Giustizia: domani il Presidente Napolitano a San Vittore… questa visita porti la grazia di Rita Bernardini Il Giorno, 5 febbraio 2013 Se il Presidente della Repubblica visitasse San Vittore capirebbe molti dei cosiddetti “eccessi pannelliani” e riuscirebbe a ricredersi sulle “miserevoli polemiche” che attribuisce al leader radicale a causa delle sue quotidiane denunce. Visitando le celle il Presidente scoprirebbe che spesso in quelle di 7 metri quadri sono ristretti tre detenuti e in quelle di 13 ve ne sono 9 o 10 (nemmeno 1,5 mq a testa!). Scoprirebbe inoltre che lo Stato non fornisce a tutti i detenuti gli sgabelli e i mobili per riporre gli effetti personali perché altrimenti diverrebbe pressoché impossibile muoversi in cella; senza considerare che dentro questi loculi quasi tutti sono costretti a trascorrere almeno 20 ore al giorno nella più completa inattività e spesso privati di cure sanitarie essenziali. D’altra parte le cifre parlano chiaro: a San Vittore oltre 1.600 detenuti sono stipati in 712 posti letto. Sarà straziante per il Presidente vedere in faccia la realtà specie se si è scelto di non ascoltare gli oltre 130 giuristi capeggiati del Prof. Andrea Pugiotto che a settembre lo scongiuravano di inviare un messaggio alle Camere proprio per responsabilizzare il Parlamento sulla necessità di intervenire con “prepotente urgenza” come ebbe a dire lo stesso Capo dello Stato circa 18 mesi fa ad un convegno radicale - “sul punto critico insostenibile cui è giunta la questione, sotto il profilo della giustizia ritardata e negata, o deviata da conflitti fatali tra politica e magistratura, e sotto il profilo di principi costituzionali e diritti umani negati per le persone ristrette in carcere”. Sarà un dolore lancinante quello che proverà a San Vittore, soprattutto dopo la recente sentenza pilota della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha definito “strutturali” i trattamenti inumani e degradanti nelle carceri italiane. Per Strasburgo già 3 metri quadrati a detenuto configurano trattamenti ai limiti della tortura, e a San Vittore siamo ben al di sotto. Come potrà il Presidente guardare negli occhi quei detenuti ristretti nelle gabbie di uno Stato fuorilegge, lui che lo Stato lo rappresenta al suo massimo vertice? Forse si affretterà a concedere a molti la grazia o la commutazione della pena, come previsto dal comma 11 dell’art. 87 della Costituzione. Non avverrà ma sia almeno concesso di sognarlo. Giustizia: un giorno di galera… ogni 5 centesimi di Antonio Bevere Il Manifesto, 5 febbraio 2013 La sproporzione delle pene per i delitti contro il patrimonio è una delle cause del disumano affollamento delle nostre carceri. È anche una responsabilità dei magistrati, del cattivo uso del principio di discrezionalità del giudizio. I casi offerti dalla nostra cronaca giudiziaria sono un campionario infinito di una giustizia ingiusta. L’antidoto potrebbe essere l’obbligo di visita nell’inferno delle celle. L’ennesima condanna della corte europea per la nostre carceri, accompagnata dal solito sdegno sterile, mi induce a tornare sullo spreco di risorse della giustizia, segnalato tempo fa da un arguto cronista del Corriere della sera, nel processo a uno studente, accusato di furto di un ovetto di cioccolato, del valore di 1 euro. Arguzia a parte, il cronista trascurava che, per questo fatto bagattellare (da baca, bacca, inezia), se qualificato come furto mono aggravato (per esposizione dell’uovo alla pubblica fede), lo studente sarebbe stato colpito da pena detentiva, pur con due attenuanti (per danno lieve e incensuratezza) e con la diminuente del rito alternativo, mai inferiore a 20 giorni di reclusione. Volgarizzando la triade profitto (del reo) - danno (del proprietario) - sanzione (della giustizia), in un caso simile, il reo paga, per ogni 5 centesimi del valore commerciale del bene sottratto, il prezzo di un giorno di libertà. Lasciando calcoli astratti e venendo alla corrente cronaca giudiziaria, un furto di capi di abbigliamento - che, pagati alla cassa, sarebbero costati 250 euro - è stato fatto pagare, in termini di libertà, al prezzo di 1 anno e 6 mesi. In senso realisticamente figurativo, la sentenza diventa così titolo di ingresso in carcere, per estinguere, con 547 giorni (del valore di 0,46 euro ciascuno) il debito verso il proprietario e verso la società. La casistica della giurisprudenza ci mostra lo stato esattore di 6 mesi di libertà per un debito di 30 euro (sottratti da un registratore di cassa) o di 7 mesi di libertà per un debito pari al valore del gasolio sottratto da un camion per la nettezza urbana. Questa impostazione del problema in termini di debito/credito - che fa riaffiorare il carcere per debiti (ricordate Pickwick?) - introduce il tema delle cause del fenomeno del tutto esaurito, posti in piedi nelle nostre carceri e ne mette in luce le sue radici nel mondo giudiziario e nei criteri sul quantum nelle sentenze di condanna. Secondo Bettiol, lo stato moderno, nel farsi guidare dal principio della retribuzione (a un male segua un male) deve attenersi al criterio della proporzionalità. L’idea della proporzione segna il passaggio dalla vendetta, che è emozione non controllata dalla ragione, alla pena, che è atto di ragione e quindi reazione proporzionata. La proporzionalità della pena viene concepita non nei termini meccanicistici della legge del taglione e tanto meno nella funzione intimidatoria a fini di prevenzione generale (quest’ultima concezione, attraverso la teoria del castigo esemplare, conduce inevitabilmente a pene che devono essere il più possibile severe e crudeli). L’esperienza insegna che solo una pena equa ed umana, non terroristica, può assolvere il compito della prevenzione (Mantovani). Nel pronunciare la sentenza di condanna, il giudice dovrebbe non solo applicare criteri e limiti formalmente fissati dalla norma, ma anche evitare una punizione sproporzionata, che, tornata ad essere espressione di emozionale vendetta - sia pure compiuta in nome del popolo italiano - diventi fonte di un giro vizioso di violenza legittima e violenza illegittima, Questa proporzionalità della punizione, pur nel rispetto delle norme, spesso non è rispettata, e ciò avviene con particolare evidenza, come abbiamo visto, nei delitti contro il patrimonio, in cui al reo riesce immediatamente percepibile la sproporzione tra il suo debito, in termini di disvalore giuridico ed economico, e il prezzo che gli è imposto in termini di libertà. Per recuperare razionalità punitiva, si è tentato di riavvicinare i giudici alla finalità educativa, intesa come recupero sociale, come riacquisizione, per il cittadino condannato, della capacità di vivere nella società nel rispetto della legge penale (Vassalli). La Corte costituzionale, con E. Gallo, ha chiarito il collegamento tra proporzione e rieducazione della pena: la sentenza 2 luglio 1990, n. 313, ha affermato il principio secondo cui la finalità rieducativa della pena (co.3 art.27Cost.) informa tutto il sistema penale e non soltanto la fase esecutiva: questo principio deve condizionare il potere discrezionale del giudice che quantifica la punizione, cioè il prezzo che il reo deve pagare in termini di libertà. La Corte ha prospettato la seguente connessione: la finalità educativa postula che l’autore del reato avverta un trattamento punitivo non ingiusto e non eccessivo, ma adeguatamente proporzionato al disvalore del fatto commesso; altrimenti si rischia che nel reo prevalga un atteggiamento di ostilità nei confronti dell’ordinamento. Le critiche rituali dei procuratori generali nelle inaugurazioni, le doglianze delle discrete onlus assistenziali, le denunce giornalistiche, rivolte al potere legislativo ed amministrativo, con l’invito al riformismo carcerario, per costruire carceri più accoglienti e per assumere nuovo personale, trascurano un dato: il titolo, il biglietto di ingresso nelle carceri lo scrivono i giudici. All’origine della sovrabbondante presenza nelle carceri italiane non vi è solo la ristrettezza dei locali, ma anche una scarsa attenzione per il principio della proporzionalità della pena e per l’insegnamento che viene dalla interpretazione, costituzionalmente guidata, della disciplina della sofferenza carceraria. Nella prospettiva di umanizzazione la pena, per salvaguardare la sua funzione educativa, si può guardare con interesse a iniziative del tipo di quella realizzata dai gip di un tribunale: un esame dei luoghi in cui vivono gli esseri umani per effetto delle loro decisioni: “fare, tappa per tappa” il percorso dei nuovi detenuti, toccare con mano i problemi e le difficoltà di chi vive e lavora dentro carcere, “vedere le camere di sicurezza dove a volte i nuovi giunti dormono uno sull’altro magari in attesa dell’udienza di convalida, eco. Può essere utile, sul piano nazionale, prospettare un programma, per i giudici di primo e secondo grado, di visite guidate nei luoghi di detenzione, mirate a renderli direttamente consapevoli degli effetti delle loro decisioni, dei loro calcoli, delle loro commisurazioni, nonché a instaurare un parziale collegamento tra aula, dove si decide, e carcere, dove si soffre. Rimane il problema dello scarso impegno - anche di tutti i giudici - nella quotidiana lotta per l’indipendenza dalla cultura dell’emergenza, dai tribuni dell’allarme sociale e dei bisogni collettivi di sicurezza, amplificati e strumentalizzati a fini elettorali (il fenomeno dei pubblici ministeri in politica, grigi o ululanti, è davvero inquietante). In attesa di un’autoriforma del giudice, accontentiamoci delle visite dantesche nei luoghi di sofferenza, coinvolgendo quei cittadini la cui aspirazione massima è riempire le carceri per ottenere ordine e sicurezza, salvo poi diventare crociati della libertà, se intravedono aprirsi i cancelli ai debitori per violazioni di beni giuridici meritevoli di garanzia non inferiore a quella dei beni lesi dai ladri di bicicletta. Giustizia: Sesta Opera San Fedele; dalla politica poche risposte ai problemi delle carceri Radio Vaticana, 5 febbraio 2013 Rinnovare l’appello ai partiti per porre la questione del sistema penitenziario al centro del confronto politico in vista delle elezioni. È questa una delle finalità della visita, mercoledì prossimo al carcere di San Vittore, del presidente italiano Giorgio Napolitano. Ma oggi la classe politica non sembra dare adeguata attenzione a questi temi come sottolinea al microfono di Amedeo Lomonaco, Guido Chiaretti, presidente di “Sesta Opera San Fedele”, associazione di volontariato per l’assistenza penitenziaria che affonda le proprie radici nel terreno della spiritualità ignaziana e della Compagnia di Gesù. R. - Quello che si vede, ultimamente, è un silenzio assordante della classe politica su questi temi. Questa è una condizione veramente incredibile, probabilmente perché ritengono che l’opinione pubblica non sia sensibile su questi temi. E questo è sbagliato. D. - Quali sono le risposte più urgenti che dovrebbe dare il mondo della politica, oggi impegnato su vari temi, ma non molto sulle condizioni delle carceri, in vista delle prossime elezioni politiche? R. - Tutto il mondo del volontariato da anni continua a riproporre delle ricette a diversissimi livelli. A livello