Nel carcere di Padova laboratorio digitalizzazione atti su terrorismo e eversione in Veneto Ristretti Orizzonti, 3 febbraio 2013 Un laboratorio all’interno della Casa di Reclusione di Padova, di cui fanno parte quattro detenuti, ha avviato la digitalizzazione della documentazione giudiziaria dei processi per terrorismo e fenomeni eversivi avvenuti nel Veneto: dal primo duplice omicidio rivendicato dalle Brigate Rosse a Padova alle azioni dei Nar, fino al sequestro e uccisione di Giuseppe Taliercio, a Mestre. Si tratta di una iniziativa, presentata venerdì, tesa a mettere a disposizione di storici e archivisti tutti i dati giudiziari dei processi conclusi, superando le difficoltà che spesso incontrano gli studiosi sia sul fronte di conservazione sia di consultabilità dei fascicoli. Nei tribunali infatti - spiega l’associazione Ristretti Orizzonti, capofila del progetto assieme alla cooperativa sociale AltraCittà e alla Casa della Memoria del Veneto - ci sono oggettivi rischi di dispersione o danneggiamento dei fascicoli non solo per azioni indebite, ma anche per motivi logistici. Inoltre agli atti processuali che si trovano presso i tribunali si può accedere solo dimostrando un interesse legittimo da tutelare. Persino per le sentenze - pubbliche fin dall’origine e consultabili presso i tribunali - spesso ci si trova di fronte a difficoltà logistiche che ne rendono difficile l’accesso. Il lavoro del laboratorio di digitalizzazione, che ha sede all’interno del carcere di Padova, si inserisce nell’ambito del progetto “Rete degli archivi per non dimenticare” formata da Archivi di Stato, Soprintendenze Archivistiche e archivi privati, centri di documentazione e associazioni che hanno lavorato per conservare e tutelare la memoria storica del nostro paese riguardo alle tematiche legate al terrorismo, alla violenza politica e alla criminalità organizzata. Il lavoro viene svolto secondo le linee guida e i criteri elaborati da un’apposita commissione scientifica, sulla base delle esperienze dei progetti già avviati e con la collaborazione delle professionalità messe a disposizione da tutti i partecipanti al progetto. La cooperativa AltraCittà, grazie alla collaborazione del Tribunale di Padova, ha cominciato la digitalizzazione dei processi per eventi terroristici avventi in città negli anni Settanta: gli omicidi di Graziano Giralucci e Giuseppe Mazzola nel 1974, l’omicidio dell’agente di polizia stradale Antonio Niedda nel 1975 ad opera delle Brigate rosse e gli omicidi dei carabinieri Enea Codotto e Luigi Maronese da parte dei Nar. Casa della Memoria e cooperativa AltraCittà sono già al lavoro per trovare le risorse necessarie per poter procedere con la digitalizzazione degli atti degli altri procedimenti giudiziari per terrorismo avvenuti nel Veneto, a partire degli omicidi del commissario di polizia Antonio Albanese, e dei dirigenti della Montedison Sergio Gori e Giuseppe Taliercio avvenuti a Mestre. Gli atti dell’omicidio di Lino Sabbadin sono invece già stati digitalizzati a Milano dove si è svolto il processo ai Pac di Cesare Battisti. Figlia vittima Br: dà senso costruttivo a dolore (Ansa) Per Silvia Giralucci, figlia di Graziano Giralucci, ucciso delle Br a Padova nel 1974, commentando l’iniziativa presentata oggi in carcere, “il senso di un laboratorio di digitalizzazione degli atti giudiziari è doppio”. “Per i detenuti - spiega - si tratta di fare un lavoro che è anche un risarcimento per il loro debito con la società, per le vittime che attraverso la casa della Memoria si sono fatte promotrici di questa iniziativa l’impegno di questo progetto è un modo di dare un senso positivo, costruttivo al proprio dolore. Inoltre attraverso il contatto con gli autori di reato che dimostrano di aver compreso il male che hanno fatto e l’impegno a costruire con la riflessione su sé stessi e l’impegno nel lavoro un futuro diverso è per le vittime un grande aiuto per ritrovare quella fiducia nel contratto sociale che si è lacerata nel momento in cui sono state aggredite negli affetti più cari, lacerate nella propria identità senza alcun ragionevole motivo”. All’iniziativa presentata oggi hanno partecipato anche altri familiari di vittime del terrorismo, tra le quali Barbara Tobagi. Lavoro in carcere a Padova: i detenuti digitalizzano atti processuali (www.padova24.it) Un laboratorio all’interno della casa di reclusione di Padova, di cui fanno parte quattro detenuti, ha avviato la digitalizzazione della documentazione giudiziaria dei processi per terrorismo e fenomeni eversivi avvenuti nel Veneto: dal primo duplice omicidio rivendicato dalle Br a Padova alle azioni dei Nar, fino all’uccisione di Giuseppe Taliercio, a Mestre. L’iniziativa mette a disposizione degli studiosi i dati giudiziari dei processi conclusi e tutela la memoria storica italiana. L’attività del laboratorio di digitalizzazione finanziato dalla Cassa delle Ammende e realizzato dalla Casa di Reclusione con Ristretti Orizzonti e la cooperativa sociale AltraCittà in collaborazione con la Casa della Memoria del Veneto si inserisce nell’ambito del progetto “Rete degli archivi per non dimenticare”, rete formata da Archivi di Stato, Soprintendenze Archivistiche e archivi privati, centri di documentazione e associazioni che hanno lavorato e lavorano per conservare e tutelare la memoria storica del nostro paese riguardo alle tematiche legate al terrorismo e alla violenza politica. All’origine c’è l’idea che oltre alle sentenze, anche il materiale processuale relativo alla fase istruttoria e dibattimentale, con le testimonianze, la documentazione sequestrata, le perizie, il materiale fotografico, i corpi di reato possono diventare importantissime fonti di ricerca storica. La digitalizzazione consente di superare i problemi di conservazione e di consultabilità di questi documenti. La valenza del progetto è culturale e sociale: il lavoro viene svolto da detenuti della Casa di reclusione di Padova formati in modo specifico nell’ambito del progetto stesso per offrire al territorio servizi di digitalizzazione sia per il pubblico che per il privato. In questo momento drammatico per le carceri italiane il progetto vuole costruire possibilità di lavoro qualificato per le persone detenute. L’archivio web del terrorismo, di Albino Salmaso (Mattino di Padova) I detenuti della Casa di Reclusione di Padova avviano il laboratorio per la digitalizzazione dei processi. Tamburino direttore Dap: “La storia si fa anche con gli atti giudiziari, si tratta di un progetto culturale e sociale di grande rilevanza”. Silvia Giralucci: “Per noi parenti delle vittime si tratta di dare un senso costruttivo al nostro dolore Siamo stati lacerati nei nostri affetti”. La storia? Si fa anche con gli atti giudiziari, con le sentenze dei processi e i faldoni delle inchieste avviate per accertare la verità. Dopo 40 anni dall’ultimo verdetto della Cassazione, gli archivi possono essere distrutti e la memoria cancellata. Ora questo pericolo non esiste più perché nella casa di reclusione di Padova è stata avviata la digitalizzazione dei processi di terrorismo del Veneto. Si tratta di una svolta di grande portata, come ha ricordato il giudice Giovanni Tamburino, direttore generale del Dap, che assieme ai colleghi Ezio Bellavitis, Mario Fabiani e Francesco Aliprandi e al rettore dell’Università Giuseppe Zaccaria ha inaugurato il laboratorio. Un’idea finanziata dalla Cassa delle Ammende e gestita da Ristretti Orizzonti e cooperativa sociale AltraCittà in collaborazione con la Casa della memoria del Veneto. All’origine c’è l’idea che oltre alle sentenze, anche il materiale processuale della fase istruttoria e dibattimentale con le testimonianze, la documentazione sequestrata, le perizie, le fotografie e i corpi di reato possono diventare importantissime fonti di ricerca storica. La digitalizzazione consente di superare i problemi di conservazione e di consultabilità dei documenti. La valenza del progetto è culturale e sociale: il lavoro viene svolto da detenuti della Casa di reclusione di Padova, formati in modo specifico per offrire al territorio servizi di digitalizzazione sia per il pubblico che per il privato. E alla cerimonia non c’erano solo le autorità istituzionali, ma alcuni familiari di vittime del terrorismo: Benedetta Tobagi, figlia del giornalista Walter Tobagi; Teresa Friggione vedova del commissario di Polizia Alfredo Albanese; Ines Calzavara vedova di Nazzareno Basso morto il 2 agosto 1980 nella strage di Bologna e Adriano Sabbadin, figlio di Lino Sabbadin ucciso dai Pac di Cesare Battisti a Caltana di Santa Maria di Sala: il caso è ancora aperto perché Battisti è libero in Brasile. E poi Ilaria Moroni; la famiglia dell’agente di Poli zia Antonio Niedda; i familiari di Graziano Giralucci ucciso con Giuseppe Mazzola dalle Br nella sede del Msi il 17 giugno del 1974; l’onorevole Giovanni Bachelet, figlio del giurista Vittorio Bachelet, vittima delle Br e maestro di Rosy Bindi; l’ex direttore dell’opera universitaria Giampaolo Mercanzin, gambizzato dall’Autonomia operaia e Manlio Milani, responsabile della Casa della Memoria di Brescia e marito di Livia che perse la vita nella strage di piazza della Loggia nel 1974. Il processo contro i neofascisti è ancora aperto, ma sono passati 39 anni: la verità verrà mai accertata? Chissà se il vizio della memoria consentirà di superare i torti di una macchina giudiziaria che ha fatto l’impossibile ma non è riuscita a punire gli autori delle stragi neofasciste di piazza Fontana e piazza della Loggia, mentre il terrorismo rosso è stato debellato. I servizi segreti deviati hanno occultato prove e fornito alibi ai terroristi di Ordine Nuovo, al punto che la “strategia della tensione” degli anni Settanta viene giustificata dagli apparati dello Stato ma le sentenze sono affondate nella palude. Nessuna polemica. Silvia Giralucci commenta: “I detenuti sono coinvolti in un lavoro che è anche un risarcimento per il loro debito verso la società, mentre per noi parenti delle vittime si tratta di dare un senso costruttivo al dolore: siamo stati aggrediti e lacerati nei nostri affetti più cari senza motivo”. Sopra il tavolo c’è un fascicolo: contiene gli atti del duplice delitto delle Br in via Zabarella. Ci sono le foto delle pistole con cui furono uccisi Giralucci e Mazzola. Sul web scorrono le immagini. Impossibile dimenticare. Il dolore si lenisce, non si cancella. Mai. Giustizia: contro la vergogna delle carceri italiane di Antonino Papa Alto Adige, 3 febbraio 2012 Di carceri, pene, detenuti si parla solo in situazioni emergenziali, anche se ogni anno muoiono in carcere circa 180 detenuti e un terzo di questi sono suicidi. La nostra Costituzione sancisce che la pena sia strumento di riabilitazione sociale, prima che sanzione punitiva. In questi giorni l’attenzione dell’opinione pubblica e degli Organi Istituzionali è concentrata sulla sentenza della Corte europea dei diritti umani con la quale il nostro paese è stato condannato per lo stato disumano delle strutture carcerarie. I giudici hanno stabilito che sette detenuti - tre nel carcere di Piacenza e quattro in quello di Busto Arsizio sono state vittime di trattamento degradante ossia costretti a vivere in celle troppo anguste e quindi saranno risarciti a titolo di danno morale - per un ammontare complessivo di 100 mila euro. Si contesta all’Italia la violazione del principio naturale del primato della persona umana che deve essere rispettata anche nella posizione di carcerato. Che vergogna per noi tutti, anche se colpevoli. Non è forse questo uno stato di cose - che definirei di illegalità costituzionale - con cui lo Stato pensa di rispondere all’illegalità criminale? Ci si può tranquillizzare la coscienza e la legalità quando si sente dire... sono delinquenti, hanno commesso dei