prova di poche decine di detenuti, consegnando agli annali della Camera dei deputati orazioni da quinta elementare, avranno presto motivo di ricredersi per motivi di bilancio. Visto che dei diritti umani in genere e di quelli dei detenuti in particolare sembra importare loro un po’ meno di niente. Se stavolta infatti l’Italia, pregiudicato numero uno d’Europa in materia di diritti umani nelle patrie galere e di malfunzionamento della giustizia, tanto che se oggi dovesse girarsi un altro film come Fuga di mezzanotte varrebbe la pena ambientarlo a Regina Coeli invece che in Turchia, se l’è cavata con 100mila euro circa da dividersi per i sette ricorrenti (tre dei quali si sono difesi da soli, ndr) e cioè Mino Torreggiani, Bazoumana Bamba, Raoul Riccardo Biondi, Afrim Sela, Tarcisio Ghisoni, Mohamed El Haili e Radouane Hajjoubi, la prossima volta, che non tarderà molto a venire, la Corte europea dei diritti dell’uomo procederà a irrogare pene esemplari all’imputato Italia. Ad esempio da centomila euro o anche più a testa da risarcire ai singoli detenuti. Siccome pendono già 550 ricorsi in fase esecutiva, cui ne andrebbero aggiunti oltre seimila in fase iniziale, è facile capire che si rischia una nuova tassa per coprire un buco a bilancio che potrebbe anche superare i trecento milioni di euro. Insomma la demagogia delle forze manettare d’Italia rischia di essere pagata due volte dal cittadino: la prima in termini di insicurezza e di inciviltà, dato che chi viene recluso in queste condizioni di solito moltiplica il proprio tasso di recidiva, e la seconda come esborso a carico del contribuente. D’altronde da noi è tradizione indelebile della politica all’italiana quella di fare ripagare le miopi scelte di governo, e soprattutto quelle che maturano in campagne elettorali da film dell’orrore come quella in corso, all’anello debole della catena istituzionale: il cittadino contribuente. La battaglia di Pannella per l’amnistia e la giustizia, che ora è diventata anche il simbolo di una lista, è quindi esattamente tutto il contrario di, come osa dire la Severino, “una campagna elettorale sulla pelle dei detenuti”. È invece un potente campanello di allarme su quello che ci aspetta se continuiamo a dare retta a politici pavidi e opportunisti come quelli visti in questo esecutivo bluff dei tecnici o a demagoghi cialtroni e urlanti come quelli eletti in questa stramaledetta tredicesima legislatura. Giustizia: il piano-carceri e l’emergenza infinita del sovraffollamento di Giampiero Di Santo Italia Oggi, 10 gennaio 2013 Con un sistema carcerario come quello italiano, la condanna della corte europea dei diritti dell’uomo era inevitabile. Angelo Sinesio, prefetto e commissario delegato per il “superamento della situazione di sovrappopolamento degli istituti penitenziari presenti sul territorio nazionale”, aveva chiarito già il 18 aprile dell’anno scorso alla camera, commissione giustizia, che, malgrado tutti gli sforzi per costruire a tempi di record nuove carceri e ristrutturare buona parte di quelle esistenti, la frantumazione delle competenze, sempiterno problema italico, ha finora impedito e impedirà ancora una seria pianificazione degli interventi. Come aveva spiegato appunto Sinesio in risposta alle domande dei parlamentari: “Per quanto riguarda tutte le domande che riguardano l’utilizzo di ulteriore personale, l’utilizzo e la distribuzione delle carceri sul territorio, purtroppo io sono commissario delegato per realizzare qualcosa, e non ho la funzione di pianificare gli interventi. Lavorando su queste cose mi sono reso conto che abbiamo una criticità enorme sul discorso delle carceri perché abbiamo quattro competenze diverse: il ministero delle infrastrutture che costruisce, quello della giustizia che gestisce e pianifica, il Demanio che ne detiene la proprietà e il ministero della giustizia che di nuovo deve fare la manutenzione”. Il solito ginepraio, che aveva indotto il commissario a descrivere una situazione insostenibile in assenza di scelte politiche e legislative, perché “avremo sempre criticità, non avremo pianificazione e programmazione, non potremo realizzare carceri europee, ecosostenibili e strutturate logisticamente sul territorio. Questo è il motivo dell’emergenza, che nasce da questo frazionamento di competenze”. Certo è che dalla data del suo insediamento, avvenuto il 31 dicembre del 2011, di emergenze Sinesio ne ha dovute affrontare più di una. Il Cipe, tanto per festeggiare l’avvento del commissario, lo stesso giorno aveva deciso di tagliare le risorse disponibili da 675 a 447 milioni di euro, con una sforbiciata di 228 milioni, il 33,8% in meno. Una mazzata che ha convinto e costretto il commissario delegato ad aguzzare l’ingegno, per non perdere nessuno dei 9.150 nuovi posti per i detenuti e al contrario per aggiungerne altri 2273 fino ad arrivare al totale di 11.573. Non è un caso che i tecnici abbiano lavorato per ridisegnare il piano carceri con l’obiettivo di risparmiare molti soldi da destinare, però, alla realizzazione delle opere. Insomma, una sorta di spending review ante-litteram, perché quella del premier Mario Monti non era ancora entrata nel vivo. È nata così, per esempio, l’idea di arredare le nuove celle e anche gli uffici dei penitenziari con i mobili costruiti dai detenuti nei laboratori di falegnameria interni. “L’ufficio del commissario sta predisponendo, conformemente a quanto fatto dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, anche una convenzione per fare realizzare ai detenuti tutti i mobili delle strutture carcerarie”, aveva spiegato ai parlamentari. Di più, in risposta alla parlamentare radicale Rita Bernardini, che aveva ventilato la possibilità di fare partecipare i detenuti direttamente alla costruzione delle opere, Sinesio non aveva potuto promettere. “È sicuramente accoglibile l’istanza dell’onorevole Bernardini in ordine alla possibilità di utilizzare i detenuti anche per altri lavori. Tanga però conto che queste sono opere segretate e che per legge il pregiudicato non dovrebbe lavorare all’interno della struttura da realizzare. Detto ciò, ci metteremo al lavoro per valutare come utilizzare queste risorse umane”, aveva promesso. C’è da dire che la struttura del commissario si era anche messa al lavoro insieme con la Corte dei conti per tenere sotto stretto controllo la spesa destinata al proprio funzionamento e ne era nato “a costo zero per l’amministrazione, un programma di supporto informatico per la tenuta della contabilità speciale, perché si interfacci telematicamente con la sezione di controllo della Corte dei conti in ordine al controllo preventivo cui siamo sottoposti”, aveva specificato Sinesio. Che aveva lanciato l’idea di estendere alle altre strutture commissariali “un software che non costa nulla ed è in linea con la Corte dei conti, che nel momento in cui spendiamo verifica immediatamente la spesa effettuata a valere sulla cassa del commissario. Hanno quindi la possibilità di fare la verifica on line e quindi di autorizzare o fare il rilievo”. Fantascienza, nell’Italia delle spese in deroga dei vari commissari straordinari. Giustizia: intervista a Lucia Castellano, già direttore a Bollate “Amnistia sì, ma non basta” blogdellagiustizia.it, 10 gennaio 2013 “Non serve svuotare le carceri, se si riempiono di nuovo”. Così Lucia Castellano, già direttore della Casa di reclusione di Bollate, poi assessore a Milano, ora candidata alla regione Lombardia. Dove punta ad occuparsi di “case, territorio ed Expo”. “Le dirò, fare l’assessore è più difficile che dirigere un carcere. Anche perché devi sempre viaggiare a 3mila giri”. Parte così l’intervista a Lucia Castellano, ex direttore del carcere Bollate, dal 2011 titolare dell’assessorato Casa, Demanio e Lavori Pubblici nella giunta Pisapia. Ora Lucia Castellano ha deciso di candidarsi per la regione Lombardia nella lista guidata da Umberto Ambrosoli. Il lavoro svolto nelle carceri, per circa vent’anni, al Marassi di Genova e a Eboli, a Napoli, sua città natale, poi ad Alghero fino a Bollate, quest’ultimo considerato per ammissione generale un “modello” di istituto penitenziario da imitare per il recupero e il reinserimento. Lucia Castellano vuole andare in Regione per occuparsi di case, territorio, Expo e, forte della sua esperienza, anche di carceri “perché lì - spiega - i finanziamenti ci sono. E di cose da fare ce ne sarebbero molte”. Dr.ssa Castellano, due giorni fa l’ennesima condanna dell’Italia da parte della Corte europea dei diritti umani… È inevitabile, e ci condanneranno ancora. Abbiamo una legislazione folle, come la ex Cirielli, per la quale diventa recidivo anche un venditore di cd falsi, piuttosto che la Bossi-Fini. Con norme del genere il sovraffollamento è assicurato. Il carcere, invece, dovrebbe essere l’extrema ratio, da applicare per reati di sangue o di forte allarme sociale. Ci sono i presupposti normativi per un carcere umano, ma ci vuole coraggio per superare certe prassi consolidate. A Bollate lei c’è riuscita… A Bollate non abbiamo avuto leggi di favore, ma abbiamo semplicemente utilizzato quelle vigenti, a partire da quel che dice la Costituzione. Se ti condannano, vivi dentro un muro di cinta, ma lì dentro resti un uomo libero; detto altrimenti, non sei una persona privata della libertà ma una persona limitata nella libertà. Se la vedi così, puoi ritrovare una capacità di autodeterminazione del tuo futuro, del tuo destino. Io ho lavorato sodo per favorire questi percorsi. Quando sento parlare di Bollate come di un carcere modello da un lato mi compiaccio, dall’altro meno perché ne potrebbero nascere domattina dieci o venti di Bollate. Basterebbe volerlo, le leggi ci sono. Purtroppo, come dicevo, si soffre la mancanza di coraggio da parte degli amministratori penitenziari, intendo di tutto l’apparato a ogni livello. Che fare per il sovraffollamento? C’è una sola risposta: la depenalizzazione di alcuni reati e l’utilizzo di misure alternative. Ripeto: il carcere dovrebbe essere l’ultima soluzione quando non ce ne sono altre. Poi, se sei in emergenza devi anche usare il buon senso. Se stai stretto apri le porte, i detenuti non sono scemi, apprezzano il vantaggio di avere le celle aperte. Invece c’è chi, di fronte al sovraffollamento, chiude le celle. Il risultato è che hai quasi 70mila persone che vivono come bestie e, quando escono, hanno ancora più voglia di fare le bestie. Chi frena la possibilità di carceri umane? La politica ovviamente, il freno è tutto lì. Lucia Castellano è favorevole all’amnistia? Certo, mi auguro si faccia. Ma il punto è anche un altro: se fai uscire la gente dal carcere poi devi chiudere il tappo, altrimenti il lavandino si riempie di nuovo. Nel 2006 c’è stata un’amnistia, ma poi non si è fatto nulla perché il lavandino non tornasse a riempirsi. Insomma, non basta sturare, poi bisogna tappare. Quindi condivido la battaglia sull’amnistia, mi sento vicina a Marco Pannella; detto questo non condivido dei radicali il fatto che facciano solo iniziative specifiche, sposando singole cause, quando ci vorrebbero invece proposte più ampie e globali, dal tema dell’immigrazione alle nuove povertà, al tema del lavoro che non c’è per tantissima gente, figuriamoci se può esserci per i detenuti. Dopo l’esperienza a Palazzo Marino, ora la corsa per la Regione Lombardia. Perché? È una decisione che ho preso dopo averne parlato con il sindaco Pisapia e con Umberto Ambrosoli, che si è subito detto molto d’accordo. Posso dire che lavorare per il comune di Milano avendo una regione “nemica” è una fatica doppia, che tende a vanificare il buono che fai. Basti dire che come assessore di Palazzo Marino ho avuto un referente in Regione che ora è imputato per aver dato la casa ai figli di un boss. Perciò vorrei andare in Regione per vedere finalmente l’Aler funzionare, potendo continuare