legislativo con la legge Cirielli, sulle questioni della recidiva, delle tossicodipendenze. Poi c’è tutto il problema del sovraffollamento da affrontare con la costruzione di nuovi carceri. Però, prima di costruire nuovi carceri, occorrerebbero gli agenti per governare i penitenziari che già esistono. Ce ne sono diversi già costruiti ma inagibili proprio per la mancanza di agenti. D. - E applicare l’ordinamento penitenziario può essere una prima risposta? R. - Ciò che a noi sembra veramente una cosa molto importante, fattibile e senza costi eccessivi è, paradossalmente, l’applicazione dell’ordinamento penitenziario così com’è: se oggi questo venisse effettivamente applicato e, quindi, si investisse sul trattamento all’interno del periodo di detenzione, questo porterebbe un beneficio - secondo noi - abbastanza promettente. I dati ci dicono, ad esempio che ci sono misure contro la recidiva, in Italia intorno al 68 - 70%: in un carcere modello come quello di Bollatte, dove si applica estensivamente e sistematicamente tutta una serie di forme alternative e trattamentali in maniera estensiva, la recidiva scende al 19 - 20%. Quindi il trattamento è una delle chance a “basso costo” che richiederebbe però la messa in opera di tutta una serie di opportunità offerte ai detenuti come il lavoro, l’istruzione, le attività culturali e sportive, di svago, i contatti personali, le modalità in cui si rendono possibili i rapporti con i familiari oppure con la società esterna… Questi sono tutti mezzi che possono essere messi in pratica e il volontariato - il carcere di Bollate ne è un esempio - è un punto chiave per questo. D. - Cosa chiede, in particolare, il mondo del volontariato per rendere più efficace la propria presenza nelle carceri? R. - La difficoltà in cui ci troviamo oggi è molto legata alla crisi economica. Secondo dati consultivi del 2012, ci sono carceri che sono passati da 90 mila euro di budget semplicemente per le pulizie, per l’igiene delle persone, a seimila euro. Quindi da una parte c’è una voragine di bisogni che si è aperta ancora di più rispetto a quello che era in passato, e dall’altra parte noi ci vediamo un po’ isolati, emarginati, e dimenticati proprio da quella classe politica. Io lo vedo qui a Milano. La classe politica fa fatica a mettere a disposizione le risorse economiche per poter metterci in grado di aiutare queste persone. Noi siamo puro volontariato. Quindi se l’ente pubblico non mette a disposizione delle risorse, anche minime - si parla di poche decine di migliaia di euro per tutti i penitenziari di Milano - è veramente una situazione drammatica. Secondo me, è proprio la responsabilità della classe politica che deve dire che certi limiti di indigenza non devono essere superati. Se la gente non ha niente per vestirsi o per lavarsi in carcere, non si tratta solo di quel richiamo e di quella condanna che la Comunità europea ha fatto verso l’Italia. È molto di più. Stiamo andando addirittura oltre quello che è stato il richiamo dell’Europa. Giustizia: Segio e Cusani scrivono a Napolitano; agire prima che nelle carceri sia tragedia Agi, 5 febbraio 2013 Sergio Segio e Sergio Cusani, in una lettera aperta al Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in occasione della sua visita al carcere milanese San Vittore, chiedono interventi immediati “prima che il disagio sfoci in tragedia”. L’ex capo di Prima Linea e il manager condannato in una delle inchieste di Mani Pulite, aprono la missiva citando un discorso di Filippo Turati alla Camera nel 1904: “Le carceri italiane rappresentano l’esplicazione della vendetta sociale nella forma più atroce che si sia mai avuta... sono fabbriche di delinquenti, o scuole di perfezionamento dei malfattori”. “Oltre un secolo dopo - scrivono - il quadro è il medesimo”. “Reso forse persino più grave - aggiungono Segio e Cusani - da un sovraffollamento che non ha eguali nel passato né in Europa, quanto a rapidità della crescita (negli ultimi vent’anni il tasso di detenzione è salito da 53 a 113 detenuti ogni centomila abitanti) e, ancor di più, quanto a inefficacia delle risposte” Neppure l’ultimo provvedimento, nel 2010, sarebbe servito a molto: “Al 31 gennaio 2013 in detenzione domiciliare vi erano, in totale, 9.386 condannati per piccoli reati, a fronte di presenze in carcere che, a quella stessa data, continuavano a essere 65.905, mentre la capienza definita “regolamentare” è fissata a 47.040 posti. Vi sono, insomma, 20.000 reclusi in più di quanto le strutture e il personale sarebbero in grado di ospitare e di gestire. Questo è il dato di fatto che dovrebbe preoccupare i partiti. Ma, si sa, il carcere non è tema che si presti ai periodi elettorali. Così che è destinato a rimanere lettera morta, nonostante la sua alta provenienza, l’invito: “La questione penitenziaria deve poter trovare primaria attenzione anche nel confronto programmatico tra le formazioni politiche che concorreranno alle elezioni del nuovo Parlamento”. “In quest’anno - è scritto ancora nella lettera aperta - un unico elemento ha impedito il degenerare della situazione: la ragionevolezza pratica di chi opera a contatto con il problema, vale a dire magistratura e forze dell’ordine, che evitando l’arresto o la sua convalida nei casi di minore gravità ha fatto sì che il numero di ingressi in carcere nel 2012 sia stato il più basso degli ultimi vent’anni: 63.020, a fronte di ingressi che mediamente arrivavano tra le 80.000 e le 90.000 unità. Un informale e provvidenziale provvedimento di “numero chiuso”. Anche questo, però, è solo un tampone di buon senso davanti all’inerzia politica e all’infernale meccanismo bipartisan che strumentalizzando il tema della sicurezza ha prodotto un avvitamento pericoloso. Un piccolo ed encomiabile volontarismo che non può risolvere i problemi strutturali. Dato che, se gli ingressi annuali sono diminuiti, continua invece a salire la presenza media di detenuti nel corso dell’anno. Banalmente significa che si esce di meno, che le pene sono più lunghe, che la valvola di sfogo delle misure alternative alla detenzione si è da tempo inceppata: a gennaio 2013, i beneficiari di affidamento in prova erano poco più di diecimila (10.112) e soli 879 i semiliberi”. “Prima che il disagio annoso sfoci in tragedia - concludono - più di quanto già quotidianamente non sia (con 56 suicidi in cella nel 2012, 63 nel 2011), prima che solo disperazione e violenza abbiano diritto di parola, occorre un soprassalto di iniziativa: a livello sociale e a livello politico. Il tempo sta per scadere”. Giustizia: Sappe; situazione delle carceri al collasso, serve seria politica strutturale Adnkronos, 5 febbraio 2013 “L’escalation dei tentativi di evasione, delle evasioni, delle continue aggressioni ai danni del personale della Polizia penitenziaria, dei suicidi dei detenuti e del personale dei baschi blu, appalesano una situazione carceraria ormai al collasso che reclama una politica seria e strutturale non più eludibile”. È quanto scrive Donato Capece, segretario generale del Sappe in una nota al ministro della Giustizia, Paola Severino. Per Capece “è necessario un avvicendamento dei vertici dell’Amministrazione penitenziaria, in particolare del capo e del vice capo del Dipartimento, che hanno dimostrato una assoluta mancanza di progettualità, demotivando il personale di polizia penitenziaria che si sente quanto mai abbandonato e soprattutto inutile, in quanto - conclude - lo si vorrebbe sacrificare sull’altare della vigilanza dinamica la cui filosofia compendiabile dal controllo alla conoscenza del detenuto sta destabilizzando il sistema carcere”. Giustizia: il ministro Severino e Telefono Azzurro firmano protocollo su figli dei detenuti 9Colonne, 5 febbraio 2013 Firmato oggi pomeriggio nel carcere di Rebibbia di Roma il protocollo d’intesa, tra il Ministero della Giustizia e Telefono Azzurro, per favorire e supportare quei bambini che hanno uno o entrambi i genitori detenuti in carcere. Secondo una recente ricerca finanziata dall’Ue e svolta in collaborazione con il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, sono oltre 900mila in Europa e 95mila in Italia i bambini separati da un genitore detenuto, che ogni anno varcano la soglia di un carcere per incontrare il proprio genitore. Nel 65% delle carceri italiane l’incontro avviene in locali non adeguati e, nel 76% dei casi senza il supporto di personale specializzato per partecipare alle visite dei bambini. “Con la sottoscrizione del protocollo, il ministero della Giustizia rafforza il suo impegno a favore dei bambini e delle famiglie dei detenuti - ha dichiarato il presidente di Telefono Azzurro, Ernesto Caffo - riconoscendo il ruolo fondamentale di un servizio totalmente gratuito che la nostra associazione svolge quotidianamente in prima persona, durante e dopo il carcere, per ricostruire un tessuto sociale e familiare lacerato ed evitando traumi e sofferenze ad oltre 10mila bambini e bambine ogni anno”. È dal 1999 infatti che Telefono Azzurro promuove e realizza il progetto “Bambini e carcere”, articolato nel progetto “Nido”, per i bambini da 0 a 3 anni che possono vivere con la mamma detenuta; e nel progetto “Ludoteca”, per attenuare l’impatto con la realtà carceraria prima e durante il colloquio con i genitori, prevedendo l’allestimento di uno spazio idoneo a tale scopo. “Un pianeta spesso sconosciuto ed ignorato dalle istituzioni e dalla società civile e che invece - ha concluso Caffo - oggi più che mai deve tornare al centro dell’attenzione da parte del governo ed enti locali, anche mediante la programmazione e il coordinamento di interventi sociali ed educativi integrati”. Nel 2012 sono stati ben 10.046 i bambini e i ragazzi che hanno usufruito del progetto “Bambini e carcere”, a fronte dei circa 10mila che ogni anni visitano i genitori detenuti, con una percentuale pari dunque al 10% che si eleva al 25% rapportato ai soli istituti dove il progetto è attivo. L’anno scorso si sono dedicati al progetto di Telefono Azzurro 154 volontari di età compresa tra i 22 e i 65 anni. Modello Telefono Azzurro a tutela figli detenuti “La firma di questo protocollo secondo me è estremamente importante perché rappresenta uno strumento per rendere istituzionale ciò che può essere considerato episodico e dovuto alla situazione di un carcere più sensibile rispetto agli altri. Questo di Telefono Azzurro invece è un modello che può essere esteso e unificato ad altre situazioni”. A dirlo è stata il ministro della Giustizia Paola Severino, questo pomeriggio nel carcere di Rebibbia di Roma, durante la firma del protocollo d’intesa tra il ministero e Telefono Azzurro per confermare e rafforzare le iniziative dell’associazione a favore bambini con uno o entrambe i genitori detenuti. “La fusione di energie tra volontariato e istituzioni mi è sembrato un elemento di straordinaria importanza, i problemi si risolvono meglio se vi è questa coesione, che il protocollo renderà stabile e duratura - ha proseguito Severino che ha dichiarato di non aver mai pensato alla possibilità che un bambino in visita possa essere perquisito. Auspico che modelli come questo si possano estendere a altre carceri ed altri luoghi di detenzione, per valorizzare l’avvicinamento del detenuto alla