crimini oppure... abbiamo già tanti problemi, e tante persone oneste e per bene che fanno una fatica enorme a tirare avanti! Invece poco si dice delle attuali condizioni di vita dei detenuti le quali non sono degne di un paese civile e le strutture non idonee alla crescita individuale dei reclusi. Dovrà continuare a essere così? E le istituzioni? Nel passato il dibattito tra politica e addetti ai lavori è sempre stato un fuoco di paglia durato pochi giorni e poi tutto... come prima. Ne fa fede la statistica delle morti tra i reclusi unitamente a quelle tra gli agenti della polizia penitenziaria. Il Parlamento che verrà dovrà farsi carico di una profonda riforma legislativa che intervenga non tanto nel programmare e costruire nuove strutture carcerarie quanto nel modificare il codice penale e nel preferire le cosiddette misure alternative. Perché non escludere la reclusione carceraria per reati leggeri ossia per quei reati puniti con detenzioni brevi? Perché non graduare gli illeciti con sanzioni pecuniarie, poi interdittive o prescrittive e infine - solo quando tali pene appaiono inadeguate - prevedere quelle detentive? Ed ancora: perché non personalizzare (meglio) la pena, tenendo conto del delitto, della persona e delle sue modificazioni in melius o in pejus? Come e che cosa rispondere attivamente alla sentenza epocale di Strasburgo? Se anche i ripetuti ammonimenti del Capo dello Stato non hanno scalfito l’indifferenza generale e sono stati inidonei a risolvere il problema delle carceri, può, invece, il Presidente Napolitano dare la prima e immediata risposta politica se ascolta le richieste in atto. Giustizia: premier Monti; il tema carceri non è in agenda ma sarà tra le prime cose da fare Agi, 3 febbraio 2013 “Noi abbiamo proposto pene alternative alla carcerazione ma purtroppo il Parlamento ha dato priorità ad altre cose che interessavano alcune categorie e molto colpevolmente ha lasciato questa questione senza approvazione”. Lo ha detto il premier Mario Monti intervenendo a Leader su Rai3 ed ha aggiunto: “Anche se il tema carceri non è in agenda sarà tra le prime cose da fare”. Giustizia: Spigarelli (Ucpi); prima emergenza è situazione scandalosa delle carceri italiane Ansa, 3 febbraio 2013 “La prima emergenza è la situazione scandalosa delle carceri italiane che ci pone fuori dalla legalità comunitaria e anche della legalità costituzionale del nostro paese”. Così Valerio Spigarelli, presidente dell’Unione camere penali italiane, fissa le priorità dell’agenda, in tema di giustizia, per il prossimo Governo. All’inaugurazione dell’anno giudiziario dei penalisti che si è tenuta a Bologna, l’associazione si è confrontata con politici di diversi schieramenti sulle proposte in campo. “Un’emergenza più generale”, ha aggiunto il presidente, rispondendo a margine ai cronisti, è quella di “intervenire su sistema penale che non funziona più, facendo delle scelte di sistema. Depenalizzando: cioè eliminando molte condotte che possono essere perseguite senza una criminalizzazione penale, ma per via amministrativa”. Inoltre occorre preoccuparsi “di avere un sistema che sia giusto nelle sue strutture fondamentali: un sistema in cui un pubblico ministero e un giudice indossano la stessa maglietta quando scendono in campo per giocare la partita è un sistema ingiusto per definizione”, ha concluso. Giustizia: Ferri (Mi), sovraffollamento delle carceri e recupero condannati inconciliabili Adnkronos, 3 febbraio 2013 “Giusta e tempestiva l’iniziativa del Ministro della Giustizia di inviare gli ispettori per verificare cosa non ha funzionato presso la Casa di Reclusione di Parma dove sono evasi due “condannati”, con sentenza passata in giudicato per reati gravi quali omicidio e rapina. Occorre riflettere però su due argomenti che non possono essere in alcun modo conciliati tra loro: sovraffollamento carcerario e recupero dei condannati”. Lo afferma Cosimo Maria Ferri, segretario Generale di Magistratura Indipendente. “Il problema della sicurezza infatti - riflette Ferri - sarà sempre all’ordine del giorno finché non si risolverà definitivamente il problema del sovraffollamento carcerario e non si investirà nelle strutture e nella qualità dei sistemi di controllo, che oggi possono essere più pregnanti anche grazie alle nuove tecnologie. La politica - sostiene - deve dare una risposta urgente : intervenire ex post non è sufficiente. Da troppo tempo se ne parla senza adottare misure idonee ed incisive e si è preferito destinare 84 milioni di euro nel braccialetto elettronico che non viene di fatto utilizzato”. “Lo Stato deve garantire sicurezza ed al contempo recuperare il condannato”, ammonisce il segretario di Mi. “La pena deve essere rieducativa e devono essere quindi agevolati l’istituto della messa in prova, le attività di osservazione, di risocializzazione all’interno degli istituti penitenziari, le attività di intrattenimento (scuola, formazione professionale, attività sportive): per fare tutto ciò deve essere risolto il problema del sovraffollamento carcerario. In tutti i settori la quantità incide negativamente sulla qualità del servizio. È l’ora di voltare pagina con proposte concrete”, conclude. Giustizia: Orlando (Pd); ok all’abolizione dell’ergastolo ostativo e a “riflessione” sul 41-bis Ansa, 3 febbraio 2013 “Sono favorevole all’abolizione dell’ergastolo ostativo”. Lo ha detto il responsabile Giustizia del Pd Andrea Orlando, intervenendo all’inaugurazione dell’anno giudiziario dell’Unione delle Camere penali a Bologna. Orlando - riferisce una nota - si è dichiarato disponibile a una riflessione sul regime del 41 bis: “Non ci sono ancora i tempi per superarlo, ma è necessario fare il punto sulla sua funzionalità nella lotta alla mafia”. Dell’argomento si è occupato Claudio Fava, capolista in Lombardia di Sel: “Gli assassini di mio padre (Giuseppe Fava, ndr) sono al 41 bis, ma io credo che quello sia un trattamento inumano”. Sul sovraffollamento delle carceri Orlando ha osservato che in materia di messa alla prova e detenzione domiciliare ‘è stato un errore non ricorrere alla decretazione d’urgenza. Invece dell’amnistia bisognerebbe, nei primi cento giorni di governo, intervenire con misure di sistema, mettendo in discussione leggi come la ex Cirielli e la Fini-Giovanardi. Amnistia e indulto non sono la soluzione per il Presidente della commissione Giustizia del senato, Filippo Berselli (Pdl): “bisogna rendere agibili le carceri che sono indecenti, intervenire sull’istituto della custodia cautelare in carcere e mettere a punto un vasto piano di depenalizzazione dei reati che non determinano particolare allarme sociale”. Giustizia: finti pazzi veri mafiosi; il boss che si credeva Napoleone, quello unto del Signore di Gianluca Di Feo L’Espresso, 3 febbraio 2013 E il mistero di Provenzano. Per la prima volta un libro analizza come Cosa nostra sfrutta la follia Di fronte al commissario Boris Giuliano che gli metteva le manette ai polsi, il boss Antonino Marchese si buttò sui classici: “Come vi permettete? Io sono Napoleone, datemi i miei eserciti!”. Il diciannovenne Agostino Badalamenti, unico killer siciliano catturato con la pistola fumante in pugno, sfruttò il suo volto da ragazzino: cominciò a piangere, pestando i piedi e urlando: “Voglio la mamma”. Giovanni Battaglia, il basista della strage di Capaci, ha passato mesi accogliendo i magistrati con sputi, bestemmie e lunghe cantilene di frasi insensate. Invece il capo - clan siracusano Angelo Bottaro si è dichiarato “unto del Signore”, benedicendo la corte con fare ieratico e distribuendo santini ai carabinieri. Gesti e parole che gli hanno garantito il trasferimento in manicomio, grazie a schiere di medici collusi, e un rapido ritorno in libertà. Per decenni la pazzia è stata la scorciatoia usata dai picciotti per sfuggire al carcere: ci hanno provato in tanti, mettendo in scena nei tribunali un incredibile elogio della follia, proseguito dagli anni Settanta ai giorni nostri. La storia dei matti d’onore è stata finalmente ricostruita in un saggio, “Mafia da legare”, scritto dallo psichiatra Corrado De Rosa e dalla giornalista Laura Galesi. Un testo agile e intelligente, che ricostruisce il rapporto tra Cosa nostra e la malattia mentale, vera o falsa. Perché ci sono anche biografe criminali in cui la brutalità è specchio di turbe profonde. Come quella di Filippo Marchese detto “Milinciana” ossia Melanzana: “Un sadico, uno che strangolava e tagliava corpi. Che non permetteva a nessuno di uscire vivo dalla sua camera della morte e provava un piacere erotico a uccidere mentre tirava cocaina”. O come quella di Nino Santapaola, fratello del più noto Nitto, descritto dal pentito Antonino Calderone con queste parole: “Ogni sabato sera usciva di casa e se ne andava a caccia. Si divertiva cercando gente da massacrare... Se si va a vedere la cronologia dei delitti avvenuti a Catania verso il 76-77, si può verificare quanti sono avvenuti di sabato. La domenica mattina aprivamo il giornale e commentavamo: “Il pazzo ieri ha lavorato”. Il fratello Nitto lo chiamava “u licantropo”: “Era talmente sanguinario che quando fece uccidere quattro bambini che avevano scippato sua madre, persino i corleonesi dissero: “Esagerato!”. Da trent’anni Nino Santapaolo entra e esce dai manicomi giudiziari. Nei periodi di libertà spesso ha guidato gli affari di famiglia: una volta è stato fermato con l’auto carica di armi, nel 2000 gli hanno sequestrato la contabilità del racket e si ritiene che abbia curato l’investitura del nipote al vertice del clan. Negli incontri con gli psichiatri però “mette insieme omeopatia, campi di fragole e idrocarburi, dice che non si ossigena abbastanza e per questo deve uscire dal carcere. Le voci lo perseguitano: “Come una rete che si mette davanti e che mi fa litigare nel cervello”. Anche se delle voci, come scrivono i periti, non c’è traccia nei colloqui. Tra un ricovero e l’altro, ha subito una sola sentenza definitiva per omicidio. Oggi, dopo un infarto, un ictus, anni di diabete, le sue condizioni di salute sono diventate realmente gravi. Nel dicembre 2011 la Corte di appello di Catania le ha definite incompatibili con il carcere e sospeso i processi contro di lui: presto forse tornerà a casa. In Cosa nostra però anche la pazzia ha un rango. Nessun vero capo sarebbe mai ricorso a questi trucchi per sottrarsi alla detenzione. È una delle differenze con la camorra napoletana che ha infilato nelle cliniche psichiatriche anche pezzi da novanta, come Raffaele Cutolo, o come in tempi recenti hanno tentato di fare boss scissionisti e casalesi. Per i mammasantissima siciliani invece mostrarsi folli significava perdere i requisiti del comando. Anzi, l’insanità mentale è sempre stata uno strumento per delegittimare rivali, pentiti e persino magistrati. In un’intervista a Enzo Biagi, il primo padrino corleonese Luciano Liggio parlò di Cesare Terranova, assassinato a Palermo: “Non so se il giudice Terranova, poveraccio, si sentisse odiato. Provavo per lui sincera commiserazione. Quando ebbi quel piccolo attrito durante l’interrogatorio, mi sono reso conto che mi trovavo di fronte un ammalato. Se dietro a varie scrivanie dello Stato ci sono degli psicopatici, la colpa non è mia. Perché non fanno delle visite adeguate a questa gente prima di affidare loro un ufficio?”