a occuparmi di case, territorio, Expo e, perché no, di carceri. In Regione i finanziamenti ci sono, si potrebbero fare ottime cose. Giustizia: intervista a Franco Corleone, garante detenuti “Va riformato il Codice penale” Il Centro, 10 gennaio 2013 “Intervenire per decreto per modificare i punti più spinosi della Fini-Giovanardi sulle droghe, una legge “carcerogena” che nel solo 2011 ha portato in carcere 28mila persone per detenzione di stupefacenti, in grandissima parte per modica quantità”. Questa per l’ex sottosegretario alla Giustizia Franco Corleone, oggi garante per diritti dei detenuti in Toscana, è la strada maestra per iniziare a rimediare all’emergenza carceraria che potrebbe costare ai contribuenti “molte altre condanne analoghe”. Rimettere mano alla Fini-Giovanardi è un’idea condivisa dal Pd. Ma basterà? “Certamente no, ma sarebbe un ottimo inizio. Almeno per toccare il tetto delle pene che è altissimo e fa scattare le misure detentive. Gli altri passi consistono del dire no alle altre leggi speciali - vedi l’immigrazione - e ai pacchetti sicurezza che hanno reso quasi impossibile l’accesso alle misure alternative. Poi vanno modificate le norme sulla custodia cautelare e la legge Cirielli sulla recidiva. Sono tutte proposte già elaborate dalla commissione Giostra del Csm”. E con quali risultati? “Secondo le stime elaborate in commissione uscirebbero dai 10 ai 20mila detenuti”. Insomma serve una complessiva riforma del codice penale? “Esattamente. E abbiamo già pronti i testi Nordio e Pisapia. Non sarebbe un lavoro così complesso. Dobbiamo assolutamente abbandonare la legislazione emergenziale che ci la lasciato con norme contraddittorie e raffazzonate”. Costruire nuovi penitenziari non è una soluzione? “L’edilizia carceraria ha tempi lunghi e gli istituti in costruzione sono andati, o sono destinati, a rimpiazzare quelli più vecchi e fatiscenti con scarso guadagno di capienza. E anche l’azione dell’ultimo governo in materia non è stata abbastanza incisiva”. Ma la capienza delle carceri italiane è davvero così ridotta rispetto al resto dei paesi occidentali? “Tutt’altro. Il punto è decidere quali siano i reati meritevoli di essere puniti con il carcere e quali invece con sanzioni diverse o con altre misure riparatorie. In numeri possiamo metterla così. I boss mafiosi al 41 bis sono non più di 650. Altre settemila sono le persone detenute in regime di alta sorveglianza. Gli altri sessantamila - tolti gli omicidi e qualche altro grave reato come le estorsioni e la violenza sessuale - sono dietro le sbarre per le leggi speciali”. Strade alternative? “Il numero chiuso. In California e in Germania due corti hanno stabilito che si entra in carcere, per i reati minori, solo se c’è posto” Giustizia: lo schiaffo di Strasburgo e lo scandalo del sovraffollamento a Poggioreale di Antonio Mattone Il Mattino, 10 gennaio 2013 Il livello di guardia è stato superato. La storica sentenza della Corte europea dei diritti umani che condanna l’Italia per trattamento inumano dei detenuti rappresenta un punto di non ritorno. Meno di 3 metri quadrati in cui vivere 22 ore al giorno sono stati ritenuti uno spazio non degno di un paese civile. I sette carcerati reclusi nelle prigioni di Busto Arsizio e di Piacenza a cui lo Stato dovrà pagare 100 mila euro, in un certo senso rappresentano tutte le 65mila settecento uno persone rinchiuse nelle carceri italiane alla fine di questo anno. Un verdetto epocale ma non inaspettato secondo il ministro Severino, mentre il Capo dello Stato, la cui voce si è levata più volte per denunciare la gravità delle condizioni dei detenuti italiani, parla di una “mortificante conferma”. La situazione è drammatica anche nella nostra regione dove sono presenti 8.165 persone contro le 5.794 previste. Di queste oltre la metà sono ospitate a Secondigliano e a Poggioreale, carceri che nell’Europa occidentale detengono due record: il primo è quello che ha la maggiore estensione territoriale, il secondo quello del sovraffollamento . Anche nelle carceri di Pozzuoli, Benevento e Santa Maria Capua Vetere il numero dei detenuti presenti ha raggiunto cifre preoccupanti. Se pensiamo che a Poggioreale, oggi intitolato a Giuseppe Salvia, vicedirettore ucciso dalla nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo, in alcune celle di 20 metri quadrati vivono fino a 12 persone, vediamo che a ciascuno di questi carcerati ne sono destinati meno di 2. Uno spazio ancora inferiore rispetto a quello critico segnalato dalla Corte di Strasburgo. Eppure il numero crescente dei detenuti non corrisponde a quello dei reati commessi: secondo il rapporto sulla criminalità e la sicurezza della Fondazione lesa, realizzato in collaborazione con il ministero dell’Interno redatto nel 2010, i reati più gravi sono in riduzione. Gli effetti di alcune leggi hanno allargato le sbarre delle galere facendo aumentare gli ingressi. La Fini-Giovanardi, ad esempio, ha portato al 30,3% il numero dei tossicodipendenti rinchiusi nelle carceri italiane, che invece dovrebbero stare nelle comunità di recupero. In Germania e in Francia, dove il numero dei tossicodipendenti è simile al nostro, i detenuti per questo tipo di reati sono rispettivamente pari al 14,1% e al 14,4%. Gli appelli lanciati dal Presidente della Repubblica, la battaglia di Marco Pannella e le numerose sollecitazioni delle associazioni di ispirazione cristiana e laica non hanno sortito alcun effetto. La miopia dei politici italiani ha fatto sì che la situazione restasse immutata. In questi anni non è stato preso alcun provvedimento significativo per svuotare le carceri. La recente vicenda del disegno di legge presentato dal governo sulle misure alternative, votato a larghissima maggioranza alla Camera ma bocciato al Senato, appare emblematica. È mancato il coraggio e la lungimiranza di approvare in via definitiva questo provvedimento, che oltre a far scontare la pena in modo più umano rappresenta la strada più realistica per soddisfare il “bisogno di sicurezza”. Infatti le statistiche ci dicono che chi ha potuto beneficiare di misure alternative è tornato meno in carcere rispetto a chi non ne ha goduto. Persiste purtroppo la propaganda di una cattiva politica che guarda i sondaggi e non i problemi veri e che serve solo ad esorcizzare le paure collettive e a raccogliere qualche voto in più. Salvo d’estate o nelle feste comandate, vuoi per moda o per togliersi di dosso uno scrupolo di coscienza, assistiamo alla stucchevole passerella negli istituti di pena. Che cosa pensano in materia i politici campani che si apprestano alla prossima competizione elettorale? Sarebbe interessante, ammesso che ci siano, capire le loro proposte. Colpisce anche la criticità dell’applicazione della Riforma della Salute, una legge emanata più di 5 anni la cui attuazione non ha ancora rimosso le gravi carenze della tutela del diritto alla salute dei detenuti. Sappiamo come sono complesse le cause e le soluzioni di tanti problemi, ma bisogna riscontrare la difficoltà del recepimento culturale e operativo della Riforma da parte degli operatori penitenziari e sanitari. Se si dice che tutto va bene come si potrà iniziare a porre qualche rimedio? Bisognerà forse aspettare qualche altra sentenza proveniente da Strasburgo? Il carcere è lo specchio di una società. Le sue condizioni di vita ne misurano il livello di civiltà. La Corte europea dei diritti umani ha dato un anno di tempo per rimediare alla grave condizione in cui versano le galere italiane. Forse è venuto il momento di concedere misure di clemenza, accompagnate dal sostegno a chi esce dal carcere e da misure alternative alla detenzione. Ci auguriamo che quest’anno non passi invano, e che faccia diventare il carcere un luogo di rieducazione, utile e non inumano ed illegale come è adesso. Giustizia: ex ministro Nitto Palma; Piano-Carceri non ha funzionato, vendere Regina Coeli Adnkronos, 10 gennaio 2013 “Per affrontare seriamente il problema carceri, l’analisi vera deve essere condotta sulla popolazione detenuta: su quella italiana, su quella straniera, su quella tossicodipendente indipendentemente dalla sua origine. Se non si riesce a fare questa analisi compiuta delle diverse categorie di detenuti, sarà davvero difficile mettersi a tavolino e affrontare il problema”. È quel che sostiene Francesco Nitto Palma, ex ministro della Giustizia nel governo Berlusconi, intervenendo alla trasmissione Rai “Radio anch’io”. “Il piano carceri non è andato in porto - ricorda Palma. La questione è estremamente complessa, anche perché si scontrano tesi di assoluta morbidezza con tesi di rigore assoluto e non ci si sofferma a ragionare su cosa il carcere deve rappresentare nella risposta punitiva dello Stato. Ogni pena irrogata da una sentenza di condanna deve trovare necessariamente la sua espiazione all’interno del carcere? - si chiede. Se così fosse e adesso è senz’altro così, allora non vi è assolutamente la possibilità di risolvere il problema, perché non si può continuare a costruire carceri in ragione dell’evolversi del numero quantitativamente sempre più amplificato di detenuti”. Palma premette che “il Pdl ha una sua vocazione garantista e molto attenta ai temi della giustizia. La situazione attuale non è tollerabile e non può essere più tollerata. Bisogna intervenire. Come? Ad esempio - propone - vendendo il carcere romano di Regina Coeli: con i soldi ricavati dalla vendita, pari a quasi un miliardo di euro si potrebbe, ragionando per ipotesi, costruire una ventina di strutture carcerarie aperte a bassa sicurezza dove allocare i detenuti non pericolosi”. Giustizia: ex pm Pietro Grasso, da governi Berlusconi e Monti gestione inadeguata carceri Adnkronos, 10 gennaio 2013 “Il nuovo Parlamento deve rivisitare il problema carceri in maniera globale, all’interno della più generale riforma della giustizia”. È quanto chiede l’ex procuratore nazionale antimafia Piero Grasso, ora candidato del Pd al Senato, intervenendo alla trasmissione Rai “Radio anch’io”. “Mi impegno, anche a nome del Partito democratico, a far approvare la legge Tenaglia sulle misure alternative alla detenzione per i reati minori e a riprendere la legge Smuraglia, passata nel dimenticatoio e non più finanziata, per il lavoro dei detenuti dentro e fuori le carceri”, assicura, per “trasformare il carcere della vergogna in carcere della speranza”. Grasso punta il dito sulla “legislazione che specie a partire dal 2005 ha generato l’aumento della popolazione carceraria, facendo saltare quel rapporto sempre costante fra entrate e uscite dal carcere. Si tratta della legge Bossi-Fini, della legge Giovanardi, della legge ex Cirielli” che per il procuratore, “sommandosi”, hanno poi fatto esplodere il problema del sovraffollamento carcerario. “I governi Berlusconi e Monti hanno dato prova di una gestione assolutamente inadeguata - accusa Grasso - e il piano carceri di Alfano è diventato una foglia di fico dietro la quale nascondere una tragedia umanitaria”. Si potrà rimediare già nei primi cento giorni di attività del governo e del Parlamento? “Se dipendesse solo da me, senz’altro - risponde Grasso - Posso garantire anche nel caso in cui il Pd possa governare e abbia la maggioranza alle Camere. Se non dovesse averla, mi dispiace ma non posso assicurare nulla, perché il Parlamento insegna che occorrono poi i numeri per fare le leggi”. Per Grasso “il ministro Severino ha fatto quel che ha potuto, ma certamente questo governo non ha interrotto ad esempio quella che è un’assurdità: il discorso dei braccialetti elettronici per la custodia cautelare. Una storia che ci costa 10 milioni di euro l’anno per avere solo 14 braccialetti per carcerati come esperimento, che da dieci anni sottraggono soldi che potrebbero essere utilizzati in maniera più conveniente”. Ora, comunque, “si tratta di risolvere il problema di 20.000 