famiglia”. E ai cronisti che, a margine dell’incontro, le hanno fatto notare che il tema della giustizia e delle carceri sia assente dal dibattito della campagna elettorale Severino ha risposto: “L’importante è che un tema come questo entri stabilmente nella vita del paese, non solo nei momenti molto stressanti come sono quelli della campagna elettorale. Io credo che l’affrontare istituzionalmente il problema delle carceri sia importante, e questo l’ho sentito dire nel dibattito politico. L’importante - ha concluso il ministro della Giustizia - è che a queste manifestazioni d’interesse segua una stabile presenza istituzionale, uno stabile riconoscimento di rilevanza da parte delle istituzioni, perché il carcere è una parte infelice e disperata del paese di cui noi tutti ci dobbiamo occupare”. Lettere: dignità in carcere vuol dire più sicurezza per tutti Avvenire, 5 febbraio 2013 Caro direttore, periodicamente torna di attualità, soprattutto in campagna elettorale, il tema del sovraffollamento delle carceri. Fioccano le proposte più disparate che mirano tutte ad affrontare il problema solo nell’immediato: sconti di pena, indulti e amnistia. Mi sembra un discorso perfino elementare: se aumenta il fabbisogno di posti in cella, liberare una parte dei detenuti è solo una misura tampone che dà una boccata di ossigeno al sistema per 3-4 anni, poi la questione inevitabilmente si riproporrà tale e quale. Considero anche fuorviante (per usare un eufemismo) il tentativo che viene fatto di presentare le misure tampone con intenti umanitari (alleviare le sofferenze indicibili dei detenuti ammassati in celle di pochi metri quadrati …) tacendo che la costruzione di nuove carceri è l’unica soluzione che può garantire condizioni di vita dignitose ai detenuti, senza mettere a repentaglio la sicurezza dei cittadini. Si dirà che la costruzione di nuove carceri richiede diversi anni e nel frattempo è indispensabile trovare qualche soluzione-tampone per affrontare l’emergenza. Ritengo che, pur nell’ambito di soluzioni provvisorie, vi possano essere alternative alla sbrigativa liberazione di una parte dei detenuti. Mi risulta che in Gran Bretagna (che, pur essendo tutt’altro che una dittatura forcaiola ha, a parità di popolazione, una popolazione carceraria quasi doppia della nostra) fin dal 1997 con il Governo Major, per fronteggiare un’emergenza simile alla nostra siano state approntate delle navi come prigioni provvisorie. In quel Paese nessun politico,di qualsiasi schieramento, si è sognato di proporre amnistie o indulti! Roberto Pesce, San Giovanni Lupatoto (Vr) Risponde il direttore, Marco Tarquinio Il suo discorso affronta una parte del problema carcerario, gentile signor Pesce, e lo fa in modo razionale. L’altra parte, sulla quale non insisteremo mai abbastanza, riguarda l’impegno per fare del tempo della reclusione un tempo di “recupero” degli uomini e delle donne condannati. L’esperienza - e i numeri con la loro eloquenza asciutta - dicono che là dove c’è formazione umana e spirituale, avvio al lavoro e lavoro propriamente detto, crollano le percentuali di ritorno al crimine. Servono, insomma, delle carceri migliori, e un carcere migliore. Per garantire - come anche lei auspica - dignità ai detenuti e sicurezza ai cittadini. Piemonte: Motta (Fdi); Consiglio regionale non nomini il Garante dei diritti dei detenuti Ansa, 5 febbraio 2013 Fratelli d’Italia chiede che il Consiglio regionale del Piemonte non nomini il garante dei detenuti, figura istituita nel 2009 e mai nominata, che potrebbe essere abolita da un progetto di legge della maggioranza di centrodestra, presentato dal capogruppo del Pdl, Luca Pedrale. L’ultima volta che l’aula di Palazzo Lascaris si espresse su questo tema, nel novembre scorso, Pdl e Lega non votarono e Michele Giovine (Pensionati) strappò la scheda, così non venne raggiunto il quorum. Domani il voto è nuovamente all’ordine del giorno dei lavori del Consiglio regionale. “Pdl e Lega - esorta il consigliere Massimiliano Motta (Fdi) - siano coerenti contro gli sprechi e gli inciuci. Il Consiglio domani non nomini il Garante dei detenuti e dia impulso alla proposta di legge che ne prevede l’abolizione. Così facendo risparmieremmo 500 mila euro l’anno, perché oltre al garante dei detenuti la proposta prevede la cancellazione dei garanti per l’infanzia e per gli animali esotici”. Motta sostiene che coloro che chiedono di essere nominati dal Consiglio regionale a questa carica sono gli stessi che hanno fatto di tutto per delegittimarlo. Bruno Mellano, esponente dei Radicali, è infatti tra i promotori - rimarca - dei ricorsi per le ineleggibilità dell’ex vicepresidente del Consiglio regionale Riccardo Molinari, (effettivamente decaduto in seguito a sentenza della Corte di Cassazione, ndr) e del sottoscritto, ed è sottoscrittore dei ricorsi contro Cota per le regionali 2010. Non vorrei che dietro la volontà di Pdl e Lega di procedere a questa nomina fortemente voluta dalle sinistre, dimenticando le posizioni espresse pochi mesi fa - conclude - ci fosse aria di inciucio. Abruzzo: Radicali; detenuto trasferito lontano da figlia esempio di “crudeltà carceraria” www.ilcorrieredabruzzo.it, 5 febbraio 2013 “Ancora una volta, proprio dalle carceri abruzzesi viene un pessimo segnale della disastrosa situazione della giustizia nel nostro Paese e delle condizioni intollerabili cui vengono sottoposti i detenuti”. È quanto si legge in una nota diffusa da parte di Rosa Quasibene e Dario Boilini, segretario e tesoriere di Radicali Abruzzo e candidati alle elezioni del 24 febbraio nella lista “Amnistia Giustizia Libertà”, a proposito del caso di Pietro D., detenuto calabrese, trasferito da pochi giorni dal carcere di Rossano a quello di Lanciano. L’uomo è padre di Tamara, una bimba di 5 anni che vive a Cosenza, gravemente malata e costretta su una sedia a rotelle, che non potrà più vedere il suo papà proprio a causa del trasferimento. “È inammissibile che lo Stato si renda responsabile di un gesto di crudeltà quale quello realizzato ai danni della piccola Tamara e di padre” hanno spiegato gli esponenti radicali “tanto più che il detenuto, dopo aver scontato cinque anni della sua pena, è prossimo alla scarcerazione, prevista per la fine dell’anno”. “Quanto sta accadendo - hanno concluso i candidati della lista Agl - è un drammatico esempio di quanto sia concreto il rischio che la pena, costituzionalmente indirizzata alla rieducazione del reo, possa finire per sortire l’effetto contrario, vale a dire quello di incattivirlo, infliggendogli sofferenze inaccettabili e, come nel caso in questione, del tutto gratuite, ben potendo il detenuto essere trasferito a Cosenza o a Rossano”. I candidati radicali abruzzesi hanno preannunciato uno sciopero della fame da parte di alcuni militanti abruzzesi, finalizzato a sostenere l’adozione del provvedimento di trasferimento del detenuto. Noto (Sr): detenuto di 42 anni s’impicca in cella, era stato trasferito lontano dalla famiglia Ristretti Orizzonti, 5 febbraio 2013 Nel 2013 sono già 6 i reclusi morti suicidi e 18 il totale dei decessi in carcere. Natale Coniglio, operaio 42 enne originario di Stilo (Rc), ieri si è tolto la vita nel carcere di Noto (Sr) in cui era detenuto, impiccandosi nella sua cella. Era stato condannato per furto e ricettazione. La famiglia dell’uomo aveva più volte fatto presente agli organi giudiziari la fragilità psicologica di Natale, e aveva anche avanzato al Tribunale di Sorveglianza formale richiesta di assegnazione alla detenzione domiciliare in una clinica specializzata per scontare il resto della pena. Il rigetto dell’istanza e il trasferimento dal carcere di Locri a quello di Noto sono stati, almeno secondo le prime ricostruzioni, la goccia che ha fatto traboccare il vaso. È stata già disposta dal magistrato incaricato l’autopsia sul corpo. Nelle carceri centocinquanta decessi l’anno, di cui oltre un terzo per suicidio I numeri forniti dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria parlano di oltre 3.000 detenuti morti negli ultimi 20 anni, dei quali circa un terzo per suicidio (vedi documento pdf allegato). Il nostro Osservatorio dal 2002 raccoglie notizie da fonti “indipendenti” rispetto all’istituzione carceraria (operatori sociali, volontari, parenti dei detenuti, etc.) ed al confronto con i dati ufficiali ci risultano, ogni anno, alcune decine di morti in più. Il motivo di questa divergenza sta nel fatto che prendiamo in considerazione anche i detenuti morti in ospedale, dopo aver tentato il suicidio in cella, o per l’esito di malattie che sono insorte o si sono aggravate durante la detenzione, o per altri avvenimenti occorsi in condizione di privazione della libertà. Il caso Cucchi è emblematico di ciò che intendiamo per “morire di carcere”: Stefano è morto fuori dalle mura penitenziarie (in una stanza dell’Ospedale “Pertini”) e ancora non è accertato se per la negligenza dei medici o per traumi contusivi subiti. Però se non fosse stato “un detenuto” molto probabilmente sarebbe ancora vivo. L’Osservatorio permanente sulle morti in carcere cerca di approfondire le cause dei decessi delle persone recluse restituendo la “dimensione umana” che le nude cifre del Ministero non possono rappresentare, a cominciare dall’età media dei suicidi: 37 anni; ma è solo poco più alta (39 anni) l’età media dei detenuti morti per malattia: nelle carceri italiane la “speranza di vita” delle persone si dimezza, rispetto a “fuori”. Gli stranieri sono il 35% della popolazione detenuta, ma quasi il 50% dei morti in carcere, nonostante i reclusi stranieri siano mediamente più giovani degli italiani. L’80% dei decessi riguarda persone condannate a meno di 3 anni, il 40% persone in attesa di giudizio, tecnicamente innocenti e in 1 caso su 2 destinate ad essere assolte… se fossero sopravvissute alla “carcerazione preventiva”. Il detenuto morto suicida ieri a Noto era segnalato come soggetto “psicologicamente fragile”, avrebbe “potuto” essere in misura alternativa, avrebbe “dovuto” essere ristretto nella Regione di residenza della famiglia. La morte, ogni anno, di 150-180 detenuti non è un’ineluttabile “effetto collaterale” dell’esecuzione della pena nelle carceri italiane, ma un pesante deficit di umanità e di legalità del nostro sistema giudiziario. Milano: Incontro e Presenza; cosa dire a Napolitano durante la sua visita a San Vittore… di Chiara Rizzo Tempi, 5 febbraio 2013 Mercoledì il presidente della Repubblica incontrerà anche i volontari nella casa circondariale milanese: “Vedrà la condizione di estremo disagio in cui vivono i 1.690 detenuti”. Mercoledì mattina il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano visiterà il carcere milanese di San Vittore. Si tratta di un’occasione rara, perché nella visita Napolitano incontrerà e parlerà con i volontari che regolarmente entrano nella casa circondariale milanese. Con 1.690 detenuti presenti in media nell’ultimo anno, di cui 1.590 uomini e 100 donne secondo l’Osservatorio Antigone, e una capienza tollerabile di 800 posti (ma i posti regolamentari sarebbero 700, ridotti a 550 per via dell’inagibilità del secondo braccio e della sezione speciale) “San Vittore è il simbolo di tutte le carceri italiane”, come spiega a tempi.it