. Ma Cosa nostra impugna la follia anche come strumento di condanna. La sentenza contro Giuseppe “Scarpuzzedda” Greco, che si ritiene abbia ucciso 58 persone strangolandole o abbattendole a colpi di Kalashnikov, sarebbe stata presentata così da Totò Riina a Salvatore Cancemi: “Lo sai che abbiamo trovato la medicina per i pazzi? Abbiamo ammazzato Scarpuzzedda, era diventato pazzo”. Spesso Riina l’ha evocata nel faccia a faccia con i pentiti che lo accusano. A Gaspare Mutolo ha urlato: “Con lui non si può parlare perché è pazzo come sua madre”. E in effetti Mutolo era riuscito a passare dalla cella all’ospedale psichiatrico, dove ottenne “un trattamento di favore”. Uno dei tanti che hanno potuto servirsi della complicità di medici prezzolati, ricattati o inseriti a pieno titolo nel gotha mafioso. Ci sono storie di camici sporchi in tutta Italia. Come i luminari romagnoli che hanno sancito l’infermità di un picciotto, filmato poi mentre si alzava dalla sedia a rotelle e ballava la macarena in compagnia di giovani fanciulle. Dopo essere stato smascherato, si è suicidato: secondo il medico legale voleva solo fingere “un’impiccagione atipica che avrebbe potuto consentirgli di sostenere che versava in condizioni di disagio psicologico”. La simulazione è finita in modo tragico. Forse non è l’unico caso che ha avuto esiti drammatici, con l’inganno tramutato in realtà. In questi giorni la vicenda più discussa riguarda Bernardo Provenzano, l’ultimo regista della mafia. Sin dal momento dell’arresto, Provenzano ha offerto ai fotografi un sorriso sottile, quasi un ghigno. Fino al febbraio 2011 ha sostenuto che la sua malattia non gli permettesse di restare in carcere. I medici però lo hanno escluso, trasferendolo in un penitenziario con un centro clinico. A quel punto i suoi avvocati hanno cambiato linea, sottolineando lo stato psichico sempre più confuso: “Provenzano non è in grado di comprendere, non può partecipare ai processi”. Il padrino infatti scrive lettere e telegrammi sconclusionati ai familiari. Ma i periti, pur nella criticità delle condizioni fisiche, non hanno riscontrato tracce di demenza. Per De Rosa e Galesi l’iniziativa medicolegale non è stata isolata. Altre figure di primo piano nelle stesse settimane hanno invocato e ottenuto di lasciare la prigione, come Michele Aiello e Gaetano Fidanzato. Gli autori del libro lo definiscono “un momento di mobilitazione generale”. È allora che Provenzano viene trovato dalle guardie con un sacchetto di plastica sulla testa. Appena gli agenti aprono la porta, lui stesso consegna la busta. I soccorritori scrivono “rispondeva in maniera sconnessa, ma con modi e sorriso maliziosi”. Il medico che lo visita ipotizza che sia stata “una messinscena”. Il gesto dello scorso 9 maggio resta misterioso: è stato un attimo di sconforto di un ottantenne senza futuro o una lucida forma di protesta? Venti giorni dopo i pm di Palermo gli chiedono della trattativa tra Stato e mafia. La replica è concisa: “Per dire io la verità avissimi a parrari male di cristiani, scusatemi”. Il 17 dicembre Provenzano è caduto in cella e lo hanno operato d’urgenza per un ematoma cerebrale. Dopo un lungo coma farmacologico ora mostra segni minimi di ripresa, con un quadro in costante peggioramento. Adesso è incompatibile con i processi: a decretarlo sono proprio i periti del procedimento sui patti tra Cosa nostra e istituzioni, il primo dove sarebbe dovuto comparire come imputato. Giustizia: polemica tra il Senatore Pdl Giovanardi e Ilaria Cucchi… in nome di Stefano Adnkronos, 3 febbraio 2013 Nuova polemica sulla morte di Stefano Cucchi, questa volta declinata in chiave politica, tra il senatore Pdl Carlo Giovanardi e Ilaria Cucchi, sorella del giovane morto il 22 ottobre 2009 in un ospedale romano dopo essere arrestato per droga. A scatenarla le parole di Giovanardi, convinto che Ilaria, con la sua candidatura nelle liste di Rivoluzione Civile “sfrutti la tragedia del fratello”. Immediata la replica: “Giovanardi fa campagna elettorale sulla morte di mio fratello”. E a stretto giro il passaggio alle vie legali annunciato dalla Cucchi. Condanna per le frasi di Giovanardi - non nuovo ad aspri “botta e risposta” con la sorella di Stefano - da parte dei candidati di Rivoluzione Civile, ma non solo. E in serata Giovanardi replica: “non ho offeso nessuno, ho solo detto che non condivido le candidature che nascono da casi giudiziari”. “Giovanardi sta facendo campagna elettorale sulla morte di mio fratello” è la replica di Ilaria Cucchi. “Non posso consentire che si getti fango gratuito addosso a Stefano - prosegue - e questo per i miei genitori che hanno già sopportato troppo” Da qui l’annuncio: “ho dato incarico al mio legale affinché Giovanardi sia chiamato a rispondere di tutto quello che ha detto in questi anni; perché la misura è davvero colma”. In passato, infatti, il 9 novembre 2009 Giovanardi aveva affermato: “Stefano Cucchi è morto perché anoressico, drogato e sieropositivo”. Parole che la sorella Ilaria, smentendo la sieropositività, aveva bollato come “gratuite”, aggiungendo di “non aver mai negato che Stefano avesse problemi di droga, ma questo non giustifica il modo in cui è morto”. E ancora il 28 marzo 2011, Giovanardi diceva di Stefano: “è morto a causa della droga e le percosse sono da verificare”. La sorella, anche quella volta lo aveva invitato “a tacere a non intervenire più sul caso del fratello”. Oggi la replica di Ilaria Cucchi è molto più articolata. In una lunga nota tuona: “Giovanardi va a caccia dei morti per catturare l’attenzione dai vivi”. “Accetto qualsiasi critica perché nel momento in cui ho deciso di accettare la proposta di Antonio Ingroia ero ben conscia di ciò che facevo e del prezzo che avrei dovuto pagare”, prosegue. “Grazie al processo di mio fratello, al suo sacrificio, e a quello di Federico Aldrovandi, Giuseppe Uva e Michele Ferrulli si è tornato in modo prepotente a parlare della tortura, fino ad arrivare a discutere un progetto di legge in commissione parlamentare. Ma la maggioranza che ha sostenuto il governo Monti ha ancora una volta fallito. La legge si è arenata e nulla è più stato fatto”. “La legge sulla tortura non si fa con le conferenze stampa, ma con impegno vero sentito e concreto. Io mi sento di poterlo garantire più di ogni altro. Perdonatemi, ma credo proprio di potermi permettere di dirlo”, afferma Ilaria Cucchi. “A tutto però c’è un limite. Accusatemi pure di essere arrivista, di avere strumentalizzato la morte di mio fratello, perché in effetti potrebbe essere anche vero. Io voglio arrivare alla promulgazione della legge sulla tortura - assicura - e di tutte le altre norme che possono tutelare i diritti civili degli ultimi di questa società. Senza la morte di mio fratello io certamente non sarei nessuno e non sarei qui. Sarebbe la cosa più bella che Dio potrebbe regalarmi. Ma purtroppo non è così”. Pronta la difesa del leader di Rivoluzione Civile Antonio Ingroia: “è un attacco ignobile che non merita risposte”. Ilaria “è una delle nostre candidate di punta - spiega Ingroia - ha fatto della tragedia del fratello una battaglia importante sui diritti che è anche la nostra”, battendosi ad esempio “sull’introduzione del reato di tortura o sul sovraffollamento delle carceri”. “Era il novembre del 2009 quando dissi che Giovanardi avrebbe dovuto tacere per le sue parole contro Cucchi. È insopportabile che ancora insista nel minimizzare l’omicidio Cucchi. Un abbraccio a Ilaria e ai suoi cari”, scrive Nichi Vendola su twitter. Gli fa eco Ignazio Marino del Pd: “Capisco che siamo in campagna elettorale ma Giovanardi deve mantenere il senso della misura. Basta fare una semplice ricerca sul sito del Senato della Repubblica per leggere i dati che la commissione d’inchiesta che presiedo ha presentato sulla vicenda di Stefano Cucchi”. Per il deputato Pd, Emanuele Fiano “Le parole di Giovanardi sono spudorate e ignobili. E non solo perché ignorano il dramma di chi ha perso un fratello ma perché giungono da chi in passato si è distinto per aver strumentalizzato più volte a fini di visibilità personale l’immane tragedia di Ustica”. “Evidentemente - conclude - esaurito il filone di Ustica, ora Giovanardi è alla ricerca di qualche altro dramma umano per farsi notare in campagna elettorale”. “Mai più Giovanardi al governo. Votare centrosinistra significa anche questo: non avere più persone come Giovanardi al governo e fermare una deriva ideologica contro i diritti civili e la dignità della persona”, tuona il cofondatore di Centro democratico - Diritti e libertà Massimo Donadi. “Dopo le affermazioni sconce su Ilaria Cucchi e sul suo povero fratello, ho invitato il presidente Fini a rinnegare oggi stesso la Fini - Giovanardi, non solo per i contenuti della norma ma soprattutto per non accoppiare mai più il suo cognome a questo personaggio da avanspettacolo, degno della peggiore ipocrisia italica e della sub cultura del vecchio centrodestra”, dichiara il vice coordinatore di Fli, Fabio Granata. “Le parole di Giovanardi su Ilaria Cucchi sono semplicemente scandalose”, afferma il Presidente dei Verdi Angelo Bonelli che aggiunge: “La dignità e la forza con cui Ilaria porta avanti la battaglia per una giustizia giusta e che non fa morire le persone in carcere per le torture non solo è da apprezzare ma merita il rispetto da qualsiasi latitudine politica la si guardi”. “Il senatore Pdl la smetta di molestare i familiari delle vittime e chieda scusa a loro e a Ilaria Cucchi che, da anni insieme ai suoi genitori, sta conducendo una dura battaglia per reclamare verità e giustizia per il fratello Stefano”, affermano in una nota Giuseppe Giulietti e Stefano Corradino, portavoce e direttore di Articolo21. In serata, Giovanardi chiarisce: “Non vedo l’offesa che avrei arrecato a Ilaria Cucchi con le mie parole, perché ho solo detto ciò di cui sono fermamente convinto: ovvero che non condivido le candidature che nascono da casi giudiziari”, come quello di Stefano. Ilaria Cucchi “visto che è candidata e ha deciso di fare politica - aggiunge - deve rispettare i principi della democrazia, ovvero accettare le posizioni di chi la pensa diversamente da lei”. Ilaria Cucchi: Giovanardi venga alle udienze per capire “Perché Giovanardi non viene alle prossime udienze del processo Cucchi, visto che tanto lo interessa? Sono certa che lo troverà interessante e che magari potrà farsi un’idea più precisa”. Risponde così Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, alle parole di Carlo Giovanardi sul caso della morte del ragazzo. “Prendo atto che la destra - scrive in una nota, non trovando argomenti convincenti per giustificare il disastro economico sociale da loro prodotto in 20 anni di governo, oggi considera nodale, per la politica italiana, offrire soluzioni al processo Cucchi. “Giovanardi ha ritenuto sentenziare fin da subito il “suicidio” di mio fratello definendolo zombie e sieropositivo quando viceversa Stefano ha avuto solo il torto di trovarsi al momento dell’arresto in ottime condizioni di salute, come hanno potuto riferire gli stessi carabinieri intervenuti - scrive Ilaria Cucchi. Riguardo alla responsabilità del pestaggio di mio fratello, ricordo all’ex ministro, che essa è pienamente provata e che è certificata dallo stesso capo di imputazione a carico degli agenti di polizia penitenziaria. Riguardo alle accuse rivolte ai Carabinieri su quel pestaggio, farebbe bene, l’ex ministro, a documentarsi. Magari capirebbe che quelle accuse sono state oggetto di un vero e proprio scaricabarile “istituzionale”. Ma tutto questo interesse per me e per il caso Cucchi - conclude - non è che è causato dal fatto che oggi finalmente si parla molto della introduzione della legge sulla tortura e che se Ilaria Cucchi entra in Parlamento magari questa volta riusciamo a farla questa legge da sempre chiusa nei cassetti? Non è che a qualcuno dei suoi elettori questa legge, sollecitata dall’Onu, non piace od addirittura fa paura?”