detenuti, perché - ricorda l’ex procuratore nazionale antimafia - questa è la differenza fra la capienza regolamentare e il numero di coloro che stanno effettivamente in carcere”. Avverte Grasso: “Non ci può essere su questa situazione una soluzione parziale. Serve intanto una riforma della giustizia e poi, in particolare per le carceri, ricorrere alle pene alternative, alla non procedibilità per tenuità del fatto, alla messa in prova, al finanziamento dei Sert per i tossicodipendenti e intervenire sull’eccessivo ricorso alla custodia cautelare e sulla lentezza dei processi penali, assolutamente fuori dagli standard europei”. Giustizia: Pagano (Dap): questione va oltre affollamento, è necessario bypassare il carcere Redattore Sociale, 10 gennaio 2013 La strada da seguire, per il vice capo del Dap, è rafforzare le pene alternative e modificare un codice penale “fermo agli anni 30”. A Busto Arsizio un’ala per detenuti disabili mai utilizzata La questione carcere va al di là del sovraffollamento. Ne è convinto Luigi Pagano, vice capo del Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria (Dap). “Sono in via di completamento sezioni e nuovi istituti che aumenteranno i posti di 2.200 unità - annuncia - ma il discorso è che in certi casi bisognerebbe proprio bypassare il carcere”. Per esempio, per buona parte dei 10.500 detenuti che devono scontare un solo anno di pena, oppure per i tossicodipendenti (il 30% del totale è dietro le sbarre), che stanno in carcere perché “i Ser.T. (servizi per le tossicodipendenze) non hanno spazio e fondi”, spiega Pagano. La strada da seguire, per il vice capo del Dap, è rafforzare le pene alternative e modificare un codice penale “fermo agli anni ‘30”. Solo con numeri ridotti, infatti, il carcere può diventare davvero un luogo riabilitativo. “In Lombardia abbiamo seguito questo percorso”, aggiunge, facendo riferimento all’esperienza del carcere di Bollate (Milano) o alla stessa struttura di Busto Arsizio, condannata dalla Corte di giustizia europea. Eppure qui, almeno, esistono attività per riempire il tempo da passare in cella: ad esempio, nel penitenziario del varesino esiste un cioccolateria che funziona come un’impresa. “La maggior parte dei detenuti non ha bisogno di controlli 24 ore su 24 - continua - ma serve una rete di persone che possa gestire delle attività all’interno del carcere e non può essere il Dap a risolvere questo tema”. Dalle scuole professionali, alla ricerca del lavoro, fino alle attività ludiche: tutta le attività dietro le sbarre sono “sotto organico”. Non ultima, l’assistenza sanitaria dei detenuti. Un caso significativo riguarda, ancora una volta, la casa circondariale di Busto Arsizio: “Esiste un’ala costruita cinque anni che al suo interno ha 13 celle a due posti, costruita apposta per le persone con disabilità ma mai utilizzata”, spiega Alessandra Naldi di Antigone Lombardia. E resta chiusa non perché mancano agenti di polizia penitenziaria, ma perché le Asl, che si occupano degli aspetti sanitari, non mandano fisioterapisti. “Lo scandalismo tende ad appiattire tutto al solo problema dei posti - conclude Pagano - , invece per uscire dall’emergenza serve la collaborazione di tutti”. Giustizia: un “annus horribilis” per le condizioni del sistema carcerario italiano di Laura Coci Il Cittadino, 10 gennaio 2013 Il 2012 è stato un vero “annus horribilis” per il sistema carcerario italiano: per le persone detenute, per gli agenti di polizia penitenziaria, per chi ama la libertà (e per questo ha a cuore anche la libertà di coloro che apparentemente non la meritano). Eppure, per mia parte, su queste stesse pagine, il 9 gennaio 2012 esprimevo la possibilità che l’emergenza potesse essere superata, a piccoli passi. Le buone intenzioni, anzi, i segnali confortanti non mancavano. L’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri di un pacchetto di misure urgenti in risposta al degrado del sistema penitenziario (il primo provvedimento di natura non economica assunto dal nuovo governo). Le dichiarazioni del ministro della Giustizia, Paola Severino, in tema di sovraffollamento (“il primo dei miei pensieri”), ma anche di amnistia e indulto (“strumenti utili per alleviare l’affollamento nelle carceri”). Il decreto, poi convertito in legge, di chiusura degli Opg - i sei Ospedali Psichiatrici Giudiziari presenti sul territorio nazionale (“autentico orrore indegno di un paese appena civile”, secondo le parole di Giorgio Napolitano) - entro il 31 marzo 2013. A distanza di un anno, il fallimento delle buone intenzioni è innegabile. Il 21 dicembre scorso, ultimo giorno utile prima dello scioglimento delle Camere, il Senato non ha neppure posto in votazione il disegno di legge in materia di misure alternative alla detenzione, licenziato due mesi prima dalla Commissione Giustizia della Camera dei Deputati. A seguito dell’applicazione delle misure urgenti di contrasto al sovraffollamento, il numero delle persone detenute è diminuito di appena duemila unità (altro che decreto “svuota carceri”, come titolarono i media). E non è certo che tutti gli OPG chiudano effettivamente il 31 marzo prossimo, in quanto poco o nulla è stato fatto perché le persone internate fossero trasferite in strutture idonee, rispettose della dignità umana. Nonostante il Natale e il Capodanno, in tema di carcere non c’è davvero nulla da festeggiare, come affermano associazioni di tutela delle persone detenute e organizzazioni sindacali degli agenti di polizia penitenziaria. A fronte di una capienza regolamentare di 45.584 posti, le persone ristrette sono 65.752 (in base a quanto affermato da Paola Severino il 28 dicembre scorso): gli oltre ventimila esuberi consentono all’Italia di mantenere il triste primato delle carceri più sovraffollate dell’Unione Europea. E anche delle strutture più degradate, nonostante il piano carceri e nonostante le ristrutturazioni di alcuni istituti, che hanno comportato costi altissimi a fronte di un modesto aumento della capienza. È evidente che le pessime condizioni igienico - sanitarie dei penitenziari italiani sono aggravate dal sovraffollamento, ma non sono determinate soltanto da questo. In carcere, per esempio, un banale problema odontoiatrico è curato con la somministrazione di antidolorifici a oltranza, non con interventi conservativi, che risultano assolutamente impraticabili “dentro” e che una volta “fuori” sono spesso tardivi. Le patologie più diffuse nelle carceri italiane sono i disturbi psichici e le malattie dell’apparato digerente (indotte dalla carcerazione), quindi le malattie infettive e parassitarie (causate da promiscuità e sovraffollamento); in ragione della giovane età delle persone detenute le patologie che normalmente si presentano in età avanzata sono minoritarie, ma con esito talvolta drammatico perché non vi sono le condizioni minime per curarle. Nel 2012 il computo delle persone morte in carcere ha toccato quota 154, di cui 60 suicidi accertati (Ristretti Orizzonti); a questi si aggiungono 8 agenti di polizia penitenziaria, che con gli internati condividono il dolore di essere separati dalla realtà e dalla vita. Nell’ordine del migliaio il numero di tentati suicidi, sventati grazie all’intervento di agenti e compagni di cella. Ora, tuttavia, la legge di stabilità non solo riduce gli organici degli operatori adibiti alla custodia e al reinserimento (agenti, educatori, psicologi), ma dimezza le risorse per vitto, vestiario e manutenzione delle persone ristrette. E dire che per i pasti “al carrello” (a cura dell’amministrazione) sono attualmente previsti poco più di tre euro al giorno. È possibile spendere meno di tre euro per colazione, pranzo e cena? I detenuti poveri, che non hanno la possibilità di acquistare a spese proprie generi alimentari e di conforto, patiranno letteralmente la fame. La stessa legge di stabilità cancella anche la modestissima somma prevista per il finanziamento del lavoro carcerario (agevolazioni fiscali ai datori di lavoro che assumono persone detenute). E dire che il lavoro rappresenta l’opportunità per eccellenza di reinserimento nella comunità: “il lavoro carcerario abbassa le possibilità e i rischi di ricaduta nel reato in maniera assolutamente significativa” (così Paola Severino). In altre parole, minore recidiva e maggiore sicurezza sociale, dunque risparmio sui costi delle carceri (e sulle vite delle persone). La crisi economica è feroce, ma, guarda caso, la macelleria sociale colpisce sempre gli ultimi: “circa l’80% della popolazione carceraria è, infatti, costituita dalla cosiddetta detenzione sociale, ovvero da persone che vivono uno stato di svantaggio, disagio o marginalità (immigrati, tossicodipendenti, emarginati) per le quali, più che una risposta penale o carceraria, sarebbero necessarie politiche di prevenzione e sociali appropriate” (Giuristi Democratici, 31.10.2012). Sono poco più del 2%, invece, gli uomini - ombra: circa 1.500 condannati a vita, per i quali il fine pena non arriverà mai. Quasi altrettanti sono gli internati negli Opg: autori di reati, certo, ma anche malati bisognosi di cure. E oltre 60 i piccoli da zero a tre anni che sono reclusi con le loro madri in carcere, “luogo incompatibile con le esigenze di socializzazione e di corretto sviluppo psico - fisico del bambino” (ancora Paola Severino). Il 2012 è stato dunque un vero “annus horribilis” per le carceri italiane: belle parole e buone intenzioni non sono mancate, è innegabile, ma altrettanto innegabile è che sono mancate la volontà e la capacità di tradurle in azione concreta e in prassi condivisa, senza le quali i migliori propositi risultano vani e derisori. E il 2013 inizia ora con una condanna annunciata: l’8 gennaio la Corte Europea per i Diritti umani di Strasburgo ha condannato l’Italia per il sovraffollamento carcerario. È stato accolto, infatti, il ricorso di sette detenuti nelle carceri di Busto Arsizio e Piacenza, con meno di tre metri quadrati a disposizione per ciascuno (condizione comune a molti, moltissimi istituti di pena italiani, compreso quello di Lodi) e perciò vittime di “trattamento inumano e degradante”. È la seconda volta (la prima fu il 16 luglio 2009, a seguito del ricorso di Izet Sulejmanovic, già ristretto a Rebibbia), ma non sarà l’ultima: come le associazioni di tutela (Antigone) denunciano da tempo, sono oltre 550 i ricorsi contro lo Stato italiano depositati a Strasburgo, per la stessa ragione. Uno Stato recidivo, colto in flagranza di reato, nel quale - come afferma Marco Pannella - i “luoghi del diritto e delle libertà” (e della speranza) sono i penitenziari, perché “è il carcere che lotta con la non - violenza in nome del diritto”, per la libertà di tutti. Giustizia: intervista a Antonio Ingroia, leader di “Rivoluzione civile” di Eleonora Martini Il Manifesto, 10 gennaio 2013 Nuova bussola politica per svuotare le carceri: misure alternative e anche amnistia (con qualche dubbio), per combattere un sistema penale “classista”. Da procuratore aggiunto della procura distrettuale antimafia di Palermo, Antonio Ingroia ha sempre difeso il 41 bis, il regime carcerario duro riservato ai detenuti per reati di mafia, attenzionato perfino dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura. Ora, nella sua lista “Rivoluzione civile” - a fianco ad Antonio Di Pietro, contrario a qualunque forma di amnistia e anche al codice identificativo per gli agenti - ha voluto anche un “simbolo” come Ilaria Cucchi, sorella del giovane Stefano morto nel 2009 dopo i maltrattamenti subiti da detenuto. Ma se gli si fa notare che al centro della loro agenda politica sembra esserci più il giustizialismo che il problema dell’illegalità del sistema penale italiano, risponde: “Non è vero. Quando leggerete il nostro programma vedrete che non è così”. La Corte europea dei diritti umani condanna l’Italia per la reiterata e