Emanuele Pedrolli, volontario nella casa circondariale dell’associazione Incontro e presenza, oggi attiva con 100 volontari in tutte le carceri milanesi e 35 a San Vittore. La visita del presidente è organizzata dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, e non se ne conoscono i dettagli: ma di certo sarà molto forte l’impatto con San Vittore, una realtà dove le associazioni di volontari fanno da contraltare a molte carenze del sistema penale e al drammatico sovraffollamento, con l’offerta di generi di prima necessità, corsi di formazione, lavoro e colloqui. Pedrolli, che realtà si troverà davanti Napolitano mercoledì? Pur non conoscendo i dettagli della visita, senz’altro ciò che gli sarà fatto vedere è la condizione di estremo disagio in cui vivono i 1.600 detenuti, in una struttura dell’800 vecchia e sfatta, con condizioni igienico-sanitarie che la fanno sprofondare. Un problema non dovuto all’amministrazione del carcere in sé, ma alla situazione italiana dove non ci sono soldi e i fondi per le carceri sono ulteriormente tagliati. Da questo punto di vista San Vittore è il simbolo delle carceri italiane, ci sarebbe moltissimo da fare e al presidente saranno fatte presenti le disfunzioni. Fatti salvi i 200-300 detenuti che lavorano all’interno per le mansioni domestiche, non ci sono cooperative di lavoro “interne”, perché è una casa circondariale con pochi spazi tutti occupati per ospitare i detenuti. Sono invece numerosi i progetti per il reinserimento lavorativo: ci sono corsi di formazione e noi di Incontro e presenza con il progetto “Cercare in carcere” ci offriamo alle aziende esterne come tutor per trovare dei detenuti sulla cui capacità e serietà garantiamo e per dare all’imprenditore informazioni sugli sgravi fiscali. Nel caso avesse l’opportunità di parlargli, come volontario cosa vorrebbe dire a Napolitano? Mi piacerebbe dirgli che accanto alle disfunzioni che ormai per fortuna sono sotto gli occhi di tutti, in carcere oggi ci sono delle persone che, grazie alla compagnia fatta dai volontari, diventano capaci di “stare in piedi” da sole. Ci sono molte persone che abbiamo incontrato nel tempo con Incontro e Presenza, che ho visto crescere responsabilmente nell’esperienza della detenzione. Gli direi che accanto al sostegno materiale che è necessario offrire ai detenuti in queste condizioni invivibili, di pari passo dev’essere offerto loro sempre un sostegno morale. Ad un detenuto si può persino dare casa o lavoro: ma ciò non basterebbe senza una trama nuova di rapporti nella realtà, perché altrimenti il detenuto torna a frequentare le compagnie che l’hanno spinto verso il carcere. C’è qualche storia che racconterebbe come esempio? Ci sono dei detenuti che sono rimasti a fare i volontari nella nostra associazione. Noi cerchiamo di dare in carcere quel poco di aiuto materiale che possiamo. A San Vittore curiamo il progetto “Dignità”, con l’offerta gratuita di generi di prima necessità, compresi biancheria e abiti nuovi o usati per i detenuti, che spesso entrano in carcere davvero solo con l’abito del giorno dell’arresto. L’aspetto che caratterizza di più il nostro volontariato in carcere, dati gli scarsi strumenti per rispondere a tutti i 1500 detenuti, è l’offerta della nostra amicizia. È grazie a questa che un ex detenuto, Salvatore, malato di Aids “negativizzato” (non infettivo) che ha scontato la sua pena, ha deciso di offrirsi per gli altri carcerati occupandosi del nostro magazzino esterno per il vestiario del progetto “Dignità”. Lavora lì per rendersi utile. Direi questo a Napolitano per ricordargli che accanto al sostegno delle infrastrutture, vanno sostenute quelle realtà del privato sociale che in carcere stanno lavorando per la riscoperta dell’umanità, anche solo attraverso un’amicizia. Brescia: esposto alla Corte di Strasburgo per denunciare condizioni disumane dei detenuti www.quibrescia.it, 5 febbraio 2013 Un esposto alla Procura di Brescia e alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo per denunciare le condizioni disumane dei detenuti a Canton Mombello. L’ha presentato un 50enne bergamasco, in regime di custodia cautelare nella casa circondariale di Brescia, che, attraverso il suo legale, Massimiliano Battagliola, lo ha fatto depositare lunedì mattina negli uffici del palazzo di via Gambara e inviato alla Corte di Strasburgo. L’uomo, da circa un anno dietro le sbarre, è stato trasferito in isolamento. Quindi, con altri due compagni di cella ha chiesto il trasferimento in un’altra stanza a causa “dell’incompatibilità ambientale con un detenuto extracomunitario con il quale si erano già manifestati problemi ed alterchi”. Il detenuto è stato nuovamente spostato nella cella 8 definita “di punizione” in cui si trovava un quarto detenuto di origini albanesi con gravi problemi psichici certificati che, dopo aver frugato nei sacchi dell’immondizia adibiti a custodia del vestiario di chi scrive e degli altri due, estraeva le lamette da barba tagliandosi su tutto il corpo per poi recuperare il proprio sangue in un bicchiere di plastica e dipingere la cella”. Ma non si tratta solo di questa situazione. Il 50enne bergamasco ha denunciato anche situazioni che “appalesano il trattamento incivile e disumano grave pericoloso e invivibile” cui è sottoposto nel regime di detenzione. Nella cella manca tutto: scaffali per sistemare gli effetti personali, il frigorifero, mentre il bagno, utilizzato da tutti e quattro i compagni di cella, è privo di porta e lo scarico del water è guasto. Anche le dimensioni della stanza sono giudicate disumane: 15 metri quadrati per quattro persone. Il detenuto ha chiesto che venga effettuata un’ispezione per verificare quanto dichiarato nell’esposto presentato. Trento: Consiglio provinciale rinvia dibattito su istituzione Garanti per detenuti e minori Ansa, 5 febbraio 2013 Dopo una lunga discussione, il Consiglio provinciale di Trento ha sospeso e rinviato alla prossima seduta, prevista in marzo, l’esame del disegno di legge sul difensore civico. La decisione di sospendere la trattazione del testo è stata presa dalla maggioranza e comunicata dal primo firmatario del provvedimento dopo la sospensione dei lavori. Motivo della scelta è “dare ai consiglieri il tempo di superare le divergenze e trovare un accordo in merito agli emendamenti presentati per introdurre nel disegno di legge le figure del garante dei detenuti e del garante dei minori, da incardinare nell’ufficio del difensore civico ma indipendenti da esso”. Per bloccare il provvedimento la Lega Nord aveva presentato circa 300 emendamenti. I lavori del Consiglio proseguono con l’esame delle mozioni. Occasione sprecata, di Matteo Civico La destra leghista con la complicità dell’Italia dei Valori, in tema di carcere e detenuti, ha oggi svelato tutta la sua idea di giustizia: garantista con il suo capo Essebi e giustizialista con i poveracci. Della serie rinchiudere e buttare la chiave. La sfida invece è recuperare alla legalità le persone detenute. E per fare questo è necessario investire in percorsi di legalità e di riconoscimento del diritto allo studio, al lavoro, alla salute…. Mentre l’Europa ci sanziona per come trattiamo i detenuti, mentre i dati sul sovraffollamento e il numero di suicidi ci raccontano di una situazione allarmante, mentre non vi sono concrete garanzie di rispetto dei diritti fondamentali e la nostra Costituzione viene quotidianamente smentita nella realtà, la destra leghista con la complicità dell’Italia dei Valori, affossa la riforma della difesa civica che prevedeva tra l’altro l’istituzione del garante dei detenuti, figura prevista già in 22 paesi europei, 14 Regioni, 7 Provincie, 20 Comuni. Particolarmente stucchevole la posizione dell’Italia dei Valori, che a livello nazionale candida nelle liste Ingroia Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, morto in carcere e che nei programmi esplicita il proprio impegno per l’umanizzazione delle carcere, e che in Trentino ha un esponente che evidentemente non riesce a trovare una sua posizione di coerenza e si rende concretamente complice dell’affossamento della proposta di istituire il garante dei detenuti. I cittadini hanno dunque ora un quadro più chiaro che pone da una parte coloro che hanno a cuore i diritti dei più fragili, che si impegnano nei fatti per un carcere più giusto e per la promozione di misure alternative (vero e unico strumento di contrasto alla recidiva) e dall’altra Lega e Italia dei Valori (lista Ingroia) che hanno fatto di tutto per confermare l’attuale situazione delle nostre carceri che di fatto è di illegalità diffusa. Giustizialismo, cieco livore, basso istinto di rancorosa vendetta non sono gli ingredienti per un’Italia migliore. Riconoscimento dei diritti, investimento in percorsi di recupero, conferma della dignità di ogni persona, riferimento alla nostra Carta costituzionale sono l’unica rotta possibile per un’Italia Giusta. Agli elettori la scelta. Genova: il Sappe chiede ispezione del Dap al carcere di Chiavari e sostituzione direttore Adnkronos, 5 febbraio 2013 La situazione di tensione sindacale che si registra nel carcere di Chiavari resta alta, nonostante l’Amministrazione penitenziaria ne sottovaluti le conseguenze”. È quanto afferma Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe. “Abbiamo oggi inviato una dettagliata nota all’Amministrazione Penitenziaria centrale, nella persona della Vice Capo Vicario Simonetta Matone - prosegue Capece - per segnalare le gravi criticità organizzative dell’istituto e chiedere con urgenza una ispezione. È un dato di fatto che non vi è serenità lavorativa nella struttura, per cui chiediamo di avvicendare i vertici dell’istituto - direttore e comandante - che evidentemente non hanno nella sede chiavarese stimoli professionali adeguati alla loro aspettative. Per questo abbiamo dato mandato al nostro Studio legale di valutare tutte le azioni da intraprendere anche in sede penale per tutelare l’onorabilità del primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, il Sappe, i suoi rappresentanti ed iscritti”. ‘Vogliamo trasparenza su come viene distribuito il monte ore del lavoro straordinario - prosegue il sindacalista - soprattutto in relazione a chi lavora in ufficio, e su come vengono assegnate le persone nei posti di servizio della direzione, visto che si esula dal confronto sindacale; chiarezza sui rapporti disciplinari fatti - guarda caso - contro iscritti e dirigenti sindacali del Sappe; sapere cosa è stato fatto per contrastare recenti atti di vandalismo consistenti nel danneggiamento degli armadietti di alcuni nostri iscritti, della nostra bacheca sindacale, di nostri volantini etc., in occasione e successivamente alle critiche abbiamo manifestato in materia di organizzazione e di sicurezza del lavoro”. “Chiediamo dunque all’Amministrazione Penitenziaria centrale di mettere in atto ogni necessaria iniziativa per l’accertamento di tutti questi fatti e per l’individuazione degli autori dei danneggiamenti, affinché l’attività sindacale del Sappe possa liberamente estrinsecarsi; anche valutando l’operato della Direzione del carcere che, informato su quanto accaduto, non sembra aver avuto la necessaria attenzione alla gravità dei fatti”, conclude il segretario