. Sappe: su caso Cucchi far lavorare serenamente la magistratura “La magistratura deve essere lasciata libera di giudicare, senza condizionamenti e con l’abituale serenità ed obiettività. Per questo non condivido i giudizi espressi dalla sorella di Stefano Cucchi, Ilaria, oggi candidata al Parlamento in una lista guidata da un magistrato, che sostiene di non avere fiducia nella magistratura se dovesse pronunciarsi in maniera diversa da quanto lei si aspetta”. Lo scrive in una nota Donato Capece, segretario generale del Sappe. “È certamente importante e fondamentale rilevare che le conclusioni della perizia esperita dai periti della Terza Corte d’Assise - continua Capece - sulla morte del fratello Stefano è avvenuta per sindrome da inanizione e non da presunti pestaggi. Attendiamo dunque tutti, con serenità, gli accertamenti della magistratura, che dobbiamo rispettare sempre”. “Ribadisco una volta di più - si legge ancora - che il Sappe ha il massimo rispetto umano e cristiano per il dolore dei familiari di Stefano Cucchi come lo abbiamo per tutti coloro che hanno perso un proprio caro in stato di detenzione. Ma non possiamo accettare - conclude Capece - una certa tendenziosa e falsa rappresentazione del carcere come luogo in cui quotidianamente e sistematicamente avvengono violenze in danno dei detenuti come evidentemente pensa la sorella di Stefano Cucchi”. Giovanardi: la sorella Ilaria sta sfruttando la tragedia di Stefano “È evidente che Ilaria Cucchi sta sfruttando la tragedia del fratello”. Così Carlo Giovanardi, ospite della trasmissione 24 Mattino di Radio24, critica la scelta della sorella di Stefano Cucchi di candidarsi nelle liste di Rivoluzione civile. Già in passato Giovanardi era finito nella bufera per alcune dichiarazioni sulla morte di Cucchi e ancora Giovanardi torna sulla vicenda con parole forti: “Tutte le perizie - ha aggiunto oggi Giovanardi - arrivano alla conclusione che non c’è nessuna relazione tra la morte di Cucchi ed eventuali percosse subite. Cucchi era stato ricoverato in ospedale precedentemente 17 volte per percosse, lesioni e fratture subite dai suoi amici spacciatori”. “Tre poveri agenti di custodia sono massacrati da quattro anni perché dappertutto è stato detto che lui è stato massacrato di botte e il processo invece sta dimostrando il rovescio, cioè che è morto perché era debole, aveva una serie di patologie. Ha fatto lo sciopero della fame e i medici invece di curarlo l’hanno lasciato morire prendendo per buona la volontà di una persona che non sapeva gestirsi”. Gli agenti sotto processo sono per Giovanardi “tre poveri cristi che lavorano per 1200 euro al mese e subiscono un processo su un’accusa costruita sul nulla”. Su Ilaria Cucchi Giovanardi ha aggiunto che “come succede sempre in Italia su fatti come questi, si costruisce una carriera politica e la sorella è diventata capolista di un partito. Era evidente che sarebbe finita così. Suo fratello è una vittima, era una persona malata, ha tentato più volte di recuperarsi, ha avuto una vita difficile da tossico e spacciatore. Ma da questo alla Provincia di Roma che gli voleva intitolare le scuole come se fosse un esempio ai giovani, non ci sto. È come con Carlo Giuliani: certo Giuliani è una vittima, poveretto. Ma si possono intitolare a lui le sale del Parlamento? Io dico no, perché quando è morto stava per ammazzare tre carabinieri”. Giulio Petrilli: la società civile abbia una sponda in Parlamento Ho conosciuto Ilaria Cucchi; ho conosciuto Patrizia Moretti; ho conosciuto uomini e donne che, giustamente o ingiustamente condannati, hanno riportato danni fisici e morali che avrebbero indebolito tanti frequentatori dei palchi e delle tribune, i quali si affrettano a sputare sentenze. Non ho conosciuto il ministro Giovanardi né tanti del suo genere, e spero di poterli evitare, ancorché sono costretto ad ascoltare i suoi insulti, rivolti ad Ilaria. Ho imparato a frequentare coloro che soffrono ingiustamente per i mali della Giustizia, perché la Costituzione non afferma che sia necessario abbrutire gli individui per riparare i reati, veri o presunti. Li frequenterò sempre, con le associazioni, col mio lavoro, con le petizioni e le leggi, perché conoscendoli ho reso un po’ più significativa la mia vita, imparando a farmi carico di parte dell’ingiustizia della società. Ma di fronte alla facilità con cui le destre, i reazionari, i bigotti distolgono l’occhio dei cittadini dalle loro mancanze, come fa il ministro Giovanardi, mi appello a tutti coloro che lavorano nella Giustizia, dalla minorile fino all’ultimo giorno di ergastolo, perché respingano quest’ultima provocazione e vadano a votare, non per la carriera politica di Ilaria Cucchi ma per la rappresentanza delle nostre idee, perché una volta almeno la società civile scelga i propri rappresentanti ed abbia una sponda in Parlamento, perché non ci facciamo dividere da chi usa l’unica arma che ha: la menzogna. Giustizia: due detenuti albanesi evadono da carcere di Parma, polemiche e caccia all’uomo Corriere della Sera, 3 febbraio 2013 Hanno segato le sbarre della cella e si sono calati con lenzuola i due detenuti albanesi evasi dal carcere di via Burla a Parma. Lo ha riferito, dopo ulteriori accertamenti, il segretario generale aggiunto del Sappe, Giovanni Battista Durante e la notizia è poi stata confermata dal provveditore regionale del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria dell’Emilia - Romagna, Pietro Buffa. I due sono quindi riusciti a raggiungere l’esterno della struttura penitenziaria. La fuga intorno alle 6,30 di sabato mattina dopo aver manomesso le sbarre. Potrebbero risalire invece alla serata di ieri, secondo informazioni ancora da confermare, i colloqui avuti dai due evasi con i familiari. Ad accorgersi della scomparsa sono stati gli agenti della polizia penitenziaria durante il giro di controllo e sono subito scattate le ricerche. La polizia penitenziaria e le altre forze di polizia li stanno cercando in tutta Italia e nella zona sono stati attivati numerosi posti di blocco. I due albanesi evasi sono Taulant Toma, 29 anni, e Valentin Frokkaj, di 35. Le loro generalità sono state confermate dagli investigatori. Taulant Toma, con precedenti per rapina e spaccio di droga, risulta evaso già dal supercarcere di Terni il 9 ottobre 2009, dopo essersi calato anche in quel caso dalla sua cella con un lenzuolo. Fu poi rintracciato e bloccato dopo due mesi e mezzo di latitanza, il 22 dicembre, in un residence a Casarile (Pavia). Valentin Frokkaj risulta invece coinvolto nell’omicidio di un albanese di 23 anni avvenuto a Brescia nel luglio 2007. Il segretario generale aggiunto del Sappe, Giovanni Battista Durante commenta: “la scarsa attenzione che negli ultimi tempi si pone alla sicurezza delle carceri determina episodi di questo tipo”. Il Sappe sottolinea “la continua riduzione del personale di polizia penitenziaria: al momento mancano 7.500 unità a livello nazionale (650 solo in Emilia Romagna), nei prossimi due anni ne perderemo altre 2.000 a causa dei tagli alla spesa pubblica, considerato che potremo assumere solo il 35% circa di coloro che andranno in pensione”. E, aggiunge Durante, anche “l’eccessivo sovraffollamento e la tendenza ad allentare le maglie della sicurezza fanno in modo che il carcere diventi sempre meno sicuro”. Il carcere di via Burla a Parma è entrato in funzione poco più di vent’anni fa, nel novembre 1992. Ha preso il posto delle storiche prigioni ricavate nell’ex complesso di San Francesco, dove si ricordano alcune evasioni “classiche”, mentre nella nuova struttura finora si erano avuti solo alcuni casi di evasione per mancato rientro dai permessi. Tra questi, quello singolare del gennaio di due anni fa, quando un pregiudicato napoletano di 39 anni in regime di semilibertà a Parma era andato a costituirsi al penitenziario di Lucca, per riuscire ad ottenere “una cella più comoda e soprattutto meno umida”. Carcere con un settore riservato ai detenuti sottoposti al trattamento del “41 bis”, è stato progettato per circa 400 persone, ma ne ospita attualmente molte di più. Uccise un albanese a Brescia, ergastolano evade dal carcere di Parma (Brescia Oggi) Hanno utilizzato una lima per segare le sbarre del carcere di Parma e scappare prima che iniziasse l’orario di colloquio tra detenuti e parenti. In una di quelle celle, di recente costruzione, ha soggiornato anche Calisto Tanzi, l’ex presidente della Parmalat coinvolto nel crack dell’azienda. Una fuga stile Alcatraz, utilizzando vecchie e collaudate tecniche: sega e lenzuola. In fuga due albanesi che hanno messo a segno reati anche nel Bresciano: Valentin Frrkay, 33 anni, in particolare, a fine marzo del 2009 è stato condannato all’ergastolo per aver ucciso un connazionale al Parco Gallo di Brescia Due nell’estate 2007. Era in cella con il connazionale Taulant Toma, 28 anni, arrestato tre anni fa per furti e rapine in villa nel nord Italia. Frrkay aveva colpito anche nella Bassa bresciana, a Manerbio. Toma non è alla prima evasione; era già fuggito dal supercarcere di Terni calandosi con un lenzuolo nell’autunno del 2009, salvo essere catturato il 22 dicembre, dopo due mesi e mezzo di latitanza, in un residence di Casarile (Pavia). E nel 2003 era stato catturato mentre segava le sbarre di un ufficio postale nel Pavese: voleva rapinare la direttrice. La notizia della fuga è arrivata all’ora di pranzo in questura a Brescia: gli investigatori della squadra Mobile che si occupano di criminalità organizzata e straniera hanno iniziato a controllare i pregiudicati albanesi. I due uomini in fuga potrebbero essere nel Bresciano, ospiti di connazionali che possono dare loro protezione, soldi e documenti falsi. Taulant Toma, condannato per rapina, droga e evasione, avrebbe riottenuto la libertà nel 2022; nessuna prospettiva, invece, per Frrokay, condannato all’ergastolo nel marzo del 2009 per l’omicidio di Elton Llaho, intervenuto per sedare una lite tra connazionale al Parco Gallo. Ferito gravemente, morì in ospedale l’8 agosto, dopo due settimane di agonia. In Corte d’assise - presidente Enrico Fischetti - venne inflitta la massima pena a Valentin Frrkay (che in Albania era già stato condannato a 7 anni e mezzo per tentato omicidio) mentre 21 anni furono comminati per concorso in omicidio al suo connazionale Ded Ndreu, oggi 41enne. Frrkay, dopo aver sparato a un rivale in strada, trovò rifugio in Italia. Fino all’omicidio al Parco Gallo. Poche ore prima di ferire il connazionale aveva avuto un diverbio per motivi di viabilità in via Corsica con un altro albanese. Lite che era finita in rissa in un bar di Brescia due. L’incontro chiarificatore finì nel sangue. E Llaho si ritrovò in mezzo. Ieri mattina alle 6.30, gli agenti della polizia penitenziaria si sono accorti della clamorosa evasione durante l’appello di controllo mattutino. I due albanesi hanno segato le sbarre della cella, si sono calati con le lenzuola annodate e sono spariti. Forse c’era chi li attendeva all’esterno della cinta perimetrale dell’istituto. Il ministro della Giustizia Paola Severino ha disposto verifiche: da accertare come la lima sia entrata nel carcere, se si è di fronte a negligenze o a complicità. Nel frattempo, a Brescia da ieri è caccia all’evaso. Parma: il carcere ha 20 anni, ospita sezione di 41 bis (Ansa) Il carcere di via Burla a Parma è entrato in funzione poco più di vent’anni fa, nel novembre 1992, e fu ufficialmente inaugurato il 24 marzo 1993 con la visita del direttore del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria dell’epoca, Nicolò Amato. Ha preso il posto delle storiche prigioni ricavate nell’ex complesso di San Francesco, dove si ricordano alcune evasioni “classiche”, mentre nella nuova struttura finora si erano avuti solo alcuni casi di evasione per mancato rientro dai permessi. Tra questi, quello singolare del gennaio di due anni fa, quando un pregiudicato napoletano di 39 anni in regime di semilibertà a Parma era andato a costituirsi al penitenziario di Lucca, per riuscire ad ottenere “una cella più comoda e soprattutto meno umida”. Carcere con un settore riservato ai detenuti sottoposti