strutturale violazione dei diritti dei detenuti. Se l’aspettava? Non mi sorprende: conosciamo bene la drammaticità della situazione delle carceri, frutto di una politica scellerata di gestione della giustizia che ha riempito le celle di poveracci spesso in attesa di giudizio. Bisogna intervenire sui tempi lunghissimi dei processi, sulle misure alternative e così via. Cose che la magistratura, soprattutto quella progressista e democratica, predica inutilmente da tanto tempo. L’Europa ci dà un anno di tempo, davvero poco per risolvere una tale mole di problemi. Se lei fosse presidente del consiglio cosa farebbe subito? Con un provvedimento urgente per introdurre misure alternative alla detenzione per i reati non gravissimi, avremmo intanto una forte limitazione al sovraffollamento carcerario. Introdurre? Ma ci sono già le misure alternative, ne occorrono altre? No, io dico che bisogna favorire un’applicazione urgente ed immediata delle misure alternative ampliando la platea a cui si applicano oggi. Dopodiché, ovviamente, occorre studiare con calma un articolato, ma certamente di fronte a questa sentenza l’unica cosa da fare è provvedere immediatamente a sfollare le carceri. Davanti a un tale sovraffollamento, la soluzione non è certo l’edilizia carceraria, indicata in genere dalla destra. Non occorrono più carceri, ma meno detenuti. L’amnistia, come propongono i Radicali? Beh, l’amnistia è una soluzione drastica. Purché non se ne approfittino i soliti impuniti e sia mirata solo ad un certo tipo di reati. Purtroppo spesso è accaduto che si sia utilizzato il carcere come pretesto per ottenere l’amnistia per i colletti bianchi che rispondevano di reati di pubblica amministrazione o affini. Quindi per lei rimane più importante tenere dentro questo tipo di criminali... Noi abbiamo un sistema penale e penitenziario classista, dove in carcere finiscono i poveracci e in libertà ci sono i potenti. Va ristabilito il principio di uguaglianza: i potenti che hanno commesso gravi reati devono stare in carcere e i poveracci che hanno commesso reati bagatellari, che spesso non si possono neanche permettere un difensore che gli consenta di accedere alle misure alternative, vadano fuori. Però il carcere in realtà non è pieno di poveracci che hanno commesso reati bagatellari, piuttosto è intasato da persone finite nelle maglie di tre leggi: quella sulle droghe, sulla recidiva e sull’immigrazione clandestina. Cosa pensa, per esempio, della Fini - Giovanardi? Penso che l’uso delle droghe non dovrebbe mai essere criminalizzato. La legge Fini ha determinato l’incarcerazione anche per il solo consumo di fatto, con l’equiparazione delle droghe leggere a quelle pesanti, inammissibile e inaccettato in qualsiasi parte del mondo. Si figuri che in un Paese che non ha certamente una storia libertaria come il Guatemala, da cui vengo, il presidente della Repubblica, un ex militare, un uomo di destra, recentemente ha proposto la liberalizzazione delle droghe leggere. E lei la proporrebbe? Assolutamente sì, l’ho sempre pensato da magistrato, figuriamoci se non lo penso da politico. Leggi Bossi-Fini e ex Cirielli: che ne farebbe? La criminalizzazione dei migranti è inammissibile. Anche qui vengono puniti i poveracci piuttosto che i trafficanti di esseri umani. Anche l’ex Cirielli va cambiata. Per questo parlo di riforme che consentano di avere una robusta depenalizzazione e un accesso più semplice, diciamo così, alle misure alternative. Ma il decreto Severino, per esempio, sarebbe stato applicato a pochissime centinaia di persone, qui invece parliamo del 42% dei 66 mila detenuti che sono ancora in attesa di giudizio. Forse c’è anche un problema culturale della magistratura, non crede? No. Credo invece che sia un problema di politica criminale: se è tutta sbilanciata sulla carcerazione nella fase delle indagini invece che nella fase del dibattimento, di conseguenza la magistratura utilizza poi gli strumenti che ha a disposizione. Tocca alla politica riorientare verso la centralità del dibattimento e respingere al massimo il ricorso alla detenzione prima del giudizio. Giustizia: le carceri scoppiano… ma non di salute di Lucio Scudiero www.libertiamo.it, 10 gennaio 2013 Carceri. L’ignominia italiana continua. In due metri e mezzo di cella, l’unica cosa a cui un uomo può rieducarsi è al puzzo della propria disperazione, prima di tentare il suicidio. E infatti a Busto Arsizio, l’istituto di pena da cui è partito il ricorso di Torreggiani e di altri detenuti alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel 2012 due sucidi consumati, sedici tentati e 44 eventi di autolesionismo. In tre per nove quadrati di cella, tetto rotto e cibo scarso. Il risultato della moltiplicazione è la sentenza pilota con cui i giudici di Strasburgo l’altro ieri hanno condannato l’Italia per violazione dell’articolo 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, quello che proibisce la tortura e i trattamenti degradanti. Le carceri italiane fanno schifo e vergogna non solo e non tanto per chi vi è costretto, ma soprattutto perché sono il risultato di un esercizio - riuscito - di rimozione collettiva della memoria del male dalla coscienza civica di sessanta milioni di italiani. Negli istituti di pena italiani il rapporto tra detenuti e posti disponibili è del 140 per cento. A Busto Arsizio è anche peggio, perché ospita 435 detenuti su una capienza regolamentare di 167, con un rapporto del 260,5 per cento. I dati raccolti dall’Associazione Antigone mettono il dito nella piaga, quando ricordano che 222 detenuti sul totale, un numero già di suo maggiore della capienza regolamentare, sono in quell’inferno in attesa di giudizio, senza alcuna condanna eppure dannati; e che i reati per cui la gente finisce lì dentro sono rapina, furto e spaccio di stupefacenti. In quest’ultimo caso, una normativa poco più pragmatica sul tema droghe leggere già di suo aiuterebbe a svuotare le carceri. Ma la domanda che mi pongo è un’altra e la formulo a normativa vigente: desta più allarme sociale, in Italia, avere magari ai domiciliari qualche spacciatore o ladro di galline oppure la tortura - che tale è per sentenza - a cui sono sottoposti dentro le patrie galere? La giurisprudenza della Cedu in tema di tortura è costante e rigorosa. Prima di condannare gli Stati contraenti per violazione dell’articolo 3, la Corte esamina tutte le condizioni del caso al fine di verificare il superamento di una certa “soglia di severità”, al di sopra della quale la violazione si ritiene sussistere. Nel caso di specie, i giudici europei hanno preso a riferimento lo standard fissato dal Comitato Europeo per la prevenzione della Tortura, secondo il quale i dannati meritano almeno (sic!) 4 metri quadrati di cella per ciascuno. Che a Strasburgo non siedano dei figli dei fiori dediti a sognare peace and love for the World lo dimostra il pragmatismo con cui affrontano, volta per volta, i ricorsi: in un altro precedente, Sulejmanovic contro Italia, infatti, la Cedu aveva negato il trattamento inumano benché i metri disposti dal detenuto fossero 3,24, in considerazione della situazione di costante miglioramento delle sue condizioni da un certo periodo in avanti della sua detenzione. Resta il problema del che fare, una volta che lo Stato Italiano abbia versato i centomila euro complessivi ai ricorrenti nel caso di specie. L’utilizzo della sentenza pilota da parte della Corte di Strasburgo - prevista per i casi di violazioni sistematiche da parte di uno Stato Contraente - è stato significativo e viepiù apprezzabile perché cade in periodo di campagna elettorale. Essa rischia, per una volta, di costringere le forze politiche a confrontarsi con un tema non proprio popolare ma ciononostante inestricabile dal destino civile del Paese. L’Italia ha un anno di tempo per fare qualcosa, la Corte non dice che cosa, ma suggerisce cosa no. Costruire nuovi carceri, ad esempio. Aiuta, ma non risolve strutturalmente il problema, perché l’aumento dei posti disponibili prelude ad aumenti di carcerazione. Né dirimente può essere il ricorso agli articoli 35 e 69 del Regolamento sull’ordinamento penitenziario, perché non consente di rimediare alle condizioni degradanti che sostanziano la violazione dell’articolo 3 secondo i parametri accertati. La gente va tenuta fuori dalle galere, il più possibile. Qualche indicazione utile viene da una raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, la 22 del 1999. La custodia cautelare in carcere va quasi azzerata, e alla reclusione vanno preferite pene alternative. Il Senato aveva la chance, sul filo del proprio scioglimento, di approvare un ddl che avrebbe delegato il Governo ad affrontare il problema. Ha preferito portare a casa la controriforma degli avvocati. Questione di priorità. Giustizia: suicidi dietro le sbarre, una catastrofe del diritto di Luigi Manconi e Giovanni Torrente L’Unità, 10 gennaio 2013 Il peggioramento delle condizioni di carcerazione e il sovraffollamento sono fra le cause dell’aumento delle morti violente e degli atti di autolesionismo Una nuova sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo ha sanzionato il nostro sistema penitenziario, condannando l’Italia a risarcire sette detenuti di Busto Arsizio e Piacenza: le condizioni della loro reclusione, secondo la Corte, violavano l’articolo 3 della Convenzione europea, che proibisce “la tortura o i trattamenti inumani o degradanti”. Non stupisce. Quella che si consuma nelle carceri è una catastrofe del diritto e dell’umanità e, tra le manifestazioni più crudeli di tale tragedia, emerge il fenomeno dell’autolesionismo. Su “Politica del diritto”, la rivista del Mulino diretta da Stefano Rodotà, ora in libreria, pubblichiamo i primi risultati di una ricerca sul tema. In particolare, dopo aver ricostruito la dimensione del fenomeno in una prospettiva nazionale, proponiamo un approfondimento statistico dei fenomeni di autolesionismo e suicidio avvenuti negli ultimi 5 anni in tre regioni campione: Piemonte, Liguria e Campania. Suicidio e autolesionismo in carcere: le dimensioni del fenomeno Il carcere è un luogo dove il rischio che si verifichi un suicidio è tra le 9 e le 21 volte superiore rispetto all’esterno. Quali le ragioni di uno scarto così rilevante? I dati raccolti mostrano come, a differenza di quanto si riscontra fra i cittadini liberi, le variazioni percentuali dei tassi di suicidio fra i detenuti, anche solo da un anno all’altro, siano assai significative. Il dato mostra quindi una relativa autonomia delle dinamiche che portano al suicidio in carcere rispetto alle dinamiche esterne a esso. Ne consegue che il numero dei suicidi nelle carceri pare aumentare sensibilmente in particolari momenti di crisi, per ragioni che sono intrinsecamente legate a processi interni all’istituzione penitenziaria. Quanto detto viene confermato dalla serie storica 1980 - 2010. In particolare, la lettura della curva dei tentativi di suicidio e dei suicidi realizzati mostra come i tentativi abbiano avuto un tendenziale aumento a partire dalla seconda metà degli anni 80, con la punta massima raggiunta alla fine degli anni 90 ed eguagliata nel 2010. Al contrario, i suicidi realizzati sono aumentati numericamente dal 1993 sino ad oggi, con la punta massima toccata nel 2001 con 69 suicidi. Tuttavia, se confrontiamo numero dei suicidi e popolazione detenuta, si può osservare come la curva raggiunga il suo punto più elevato negli anni 80; in seguito, i tassi scendono, seppur con un andamento “schizofrenico”, tale che ad anni tendenzialmente meno preoccupanti, seguono periodi di rapido incremento. All’interno di questa irregolare dinamica, un aspetto va rimarcato. Con riferimento agli ultimi 30 anni, la minor frequenza di suicidi in carcere si verifica nel corso del 1990 e del 2006. In quegli anni, come noto, sono stati approvati dal