generale del Sappe. Parma: Sappe; evasione dal carcere… in via Burla il sistema di vigilanza è carente di Alice Pisu Parma Today, 5 febbraio 2013 Intervista al responsabile Sappe Emilia Romagna dopo la fuga dei due detenuti albanesi dal carcere di Parma: “Situazione critica in tutta la regione, istituire una Commissione di controllo”. A tre giorni dall’evasione di due detenuti albanesi dall’istituto penitenziario di via Burla, il responsabile Sappe Emilia Romagna Giovanni Battista Durante non intende ascoltare in silenzio le polemiche avanzate da istituzioni e opinione pubblica sulle responsabilità da parte del personale del carcere. Ferma la sua posizione circa l’assenza di responsabilità interne, Durante ha avviato una battaglia sindacale per mettere alla luce la situazione critica nella quale il personale penitenziario lavora. “Al di là dei singoli episodi - sottolinea Durante - c’è scarsissima attenzione ai problemi legati alla sicurezza. Si sente parlare di indulto, di sovraffollamento, ma mai del problema sicurezza. Le carceri sono strutture sensibili dove è necessario che il sistema di sicurezza funzioni in modo ottimale. Nel carcere di via Burla ad esempio il sistema di vigilanza esterna è carente, ci dovrebbero essere 8 agenti sentinella invece ce ne sono solo 2, dovrebbe esserci una pattuglia esterna di controllo ma non c’è per carenza di personale. Manca un sistema funzionante anti intrusione e anti scavalcamento, davanti a tutto questo è difficile poter scongiurare fenomeni come quello accaduto pochi giorni fa”. Come segretario generale aggiunto e responsabile Sappe Emilia Romagna, Durante ha effettuato controlli a campione nelle altre carceri del territorio regionale, verificando come ci siano gravi problemi anche nelle altre carceri. “Nel carcere di Ferrara - sottolinea Durante - la situazione è critica, non funzionano i sistemi di sicurezza ed è previsto l’arrivo di 6 terroristi in quell’istituto”. Tra le emergenze quella relativa proprio alla carenza di personale, che a livello nazionale riguarda 7500 persone in meno, mentre a livello regionale 650. Numeri che non rispecchiano a pieno le carenze della situazione attuale perché sono riferiti a una previsione ministeriale risalente al 2001, quindi quando c’era un numero inferiore di detenuti. Una carenza di personale che si riflette, come ha sottolineato Durante, anche sul controllo stesso dei detenuti. “Se il sistema anti intrusione anti scavalcamento funziona, i sensori inviano un segnale controllabile anche dai monitor della sala controllo video presente nel carcere. Ma spesso manca personale che stia a controllare gli schermi. Un paese che funziona non può permettere che accadano queste cose. Si parla dell’apertura di nuove carceri ma questo deve comportare un implemento del personale, altrimenti non ha alcun senso”. Tra le richieste di cui il segretario Sappe si fa portavoce la necessità di garantire che in tutte le carceri funzionino i sistemi anti intrusione anti scavalcamento, avviare controlli serrati per verificare il corretto funzionamento dei sistemi di sicurezza in tutte le carceri anche attraverso l’istituzione di una commissione apposita e implementare il numero del personale in modo da garantire una presenza costante senza lasciare punti scoperti che diventerebbero sensibili sfociando in episodi gravi come quello del 2 febbraio scorso. Catanzaro: Radicali; detenuto di 77anni non è socialmente pericoloso, ma resta in carcere Ristretti Orizzonti, 5 febbraio 2013 Cosa ci fa in Carcere un uomo di 77 anni? Se lo è chiesto l’Ecologista Radicale Emilio Enzo Quintieri quando, nelle scorse settimane, insieme al Vice Presidente del Consiglio Provinciale di Catanzaro Emilio Verrengia ed al Senatore della Repubblica Francesco Ferrante (Pd) si è recato presso la Casa Circondariale di Catanzaro Siano prima per raccogliere le sottoscrizioni dei detenuti per la presentazione della Lista “Amnistia, Giustizia e Libertà” e poi per effettuare una Visita Ispettiva in tutto l’Istituto Penitenziario. L’ultrasettantenne infatti, così come molti altri detenuti ristretti in quel Penitenziario, ha voluto sottoscrivere la Lista Radicale promossa dall’On. Marco Pannella. Mentre il cetrarese Quintieri, provvedeva ad annotare le sue generalità rimaneva stupefatto nel rilevare, appunto, la sua età avanzata e chiedeva a quell’anziano detenuto, apparso visibilmente stanco e molto provato, per quale motivo si trovava in carcere. Nella stanza oltre al radicale ed al Consigliere Verrengia vi era presente il personale della Polizia Penitenziaria ed il Comandante del Reparto, il Commissario Aldo Scalzo. Quest’uomo, G.B.B., classe 1936, rispondeva che era stato arrestato dalla Polizia di Stato della Questura di Catanzaro perché sorpreso ad irrigare una piantagione di marijuana e perché, in una baracca, situata nelle vicinanze della piantagione era stato trovato un fucile calibro 12 rubato nel 1991 con 105 cartucce per fucile di vario calibro. Subito dopo il candidato Deputato Emilio Enzo Quintieri chiedeva al detenuto settantasettenne, più precisamente, quale fosse la pena residua che avrebbe ancora dovuto espiare. “il mio avvocato dice che mi manca solo un anno da fare e poi ho finito.”. Questa vicenda ha dell’incredibile. Non è possibile che una persona di 77 anni debba espiare la sua pena in un Carcere come quello di Catanzaro Siano che, tra l’altro, è gravemente sovraffollato e pieno di criticità. Questo signore non è stato condannato per reati di particolare allarme sociale e non mi pare che sia pericoloso anzi, credo che nelle sue condizioni, sia del tutto innocuo e che quindi potrebbe ottenere la concessione del beneficio della detenzione domiciliare anche perché, l’Art. 47 ter dell’Ordinamento Penitenziario - afferma l’Ecologista Radicale Emilio Enzo Quintieri - stabilisce che la pena della reclusione per qualunque reato, eccetto quelli ostativi previsti dall’Art. 4 bis, può essere espiata nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza ed accoglienza, quando trattasi di persona che, al momento dell’inizio dell’esecuzione della pena, o dopo l’inizio della stessa, abbia compiuto i 70 anni di età purché non sia stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza e non sia stato mai condannato con l’aggravante di cui all’Art. 99 del Codice Penale. Anzi, al condannato al quale sia stata applicata anche la recidiva prevista dall’Art. 99 può essere concessa la detenzione domiciliare se la pena detentiva inflitta, anche se costituente parte residua di maggior pena, non supera i 3 anni. Nel nostro caso il detenuto G.B.B. avrebbe da scontare ancora solo 12 mesi di reclusione e potrebbe beneficiare anche della Legge nr. 199/2010 così come modificata dalla Legge nr. 9/2012 conosciuta meglio come “Legge Svuota Carceri” che, proprio per ridurre il sovraffollamento carcerario, ha previsto la possibilità che le pene non superiori a 18 mesi possano essere eseguite presso il proprio domicilio. Non capisco dunque - prosegue il candidato alla Camera dei Deputati per la Lista “Amnistia, Giustizia e Libertà” - per quale motivo questa persona ultrasettantenne, non socialmente pericolosa, debba restare ancora in Carcere. Mi auguro che la Dott.ssa Angela Paravati, Direttore del Carcere di Catanzaro Siano, indipendentemente dalla richiesta del detenuto o del suo difensore, segnali questa situazione all’Ufficio del Magistrato di Sorveglianza di Catanzaro affinché quest’ultimo possa esaminare e valutare con tempestività la concessione in favore di G.B.B. della misura alternativa della detenzione domiciliare revocando quella inframuraria a cui si trova sottoposto. Sarebbe del tutto assurdo oltre che inumano ed incivile - conclude il radicale Emilio Enzo Quintieri - che questo anziano continui a restare in prigione, specie in quella di Catanzaro nella quale a fronte di una capienza regolamentare di 354 posti vi sono attualmente rinchiuse 569 persone detenute. Tolmezzo (Ud): sospeso per sei mesi l’agente penitenziario implicato nella tentata evasione Messaggero Veneto, 5 febbraio 2013 Sospensione per sei mesi dal servizio in attesa che le indagini preliminari si concludano e si chiariscano definitivamente le responsabilità. Questa la decisione del Gip, Fabio Luongo di Tolmezzo in merito alla misura cautelare chiesta dalla Procura del capoluogo carnico nei confronti della guardia penitenziaria di 47 anni, domiciliata ad Artegna ma originaria di Sutrio, accusata di aver collaborato con la banda che stava organizzando l’evasione di due detenuti dal super carcere di Tolmezzo. Per l’agente, difeso dall’avvocato Maurizio Piazzotta del Foro di Tolmezzo, quindi è arrivata la sospensione dal servizio, nonostante lo stesso agente la scorsa settimana, proprio davanti al Gip, avesse negato ogni addebito. In particolare il procuratore Giancarlo Buonocore, coadiuvato dai carabinieri dei Ros, chiama la guardia a rispondere in concorso con altre persone dell’introduzione di droga e coltelli all’interno del carcere di massima sicurezza. Secondo l’accusa l’agente era stato corrotto da Romolo Alfieri, 63 anni residente nel Milanese e fratello di Maurizio, detenuto appunto a Tolmezzo, e da Daniele Crivello, un ventenne residente nel trevigiano e fratello di Salvatore, di 13 anni più vecchio, anch’esso detenuto in Carnia. Proprio verso i due carcerati Alfieri e Crivello avevano organizzato un traffico di droga e armi che aveva come punto fermo, sempre secondo l’accusa, la guardia penitenziaria carnica. Che però ha sempre negato qualsiasi coinvolgimento nella banda, che aveva anche come obiettivo finale l’organizzazione della fuga dei due detenuti addirittura utilizzando un elicottero. Gli altri due accusati hanno invece presentato ricorso al tribunale del Riesame contro i due obblighi di dimora. Parma: Ilaria Cucchi (Rivoluzione Civile) domenica sarà in città per parlare di carceri www.parmaonline.info, 5 febbraio 2013 Ilaria Cucchi, candidata alla Camera per Rivoluzione Civile, sarà domenica 10 febbraio a Parma. In queste ore la sorella di Stefano, il giovane morto in ospedale dopo essere stato arrestato, è stata oggetto di un duro attacco da parte di Carlo Giovanardi del Pdl, che ha sostenuto che Ilaria Cucchi “sta sfruttando la tragedia del fratello”: dichiarazioni choc alla quali la candidata ha risposto annunciando una querela. L’ex sottosegretario già al momento della morte di Stefano Cucchi aveva pronunciato frasi discutibili, sostenendo che il giovane era deceduto “perché drogato” e non per i maltrattamenti di cui è stato fatto oggetto. La candidata sarà a Parma per parlare anche della situazione delle carceri. “L’evasione di due detenuti dal carcere di massima sicurezza di Parma, non può e non deve far dimenticare quale sia la vera e propria emergenza carceri - si legge in una nota di Rivoluzione Civile - le condizioni disumane di vita dei detenuti, a causa di un sovraffollamento che non ha riscontro in tutto il resto dell’Europa: 142,5% per quanto riguarda l’Italia contro il 99,6% della media europea. A questo triste primato non si sottrae neppure la Regione Emilia Romagna e il carcere di massima sicurezza di Parma. A ciò si aggiunge la carenza sempre più grave del personale di custodia che dunque è costretto