al trattamento del 41-bis, è stato progettato per circa 400 persone, ma ne ospita attualmente molte di più. I dati diffusi lo scorso ottobre dopo una visita nella struttura da Desi Bruno, Garante dei detenuti dell’Emilia-Romagna, parlavano di 617 reclusi contro una capienza regolamentare che prevede 385 posti. I detenuti comuni erano 465, quelli in regime di alta sicurezza 85, altri 69 in regime di 41-bis; 13 in semilibertà, 16 lavoranti esterni in articolo 21. Tra i personaggi che sono stati, o sono reclusi a Parma, anche boss della criminalità organizzata come Leoluca Bagarella, Raffaele Ganci, Giovanni Alfano e Bernardo Provenzano, e l’ex patron della Parmalat Calisto Tanzi, trasferito pochi giorni fa all’ospedale Maggiore dopo essere caduto sul pavimento della cella. L’istituto dispone di varie strutture: la Casa di reclusione ospita i detenuti condannati in via definitiva, con annesso centro diagnostico e settore per invalidi; la Casa circondariale ospita invece i detenuti in attesa di sentenza. Un’altra struttura ospita i detenuti del 41-bis. Detenuti in fuga, nel 2012 registrate 22 evasioni (Adnkronos) Sono state 22, nel 2012, le evasioni dai penitenziari italiani o dagli ospedali che ospitavano temporaneamente i detenuti, un dato in aumento rispetto alle 14 registrate nel 2011. I dati, riferiti dalla Uil Penitenziari nel giorno della duplice evasione di Parma, fanno registrare anche almeno altri sette tentativi sventati prima di essere portati a compimento. Tra le evasioni riuscite, lo scorso anno ha fatto scalpore quella messa in atto da quattro detenuti fuggiti dal carcere di Bellizzi Irpino (Avellino) il 12 dicembre scorso. Un mese prima, il 12 novembre, un detenuto era evaso dal Pronto Soccorso dell’Ospedale Garibaldi di Catania, il 10 novembre era stata la volta di un altro detenuto fuggito dall’ospedale di Foggia. In precedenza, il 6 settembre, un giovane detenuto nordafricano era evaso dal carcere minorile Beccaria di Milano. Il 24 luglio fuga dal carcere di Palmi di un uomo con il classico espediente delle lenzuola annodate per calarsi dal muro di cinta. Questa la casistica registrata dalla Uil Penitenziari tra il 2009 e il 2011 in materia di evasioni dagli istituti di pena: 9 nel 2009, 10 nel 2010, 14 nel 2011. Nel medesimo periodo, sono state 39 le evasioni sventate. I numeri dell’emergenza: più di mille i tentati suicidi all’anno (Adnkronos) L’evasione dei due detenuti dal carcere di via Burla a Parma riporta all’attenzione le tante emergenze del pianeta carcere. Non tanto in termini di evasioni che, come registrano i dati del Sappe, si attestano sulla decina all’anno, quanto invece per le altre emergenze. I tentati suicidi sono superiori alle mille unità all’anno, 60-70 circa vengono portati a termine senza possibilità di intervento da parte degli agenti penitenziari. L’emergenza riguarda anche il numero di aggressioni di detenuti ai danni di agenti della penitenziaria: gli episodi, dati Sappe alla mano, sono 800 all’anno. Fa riflettere anche il dato relativo alle proteste dei carcerati per lamentare le precarie condizioni dei penitenziari: 135mila ogni anno. Lettere: il caso Solimano, Ostracismo a due facce di Domenico Marsili Il Tirreno, 3 febbraio 2013 Marco Solimano sarebbe incompatibile come assessore al Comune di Livorno perché avendo lottato contro lo Stato (o i suoi poteri?) non può avere ruoli nello Stato. Senza meravigliarmi né scandalizzarmi trovo nella memoria pezzi della nostra storia significativi. Criminali fascisti (alti ufficiali, questori, podestà) mai processati sono stati promossi e incaricati nella Repubblica nata dalla Resistenza. Mai condannati nonostante l’istruttoria (poi celata) fosse pronta dal 1954. Almirante, noto fucilatore di partigiani, ha passato la vita nel Parlamento dello Stato. Rauti, suo successore, trovato spesso dietro la chiara (fin troppo) storia delle trame eversive ha ricevuto gli onori politici alla morte. Nel ventennio delle “Stragi di Stato”, decine e decine di politici, di funzionari di alto grado e generali, hanno pilotato e gestito servizi deviati dietro a tentativi di golpe o a bombe variamente camuffate. Nessuno è stato rimosso, semmai premiato. Dal 1948 ad oggi politici di grande spessore e con ruoli primari hanno cinguettato (di persona, senza twitter) con mafia e camorra (denaro, potere e baci tra affiliati) lasciando spesso a morire in prima linea fedeli servitori dello Stato come Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino, tanto per citarne alcuni. E Francesco Cossiga? Di giorno faceva il Presidente della Repubblica e di notte il gladiatore pronto a guidare una “rivolta” in armi se il Pci avesse vinto le elezioni. Niente che ci meravigli né che ci scandalizzi. Niente, neppure l’ipocrisia del potere e di quelli che questo inseguono. Ora il Partito Democratico prende le distanze da Mps e scarica come zavorra Solimano. Mi domando, ma Solimano è pentito di aver militato in Prima Linea o di aver “fondato”, come lui stesso dice, il Pd? Sardegna: Cappellacci; la Colonia penale di Is Arenas in contesto valorizzazione territorio Adnkronos, 3 febbraio 2013 “Anche la Colonia penale di Is Arenas deve rientrare nel quadro di una generale valorizzazione del territorio”. Lo ha dichiarato il presidente della Regione Sardegna, Ugo Cappellacci, durante la visita della colonia penale di Is Arenas (Arbus), a margine della firma del Protocollo d’Intesa sul Piano Strategico sovracomunale, sottoscritto oggi ad Arbus dal presidente con i Comuni dell’Arburese (Medio Campidano) per il recupero delle aree minerarie dismesse. “La struttura - ha aggiunto il Presidente - non solo si è tradotta in uno strumento di salvaguardia delle bellezze ambientali e paesaggistiche, ma ha altresì sviluppato un’esperienza nel campo dell’allevamento e dell’agricoltura, che possono rappresentare il primo embrione di una maggiore interazione con il territorio. Proporremo al Ministero della Giustizia - ha concluso - un progetto sperimentale che possa rappresentare un modello nazionale per il reinserimento sociale e lavorativo per i detenuti”. Sicilia: l’Assessore all’Istruzione Scilabra; serve una maggiore attenzione per i detenuti Ansa, 3 febbraio 2013 L’assessore regionale dell’Istruzione e della formazione professionale, Nelli Scilabra, ha incontrato Francesca Vazzana, direttore del carcere Pagliarelli di Palermo. “La situazione delle carceri nel nostro Paese, e in Sicilia, è drammatica: sovraffollamento, carenza di personale, inadeguati sistemi di sostegno psicologico per i detenuti, per la polizia penitenziaria e il personale tutto - ha detto Scilabra. Stamattina ho incontrato il direttore del Pagliarelli per avviare una nuova formazione rivolta ai detenuti e al personale di polizia penitenziaria, sia in fase di detenzione che per quella di accompagnamento a fine pena e il conseguente reinserimento nella società”. “Il sistema delle carceri deve essere migliorato, è necessaria una maggiore attenzione verso i detenuti e il personale delle carceri - ha concluso - chi vive e lavora dentro una casa circondariale non può essere considerato un invisibile, senza diritti e dignità”. Macomer (Nu): allarme per la chiusura del carcere, anche il tribunale rischia dismissione La Nuova Sardegna, 3 febbraio 2013 Nel 2001, quando il ministero decise di trasformarlo in una struttura di massima sicurezza per detenuti sottoposti al regime dell’articolo 41 bis, il destino del carcere di Macomer era un altro. Il timore che arrivassero in città i grossi calibri della mafia suscitò una forte reazione e il progetto venne abbandonato. Oggi, col senno di poi, si pensa che se fosse diventato un carcere duro con un regime speciale, probabilmente si eviterebbe la dismissione. Il ministero aveva previsto la trasformazione dell’intera struttura costruita negli anni Ottanta come carcere mandamentale. Quello di Macomer doveva essere l’unico carcere sardo destinato ai detenuti più pericolosi. Dopo la sezione staccata del tribunale, che chiuderà a giugno se il nuovo governo non modificherà le scelte del ministro della Giustizia, sarà la volta del carcere. Il dipartimento degli istituti di pena ha deciso la dismissione del carcere di Macomer, che chiuderà con quello di Iglesias. La notizia ha suscitato preoccupazione fra il personale, ma anche nelle famiglie di diversi detenuti sardi che avevano ottenuto il trasferimento per espiare la pena a Macomer, più vicino ai congiunti. La chiusura del carcere è solo un tassello del processo di smantellamento dei servizi pubblici in città. Chiude il tribunale, l’Inps è ridotta a poca cosa, è a rischio di ridimensionamento - se non di chiusura - anche l’agenzia delle Entrate. Trenitalia sembra abbia intenzione di sopprimere alcune corse verso il nord e il sud dell’isola e le scuole hanno subìto accorpamenti e tagli che non sembra siano finiti. È a rischio anche l’Istituto tecnico superiore per l’efficienza energetica, ma non dipende dai tagli. Se Macomer perderà la scuola è perché è in atto un tentativo, neppure tanto velato, di scippo. Il carcere chiude per mancanza di personale. Il ministero della Giustizia sta ampliando il numero dei posti nelle altre strutture carcerarie, dove si aggiungono nuovi padiglioni per aumentare la capacità senza ampliare più di tanto gli organici. Per il centro Sardegna si punta sul nuovo carcere di Massama, dove probabilmente finiranno i detenuti e il personale della struttura di Macomer. I sindacati guardano con preoccupazione all’operazione. Per la Cisl il carcere di Macomer potrebbe avere ancora un ruolo se utilizzato per i detenuti in semilibertà che rientrano dopo il lavoro. Anche per l’Ugl la chiusura sarebbe da evitare. “Chiudere un istituto di pena non è mai una cosa buona - dice Libero Russo, segretario provinciale dell’Ugl polizia penitenziaria, - con gli attuali numeri di personale le cose non vanno bene, ma c’è anche da dire che il carcere di Macomer è in buono stato e non si capisce perché si amplino altre strutture spendendo soldi mentre si abbandona questa”. Il problema del carcere di Macomer, denunciato anche da Maria Grazia Caligaris e Mauro Pili, è il sovraffollamento. La struttura ha 46 posti regolamentari, ma nei giorni scorsi ospitava 81 detenuti, quasi il doppio rispetto alla capienza. Lo scorso autunno il deputato Mauro Pili aveva denunciato la grave carenza di personale che creava problemi di sicurezza. Reggio Calabria: parlamentari Pd Bindi e Minniti; riaprire subito il carcere di Laureana Adnkronos, 3 febbraio 2013 Il presidente dell’Assemblea nazionale del Pd Rosy Bindi, capolista dei democratici in Calabria alla Camera e Marco Minniti, capolista al Senato, hanno visitato questo pomeriggio il carcere a custodia attenuata di Laureana di Borrello, in provincia di Reggio Calabria. La struttura, si legge in una nota, “è entrata in funzione nel 2004 come carcere all’avanguardia, basato su un progetto avanzato di coinvolgimento dei detenuti nelle attività lavorative, ma attualmente è chiusa e non utilizzata”. Al termine della visita Bindi e Minniti hanno ribadito l’impegno del Pd, perché la struttura torni, quanto prima in funzione, assicurando una adeguata pianta organica del personale. “Il ministero intervenga - chiedono Bindi e Minniti - . Nella straordinaria drammaticità della situazione penitenziaria italiana, resa esplosiva da un cronico sovraffollamento, il carcere di Laureana - sottolineano - deve tornare ad essere esempio concreto di rispetto della dignità della persona detenuta e della funzione rieducativa che la nostra Costituzione affida agli istituti di pena”. Piacenza: pestato in carcere, due detenuti e un agente accusati di tentato omicidio www.ilpiacenza.it, 3 febbraio 2013 Chiesto il rinvio a giudizio. Un genovese picchiato brutalmente perché denunciò