Parlamento gli ultimi provvedimenti di clemenza. Ed è possibile, quindi, ipotizzare che la speranza offerta da quei provvedimenti, sommata al miglioramento delle condizioni detentive a seguito della riduzione dell’affollamento, abbia stemperato il clima all’interno degli istituti. Abbia favorito, cioè, il contenimento dei comportamenti autolesivi. Il suicidio nelle carceri italiane: le indicazioni di tre studi di caso Nelle tre regioni oggetto della ricerca i dati mostrano come, nell’arco di cinque anni, si siano verificati 12 suicidi in Piemonte, 6 in Liguria e 39 in Campania. A fronte del numero assoluto di suicidi in Campania, il dato rapportato al totale delle presenze mostra un quadro assai più complesso. Se utilizziamo il rapporto tra il numero di suicidi e, da un lato, il complesso degli eventi critici, e, dall’altro, il tasso di sovraffollamento delle singole carceri, avremo a disposizione due indicatori del clima di tensione e del grado di vivibilità di ciascun istituto, rappresentato dal sovraffollamento. Il suicidio, all’interno di tali contesti, non appare come un fenomeno isolato, bensì come l’esito estremo di un clima di tensione che si esprime anche attraverso l’elevato indice di gesti autolesivi messi in atto. Pare possibile, quindi, indicare i tratti di quelli che possiamo definire “istituti ad alto indice di tensione” (e di sofferenza). All’interno del senso comune carcerario, diffuso tra gli operatori come tra i detenuti, è immediatamente percepibile la differenza tra istituti conosciuti per la migliore vivibilità e istituti connotati da condizioni massimamente afflittive. Nel gergo carcerario, ciò porta a distinguere le carceri “aperte” da quelle “chiuse”, quelle “a vocazione trattamentale” da quelle con attitudine “custodiale”; e, infine, i penitenziari “punitivi” da quelli “premiali”. A nostro parere, le cause che producono un “istituto ad alto indice di tensione” sono, per un verso, di natura strutturale e, per un altro, di natura organizzativa e ambientale. Resta il fatto che i motivi profondi di quella “tensione” non possono essere dedotti dal mero dato numerico, ma devono essere analizzati attraverso l’osservazione dell’universo dì relazioni, scelte organizzative e dati strutturali che contribuiscono a determinare la vita concreta all’interno di un penitenziario. Da dove, quando e perché in carcere? I dati da noi raccolti permettono di approfondire l’indagine con riferimento a nazionalità, età e posizione giuridica delle persone che si sono tolte la vita. Relativamente alla nazionalità, il dato appare significativo soprattutto in regioni, quali il Piemonte e la Liguria, dove la presenza di stranieri detenuti è più elevata. In entrambe le regioni, in questi cinque anni si è avuta una prevalenza di suicidi tra gli italiani rispetto a quelli tra gli stranieri; e drammaticamente significativi appaiono i dati relativi all’età e alla posizione giuridica. Relativamente alla prima variabile, risulta confermato come i detenuti più giovani mostrino una maggiore tendenza al suicidio. In Piemonte e in Campania, nel corso di questo periodo, non si sono verificati suicidi tra i reclusi appartenenti alla fascia di età 18 - 24 anni, mentre in Liguria sono stati due su sei i minori di 24 anni che si sono tolti la vita. Oltre tale soglia, il numero di suicidi aumenta immediatamente superando la percentuale media di persone detenute nella fascia fra i 24 e i 44 anni. Appare significativo, in proposito, il fatto che in Campania e in Piemonte quasi tre quarti dei suicidi abbiano riguardato persone con un’età compresa tra i 25 e i 44 anni, mentre in Liguria la fascia d’età fra i 18 e i 44 anni comprende tutti gli episodi di suicidio registrati negli ultimi cinque anni in quella regione. Il dato più sconcertante nell’analisi dei tratti qualificanti i reclusi che hanno messo in atto il suicidio, riguarda la loro posizione giuridica: in 25 casi su 48, si tratta di persone sottoposte a misura cautelare. In oltre la metà dei casi, quindi, siamo in presenza di soggetti per i quali vale la presunzione di non colpevolezza. Un assaggio di prigione? Dalle ricerche sul fenomeno del suicidio in carcere, un dato emerge con maggiore evidenza: i primi giorni di detenzione come la fase di maggior rischio per la realizzazione di atti di autolesionismo. In questi anni qualcosa è cambiato nelle pratiche penitenziarie: egli istituti di grande dimensione, ad esempio, è stato creato il cosiddetto Servizio nuovi giunti. Ciò nonostante, in alcune regioni, persiste il fenomeno dei suicidi nei primi giorni di carcerazione. In Piemonte, in particolare, un terzo dei suicidi è stato realizzato entro 30 giorni dall’arresto. A quanto fin qui detto, va aggiunta qualche considerazione a proposito di quella fase particolarmente delicata nella gestione della popolazione detenuta, rappresentata dai trasferimenti. È frequente che questi ultimi siano attuati a seguito di eventi critici verificatisi nell’istituto di provenienza; o riguardino, comunque, soggetti non graditi o di difficile gestione, considerati “pericolosi” per l’ambiente. La lettura dei dati relativi ai tempi del suicidio, in relazione al momento dell’ingresso nel carcere dove è avvenuto il fatto, sembrano confermare l’ipotesi del trasferimento come momento particolarmente problematico. Anche in questo caso, ovviamente, il trasferimento non è sufficiente a spiegare tutto. Eppure esso costituisce un segnale di situazioni palesemente critiche, gestite attraverso l’unica soluzione che troppo spesso l’amministrazione sembra in grado di adottare: la rimozione del problema attraverso l’invio di quello che viene considerato il responsabile del problema stesso in un luogo diverso. Non è un caso: la pratica della rimozione sembra, più in generale, dominare il governo della questione carceraria in Italia. Giustizia: Rita Bernardini; ministra ha la coscienza sporca, suoi provvedimenti inadeguati Tm News, 10 gennaio 2013 “La ministra Severino ha la coscienza sporca, i provvedimenti da lei varati e proposti al Parlamento erano del tutto inadeguati ad affrontare la situazione che ci è stata rimproverata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo”. Lo ha affermato la deputata radicale Rita Bernardini, intervenendo a “Radio anch’io” su Radio1. A suo giudizio anche “l’ultimo provvedimento sulle misure alternative di buono aveva solo il titolo. Per quel tipo di reati ci sono nelle carceri italiane non più di duecento detenuti, di fronte ai 67mila totali”. Bernardini ha anche liquidato le preoccupazioni espresse dalla guardasigilli uscente per il taglio dei fondi alla legge sul lavoro carcerario: “Lei era ministro, perché ha consentito che venissero azzerati i fondi? Non ha mai proposto soluzioni efficaci, la popolazione detenuta non è diminuita”. Diritto di voto per i detenuti, inapplicata la risoluzione A inizio dicembre le Commissioni Giustizia e Affari Costituzionali avevano approvato Risoluzione sul diritto di voto ai detenuti richiesta dai Radicali. Ad oggi però questa risoluzione non ha ancora trovato applicazione. La deputata radicale, Rita Bernardini, ha prima contattato il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri e poi il Prefetto Alessandro Pansa che si sta occupando della questione e che ha anche disposto una circolare in merito. La Bernardini, però, ha posto, in una lettera al prefetto, due quesiti che ancora non hanno trovato né risposta né applicazione. In primis “in che modo i detenuti aventi diritto al voto si procurano la tessera elettorale?” e in secondo luogo “in che modo i detenuti elettori di Lazio, Lombardia e Molise assegnati in istituti penitenziari di altre regioni possono esercitare il loro diritto di voto?”. Infatti - scrive nella missiva a Pansa l’onorevole Bernardini - “la risoluzione approvata, prevede, a proposito degli interrogativi sopra sollevati, i punti b) e c) che impegnavano il Governo: B) ad avviare con largo margine di tempo - ovviamente sempre per il tramite dell’amministrazione penitenziaria - le operazioni di registrazione nelle liste elettorali dei detenuti elettori e le consegne delle tessere a questi ultimi; C) ad emanare una circolare affinché si assicuri in modo tempestivo l’esercizio del diritto di voto delle persone recluse che non hanno perso il godimento dei diritti civili e politici, in particolare di quei detenuti interessati dalle prossime elezioni regionali che sono stati assegnati in istituti penitenziari ubicati in altre regioni rispetto a quella di loro rispettiva residenza”. In seguito a questa lettera prefetto Pansa ha promesso che nella prossima settimana renderà noto il modo in cui il ministero affronterà questi due punti. Giustizia: carceri come ospizi, in Italia molti più over 70 che negli altri Paesi dell’Ue di Giuliana De Vivo Il Giornale, 10 gennaio 2013 Il sovraffollamento “inumano e degradante” - così lo ha definito la Corte europea dei diritti umani nella sentenza di condanna per le condizioni delle nostre carceri - riguarda anche persone in età da pensione. In Italia sono molte di più rispetto ad altri Paesi europei: 587 tra 70enni e ultra 80enni. Ai quali, a meno che il Tribunale non certifichi condizioni di salute che impediscano loro il regime carcerario, è applicato lo stesso trattamento degli altri. “Meno di 600 persone su un totale di oltre 65mila detenuti non mi sembra un numero altissimo”, osserva Roberto Piscitello, direttore dell’area detenuti del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Eppure oltre confine i numeri sono parecchio diversi. In Spagna gli over 70 sono 351, meno che da noi anche se consideriamo il dato al netto della popolazione complessiva: i cugini iberici sono in tutto 47 milioni, l’Italia conta 60,8 milioni di abitanti. In Germania, dove la popolazione supera gli 81 milioni, i “detenuti nonni”, secondo l’ultimo rapporto del Consiglio d’Europa, sono 285. In Inghilterra 540. Certo, tra questi reclusi, come fa notare ancora Piscitello, ci sono condannati per reati gravissimi, dall’associazione mafiosa alla strage. Raffaele Cutolo, il padre della nuova camorra organizzata, ad esempio, ha 72 anni e deve scontare nove ergastoli. Tre ergastoli in regime di 41 bis per il boss di Cosa Nostra Bernardo Provenzano, che ha ottant’anni (di cui 43 vissuti da latitante). É rinchiuso a Parma, dove si trova un altro “detenuto vip”: Calisto Tanzi, ex patron della Parmalat oggi 74enne, condannato a 17 anni e 10 mesi per il crack dell’azienda. Ma non solo volti noti e crimini odiosi. Stretti nelle celle delle patrie galere si trovano anche detenuti anziani le cui storie non fanno notizia. Nella casa circondariale di Santa Maria Capua Vetere, provincia di Caserta, c’è un 75enne che deve scontare tre anni e otto mesi: lo beccarono davanti a un autogrill con dei complici a fare il “gioco delle tre campanelle”. Vincere è impossibile perché il gioco è truccato, ma ci cascano in molti, soprattutto stranieri. La figlia sostiene che l’uomo sia “ormai bisognoso di assistenza in tutto, dall’igiene personale alla somministrazione di cibo, soffre di allucinazioni e sta morendo a poco a poco”. Il direttore del Policlinico di Monserrato ha dichiarato incompatibile con la detenzione lo stato di salute di un uomo di 74 anni che si trova dietro le sbarre del Buoncammino di Cagliari. Ma il detenuto è rimasto dov’era “perché i periti del Tribunale di sorveglianza ritengono possa essere curato nel centro clinico del carcere”. Il problema è che a volte dentro restano “i più indifesi”, spiega Franco Corleone, del coordinamento dei garanti comunali dei detenuti. Gente con pochi soldi, “che durante il processo è assistita dall’avvocato d’ufficio. Ma poi, dopo che è arrivata la condanna di ultimo grado, non può contare su un difensore che, di fronte ad un peggioramento delle condizioni di salute, si rivolga al