a sostenere carichi di lavoro intollerabili. L’ultimo rapporto dell’Associazione Antigone documenta come il numero di detenuti che al 31.12.2009 era di 64.791, al 31.10.2012 era addirittura cresciuto a 66.685, malgrado l’entrata in vigore, nel 2010, della così detta legge svuota-carceri. Le conseguenze di questo stato di cose sono drammatiche: 93 detenuti morti in carcere nei primi 11 mesi del 2012, di cui 50 suicidi. Ma nel 2012 si contano anche 8 suicidi di appartenenti al corpo di Polizia Penitenziaria. E proprio a causa del sovraffollamento, in un clima generale di violenza, vanno collegate le proteste all’interno delle strutture, scioperi della fame, 6.628 nel 2011, rifiuto del vitto (1.179), danneggiamenti di oggetti (529), atti di autolesionismo, 6 casi a Parma proprio all’inizio del 2013. E si tenga conto che oltre il 40% dei detenuti è in custodia cautelare, in attesa di giudizio. Occorrono dunque non misure occasionali di svuotamento-carceri, ma misure radicali e strutturali di depenalizzazione, decarcerizzazione, umanizzazione della pena con misure alternative alla detenzione (inutile ricordare che Parma su questo piano vanta una tradizione che andrebbe rivalorizzata al massimo). Rivoluzione Civile, anche per voce del candidato premier Antonio Ingroia, sostiene e si batterà per questi obiettivi”. Bologna. Uil-Pa; alla Dozza direzione a giorni alterni e neanche il Comandante è stabile Dire, 5 febbraio 2013 Come se non bastassero i problemi di sovraffollamento e di carenza di agenti, il carcere della Dozza di Bologna è gestito “a giorni alterni”. Ad affermarlo è Domenico Maldarizzi, coordinatore provinciale della Uil penitenziari: alla Dozza “tornano i fantasmi del passato”, quando “si alternavano direttori e comandanti”. Nel giro di “pochi mesi” l’ex direttrice Ione Toccafondi è andata in pensione, le due vicedirettrici sono state trasferite “e al loro posto è arrivata la Maria Benassi - spiega il sindacalista- già direttrice della casa circondariale di Rimini, prossima al pensionamento, alla quale è stata affidata la direzione della Dozza a giorni alterni”. Inoltre, da qualche giorno “anche al comandante commissario Roberto Di Caterino è stato affidato il comando degli istituti penali di Parma per almeno quattro giorni alla settimana - continua la nota - lasciando ad un solo giorno la gestione della Dozza”. Per la Uil è “insensata la scelta dell’amministrazione centrale e regionale di abbandonare in questo modo l’istituto Bolognese- recita la nota- con 900 detenuti (1.200 fino a poco tempo fa) e con 400 agenti (con una carenza di un centinaio di unità)”. Al contrario, “crediamo che la Dozza meriti più rispetto da parte dell’amministrazione centrale e regionale”, afferma Maldarizzi, perché “un istituto del genere ha bisogno sicuramente di una continuità giornaliera e non lo si può gestire a giorni alterni”. Tutto ciò con il tempo “genererà gravi disagi alla Dozza - avverte Maldarizzi - sia al personale di Polizia penitenziaria, sia alla popolazione detenuta”. In una nota inviata al Dap ed al Provveditorato regionale, conclude Maldarizzi, la Uil penitenziari “ha chiesto di rivedere immediatamente tali scelte e di affidare la Dozza ad un direttore ed un comandante in pianta stabile”. Varese: detenuto si ribella, calci e pugni agli agenti della Polizia penitenziaria Asca, 5 febbraio 2013 Si è ribellato agli agenti della Polizia Penitenziaria che lo stavano riportando in cella dopo il colloquio con i parenti. Calci, pugni e schiaffi ai due agenti che in quel momento lo stavano perquisendo per verificare che non fossero stati ceduti oggetti vietati durante l’incontro con i familiari. Questa la motivazione per cui un detenuto italiano di 22 anni al carcere Miogni di Varese è stato deferito alla magistratura. L’accusa quella di lesione e resistenza a pubblico ufficiale. Il giovane si trova in carcere per numerosi reati collegati alla droga, nonostante la sua giovane età, e pare che abbia dimostrato più di una volta la sua indole violenta. La vicenda è accaduta sabato al carcere varesino, ma la notizia si è diffusa solo nella giornata di ieri. I due agenti sono stati medicati al Pronto Soccorso dell’ospedale di Circolo. Uno dei due ha riportato lesione al volto a causa dei pugni ricevuti ed entrambi hanno avuto una prognosi di dieci giorni. Immigrazione: Ghedini (Pd); chiudere Cie e abrogare reato di immigrazione clandestina Dire, 5 febbraio 2013 “I Centri di identificazione e espulsione devono essere superati, con una svolta culturale e legislativa, riducendone la funzione esclusivamente all’identificazione del migrante”. È l’appello che arriva da Rita Ghedini, candidata Pd in Emilia-Romagna per il Senato, che in una nota annuncia “una nuova norma sulla cittadinanza per i figli degli immigrati nati e cresciuti in Italia” entro i primi 100 giorni della prossima legislatura. Ghedini esprime approvazione per la Campagna che la Garante regionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Desi Bruno, sta portando avanti per chiudere i Cie. L’ultimo affondo risale a poche ore fa, quando Bruno ha fatto notare che un sindaco potrebbe chiudere il Cie invocando l’esistenza di una emergenza di carattere sanitario. Per Ghedini il fallimento dei Cie dimostra “tutti i limiti delle politiche securitarie del centrodestra”. La questione, sostiene la senatrice, “va affrontata a livello legislativo” e per questo, ricorda, il Pd ha preparato “una proposta di riforma sull’immigrazione e sul diritto d’asilo”. Se da un lato occorre modificare il funzionamento della procedura del diritto d’asilo, dall’altro è necessario “abrogare il reato di immigrazione clandestina - afferma Ghedini - rivedere i requisiti per i ricongiungimenti familiari e modificare la durata dei permessi per rendere più stabili i soggiorni dei migranti”. I Cie, conclude la senatrice democratica, “vanno superati con una svolta culturale e legislativa, con una riforma complessiva capace di assorbire e prevenire l’immigrazione irregolare e contrastare quella clandestina”. Zampa (Pd): Bologna inauguri stagione chiusura centri “La chiusura del Cie di Bologna sia la prima di una serie di chiusure”. A spronare il sindaco Virginio Merola a emanare un’ordinanza di carattere sanitario che metta fine all’esperienza del centro di identificazione del capoluogo emiliano è la deputata uscente, ricandidata dal Pd alla Camera, Sandra Zampa. Del resto, quando la garante dei detenuti dice che per ragioni di carattere sanitario il primo cittadino può chiedere la chiusura della struttura, “non esprime un’opinione- ricorda la parlamentare- ma indica un dato di fatto”. Quindi, avanti tutta con un passaggio preventivo in sede Anci. “Il sindaco prenda questo provvedimento, che è bene che venga assunto dopo che Merola ha illustrato la questione all’Anci”, precisa Zampa. “Sarebbe bello - aggiunge - che tutti i sindaci delle città governate dal centrosinistra dicessero al ministro (dell’Interno, ndr), Anna Maria Cancellieri, che non intendono tenere nelle loro città strutture come quelle, veri e propri lager”. Insomma, Bologna non combatta da sola la battaglia per la chiusura dei Cie. “Si mettano d’accordo tutti i sindaci, di cui Graziano Delrio è il presidente, e facciano una battaglia con la ministra e dicano che soldi degli italiani non vanno usati per fare quella roba lì. Non è buonismo, ma rispetto della dignità degli essere umani: le politiche per l’immigrazione sono un’altra cosa”, ribadisce la parlamentare. Non solo. Il mantenimento in vita dei Cie così come sono è “uno spreco di risorse”. Zampa prende ad esempio la situazione di Bologna, dove il numero degli stranieri detenuti è costantemente diminuito. “Se ci sono molte meno delle persone di quelle che una struttura può contenere, i gestori risparmiano sui costi fissi- spiega- a Bologna, per esempio, mi risulta che alcuni giorni fa ci sia stato un momento in cui non c’erano medici e infermieri. Per risparmiare si toglie loro anche l’essenziale. Quando abbiamo visitato la struttura di via Mattei lo abbiamo constatato: erano meno del solito, ma in condizioni peggiori del solito”. E poi, conclude la democratica, la commissione De Mistura prevedeva “tutt’altre condizioni” per il fermo amministrativo, che avrebbe dovuto essere della durata massima di trenta giorni. “Gli italiani che con le proprie tasse finanziano dei lager”, chiosa Zampa. “È nei poteri del sindaco un’ordinanza di carattere sanitario che intimi al Ministero degli Interni di intervenire per risolvere la situazione”, conferma il capogruppo in Comune del Pd, Sergio Lo Giudice, ricordando come in passato il sindaco Sergio Cofferati abbia preso un’iniziativa analoga per il carcere della Dozza, che “portò ad un intervento economico del governo”. In ogni caso, aggiunge Lo Giudice, “sarà il sindaco a valutare l’opportunità di un’ordinanza del genere: certo è che la situazione della struttura di via Mattei è totalmente al di sotto della decenza. Si mettono in campo comportamenti inumani e degradanti che se conosciuti potrebbero provocare un’ulteriore sanzione all’Italia da parte dell’Unione Europea”. Sel: il Sindaco può chiudere il Cie di Bologna? allora parliamone “Ho appena chiesto un’udienza conoscitiva sulla questione: se è vero che esiste un’emergenza per la salute pubblica e che il sindaco potrebbe chiudere i Cie, vogliamo vederci chiaro”. Dalla sua pagina Facebook promette battaglia la consigliera comunale vendoliana Cathy La Torre (Sel), che ha colto al balzo la palla passata dalla Garante regionale per i diritti delle persone private della libertà personale, Desi Bruno. La Garante, oggi, ha nuovamente esortato a chiudere il Cie e lo ha fatto chiamando direttamente in causa il sindaco Virginio Merola, che in quanto autorità di pubblica sicurezza potrebbe disporre la chiusura del Cie a fronte di un’emergenza sanitaria. “I Cie vanno chiusi - sottolinea La Torre - vorrei che il prossimo Parlamento partisse da questo punto”. Da un lato, per la vendoliana, portano una “lesione dei più basilari diritti umani”, dall’altro “costano una fortuna e non servono a niente” visto che “soltanto il 12% dei trattenuti viene effettivamente riconosciuto e una percentuale ancora più bassa poi viene espulso attraverso l’accompagnamento alla frontiera”. Prefetto Tranfaglia dispone lavori straordinari al Cie di Bologna Il Prefetto di Bologna Angelo Tranfaglia, “acquisita l’autorizzazione del Ministero dell’Interno agli interventi di straordinaria manutenzione del Centro di identificazione ed espulsione di via Mattei richiesti dalla Prefettura in relazione ai profili strutturale e igienico-sanitario, ha disposto l’immediato avvio delle procedure finalizzate alla più tempestiva esecuzione dei lavori occorrenti, chiedendo al Provveditorato Interregionale delle Opere Pubbliche di darvi corso con urgenza”. È quanto si legge in una nota della Prefettura. Immigrazione: nel Cie di Ponte Galeria a Roma anche profughi diniegati Nord Africa Redattore Sociale, 5 febbraio 2013 Visita “politica” della campagna LasciateCIEntrare nel Centro di identificazione e di espulsione (Cie) più grande d’Italia. Oggi una delegazione di oltre 30 persone è entrata nel centro di detenzione amministrativa di Ponte Galeria, dove al