favoritismi. Nei guai anche un agente della polizia penitenziaria. La procura di Piacenza ha chiesto il rinvio a giudizio di due detenuti e un agente della polizia penitenziaria accusandoli di tentato omicidio in concorso. L’udienza è stata fissata dal giudice per le indagini preliminari Gianandrea Bussi. La vicenda risale al luglio del 2011 quando un detenuto genovese di 45 anni venne brutalmente picchiato da due immigrati, un sudamericano di 23 anni e un marocchino di 36 anni. Secondo gli inquirenti, a quel pestaggio avrebbe partecipato anche l’agente. Futili - anche se ritenuti importanti all’interno del carcere - i motivi che avrebbero portato alla spedizione punitiva: piccoli favori all’interno delle celle, garantiti dal poliziotto della penitenziaria, e il fatto che il genovese sembra avesse “la lingua lunga” perché aveva denunciato i favoritismi. All’agente, il sostituto procuratore Ornella Chicca, titolare dell’indagine, ha contestato anche alcuni episodi di falso. Il detenuto pestato era stato ridotto in gravi condizioni e venne ricoverato in ospedale per un mese e poi trasferito in un’altra struttura, per evitare ritorsioni. Il 45enne si trovava in un corridoio con un altro detenuto. Quest’ultimo aveva ricevuto una gomitata ed era scappato. Il 45enne era così stato aggredito, buttato a terra e colpito da calci e pugni in tutto il corpo, specialmente in viso. L’agente, secondo le indagini, sarebbe accorso, ma “sarebbe rimasto a guardare”. Nel dicembre del 2011 l’inchiesta ebbe una svolta, perché la procura chiese lirresto dei due detenuti e dell’agente. Questo grazie agli interrogatori e alle immagini riprese dalle telecamere interne al carcere che avevano permesso di ricostruire la dinamica del fatto. L’agente è assistito dagli avvocati Benedetto Ricciardi e Luigi Alibrandi, mentre gli immigrati sono difesi da Piero Spalla e Wally Salvagnini. Il detenuto pestato, infine, si costituirà parte civile con l’avvocato Paolo Cattadori. Sassari: al processo per la morte di Marco Erittu testimonia la direttrice del carcere di Elena Laudante La Nuova Sardegna, 3 febbraio 2013 “Sì, Vandi sembrava godere di un trattamento di favore anche quando era in isolamento. Sì, qualche agente aveva con lui un comportamento di confidenza che ritenevo eccessiva. Ma la mia considerazione personale è che Marco Erittu non fu ucciso. Morì per un gesto dimostrativo finito male”. Il testimone è di quelli qualificati: l’allora e attuale direttrice del carcere di San Sebastiano, Patrizia Incollu, ricorda con precisione i giorni precedenti la morte di Marco Erittu, spirato nella cella del braccio promiscui di quel carcere, il 18 novembre 2007. Alla Corte d’assise offre ricordi lucidi e netti e - teste d’accusa - non si fa piegare dalla raffica di domande del collegio difensivo. È il suo racconto, assieme a quello dell’allora provveditore regionale all’amministrazione penitenziaria Francesco Massidda, al centro di un’udienza tesissima, che registra anche un acceso battibecco tra uno dei difensori di Mario Sanna, Agostinangelo Marras, e il presidente della Corte, Pietro Fanile, arrivato a citare il reato anglosassone di “oltraggio alla corte”. Gli animi si placano quando, alle 14, entra in aula Patrizia Incollu, già a capo di San Sebastiano tra il 2003 e fine 2008. Era fuori Sassari quella domenica mattina, quando Erittu diede in escandescenze e fu trasferito dalla sua cella ordinaria a quella “liscia” del braccio promiscui, in un isolamento deciso per evitare che si suicidasse, ma che era stato disposto - rivela Massidda - con una infrazione disciplinare, perché un medico avrebbe dovuto dare il via libera. Qualche ora dopo, non respirava più, Erittu: per l’accusa ucciso da chi voleva tappargli la bocca e impedirgli di inguaiare Pino Vandi (è solo il sospetto), forse collegato alla morte di Sechi, muratore di Ossi scomparso nel 1994. Incollu ritorna a qualche giorno prima la morte. Su di lei gli occhi del detenuto e presunto regista del delitto, Vandi, e poi dell’agente della Penitenziaria Mario Sanna e di Nicolino Pinna, allora detenuto, tutti accusati dal reo confesso Giuseppe Bigella di aver voluto la fine di Erittu. “Sì, ricordo che era un detenuto particolarmente problematico, faceva atti di autolesionismo. Qualche giorno prima (della morte, ndc) si era barricato in cella e si era cosparso di gas”. Aveva chiesto di parlare da solo con lei e lei lo aveva accontentato. “Disse che temeva di essere ucciso, ma non fece il nome, disse che aveva chiesto di parlare con il procuratore della Repubblica e si tranquillizzò quando gli assicurai che sarebbe venuto a parlare con lui”. Per l’accusa, sostenuta in aula dal pm Giovanni Porcheddu, è la prova che Erittu temesse per la sua vita, come pure aveva scritto in lettere e agende esposte ieri dall’agente della polizia giudiziaria della Procura di Cagliari, Emiliana Atzori. Il suo ruolo, quello di teste che però a volte si esprime come un consulente, fa andare su tutte le furie l’avvocato Marras, e innesca lo scontro con la Corte. Ma è su Incollu che si concentra l’attenzione. Soprattutto quando ricorda le fasi che portarono poi all’inchiesta sul presunto traffico di droga in carcere, che vede imputati proprio Vandi, l’agente a “lui vicino” Del Rio, e un collega, Santucciu. La direttrice ricorda quest’ultimo, “all’epoca comandante della Penitenziaria, che un giorno fece verifiche sulle mie telefonate con un agente del Nucleo di polizia giudiziaria interno”, ricorda riferendosi a quei poliziotti che dovevano indagare sui ritrovamenti di droga. Dopo le “intercettazioni”, cita Santucciu anche per il presunto favore a Nicolino Pinna, che sarà Bigella a rivelare. “Santucciu aveva consentito alla figlia minore di Pinna di entrare da sola a colloquio, quando ai minori non accompagnati è vietato”. Su Vandi, il difesore Pasqualino Federici - legale con Patrizio Rovelli e Elias Vacca - le chiede se davvero potesse essere favorito dagli agenti. Lei conferma: “C’erano particolari favoritismi nei suoi confronti”, ma il legale le fa ammettere che la fonte dell’informazione “era Bigella, sebbene riscontrata”. Allora Bigella era un informatore: faceva trovare droga nelle celle dei nemici, per farli punire. “Informava anche nel 2007?”, vuole sapere Rovelli. Incollu non cede, poi le scappa la “considerazione”: “Non credo alla tesi dell’omicidio”. Il presidente sbotta: “Nemmeno dopo che le aveva detto di temere per la sua vita?”. Lei: “No, aveva manie di persecuzione”. Si continua venerdì. Brescia: due detenuti si incontrano nell’ora d’aria… e scoprono di essere padre e figlio di Giordano Tedoldi Adnkronos, 3 febbraio 2013 Dopo trentasette anni i due, entrambi detenuti nel carcere di Mombello, si incontrano e ricostruiscono le loro vite. Poi il figlio ha ottenuto i domiciliari, ed è uscito. L’uomo è rimasto dentro, tenendo vivo quel legame che grazie alla prigione è riuscito a ricucire. Difficile dire se sia più forte la gioia o il dolore, nel conoscere il proprio figlio, e il proprio padre, in carcere. La storia di Vincenzo, 61 anni, detenuto nel carcere di Canton Mombello, e del figlio che non sapeva di avere, anch’egli finito nello stesso luogo di pena, è stata raccolta dal giornale di Brescia. Una vicenda amara, che sembra raccontare che dal proprio destino non si sfugge, che non c’è riscatto possibile, anzi, i propri errori vengono raccolti dai figli, gli stessi guai passano in eredità a loro. Vincenzo e il figlio si incontrano un giorno durante l’ora d’aria e si guardano con quella misteriosa sensazione di trovarsi di fronte a un altro sé, a un doppio. Sensazione strana in un carcere, dove in celle disumane in cui trovano posto sei persone, quando dovrebbero starcene due, gli altri sono più spesso un fastidio, una presenza asfissiante, l’ennesimo corpo schiacciato in uno spazio che scoppia. Saranno anche vere le leggende sulla solidarietà tra detenuti, ma quando il sovraffollamento raggiunge simili livelli si farebbe volentieri a meno di solidarizzare. Ma Vincenzo intuisce che quel ragazzo non è un detenuto come gli altri, non è un altro avversario con cui contendere centimetri di vita, e chiede informazioni al compagno di cella del ragazzo. Quello gli rivela che la madre è una donna di Salò che Vincenzo aveva conosciuto molti anni prima. Nell’incontro successivo, Vincenzo racconta al ragazzo di aver conosciuto sua madre, “portale i miei saluti”, gli dice. Il ragazzo scrive alla madre, le racconta di quel signore che dice di averla conosciuta. La donna risponde direttamente a Vincenzo: “Quel ragazzo che hai conosciuto in carcere è tuo figlio. Ha 37 anni”. Altro che ragazzo, un uomo. Vincenzo è come stordito dalla notizia: è già padre e nonno. “L’ho riguardato in faccia e ho visto i miei stessi occhi. E così gli ho detto tutto”. Il riconoscimento è commovente ma amaro: come si fa a sopportare di scoprire un figlio, non un ragazzino sventato, ma un uomo di 37 anni, nel carcere in cui si è rinchiusi? E il figlio, riconoscendo il padre in quel detenuto alle soglie della vecchiaia, non avrà pensato che per certe persone non c’è futuro? Che era scritto che anche lui facesse la fine di suo padre, un perdente figlio di un altro perdente? Ma in carcere pensare è solo una perdita di tempo, bisogna aiutarsi, e aiutandosi, in cella, i due hanno costruito il loro rapporto di padre e figlio. Poi il figlio, almeno lui, è uscito, ha ottenuto i domiciliari, e Vincenzo è rimasto dentro, tenendo vivo quel legame bello e triste al tempo stesso. Ora quando parla del figlio Vincenzo piange, perché è come se rivedesse in lui i suoi stessi errori, l’implacabile ripetersi di uno sbaglio che di generazione in generazione non si riesce a evitare. Se almeno il figlio raddrizzasse la sua vita, allora sì, sarebbe un bel riscatto. Allora sì, che valeva la pena di guardarsi e riguardarsi con un estraneo nell’ora d’aria, per poi sentirsi dire: “È tuo figlio” Cagliari: Socialismo Diritti Riforme; bimba di 14 mesi in cella con madre a Buoncammino Adnkronos, 3 febbraio 2013 Una bimba di 14 mesi è in carcere al Buoncammino di Cagliari in seguito a un’ordinanza di custodia cautelare emessa dal Tribunale di Sassari nei confronti della madre 27enne, accusata di furto e truffa. La giovane, originaria di Siracusa, è domiciliata a Quartucciu (Cagliari). Lo rende noto Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme, che sottolinea l’ennesima assurda vicenda di un’innocente in un Istituto Penitenziario. Purtroppo - sottolinea Caligaris - non è la prima volta che una neonata finisce dentro una cella del carcere di Buoncammino. L’assenza di un’alternativa dignitosa alla reclusione nella Casa Circondariale cagliaritana determina situazioni che destano viva preoccupazione tra gli operatori. La presenza di una bimba in così tenera età contrasta con un ambiente oggettivamente distante da standard igienico - sanitari ideali per i più piccoli. In più occasioni è stata sollecitata la disponibilità di una casa, a custodia attenuata, per evitare che piccoli innocenti varchino il portone dei Penitenziari ma finora niente è stato fatto. Un bimbo dietro le sbarre - conclude la presidente di Sdr - è l’inequivocabile sintomo di un sistema che non rispetta i diritti dei più deboli. L’Aquila: appello al Tribunale; detenuto a Lanciano non può rivedere la figlia malata Il Centro, 3 febbraio 2013 Un appello rivolto alle autorità preposte, ai giudici del competente Tribunale di Sorveglianza, a favore di una bambina cosentina di 10 anni, gravemente malata, che vive a Cosenza, su una sedia a rotelle, che non potrà più vedere il suo papà, Pietro D., detenuto, trasferito da pochi giorni dal carcere di Rossano a quello di Lanciano. L’uomo ha già scontato nell’istituto di pena calabrese cinque anni di carcere e gli resta meno di un anno. La