Tribunale di sorveglianza per chiedere sconti di pena o misure alternative”. Una volta dentro “spariscono, loro e i loro diritti”. Anche quello di fare i nonni. Lettere: un sorriso di morte fra le sbarre di Carmelo Musumeci www.carmelomusumeci.com, 10 gennaio 2013 Coloro che hanno il potere economico e politico possono facilmente ottenere accesso ai giornalisti e sono accessibili per essi; coloro che non hanno potere diventano più facilmente fonti e non vengano cercati dai giornalisti fino a che le loro azioni non producono eventi notiziabili in quanto moralmente o socialmente negativi (Herbert Gans 1979, p. 81. Cit da Wolf). In questi giorni ho letto che in Italia il suicidio in carcere è venti volte più frequente rispetto all’ambiente non detentivo. Eppure l’articolo ventisette della Costituzione italiana afferma che la funzione della pena è di carattere rieducativo, probabilmente sarà così ma solo per i detenuti che in Italia riescono a rimanere vivi (o per chi non è condannato alla “Pena di Morte Viva”). Sempre in questi giorni sull’Osservatorio permanente sulle morti in carcere di dicembre 2012 ho letto: dal 2001 al 2009 gli Stati Uniti hanno avuto in media di 2 milioni di detenuti e 1.783 suicidi in carcere. In Italia, nello stesso periodo, con una media di 54mila detenuti presenti abbiamo avuto 497 suicidi. Per la precisione in Italia la media annua di suicidi è stata di 9,1 casi su dieci mila detenuti contro 1,6 su dieci mila degli Stati Uniti. Ebbene, in Italia di questo massacro alla luce del sole nessuno ne parla, i mass media tacciono, i politici anche, e la Madre Chiesa pure. Nessuno si domanda perché a differenza degli altri Paesi i prigionieri italiani hanno più interesse a morire che a restare in vita, probabilmente perché nella stragrande maggioranza in carcere si trovano poveri cristi dimenticati da tutti e ai margini della società. Eppure le Istituzioni che prendono in consegna il corpo del prigioniero dovrebbero averne cura, o almeno creare le condizioni sociali per farlo continuare a vivere. Forse molti non sanno che è l’impiccagione il metodo più comunemente usato per togliersi la vita in carcere. Ecco una testimonianza di un uomo ombra (un ergastolano ostativo ai benefici penitenziari) che ci ha provato: (…) Quella sera avvertivo un senso di pace. E feci le cose con calma. Ero tranquillo. Sereno. Non potevo permettermi di ripensarci. Il mio animo però era malinconico. E sentivo nel mio cuore tutto il peso di quella scelta. Aprii la finestra. L’aria era gelida. Mi sfregai le mani dal freddo. Poi respirai a pieni polmoni. Col passare dei secondi sentii crescere sempre di più il desiderio di farla finita. Forse non era l’unica scelta che avevo, ma in quel momento non riuscivo a vederne altre. Mi allontanai dalla finestra. Afferrai con le mani la mia tristezza. Alzai il materasso. Presi la corda che avevo tessuto con il lenzuolo. E la legai alle sbarre. Presi lo sgabello. Ci salii sopra. Controllai il nodo scorsoio. Era perfetto. E me lo infilai in testa. Per un attimo ebbi paura, ma nello stesso tempo non vedevo l’ora di levarmi il pensiero. Nella mia testa le cose erano chiare. E semplici. Senza se e senza ma. Mi conveniva morire subito che spegnermi senza speranza. E senza futuro. Un po’ tutti i giorni. E tutte le notti, come una morte presa a gocce. Poi pensai che ero ancora in tempo per ripensarci. Potevo ancora tirarmi indietro. E scegliere di vivere. Invece preferivo morire bene che vivere un’esistenza senza vita. E diedi un calcio allo sgabello. E riuscii a pensare che ormai era troppo tardi per ripensarci. Poi avvertii un forte dolore. Come se dentro di me qualcosa si fosse strappato. I muscoli del collo si contrassero. I polmoni iniziarono ad annaspare aria. Le gambe a tremare. La vista mi si offuscò. E capii che ormai ero più vicino alla morte che alla vita. Ad un tratto però la corda si spezzò. Caddi per terra come un sacco di patate. E iniziai di nuovo a respirare. (…) Spero un giorno di avere il coraggio di riprovarci. Credo che sia politicamente e moralmente inammissibile che in carcere ci si tolga la vita così facilmente e in un silenzio così criminale, mediatico e sociale. Lettere: le carceri italiane devono rieducare, non umiliare Ristretti Orizzonti, 10 gennaio 2013 Il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali esprime grande preoccupazione per la situazione delle carceri in Italia. “La condanna di Strasburgo è solo l’ultimo dei richiami che vengono rivolti al nostro Paese per l’emergenza sovraffollamento dei penitenziari - dichiara Edda Samory, presidente del Consiglio Nazionale dell’Ordine. L’enorme disagio che si vive nelle carceri italiane ci impone l’obbligo, non solo morale, di dedicarvi maggiori risorse. Per la nostra professione, il carcere significa rieducazione, come scritto nell’art. 27 della Costituzione. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, e questo deve significare un adeguamento delle condizioni di vita nelle carceri che tenga conto dei principi basilari propri di uno stato democratico.” Gli Assistenti Sociali che giorno dopo giorno operano per la riabilitazione dei detenuti, avvertono fortemente la necessità di discutere con loro il loro progetto di vita, per riuscire ad andare oltre il luogo di pena, verso il lavoro e l’inserimento nel tessuto sociale del nostro Paese. “Chiediamo quindi - continua Samory - che le nostre Istituzioni raccolgano finalmente l’avvertimento dell’Unione Europea e di quanti già si sono espressi su questa linea fortemente condivisa dalla Professione. Auspichiamo anche che si possa prevedere uno snellimento delle procedure burocratiche per pensare sempre meno alle detenzioni all’interno delle carceri e sempre più a impegni e percorsi di riabilitazione. Come Ordine degli Assistenti Sociali confermiamo la nostra massima disponibilità a collaborare con le autorità e con le associazioni, per ripensare la riabilitazione dei carcerati mettendo finalmente al primo posto le persone, sia che si tratti di uomini, donne o minori, in un percorso comune di reinserimento sociale”. Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali Lettere: Furio Colombo, l’Europa e la battaglia di Pannella Il Fatto Quotidiano, 10 gennaio 2013 Caro furio colombo, dopo la clamorosa condanna dell’Italia per l’indegnità del suo sistema carcerario, “politici e alte cariche dello Stato si sono affrettati a commentare la sentenza come se finora a occuparsi del tema carceri fossero stati altri”, come ha scritto sul “Fatto” la vostra Silvia D’On - ghia. Possibile che ci si possa impossessare anche delle condanne pur di restare in scena, spingendo fuori a spallate l’unica persona che si è dedicata all’orrore delle carceri? Come ha capito, alludo al militante ignoto Pannella. Vito Confermo. Appena ho visto la sentenza, ho cominciato a sorvegliare tutti ì “grandi” (grandi perché potenti) percorsi di comunicazione, grandi giornali, grandi tv, radio di Stato e fonti private. Un po’ meglio le fonti private. Ma nell’insieme la persona che pochi giorni fa stava per morire nel suo sciopero della fame e della sete per accendere una luce sul problema pazzesco delle prigioni, e il solo che con una ostinazione ossessiva torna a constatare, ripetere, raccontare, chiedere attenzione per il problema prigioni, se c’è, è l’ultimo della fila, egli toccano due o tre righe, due o tre secondi in tv. È vero che il nostro Paese ha buoni precedenti in proposito. Ha liquidato Ferruccio Parri, il leader della Resistenza, subito dopo la festosa Liberazione, accantonandolo come un oggetto smarrito non reclamato. Ovviamente la sentenza di Strasburgo è una conferma immensamente autorevole della condizione inumana delle carceri italiane. Ma nessuno può dire, in questo Paese, neppure Giovanardi che con Fini è responsabile del 25 per cento della frequentazione carceraria, (piccoli consumatori e spacciatori di droga), neppure Maroni che ha caricato le prigioni di immigrati colpevoli di reati inventati dalla Lega (clandestinità) possono far finta che Marco Pannella non li abbia avvertiti, scatenando da solo una furibonda campagna nonviolenta in difesa dei carcerati. Tutti ne hanno preso atto a volte con gentilezza, come si fa con una brava persona troppo insistente, e poi dimenticando subito, non tanto (non solo) il Parlamento, come si dice sempre, quanto governi dell’uno e dell’altro tipo, e partiti, purtroppo tutti. La condanna riguarda perciò in modo diretto e personale chi poteva fare e ha lasciato perdere, con benevola noia. E dice di Pannella che c’è almeno una buona ragione per quella folle idea di nominarlo senatore a vita. Toscana: informazione e carceri, l’Ordine dei Giornalisti approva la “Carta di Milano” www.gonews.it, 10 gennaio 2013 Un codice deontologico in 12 punti che regola i rapporti tra detenuti e media: tra i principi affermati c’è quello del diritto all’oblio. Tutelare i diritti dei detenuti e quelli dell’informazione, grazie all’approvazione di un codice deontologico nazionale: è questo l’obiettivo della “Carta del carcere e della pena”, detta “Carta di Milano”, approvata dal Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti della Toscana nell’ultima seduta del 2012. La Carta di Milano è un codice deontologico in 12 punti che regola i rapporti tra detenuti e media: tra i principi affermati c’è quello del diritto all’oblio (per cui un condannato, una volta scontata la pena, ha il diritto a non essere indeterminatamente esposto all’attenzione dei media per quanto fatto in passato), l’invito a tutelare l’identità del detenuto che sceglie di parlare con la stampa e ad usare termini appropriati in caso di misure detentive alternative al carcere (ricordando che non si tratta di libertà). Il documento riguarda tutti i tipi di informazione, da quella cartacea a quella online, per la quale viene richiesta un’attenzione particolare data la prolungata esposizione delle notizie su internet. Inoltre nella Carta di Milano viene chieso all’Ordine Nazionale dei Giornalisti di impegnarsi per favorire la diffusione di una cultura dei diritti e doveri del giornalista in tema di carceri, tramite la creazione di una sezione apposita per l’esame di Stato e la promozione di seminari di approfondimento sul tema. “La Carta di Milano è un documento importante che vuole mettere ordine su un tema delicato complesso - ha commentato Carlo Bartoli, presidente dell’Ordine dei giornalisti della Toscana, che - come il rapporto tra informazione e mondo delle carceri. È importante infatti ricordare che il carcere dovrebbe rappresentare per molti detenuti l’occasione per prepararsi ad una nuova vita sociale: per questo è necessario tutelare i loro diritti, coniugandoli però con quello dei cittadini ad essere informati. Grazie all’adozione di questo documento ci auguriamo che sia possibile. Di sicuro, si tratta di un tema che non può essere eluso o ignorato dalla nostra categoria: anche per questo nei mesi scorsi avevamo inviato una lettera ai direttori delle testate locali richiamando la loro attenzione sul tema delle carceri”. Torino: intervista direttore delle Vallette; aggressività e malattie nelle celle troppo affollate di Claudio Laugeri La Stampa, 10 gennaio 2013 “Il sovraffollamento delle carceri che ci ha procurato la censura della Corte Europea è un’emergenza quotidiana anche a Torino. Ma il problema può essere risolto soltanto a livello centrale, con alternative alla detenzione e prospettive di recupero per i detenuti”. Giuseppe Forte, 61 anni, è il direttore del carcere “Lorusso-Cotugno” da lunedì 7 gennaio. Direttore, quanti detenuti ci sono alle Vallette? “Il carcere è stato progettato per accogliere 8-900 detenuti, ma sovente la popolazione raggiunge quota mille e 500. Il sovraffollamento porta problemi di gestione, di aggressività, ma è anche il miglior alleato della