momento sono trattenuti 135 uomini e 55 donne, di cui la maggioranza sono nigeriani: 75 uomini e 35 donne. Per la prima volta è entrata in un Cie anche Ilaria Cucchi, candidata alle elezioni politiche per Rivoluzione Civile. Con lei un altro candidato, Roberto Natale, ex presidente del sindacato dei giornalisti e oggi tra le fila di Sel. Mai una delegazione così vasta di componenti delle forze politiche e della società civile era entrata in un Cie. A coordinare l’iniziativa la referente della campagna Gabriella Guido. Fra gli altri membri della delegazione c’erano giornalisti, attivisti e avvocati, tra cui i legali dell’Asgi, il documentarista etiope Dagmawi Yimer, Grazia Naletto dell’associazione Lunaria, Anna Lodeserto di European Alternatives, Stefano Galieni di Rifondazione Comunista. Sbarre alte cinque metri, sorveglianza continua, camerate da quattro o sei posti, con i bagni alla turca e le docce chiuse con teli di plastica nera come quelli dei sacchi della spazzatura. È questo lo scenario che si è presentato all’interno dell’area in cui sono internate le donne straniere senza permesso di soggiorno. La campagna LasciateCIEntrare è nata nel 2011 per chiedere trasparenza nell’accesso dei giornalisti e della società civile a queste strutture, dove si può stare rinchiusi fino a 18 mesi senza avere commesso un reato penale. Con il documento “Mai più Cie”, la mobilitazione chiede ora la chiusura di tutti i Cie italiani perché ledono i diritti umani. Il gruppo di osservatori è entrato a Ponte Galeira grazie all’accompagnamento dei dirigenti della prefettura e della questura e ha rivolto numerose domande ai responsabili della struttura, che sorge di fianco alla Fiera di Roma. La visita si è svolta prima nella sezione femminile e poi in quella maschile. Fra le donne, anche molte cinesi che hanno raccontato di essere finite nel Cie dopo essere state truffate con la sanatoria. Avrebbero pagato anche 3000 euro ai mediatori cinesi per un contratto di lavoro che poi non hanno ottenuto. Una reclusa cinese ha detto di aver lavorato a Empoli in nero in un’azienda cinese che produceva scarpe e di essere stata sfruttata lavorando 16 ore al giorno, dormendo all’interno della fabbrica e pagata a cottimo, a seconda del numero di scarpe confezionate al giorno, con un salario giornaliero di circa 30 euro. Nella sezione maschile, al di sopra delle sbarre sono stati messi dei pannelli lisci e trasparenti per impedire le fughe dal tetto. In quest’area non è stato consentito l’accesso per il timore di disordini. La delegazione ha potuto parlare con i reclusi attraverso le sbarre. La maggioranza sono nigeriani inviati a Roma dalle questure del resto d’Italia perché dall’aeroporto di Fiumicino partono i voli dell’agenzia europea Frontex per i rimpatri in Nigeria. Fra loro, anche alcuni giovani provenienti dalla Libia che fanno parte delle migliaia di profughi dell’emergenza Nord Africa, giunti a Lampedusa nel 2011. Come O. E. che ha urlato la sua disperazione per essere rinchiuso nel Cie da tre settimane, dopo essere stato fermato a Padova. “Non mi fido dell’Italia, non credo a quello che mi dicono qui - ha detto il giovane nigeriano - voglio parlare con un giornalista americano!”. Secondo il suo racconto, lavorava regolarmente in Libia ed è arrivato a Lampedusa il 29 aprile del 2011. Ha ricevuto il diniego alla richiesta di asilo, come molti altri nigeriani. Il ragazzo sostiene di non aver potuto presentare ricorso perché non aveva i soldi per pagare un avvocato. La visita si è conclusa dopo una breve permanenza nell’area antistante la recinzione della sezione maschile. In pochi minuti, la presenza di persone e telecamere ha fatto scaldare gli animi e i trattenuti hanno cominciato a protestare, cercando di fare sentire la propria voce e la propria storia, a volte anche sventolando documenti e fogli di carta per provare quello che dicevano. I reclusi hanno lamentato anche la mancanza di acqua calda nelle docce. Circostanza confermata dal direttore del Cie. La motivazione sarebbe nei guasti all’impianto idraulico causati anche durante le proteste e le lentezze dell’amministrazione pubblica nel procedere alle riparazioni. Il costo pagato dallo Stato alla cooperativa Auxilium che gestisce il Cie è di 41 euro a persona al giorno. Ma di questi, la gran parte copre i costi del personale. Solo7 euro al giorno restano per garantire vitto e alloggio agli internati. Immigrazione: reclusi nei Cie… senza un perché di Susanna Marietti (Associazione Antigone) Il Manifesto, 5 febbraio 2013 Le condizioni disumane di vita nel Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria, a Roma. Rotto l’isolamento dei migranti rinchiusi, grazie alla campagna LasciateCIEntrare. Ci hanno lasciati entrare. Eravamo un bel numero, una trentina, ieri mattina dentro il Centro di Identificazione ed Espulsione di Ponte Galeria a Roma. Giornalisti, candidati al Parlamento quali Ilaria Cucchi e Roberto Natale, rappresentanti di associazioni che hanno aderito alla campagna LasciateCIEntrare, coordinata da Gabriella Guido e nata nell’aprile 2011 all’indomani della circolare con cui l’ex ministro Maroni voleva impedire l’ingresso agli organi di informazione nei Centri della detenzione amministrativa per stranieri. Ieri ci hanno lasciati entrare, ma è troppo poco. Là dentro bisogna tornarci. E bisogna tornarci una, due, cento volte. E bisogna tornarci tutti. Ci deve tornare il prossimo Parlamento, che appena insediato deve dimostrare di saper mettere la tutela dei diritti umani al centro della propria attività. LasciateCIEntrare si rivolge a tutte le forze politiche affinché prendano un impegno specifico riguardo i Cie, nella ricerca di soluzioni che vadano verso la loro chiusura e nello studio di nuove modalità di identificazione dello straniero. “We don’t want to stay here”, urlava aggrappato alle maglie della grata un ragazzo nigeriano circondato dai compagni. Tutti urlavano. Che mancava l’acqua, che non sapevano perché si trovavano lì, che i documenti li avevano in regola. Scuotevano le inferriate lanciandoci i loro messaggi e sperando che noi potessimo fare qualcosa per loro. “Perché voi siete liberi e a noi ci trattano così?”, ha gridato un uomo. Ma la domanda è rimasta schiacciata sulla cancellata che ci divideva. Che ne so perché? Non c’è alcun motivo. Le stanze degli uomini non ce le hanno fatte vedere. Forse perché erano così rumorosi e temevano problemi. O forse perché facevano davvero schifo, come loro stessi ci raccontavano tra le sbarre. “Abbiamo un bagno in otto perché l’altro non funziona e tutto è davvero lurido”. “Il cibo che ci danno non lo mangerebbero neanche i cani”. “Il riscaldamento spesso non funziona, dipende dalla fortuna”. “Io vengo dalla prigione, ma lì stavo mille volte meglio”. In carcere quanto meno ci sono delle regole. C’è una legge, l’ordinamento penitenziario, e ci sono dei regolamenti. C’è la magistratura di sorveglianza che dovrebbe vigilare sui diritti umani. Qui non c’è niente. “Sono qui da otto mesi, ho mia moglie fuori, non capisco cosa vogliano da me”. Di mediatori culturali che glielo spieghino neanche l’ombra. A gestire il Centro è la cooperativa Auxilium. Il responsabile ci spiega che per ogni “ospite” prendono una retta di 41 euro giornalieri. Di questi, 34 euro sono usati per pagare gli stipendi dei lavoratori di Auxilium e solo i restanti sette per i servizi agli stranieri rinchiusi, assistenza sanitaria e cibo compresi. “La pasta è intoccabile, nemmeno i gatti che girano per il Centro se la mangiano”, ci dice una donna. Nella sezione femminile ci lasciano i cancelli aperti. Entriamo liberamente dove vogliamo. Le stanze sono misere, disadorne, senza quasi mobili oltre alle brande, ma non sono peggio di quelle di un carcere. Il piccolo vano adiacente ha il bagno alla turca e i panni stesi al muro. “Sono qui da un mese e mezzo e ho perso già tre chili”, racconta una ragazza. “Il cibo è immangiabile. Il bagno è rotto e non scarica. Uno schifo. Ho preso un’infezione e il medico mi ha dovuto dare degli ovuli”. Viene da Cuba, aveva sposato un italiano. Avrebbe dovuto avere una carta di soggiorno che però, dice, non le hanno mai dato. La scorsa estate ha divorziato e adesso è considerata irregolare. “Apritemi”, urla a squarciagola una donna dal fondo del cortile. Le vado incontro. Smette di urlare per parlarmi. È bella, la pelle nera e gli occhi verdi, i capelli raccolti in ordinatissime treccine. Vive in Italia da 23 anni, mi racconta. L’hanno venduta da ragazzina, è arrivata vittima della tratta. “Ma ogni donna vuole avere una casa e una famiglia”, e dunque ha sposato uno spacciatore. Ha avuto due figli. “Ma visto come l’Italia aveva trattato me, entrambe le volte sono andata a partorire in America, così i miei figli sarebbero stati più tutelati”. Poi glieli hanno tolti. “Ma loro mi hanno cercata, mi hanno trovata, e continuiamo ancora a vederci di nascosto. Anche qua dentro mi telefonano. Stanno rinchiusi in un istituto, a Genova”. Lei è finita in carcere a causa dell’attività del marito. Una volta scontata la pena per intero l’hanno portata direttamente al Cie, nonostante gli oltre due decenni trascorsi nel nostro civilissimo Paese. Un paio di mesi fa il Parlamento uscente ha ratificato il Protocollo Opzionale alla Convenzione Onu contro la tortura. Ci abbiamo messo dieci anni, ma finalmente ce l’abbiamo fatta. Esso impone all’Italia di dotarsi entro un anno - ma il governo tecnico si è dimenticato di depositare presso l’Onu la ratifica, e i dodici mesi ancora non hanno cominciato a scorrere... di un meccanismo di controllo indipendente di tutti i luoghi di privazione della libertà. Tutti. Inclusi quelli della detenzione amministrativa. Se in molti casi Regioni e Comuni, stanchi di aspettare una normativa nazionale, si sono dotati autonomamente di un garante dei diritti dei detenuti, nessuno oggi garantisce istituzionalmente i diritti di chi ci parlava aggrappato a quella grata senza per questo aver commesso alcun reato. Un bel segnale potrebbe dare il nuovo Parlamento che va a breve a formarsi: mettere in agenda immediatamente la creazione di tale figura che la comunità internazionale ci richiede. Immigrazione: giovane afgano tenta il suicidio nel Centro per richiedenti asilo di Crotone Agi, 5 febbraio 2013 Un giovane afgano di 20 anni, ospite del Centro di prima accoglienza per richiedenti asilo “S. Anna” di Isola di Capo Rizzuto (Kr), ha tentato di togliersi la vita impiccandosi alla rete di recinzione del campo. È accaduto la notte scorsa quando il giovane, utilizzando alcune lenzuola di carta ed un cavo elettrico, ha realizzato un robusto cappio, se lo è avvolto intorno al collo e ha legato l’altra estremità alla rete di recinzione del centro. Il tempestivo intervento dei Carabinieri del Gruppo Operativo Calabria di Vibo Valentia, in servizio di vigilanza nel Centro, ha impedito il tragico epilogo della vicenda. I militari, nonostante il tentativo di suicidio sia avvenuto in piena notte ed in un’area poco illuminata, si sono accorti di quanto accadeva riuscendo a soccorrere il giovane e a salvargli la vita. L’afgano è stato poi trasportato al pronto soccorso dell’Ospedale Civile “San Giovanni di Dio” di Crotone. Droghe: Cnca; 28mila persone