bambina, che periodicamente deve recarsi per le cure all’ospedale Bambin Gesù di Roma, sta soffrendo molto per l’allontanamento del suo genitore e chiede che quest’ultimo ritorni a Cosenza per starle vicino. “È stato l’avvocato Paolini, che già in passato, pur non essendo il loro legale (il detenuto è difeso dall’avvocato Rossana Cribari) ha aiutato la famiglia di questa bambina - è scritto in una nota di Diritti civili - a telefonare a Corbelli e chiedergli di fare un intervento congiunto per questo caso umano”. Corbelli e Paolini hanno sentito oggi al telefono la madre di questa bambina, Tamara P., “che si sta battendo, con dignità e coraggio, per aiutare la sua figlioletta malata, perché venga rispettato il suo diritto di aver vicino il suo papà, di poterlo incontrare e abbracciare in carcere come è stato sino a due giorni fa nella casa circondariale di Rossano”. “Quello che chiediamo - affermano Paolini e Corbelli - è un atto di giustizia giusta e umana, degno di un Paese civile e di uno Stato di diritto. La possibilità che quest’uomo possa ritornare nel carcere di Rossano o di Cosenza, dove vive la bambina con la sua famiglia, per scontare il suo residuo pena, in modo che lo stesso possa vedere e stare vicino alla figlioletta”. Vercelli: Sappe; agente aggredito da un detenuto durante ora d’aria, carenza di personale Agi, 3 febbraio 2013 Questa mattina un detenuto ha aggredito improvvisamente e violentemente un agente di polizia penitenziaria che, nel carcere di Vercelli, stava accompagnando i detenuti all’ora d’aria. Lo rende noto il Sappe, esprimendo solidarietà alla vittima, che ha dovuto ricorrere alle cure dei sanitari del pronto soccorso. “Questa ennesima aggressione ci preoccupa - commenta il segretario generale del Sappe, Donato Capece - anche perché a Vercelli gli eventi critici come aggressioni e atti di autolesionismo sono purtroppo all’ordine del giorno e la tensione resta alta, a tutto discapito del nostro lavoro”. Secondo Capece, “la carenza di personale di Polizia penitenziaria e di educatori, di psicologi e di personale medico specializzato, il pesante sovraffollamento delle carceri italiane sono temi che si dibattono da tempo, senza soluzione, e sono concause di questi tragici episodi. Bisogna intervenire tempestivamente per garantire adeguata sicurezza agli agenti e alle strutture ed impedire l’implosione del sistema”. Gela (Cl): intesa tra “Cittadini attivi” e Garante il volontariato porta solidarietà in carcere La Sicilia, 3 febbraio 2013 Il volontariato entra nel mondo del carcere, portando solidarietà ed aiuti concreti al processo di rieducazione e reinserimento sociale dei detenuti. Un’associazione gelese, “Cittadini attivi” fondata nel 2007 da Carlo Varchi ha siglato un protocollo d’intesa con il Garante per i diritti dei detenuti, sen. Salvo Fleres. Varchi e Fleres si conoscono da molti anni e si sono ritrovati qualche anno fa uniti nella battaglia per l’apertura del carcere di contrada “Balate” a Gela, pronto da tempo e anzi inaugurato più volte, ma fittiziamente perché ora mancava l’acqua, ora mancava il personale. Prima la battaglia per l’apertura del carcere a cinquant’anni dalla sua progettazione (un vero scandalo mentre i penitenziari italiani scoppiano) poi, dopo l’apertura, nel novembre del 2011, una forte attenzione di entrambi al miglioramento delle condizioni di vita dei reclusi. È stata proprio l’associazione “Cittadini attivi” a donare alla popolazione carceraria computer ed attrezzi da giardinaggio, avviando un percorso virtuoso di emulazione che ha visto poi l’Amministrazione comunale ed altre associazioni donare palloni e libri alla struttura carceraria. Infine, da settembre è stata aperta una sezione scolastica per il conseguimento della licenza elementare e media. L’attenzione del direttivo dell’associazione, guidata da Varchi, verso il penitenziario ed i suoi ospiti non è mai venuta meno, tant’è che con la firma del protocollo con il Garante, si sono create le basi per una presenza più forte dei volontari all’interno del carcere. Il testo del documento d’intenti prevede la collaborazione a titolo gratuito dell’associazione con il Garante per tre anni in progetti di sostegno psicologico e in attività di cura alla persona che si trova in quella struttura. “Questo protocollo giunge dopo altre attività condotte insieme ai volontari di questa associazione veramente molto attiva - dice il senatore Fleres - contiamo di sviluppare attività di formazione e di istruzione. Quello di Gela è un piccolo carcere aperto da poco e scarseggia sotto l’aspetto educativo in quanto ha una sola figura di educatore a tempo parziale. È auspicabile che l’associazione possa dedicarsi all’organizzazione di conferenze e tornei sportivi, per citare alcune delle cose che si possono fare”. “A Gela c’è un carcere - continua Fleres - nuovo e moderno con le Tv buone e le docce nelle celle, tutte le attrezzature sono nuove e gli spazi non mancano. Il carcere risente della carenza di personale soprattutto di educatori e di assistenti. So che tra poco arriverà una direttrice e la presenza di un responsabile stabile potrà sicuramente portare benefici e avviare nuove attività a vantaggio della persona. Se si attrezzassero degli spazi, si potrebbero fare corsi di cucina per pizzaioli e pasticceri, ad esempio, facendo in modo che le attrezzature vengano donate. Intanto un grande passo avanti lo si fa proprio con la generosità e l’intelligenza di un’associazione che ha compreso il valore di investire su un penitenziario ed i suoi ospiti come elemento di crescita di una collettività. Non è facile che ciò venga compreso”. “La nostra associazione - dice Carlo Varchi - a differenza di altre non ha un tariffario, noi il nostro impegno lo offriamo gratuitamente per la collettività. Chi conosce me, Filippo Franzone, Vincenzo Catania, Salvatore Siciliano ed altri componenti, sa bene che il nostro altruismo è limpido ed a costo zero come quest’ultimo impegno preso con il Garante per i diritti dei detenuti. Lo ringraziamo perché attraverso questo protocollo d’intesa riconosce di fatto l’associazione Cittadini attivi come unica e vera realtà del territorio che sta al fianco dei cittadini”. Carlo Varchi ora annuncia che l’esempio di Cittadini attivi sarà seguito anche dall’associazione di Protezione civile inserita nel direttivo. “Pure Orazio Coccomini, nostro consigliere e presidente dell’associazione di protezione civile Giubbe d’Italia - annuncia Carlo Varchi - firmerà nei prossimi giorni un protocollo con il Garante. La sua associazione curerà i tanti extracomunitari che sono reclusi a Balate. Ha già raccolto vestiario per loro e li curerà nelle esigenze che via via si evidenzieranno. Noi invece ci attiveremo nel campo rieducativo e psicologico. Questo è l’esempio di come tra noi collaboriamo e ci impegniamo senza risparmiare energie in tutti i progetti in cui crediamo”. Massa Marittima (Gr): con Slow Food i “Laboratori del Gusto” arrivano anche in carcere Il Tirreno, 3 febbraio 2013 Dal marzo del 2006, la Casa circondariale di Massa Marittima e la Condotta Slow Food del Monteregio hanno intrapreso una collaborazione che vanta 49 “Laboratori del Gusto” e due “Cene dell’amicizia”. In questi anni, il progetto iniziale si è sempre più adattato alle caratteristiche strutturali e tipologiche dei detenuti e dell’istituto; nel periodo ottobre - maggio, ogni mese, si rinnova l’appuntamento con aziende e produttori locali e non che, assieme ai soci Slow Food, concorrono alla realizzazione di momenti di scambio, di socializzazione e di conoscenza delle tipicità e delle caratteristiche specifiche dei tanti prodotti italiani. Il progetto, inoltre, ha fornito e fornisce altri importanti contribuiti alle attività di reinserimento socio - lavorativo dei detenuti: in questi anni, anche grazie alle iniziative slow food, è stato reso possibile un inserimento lavorativo presso un caseificio, è stata avviata (all’interno del carcere) l’attività di apicoltura, si sono svolti due corsi formativi sulle erbe aromatiche favorendo la cura di un’attività interna, si è tenuto un corso pittorico con la realizzazione di murales. Insomma, dal buon cibo e dallo scambio con le tante e positive realtà locali si sono creati spazi e iniziative per favorire il raggiungimento degli obbiettivi costituzionali. E un altro passo importante è stato fatto nei giorni scorsi in occasione del 50° laboratorio, quando si è tenuta una giornata - evento, che ha visto seguire al laboratorio del gusto “giusto, pulito e rinnovabile” un concerto del gruppo musicale della scuola di musica fiorentina “Landini” offerto dalla associazione Astir di Firenze e, a conclusione, un ricco buffet, con la presenza di alcuni dei produttori e delle aziende che, in questi anni, hanno collaborato al progetto “Gusto è libertà”. Erano presenti oltre alle autorità locali i soci della condotta del Monteregio e realtà che da tempo collaborano con la struttura penitenziaria di Massa Marittima. Milano: se la Pietà sta in carcere di Stefano Boeri (Assessore alla cultura del Comune) La Repubblica, 3 febbraio 2013 Solo alcune precisazioni sullo spostamento temporaneo della Pietà Rondanini all’ interno di San Vittore. La giunta vuole realizzare entro le mura del Castello un museo dedicato alla Pietà. Nel periodo necessario per la preparazione delle nuove sale e la ridestinazione della sala dove la scultura è oggi ospitata, si è preferito - piuttosto che sottrarla al pubblico - collocarla in due luoghi fondamentali della storia di Milano: il carcere di San Vittore e il Duomo. Luoghi dove la pietà, intesa come esperienza concreta e viva, è ogni giorno di casa. Purtroppo si continua a non considerare “pubblico” gli abitanti stabili di San Vittore: mentre si tratta, considerando il forte ricambio dei detenuti nel carcere, di diverse migliaia di donne e uomini che potranno vedere e interpretare l’opera. E - alcuni di loro - presentarla ai visitatori esterni. Il costo dello spostamento a San Vittore sarà intorno ai 460mila euro, costo analogo a quello per l’allestimento di una mostra di media dimensione. La Pietà a San Vittore sarà comunque un’opportunità per raccogliere fondi a favore della qualità della vita dei detenuti. La collocazione di un capolavoro dell’umanità all’interno di un carcere è certamente un gesto estremo. Ma proprio perché tale, aspira a richiamare tutti con forza a riflettere sulle condizioni di vivibilità - altrettanto estreme - in cui versano le nostre case circondariali e sul vuoto che il concetto di pietà incontra oggi nella politica, nell’economia, nella cultura contemporanea. Che sia Milano a proporre oggi questa riflessione, mi pare di grande importanza. Caro Boeri, mi hai convinto: dico estremamente sul serio. Cari lettori, di solito qui si lascia la parola a voi e non ai politici o alle aziende, ma erano in attesa da tempo, e avevano cose da dire: un’eccezione mi è consentita? Libri: Sandro Bonvissuto racconta la vita che non scorre “Dentro” il carcere L’Unione Sarda, 3 febbraio 2013 “Ha preso il posto che aveva, molti anni prima, lo studio all’università. È iniziata di notte, come un malessere strano”. Sandro Bonvissuto spiega l’approdo alla scrittura di “Dentro”, prestigioso esordio letterario con Einaudi nei Supercoralli, in cui l’editore colloca le penne a livello di Philip Roth. Grande scrittore, grande scrittura, ha detto Vincenzo Soddu introducendolo nell’incontro organizzato al Monroe, a Cagliari, dalla libreria Piazza Repubblica. Quarantadue anni, laureato in Filosofia (“Una cosa inutile ma mi ha posto in contatto con la prosa”, sorride), vive e lavora a Roma, in una trattoria. Oste? Cameriere, precisa lui. E scrittore. Alle spalle ha dei racconti pubblicati ma non distribuiti e un romanzo in testa da poter mettere su carta, se