diffusione di malattie contagiose”. Oltre alle politiche legislative in materia, non ci sono altri provvedimenti possibili per risolvere il problema? “A Cuneo, dove ho lavorato fino prima del trasferimento a Torino, è stata ampliata la struttura, che così ha quasi raddoppiato la capienza”. Soluzione applicabile anche qui? “Posso soltanto dire che l’argomento è già stato affrontato e richieste in questo senso sono arrivate agli uffici centrali”. A Cuneo sono detenuti un centinaio di mafiosi con il regime “41 bis”. Dottor Forte, la sua carriera è caratterizzata dal carcere duro... “Ma la cosa non rispecchia la mia natura. Intendiamoci, sono per la correttezza e il rigore, quando serve. Ma sono più incline alla comprensione, alle soluzioni eque e non traumatiche, nei limiti del possibile”. Qualche episodio legato a quel periodo? “Le racconto un aneddoto. Negli anni 90, mandarono nel carcere di Cuneo un personaggio molto noto alle cronache, Felice Masiero. Per scoraggiare tentativi di fuga, fu sottoposto a una sorveglianza particolare. Poteva avere contatti minimi con altre persone, soltanto chi gli portava da mangiare, faceva le pulizie o gli recapitava gli acquisti fatti e consentiti dal regolamento. Nient’altro. Una volta andai a trovarlo e persino io mi feci perquisire dagli agenti. Questo per dare un’idea a tutti dell’eccezionalità del trattamento riservato a quel detenuto”. Funzionò? “Dopo sei o sette mesi, Maniero decise di collaborare con la Giustizia. Valuti lei”. Conosce il carcere di Torino? “Certo, in varie occasioni ho sostituito il mio predecessore. Spero di non farlo rimpiangere”. Qualche progetto? “Vorrei proseguire e integrare le iniziative avviate da Buffa. Ritengo molto importante il lavoro sui corsi di formazione per i detenuti, serve a offrire una prospettiva oltre al carcere. Mi piacerebbe incrementare i numeri. Le faccio un esempio. Abbiamo detenuti che frequentano laboratori di falegnameria e, quando escono dal carcere, vengono assunti da cooperative. Sarebbe bello riuscire a coinvolgere più detenuti, con la prospettiva di produrre mobili, magari da vendere alle Amministrazioni pubbliche. Ci sarebbero prezzi concorrenziali e opportunità di lavoro per ex detenuti, una strada verso il recupero e la legalità”. Che cosa le piace del Lorusso-Cotugno? “L’apertura e la collaborazione con il territorio”. E che cosa non le piace? Almeno stando alle prime impressioni. “La troppa distanza con chi lavora con me, inevitabile in una struttura di queste dimensioni e con questi numeri. Ma la mia porta è sempre aperta, almeno questo lo posso fare”. Reggio Emilia: 20 celle inagibili per infiltrazioni d’acqua, detenuti ammassati nelle restanti www.viaemilianet.it, 10 gennaio 2013 Le infiltrazioni d’acqua costringono la direzione a trasferire i detenuti in un’altra area del carcere. Il segretario del Sindacato di polizia penitenziaria Sappe: “Per evitare una condanna da parte dell’Europa bisogna intervenire subito”. Da diversi mesi 20 celle del carcere di Reggio sono chiuse: le infiltrazioni d’acqua e le scarse condizioni igieniche le hanno rese inadatte a ospitare i detenuti. 60 reclusi sono stati spostati in altre celle dello stesso reparto e fino a quest’estate dormivano ammassati in letti a castello di tre piani. Con problemi anche per chi in carcere ci lavora. “Noi agenti di polizia penitenziaria dobbiamo lavorare con acqua nei corridoi - spiega Michele Malorni, segretario provinciale del sindacato Sappe - con il rischio di infortunarci”. La richiesta di fondi per ristrutturare l’edificio era stata inoltrata tempo fa, ma i tagli alle risorse hanno capito anche questo settore. Così il tempo passa e le condizioni peggiorano. La struttura di via Settembrini oggi ospita circa 400 tra detenuti e internati nell’ospedale psichiatrico giudiziario, la capienza regolamentare è di 200 posti, ma ne sono tollerati il doppio. La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha recentemente condannato l’Italia per trattamento inumano e degradante di 7 carcerati a Busto Arsizio e Piacenza. Erano tenuti in celle con meno di 3 metri quadrati di spazio ciascuno. La Pulce, tra infiltrazioni d’acqua e sovraffollamento, non è messa molto meglio. “Sarebbe opportuno intervenire subito - continua Malorni - per evitare sentenze di questo tipo anche negli istituti penitenziari reggiani”. Il sindacato di polizia penitenziaria propone di usare i 450 milioni di euro a livello nazionale del Piano Carceri per ammodernare gli edifici e per misure alternative alla pena, ad esempio l’inserimento presso i Sert dei detenuti tossicodipendenti. Alessandria: Sappe; detenuto su tetto carcere, protesta perché non ha soldi per l’avvocato Agi, 10 gennaio 2013 “Un detenuto romeno è salito sul tetto del carcere di Alessandria, oggi pomeriggio, per scendere tre ore dopo”. A denunciarlo il segretario generale del Sappe Donato Capece, che spiega: “è salito per protestare perché, a suo dire, non avrebbe i soldi per pagare l’avvocato. È dentro per il reato di furto e ha raggiunto il tetto del carcere dal cortile dei passeggi, con una mossa fulminea agevolata dal fatto che la polizia penitenziaria del carcere ha le ricetrasmittenti guaste”. Capece rileva, quindi, che “dai dati del sovraffollamento penitenziario degli istituti alessandrini emerge una volta di più quali e quanti sacrifici affrontano, ogni giorno, le donne e gli uomini della polizia penitenziaria per garantire vigilanza e sicurezza all’interno e all’esterno degli istituti di pena alessandrini partecipando, nel contempo, alle attività di osservazione e di trattamento rieducativo dei detenuti”. “Rinnoviamo, dunque, il nostro appello - conclude - ai vertici del Ministero della giustizia e del Dap affinché si intervenga concretamente sulle criticità penitenziarie, anche incrementando concretamente gli organici dei Baschi Azzurri in servizio ad Alessandria”. Padova: in auto investì e uccise pensionato, il “pirata” accusato di omicidio volontario Il Mattino di Padova, 10 gennaio 2013 Il gup Cristina Cavaggion ha accolto le richieste del pm Roberti, accusando Cristian Ioan di omicidio volontario. Pochissimi i precedenti analoghi in Italia. A Padova è la prima volta che accade. In Italia i precedenti sono rarissimi. Ieri il gup padovano Cristina Cavaggion ha mandato a processo davanti alla Corte d’assise Cristian Ioan, detto Mimi o Barusca, romeno, 33 anni il “killer della strada” che, il pomeriggio del 28 marzo dell’anno scorso travolse e uccise il pensionato Goffredo Iacolino ai piedi del cavalcavia di Chiesanuova. E poi fuggi nel paese natale, salvo costituirsi alla frontiera italo - slovena di Fernetti dopo essere stato “convinto” da alcuni connazionali con le buone e, forse, con le cattive. Già perché il reato contestato è di omicidio volontario (reato che impone il giudizio in Coite d’assise, collegio formato da due giudici togati e sei giurati popolari) e non semplicemente colposo, come di regola si verifica nel caso di incidenti stradali. Un reato condito da un’altra ampia e gravissima serie di contestazioni: la ricettazione del fuoristrada Toyota Rav4 guidato in modo spericolato dal giovane (e risultato rubato il 22 marzo a San Giorgio delle Pertiche) oltre alla guida senza patente e all’omissione di soccorso. Insomma loan finirà davanti a un collegio analogo a quello competente a giudicare un assassino. E sarà in buona compagnia (perché è il reato più grave che radica la competenza del giudice) insieme ai connazionali Valentin Marrus Bacnasu, 36 anni (ricettazione, favoreggiamento in quanto con altri aveva aiutato loan a fuggire e guida senza patente); Nicusor Lupu, 40, e Ilie Obuf, 33 (favoreggiamento); Gheorghe Plescan, 42 (ricettazione dell’auto killer) e all’italiana Luisa Barone, 34 anni di Rivoli (tentato favoreggiamento). Accolte in pieno le richieste del pubblico ministero Benedetto Roberti. A difendere gli imputati una pattuglia di legali, gli avvocati Roberto Rigoni Stern, Davide Gianella, Linda Pallua, Pietro Someda. Il gup si è riservata di pronunciarsi nei prossimi giorni in merito alla richiesta di scarcerazione di Ioan proposta dal difensore. L’uomo è in carcere dal 3 aprile scorso quando si consegnò alle autorità italiane. E subito confessò: “Ero alla guida della Toyota... avevo bevuto e ho imboccato contromano via Tirana, poi...”. Poi, a 80 chilometri all’ora in mezzo alle case, l’investimento del pensionato di 76 anni centrato in pieno sulle strisce pedonali mentre il fuoristrada sbucava da via Tirana, immettendosi in via Vicenza. Catania: i ragazzi di Arché raccolgono 600 libri per i detenuti La Sicilia, 10 gennaio 2013 Domani venerdì, alle 15,30, nel Coro di notte dei Benedettini, sarà presentato il progetto “San Cristoforo, un quartiere da vivere” volto a promuovere il patrimonio culturale, economico e sociale di questa zona di città. Si tratta del primo incontro del ciclo di seminari universitari organizzati dal Disum (Dipartimento di scienze umane, ex facoltà di Lettere) e incentrati sul tema “Il patrimonio culturale identità e risorsa delle città meridionali: dalla promozione alla comunicazione”. Appuntamenti rivolti principalmente agli operatori del settore dei beni culturali e a quanti intendono investire in questo campo valorizzando le risorse del territorio. Punto di partenza del progetto è la consapevolezza che il patrimonio culturale rappresenta un elemento cruciale nella prospettiva dello sviluppo sociale, a maggior ragione per i quartieri delle città meridionali dove esso è presente, e questo sia per il suo potenziale educativo, sia per il segmento di mercato che l’economia della cultura va progressivamente conquistando. A presentare il progetto, all’incontro di domani, saranno Ludovico Sollima, docente di Economia e Gestione dei beni culturali (Seconda Università di Napoli), Enrico Iachello, past-preside della facoltà di Lettere e Filosofia e responsabile del progetto “San Cristoforo, un quartiere da vivere” per conto del Disum, Melania Nucifora, docente di Storia contemporanea, e Francesco Mannino che modererà l’incontro. L’idea nasce dall’esigenza di rispondere in maniera integrata ai bisogni del territorio mobilitando forze socio - culturali capaci di esplorare, attivare e valorizzare le risorse presenti nel quartiere creando un collegamento stabile tra ambiti e risorse differenti. Un progetto sostenuto da una rete di lavoro che già opera a San Cristoforo e che sarà integrata da altri soggetti specializzati, esterni al quartiere, nell’ottica di condividere esperienze e di attivare la partecipazione della comunità locale. Il progetto, finanziato dalla “Fondazione per il Sud” e avviato nel 2010, ha come capofila l’Oratorio salesiano delle Salette e coinvolge varie realtà tra cui il Dipartimento di scienze umane. Questo si è assunto il compito di individuare tutti i beni culturali del vecchio quartiere San Cristoforo, dai più noti, come Castello Ursino, a quelli meno conosciuti e frequentati, come il Pozzo di Gammazita, l’ex Macello, il cortile di via Testulla o l’ex conceria di via Barcellona. Il lavoro è in fase di conclusione. Sono stati individuati circa 40 siti di ognuno dei quali è stata fatta una scheda che confluirà nella mappa che il dipartimento sta realizzando con l’indicazione di un percorso turistico alla scoperta di questa zona di città. Domani, il primo degli incontri in calendario, il confronto con Ludovico Sollima, che è un economista delle imprese culturali, servirà a capire se, e a quali condizioni, si può scommettere su un’economia legata al patrimonio culturale di una città, e di una città del Meridione in particolare, e a conoscere le strategie e le azioni da intraprendere per fare impresa culturale al Sud. Gli incontri, dunque, saranno occasione per comprendere - con l’aiuto di storici, storici dell’arte ed economisti - come valorizzare