finite in carcere nel 2012 per la legge Fini-Giovanardi Redattore Sociale, 5 febbraio 2013 Sono ben 28 mila le persone che nel 2012 sono finite in carcere per la “Fini-Giovanardi”, la legge sugli stupefacenti. Una legge che punisce il possesso di qualsiasi quantità di stupefacenti, tanto che dal 2005 rischia di finire tra le sbarre anche chi va a comprare gli spinelli per gli amici. E così accade, con persone, soprattutto giovanissimi, che passano anche solo pochi mesi in cella, senza che siano degli spacciatori. “Insieme alla Bossi-Fini sull’immigrazione, è una delle leggi che sta causando il sovraffollamento delle carceri italiane”, sottolinea Riccardo De Facci, vicepresidente del Cnca, che oggi a Milano ha presentato tre proposte di legge di iniziativa popolare per riformare il sistema penitenziario. La prima proposta prevede l’introduzione del reato di tortura, la seconda l’istituzione del garante nazionale dei detenuti e la terza la depenalizzazione del consumo delle droghe. In particolare, nella seconda proposta di legge si prevede che il carcere sia a numero chiuso: se tutti i posti letto sono occupati, chi viene condannato inizia a scontare la pena ai domiciliari, in attesa che si liberi un posto. “La situazione nelle celle è ormai insostenibile -aggiunge De Facci-. È una questione di civiltà: non si può più pensare che in carcere ci finiscano persone che al limite sarebbe da seguire con interventi di carattere sociale”. Le tre proposte sono promosse da 17 associazioni (tra cui Antigone, Forum droghe, Cgil, Unione camere penali, Società della Ragione, Cnca, Cnvg) e dal coordinamento dei garanti dei detenuti. La raccolta di firme inizierà nelle prossime settimane, obiettivo le 50mila firme perché possano approdare in Parlamento. La prima proposta di legge è costituita da due articoli che introducono nel nostro ordinamento il reato di tortura. Il primo articolo punisce il pubblico ufficiale che infligge torture fisiche o psichiche ad una persona. Il secondo prevede che l’Italia non conceda immunità diplomatica o asilo a chi è condannato per il reato di tortura da un tribunale internazionale o da un altro Paese. La seconda proposta è invece dedicata all’istituzione del garante nazionale dei detenuti e ad alcune misure per ridurre il sovraffollamento delle carceri. In particolare, l’articolo 8 prevede che “Nessuno può essere detenuto per esecuzione di una sentenza in un istituto che non abbia un posto letto regolare disponibile”. “È un sistema adottato in molti altri Paesi del mondo: funziona ed evita situazioni di inciviltà come quelle che ora ci sono negli istituti di pena italiani”, sottolinea Franco Corleone, garante dei diritti dei detenuti di Firenze. Questa proposta di legge inoltre abolisce il reato di immigrazione clandestina e introduce una riforma delle pene alternative, che dovrebbero essere applicate per “tutti i reati puniti con pena detentiva non superiore nel massimo a sei anni”. Il principio della terza proposta è che il consumo di stupefacenti non venga punito e che il tossicodipendente non deve finire in cella, salvo casi eccezionali. In alternativa, deve essere offerta la possibilità di un percorso di recupero nelle comunità. Droghe: legge Fini-Giovanardi va alla Consulta di Franco Corleone Il Manifesto, 5 febbraio 2013 La Corte di appello di Roma (terza sezione, presidente ed estensore Bettiol) ha mandato alla Corte costituzionale la famigerata legge Fini-Giovanardi sulle droghe, ritenendola incompatibile con la Costituzione. La vicenda nasce dalla condanna inflitta dal Tribunale a due ragazze, che erano state fermate dai carabinieri perché trovate in possesso di 27 dosi di marijuana. Nel giudizio di appello, svoltosi il 28 gennaio, il difensore delle ragazze ha eccepito la incostituzionalità della legge e la corte di appello gli ha dato ragione. La decisione è molto importante perché ritiene che la Fini-Giovanardi contrasta con la Costituzione sotto tre profili. Anzitutto perché è stata inserita come “maxiemendamento” al decreto-legge sulle Olimpiadi invernali del 2006, che con la droga non avevano nulla a che fare. A questo proposito la Corte romana si rifà ad alcune sentenze della Consulta, che hanno ripetutamente bocciato altri decreti-legge proprio perché il Parlamento li aveva approvati stravolgendone il contenuto. I giudici romani sottolineano poi la assurdità della equiparazione di droghe “pesanti” e “leggere”, di cui “va rilevata la modestia degli effetti negativi sull’organismo, non differenti da quelli che provocano alcool o nicotina”. Perciò, dicono i giudici, comminare per la “cannabis” le stesse pene previste per gli oppiacei è irrazionale e contrasta con l’articolo 3 della Costituzione, che non consente di trattare allo stesso modo fatti fra loro così diversi. Infine, secondo i giudici, la legge Fini-Giovanardi viola anche la legislazione europea perché “unificando la pena prevista sia per le droghe leggere che per le droghe pesanti” non si è attenuta ad una decisione del 2004 del Consiglio della Unione Europea. Ora la palla passa alla Consulta, cui spetta di spazzare via una legge assurda che contribuisce quotidianamente al sovraffollamento delle carceri che tutti deprecano. Auguriamoci che la decisione arrivi in tempi brevi, a meno che non sia il prossimo Parlamento a liberarci ancor prima di una delle peggiori mostruosità dell’era fini-berlusconiana. Iran: Ong denuncia; centinaia di esecuzioni nel carcere di Mashad negli ultimi mesi Aki, 5 febbraio 2013 Centinaia di condanne a morte sarebbero state eseguite in segreto negli ultimi cinque mesi nel carcere Vakilabad di Mashad, nell’Iran nordorientale. È quanto rivela il sito web di Iran Human Rights (Ihr), ong che si batte contro la pena di morte nella Repubblica Islamica, secondo cui circa 400 detenuti sarebbero saliti al patibolo. Secondo fonti indipendenti citate dall’ong, le esecuzioni a Vakilabad sono previste il mercoledì e la domenica di ogni settimana e ancora proseguono. In una sola occasione, precisa Ihr, sarebbero stati giustiziati oltre 50 detenuti. “Chiediamo alle Nazioni Unite di effettuare con urgenza una missione in Iran per indagare sulle notizie di esecuzioni di massa nel carcere di Vakilabad”, è l’appello rivolto dal portavoce di Ihr, Mahmood Amiry-Moghaddam. La stessa ong aveva già denunciato nel 2010 un’altra ondata di condanne a morte nello stesso carcere di Mashad. Anche allora le esecuzioni sarebbero avvenute senza neanche avvertire i familiari dei detenuti. Arabia Saudita: decapitato dopo 30 anni nel braccio della morte, era detenuto più vecchio Ansa, 5 febbraio 2013 Un saudita, considerato il più vecchio detenuto del Regno, è stato decapitato stamane dopo aver atteso 30 anni nel braccio della morte, nella speranza di ottenere il perdono della famiglia della vittima. In base a quanto riferisce l’agenzia ufficiale Spa, “Abdallah ben Fandi Al-Chammari è stato giustiziato a Hael (640km a nord di Riad)”. Chammari era stato arrestato e condannato nel 1983 per aver ucciso a colpi di bastone sulla testa un uomo, Moojab ben Mohamed Al-Rachidi, con il quale aveva discusso. All’epoca il detenuto aveva 23 anni. Dopo un processo durato per cinque anni, il tribunale ha concluso che si trattava di omicidio involontario. Ne ha ordinato quindi la scarcerazione, condannandolo a pagare il “prezzo del sangue” alla famiglia della vittima. Ma la gioia di Chammari, che all’uscita del carcere si era pure sposato, è stata breve: è stato quindi arrestato e sottoposto a nuovo processo su richiesta della famiglia della vittima. Condannato a morte, ha dovuto attendere, conformemente alla legge dell’Arabia Saudita, che tutti i figli della vittima raggiungessero la maggiore età per decidere se concedergli o meno il perdono. La famiglia di Rachidi ha insistito che l’uomo fosse giustiziato, ma la decapitazione è stata rinviata a più riprese a causa di un vasto movimento di solidarietà con il detenuto. L’esecuzione di oggi porta a dieci il numero delle persone giustiziate quest’anno in Arabia Saudita. Israele: manifestazione per chiedere liberazione detenuti palestinesi in sciopero fame Tm News, 5 febbraio 2013 Circa duecento arabi hanno manifestato all’esterno di un carcere a Ramle, nel centro di Israele, per chiedere il rilascio dei detenuti palestinesi in sciopero della fame. Tra i manifestanti, provenienti dallo stato ebraico e da Gerusalemme est, c’erano anche donne e bambini, che hanno chiesto il rilascio dei prigionieri detenuti senza processo. Cartelli in arabo, ebraico e inglese chiedevano a Israele di liberare gli uomini e mettere fine alla pratica della detenzione amministrativa, in base alla quale i sospetti possono essere detenuti senza processo per ordine di un tribunale militare. Provvedimento che può essere rinnovato indefinitamente a intervalli di sei mesi. I manifestanti portavano bandiere e foto dei detenuti Ayman Sharawneh, Samer Assawi e altri detenuti che hanno attuato lo sciopero della fame per chiedere di essere rilasciati. Somalia: denuncia violenza, condannata a 1 anno di carcere per “oltraggio alle istituzioni” Tm News, 5 febbraio 2013 Una corte somala ha condannato oggi a un anno di carcere per “oltraggio alle istituzioni” una donna che ha dichiarato di essere stata stuprata dalle forze di sicurezza del Paese e il giornalista che l’aveva intervistata. “La condanniamo per aver offeso le istituzioni dello Stato sostenendo di essere stata stuprata - ha detto il giudice Ahmed Adan - trascorrerà un anno in carcere dopo aver finito di allattare il suo bambino”. Il giornalista freelance Abdiaziz Abdinuur, in carcere dal 10 gennaio scorso, inizierà invece subito a scontare la pena. La detenzione del giornalista e l’inchiesta della polizia sono stati condannati da Human Rights Watch, bollati come “un tentativo politico di incriminare e ridurre al silenzio quanti denunciano il problema diffuso delle violenze sessuali commesse dalle forze di sicurezza somale”. Cina: dieci condanne per arresti illegali di “postulanti” poveri che denunciavano soprusi Ansa, 5 febbraio 2013 Dieci persone sono state condannate da un tribunale di Pechino per aver illegalmente detenuto alcuni postulanti. Lo riferisce oggi l’agenzia Nuova Cina. I postulanti sono cittadini, in genere poveri o poverissimi, che raggiungono Pechino dalle province per denunciare i soprusi che hanno subito da parte delle autorità locali. A Pechino esiste un ufficio apposito per raccogliere le loro denunce. Si tratta di un’usanza in vigore dalla Cina imperiale, dove i sudditi avevano la possibilità di rivolgersi direttamente all’Imperatore per ottenere giustizia e prevalere sui prepotenti signorotti delle province, che è sopravvissuta fino ad oggi. Sia i colpevoli che le vittime, aggiunge Nuova Cina, provengono dalla province dello Henan, nella Cina centrale. Le condanne inflitte dal tribunale ai sequestratori vanno dai sei mesi ai due anni di prigione. Spesso i postulanti vengono seguiti da poliziotti o da funzionari delle province che cercano di impedirgli di presentare le loro lamentele, cosa che potrebbe nuocere ai potenti locali. Negli anni scorsi è stata denunciata più volte l’esistenza di prigioni “nere”, cioè segrete e illegali, nella quale i postulanti vengono detenuti.