i beni culturali e di quali strumenti devono dotarsi gli esperti e gli operatori del settore per sviluppare modelli di gestione e fruizione il più possibile virtuosi ed efficienti. Immigrazione: il Centro di Identificazione ed Espulsione di Bologna non può festeggiare di Desi Bruno* La Repubblica, 10 gennaio 2013 Da pochi giorni la gestione della struttura di via Mattei è passata dalla Confraternità della Misericordia al Consorzio l’Oasi ,vincitore dell’appalto anche dell’analoga struttura di Modena. Il nuovo soggetto appaltatore deve ancora portare a regime la gestione ordinaria, mentre rimangono molte ancora le incertezze e le incongruenze di un sistema che non funziona. La riduzione dei fondi destinati al centro può comportare tagli al personale, ai mediatori culturali particolare, al personale sanitario. Si vedrà. I Centri di Identificazione e di Espulsione sono stati pensati come extrema ratio, necessari agli Stati dell’Unione per allontanare i cittadini stranieri privi di autorizzazione a rimanere sul territorio dello Stato. Nel Cie di Bologna tuttavia nel corso dell’ultimo anno sono entrate circa 600 persone di 43 nazionalità diverse, di cui solo una parte poi espulsa. Si può rimanere all’interno di un Cie fino a diciotto mesi e senza che questo sia conseguenza di un reato. E anche se è difficile raggiungere questa durata nel Cie di Bologna si resta anche fino a dodici mesi. Molte persone provengono dal carcere, dopo avere scontato la pena, ma la maggior parte dei trattenuti è composta da persone che hanno perso il lavoro e quindi il permesso di soggiorno, oppure non l’hanno mai avuto e hanno lavorato come badanti, muratori o altro , e sono in Italia da molti anni. O sono donne vittime di tratta. A volte le persone non hanno mai conosciuto il paese di cui sono cittadini, come gli stranieri nati in Italia, che però possono essere lì rimandati senza nemmeno conoscerne la lingua. Vite spezzate, famiglie distrutte, storie di ordinaria immigrazione. E senza avere commesso nessun reato. Nei centri passano più volte persone che il paese di origine non riconosce, destinate a reiterare il rientro e l’uscita dal CIE senza la speranza di un riconoscimento. Semplicemente non esistono. Un periodo, quello del trattenimento, nel quale le persone non vengono impegnate in attività formative e ricreative, salvo lodevoli ma insufficienti eccezioni . Questa condizione - accentuata anche dalla riduzione progressiva dei fondi destinati alla vita all’interno della struttura - diventa elemento di tensione. Non sono mancati, infatti, in questi mesi i tentativi di fuga e le ribellioni. Il Cie è un non luogo: è assicurato il diritto a comunicare, ma non viene consentito l’uso del cellulare, i trattenuti dormono su letti di cemento per evitare danneggiamenti, le condizioni igienico - sanitarie sono da monitorare. Fino a poco tempo fa l’Usl non effettuava visite ispettive, come avviene con il carcere, perché il” luogo “veniva considerato sottratto ai poteri di controllo della servizio pubblico. Oggi, dopo l’ultima richiesta dell’ufficio del Garante regionale , la Prefettura ha concesso il nulla - osta e ne sostiene l’utilità . Dunque il servizio di igiene pubblica entrerà nel Cie e potrà dire se, al di là delle intenzioni di chi gestisce il centro, il luogo garantisca condizioni di vivibilità accettabili. Molte le persone malate presenti, sottratte , se non in casi di emergenza, al servizio pubblico, che proprio in un luogo di restrizione della libertà personale dovrebbe essere presente. Almeno come in carcere. Non mancano casi nei quali solo l’intervento del servizio di informazione giuridica voluto dal Garante e dal Difensore civico regionali ha consentito il rilascio di persone che non potevano essere trattenute , a volte proprio perché le condizioni psichiche o fisiche risultavano incompatibili con il trattenimento. Dunque bisogna vigilare, verificare con attenzione la storia di chi passa al Cie, favorire percorsi alternativi, compreso il rimpatrio assistito, laddove l’espulsione è inevitabile. . Bisogna rivedere però i meccanismi di ingresso e regolarizzazione previsti dalla attuale legge sull’immigrazione per evitare il disastro umano che i centri rappresentano nonché il fallimento anche in un’ottica meramente securitaria. Poche espulsioni, spesso di persone non socialmente pericolose. Oggi però il Cie di Bologna è pieno a metà. La crisi forse spinge anche l’immigrazione altrove e sono calati gli accompagnamenti. Potremmo pensare di chiudere il centro ? Nessuno ne sentirà la mancanza. * Garante delle persone private della libertà personale della regione Emilia Romagna Immigrazione: visita di tre parlamentari nel Cie di Bologna, chiesto incontro con Prefetto Redattore Sociale, 10 gennaio 2013 Nella struttura sono entrati Sandra Zampa, Donata Lenzi e Rita Ghedini, tutte del Pd. “I Cie sono lager pagati con i soldi degli italiani”. In visita anche l’assessore bolognese al Welfare, Frascaroli: “Creeremo un osservatorio permanente per vigilare” Le lettere indirizzate alle segreterie competenti sono partite appena conclusa la visita mattutina al Cie di Bologna: le parlamentari del Pd Sandra Zampa, Donata Lenzi e Rita Ghedini, assieme all’assessore al Welfare del Comune di Bologna, Amelia Frascaroli, e alla garante dei detenuti, Elisabetta Laganà, hanno già inviato al Prefetto e al Questore del capoluogo emiliano le richieste necessarie ad ottenere un incontro che Zampa definisce “urgentissimo”. L’oggetto della discussione sarà lo stato “di totale degrado in cui versa il Centro di identificazione ed espulsione di via Mattei, per capire quali possano essere eventuali soluzioni affinché le condizioni di permanenza dei migranti presenti all’interno possano migliorare”. Già, perché “là dentro si sta peggio che in prigione - racconta Zampa - e i diritti umani più basilari non sembrano rispettati”. Dello stesso parere anche Amelia Frascaroli che sottolinea come strutture del genere siano “incostituzionali”. La rappresentazione che Zampa e Frascaroli fanno del Cie bolognese si riassume con termini forti: “Lager pagati dagli italiani, che devono sapere come vengono spesi e sprecati i loro soldi”, sostiene la deputata. O “strutture ai livelli minimi di umanità - aggiunge l’assessore - dove mancano anche le cose più semplici, la sporcizia resta per terra e i vetri sono rotti”. Le cause di tutto ciò non sono da imputare solo ai nuovi gestori, però, e non solo alle gare di appalto al ribasso per la gestione del Centro. Secondo Frascaroli “le scelte sono sbagliate a monte, tutte quelle fatte negli ultimi anni”. Ma “adesso è arrivato il momento di verificare quale sia l’utilità di posti del genere”, ribadisce Zampa. Sotto accusa anche la Prefettura bolognese “non esente da colpe, perché la struttura non doveva essere lasciata in condizioni che paiono di abbandono”. Inoltre, “il Prefetto non ha vigilato a sufficienza affinché il passaggio di gestione tra Misericordia e il consorzio L’Oasi avvenisse secondo logica”. Così, spiega la deputata del Pd, “mentre i vecchi gestori smobilitavano, portandosi tutto con loro, i nuovi entravano senza avere il materiale e gli strumenti pronti per gestire la struttura. E dire che hanno anche avuto tre mesi di proroga”. Il risultato “è che i trattenuti, perché di questo si tratta e non di ‘ospitì spiegano, vivono in condizioni non accettabili. Tutta la struttura non è accettabile”, prosegue Zampa. E allora, oltre alla richiesta di incontro con gli organi competenti, Frascaroli propone che “all’interno del Cie venga creato un osservatorio permanente per vigilare in modo attento e costante”. L’idea dell’assessore comunale sarebbe, inoltre, “a costo zero per l’amministrazione, perché l’osservatorio sarebbe gestito da associazioni, e all’interno della struttura opererebbero dei volontari”. La bozza di proposta, rivela Frascaroli, “è già stata mandata al Prefetto, che si è detto disponibile”. I tempi tecnici non sono ancora noti, “ma a breve si potrebbe partire con l’organizzazione”. Di fatto, però, “non si capisce come mai, per intervenire, le cose debbano essere segnalate all’infinito - attacca Zampa - noi abbiamo sollecitato il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri più e più volte, ricevendo assicurazioni mai mantenute”. Zampa sostiene infatti di non aver mai visto nè un rapporto scritto, nè una proposta ufficiale di Cancellieri, la quale “dovrebbe spiegarci come mai, siccome è ancora ministro”. Ed è proprio nelle decisioni prese dal Governo che secondo Zampa e Frascaroli dovrebbe cambiare qualcosa: “Purtroppo le competenze sul Cie non sono dell’amministrazione comunale - conclude l’assessore - e anche la Prefettura non può esimersi dal seguire le direttive nazionali”. Resta il fatto, termina Zampa, che “dopo le critiche provenienti dall’Unione Europea sulle condizioni dei nostri Cie e delle nostre prigioni, qualcosa bisogna fare, soprattutto perché le condizioni di vita dei trattenuti sono oltre la vergogna: ci sono malati che sembrano sedati e fissano il muro nelle celle; ci sono sieropositivi che rischiano la propria salute e mettono a rischio quella degli altri; c’è una donna con l’hiv, madre di tre bambini, che non può restare lì dentro malata com’è”. Droghe: Giovanardi; l’ex pm Grasso è disinformato, i detenuti tossicodipendenti in calo Ansa, 10 gennaio 2013 “Mi dispiace che l’ex Procuratore Nazionale Antimafia Piero Grasso faccia il suo esordio come aspirante legislatore, dimostrando di non conoscere le problematiche di cui intende interessarsi. Grasso ha infatti affermato a Radio Anch’io che la legge Fini-Giovanardi è “corresponsabile, insieme ad altre, dell’aumento della popolazione carceraria, facendo saltare quel rapporto, sempre costante, fra entrate e uscite dal Carcere”. Lo dichiara in una nota Carlo Giovanardi. “Se il dott. Grasso avesse tempo e pazienza di leggersi i dati pubblicati dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, anno 2011, scoprirebbe che, per quanto riguarda gli ingressi annuali dei soggetti con problemi socio-sanitari droga correlati, siamo di fronte a un decremento del 6,6% (da 24.008 a 22.413) che conferma un trend in diminuzione, sin dal 2006, quando entrò in vigore la Fini-Giovanardi, che, tra l’altro, cancellò per i tossicodipendenti la norma della Cirielli che limitava i benefici per i recidivi. Un brevissimo temporaneo aumento si è verificato nel 2008, probabilmente per effetto dell’indulto votato nel 2006 dal Parlamento, mentre si conferma una sensibile diminuzione, negli ultimi anni, anche per le entrate in carcere per reati attinenti allo spaccio”. Malesia: sette detenuti evadono accecando le guardie con peperoncino in polvere Reuters, 10 gennaio 2013 Sette malesi sono sfuggiti alla custodia della polizia questa settimana e son potuti evadere accecando temporaneamente una guardia con del peperoncino in polvere che era nascosto nelle mutande di un evaso. I sette uomini sono fuggiti lunedì. Secondo la polizia si tratta di pericolosi criminali, per cui ora c’è una caccia all’uomo su larga scala nel nord dello stato malese di Penang. I detenuti sono scappati da un furgone della polizia che li trasportava in un tribunale locale. Per evadere hanno messo in scena una lotta nel veicolo, spingendo l’autista a fermarsi. Quando la polizia ha aperto la porta posteriore per indagare, i detenuti hanno gettato della polvere di peperoncino su un poliziotto, mentre gli altri detenuti attaccavano e ferivano l’altra guardia. I sette fuggitivi sono poi scappati col furgone della polizia, che è stato in seguito trovato abbandonato in un villaggio vicino. Dopo il fatto, 250 agenti di polizia aiutati dai cani e da un elicottero hanno perlustrato l’area. La polizia sta indagando su come i detenuti abbiano ottenuto il peperoncino in polvere utilizzato per evadere dal carcere.