avesse sei mesi liberi dal lavoro. Uomo di romanità dirompente, viene definito. Vero. Ascolta attento, pesa le altrui parole e si prende il tempo dei filosofi per capire, annuire o dissentire e filtrare il genuino dall’ipocrisia. Solo dopo si apre, gigioneggia di romanesca spontaneità conquistando i presenti. Accoglie con un abbraccio un lettore che gli scaglia addosso con fervore i suoi complimenti, appena entra nel locale e riconosce l’autore. E “Dentro” li merita i complimenti, perché è materia letteraria alta già dalle prime pagine. L’opera va a ritroso per narrare la storia di un uomo in tre episodi, dall’età adulta all’infanzia: un’esperienza dietro le sbarre, l’amicizia adolescenziale con il compagno di banco e, infine, quel momento prezioso degli anni più verdi in cui un padre insegna al suo bambino ad andare in bicicletta. La scrittura è questione di urgenza per Bonvissuto, che ragiona sui numeri della detenzione e di ciò che definisce “effetti collaterali della democrazia”: “Non so se vi rendete conto di quanto sia grave la situazione delle carceri, quasi 70 mila detenuti. Attenzione, chi sbaglia deve pagare ma i coefficienti di recidività sono tali che ti portano a pensare che non ci sia la rieducazione”. Non è tenero con i politici e non ne può più di vedere la politica del meno peggio: “I detenuti non interessano quando non sono più clienti del sistema, quando non possono votare”. Spazio e tempo sono gli elementi portanti da capire. “Diciotto ore al giorno in una cella con quattro persone. Fuori, nella nostra vita, abbiamo grande disponibilità di spazio da occupare ma non abbiamo tempo per farlo, anche se possiamo. In carcere questo rapporto si inverte”. Bonvissuto trova tempo per riflettere? “No, nella vita devo andare a lavorare”, risponde nella risata generale. E scrive solo quando ha qualcosa da dire. Il libro si chiude con l’importanza dello sguardo del padre. “Nel dialogo con il figlio c’è tutta la mia filosofia. Il bambino ha timore di affrontare la bici, di cadere e farsi male. Ma il padre gli dice che potrebbe non salire. Non gli succederà nulla ma questo sarà molto peggio”. Avrebbe potuto invertire l’indice, mettendo le vicende in ordine cronologico. Non ha voluto, ha scelto di terminare con la luce dell’infanzia. “Un episodio scritto con linguaggio unico, dall’inizio alla fine. Come una poesia stiracchiata”. Droghe: Fini-Giovanardi votata nel “decreto Olimpiadi”, legge a rischio incostituzionalità di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 3 febbraio 2013 La Fini-Giovanardi contestata in un processo a piccoli spacciatori: approvata senza che ci fossero requisiti d’urgenza. La legge Fini-Giovanardi nasce dalla conversione di un decreto sui Giochi invernali di Torino, in cui furono inseriti 2 articoli sui reati di droga. Il ricorso: La questione di costituzionalità riguarda l’assenza di motivi di urgenza e il fatto che quel testo disciplinava un’altra materia. Una ordinaria e apparentemente banale vicenda di piccolo spaccio di marijuana approda alla Corte costituzionale, e rischia di mettere in crisi una delle leggi più applicate nei tribunali d’Italia: la Fini-Giovanardi sugli stupefacenti. Nei giorni scorsi una sentenza della Cassazione ne ha fatto cadere un pezzo dichiarando che il “consumo di gruppo” non è reato; ora un’ordinanza della terza sezione della Corte d’appello di Roma l’ha inviata alla Consulta, chiedendo che sia dichiarata incostituzionale. Le norme contestate, sostengono i giudici, sono inserite in una legge che convertì un decreto in cui il governo disciplinava tutt’altra materia; e soprattutto il Parlamento approfittò di due aggiustamenti in tema di droga per riscrivere l’intera normativa, con ben 36 articoli nuovi di zecca. Dunque il testo sarebbe in contrasto con la costituzione “sotto il duplice profilo della incoerenza della norma rispetto all’originario contenuto del decreto legge e del difetto del requisito dell’urgenza”. In più, la Fini-Giovanardi violerebbe la Carta del 1948 dal momento che “sanziona con la medesima pena due comportamenti notevolmente diversi come l’importare, detenere o spacciare droghe cosiddette leggere oppure pesanti”; previsione che contrasta sia con il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, sia con l’articolo 117 che obbliga il legislatore ad agire “nel rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario”, nel quale è prevista, per l’appunto, la distinzione dei reati connessi alle due diverse categorie di stupefacenti. Tutto nasce dalla storia di due ragazze romane - C.G. e V.R. - arrestate nel 2007 mentre, secondo l’accusa, “stavano confezionando dosi di marijuana usando degli involucri di carta stagnola”, appoggiate al sedile di un motorino. I carabinieri sequestrarono 4 grammi e mezzo di sostanza, pari a 27 dosi, e una singola dose di eroina: un decimo di grammo. Il tribunale le condannò a cinque mesi e venti giorni di carcere, in base alla legge n. 49 del 2006. Cioè la Fini-Giovanardi. Nel processo di secondo grado l’avvocato difensore Andrea Matteo Forte, facendo proprie le argomentazioni elaborate dall’associazione Fuoriluogo in tema di droghe e diritti, ha sollevato l’eccezione d’incostituzionalità di quella legge. Che in realtà è l’atto di conversione di un decreto varato dal governo nel 2005 per affrontare tutt’altro argomento: “Misure urgenti per garantire la sicurezza e i finanziamenti per le prossime Olimpiadi invernali”. All’ultimo momento, in quel provvedimento furono infilati due articoli per adeguare le norme sulla possibilità di concedere misure alternative ai condannati per reati di droga. Al titolo del decreto fu quindi aggiunto: “Disposizioni per favorire il recupero di tossicodipendenti recidivi”. Ma nel 2006, in sede di conversione, deputati e senatori presero spunto da quei due articoli per modificare tutta la materia. Rimodulando, fra l’altro, le sanzioni previste per la detenzione e lo spaccio di stupefacenti. Su questa procedura, ritiene la Corte d’appello che ha accolto la tesi dell’avvocato, pesa un forte dubbio di costituzionalità. Soprattutto alla luce della sentenza numero 22 del 2012 della Consulta, che dichiarò illegittima la parte del decreto “Mille proroghe 2010” in cui furono introdotte alcune norme sulla Protezione civile. Secondo i giudici costituzionali i requisiti di necessità e urgenza imposti per varare un decreto escludono la possibilità che nella legge di conversione vengano inseriti “emendamenti del tutto estranei all’oggetto e alle finalità del testo originario”. Forti di questo principio, i giudici di Roma sottolineano ora come nel caso della Fini-Giovanardi “appare evidente il difetto di coerenza interna tra le norme che costituivano il nucleo originario del provvedimento adottato dal governo e tale ultima norma”. Il nuovo testo partorito dal Parlamento introduce infatti “un nuovo sistema di sanzioni in relazione a condotte aventi ad oggetto stupefacenti”, che “nulla ha a che vedere sia con lo svolgimento delle Olimpiadi invernali di Torino, sia con i benefici previsti in favore di tossicodipendenti ed alcol dipendenti”. Le norme antidroga del 2006 che modificarono quelle del 1990, aggiunge la Corte d’appello, appaiono “sprovviste del requisito dell’urgenza previsto dalla Costituzione; non si vede quale urgenza vi fosse nel riformare un sistema sanzionatorio in vigore da 16 anni e in ordine al quale nessun evento improvviso e straordinario poneva l’esigenza di una modifica per decreto”. Così la legge è finita all’attenzione della Consulta. Ed è prevedibile che, in attesa del verdetto costituzionale, altri giudici prendano spunto da questa iniziativa per contestare la Fini - Giovanardi davanti al “giudice delle leggi”. Medio Oriente: 4.750 i palestinesi nelle carceri israeliane, 198 i minorenni, 1.400 i malati InfoPal, 3 febbraio 2013 Dati ufficiali, diffusi dal Dipartimento di Statistica presso il ministero degli Affari dei detenuti di Ramallah, rivelano che il numero dei palestinesi detenuti nelle carceri israeliane è salito nel mese di gennaio, raggiungendo 4750 prigionieri. Secondo il rapporto, la stragrande maggioranza dei detenuti, l’82,5%, proviene dalla Cisgiordania, mentre il 9,6% viene dalla Striscia di Gaza, e i restanti provengono da Gerusalemme e dai territori palestinesi del ‘48. I detenuti in questione sono distribuiti su 17 carceri e centri di detenzione israeliani. La relazione ha reso noto che 186 prigionieri sono sottoposti alla detenzione amministrativa (senza accusa né processo). 12 sono donne, tra cui figura Lina al-Jarboni, dai territori de l’48, detenuta da undici anni. Oltre a 198 ragazzi di età inferiore ai diciotto anni, di cui 25 hanno meno di sedici anni. Sempre secondo i dati ufficiali, tra i detenuti figurano 12 membri del Consiglio legislativo palestinese, oltre a tre ex ministri e decine di insegnanti, leader politici, accademici e professionisti. Condizioni disumane. Il rapporto ha avvertito sul “crescente numero di prigionieri malati (arrivato a quasi 1400) affetti da varie malattie dovute, principalmente alle difficili condizioni di detenzione, ai maltrattamenti e alla malnutrizione. Tutti i detenuti in questione non ricevono le cure necessarie, e ancor più grave è il fatto che decine di loro soffrono di disabilità motorie, deficit mentali e cognitivi, oltre a malattie gravi e croniche come quelle cardiovascolari, i tumori, l’insufficienza renale e la paraplegia”. La relazione ha riferito che 18 palestinesi sono detenuti in modo permanente nella cosiddetta clinica carceraria di Ramle, alcuni di loro non sono nemmeno autosufficienti, mentre l’amministrazione carceraria continua ad ignorare le loro esigenze. Il rapporto ha anche sottolineato che il numero dei “prigionieri veterani”, un termine che si riferisce ai palestinesi detenuti prima degli accordi di Oslo e la nascita dell’Autorità palestinese (Anp), il 4 maggio 1994, è diminuito, raggiungendo 107 alla fine di gennaio, dopo la liberazione di Jihad Ubaidi, di Gerusalemme e Ahmed Arda dal villaggio di Arraba (Jenin), dopo aver scontato le loro condanne, a 25 e a 20 anni rispettivamente. I dati dimostrano che tra i veterani, 71 sono detenuti da più di vent’anni, e vengono definiti “i decani dei prigionieri”. Mentre il numero dei “Generali della pazienza”, un altro termine con cui i palestinesi chiamano i detenuti da più di un quarto di secolo, ha raggiunto 24, tra cui Karim Younes, dal villaggio di ‘Arara nei territori del ‘48, detenuto da più di trenta anni e considerato il decano di tutti i prigionieri palestinesi. Belgio: pedofilo omicida Dutroux ha scontato un terzo di pena, udienza per scarcerazione Adnkronos, 3 febbraio 2013 A causa delle misure di sicurezza necessarie, potrebbe costare fino a 50mila euro l’udienza del tribunale di Bruxelles che domani dovrà decidere sull’eventuale libertà condizionata del pedofilo omicida Marc Dutroux. Lo ha affermato oggi Geert Cockx, presidente del sindacato di polizia Sypol, intervistato dalla radio Bel Rtl. Le sue parole giungono mentre sale in Belgio l’indignazione per la richiesta di scarcerazione presentata da Dutroux, condannato all’ergastolo per aver rapito e violentato sei ragazzine, quattro delle quali sono morte. “Dobbiamo considerare che serviranno 120-125 poliziotti. E questa è una previsione molto prudente”, ha detto Cockx. Secondo i media, l’uomo verrà trasportato in tribunale su un veicolo blindato e scortato in aula da dieci agenti. Verrà mobilitato un elicottero e sarà necessario assicurare la sicurezza attorno al tribunale. Arrestato nel 1996 e condannato all’ergastolo nel 2004, il 56enne Dutroux ha diritto a chiedere la scarcerazione avendo scontato circa un terzo della pena. Se la sua richiesta sarà accolta, il che appare poco probabile, dovrà portare un braccialetto elettronico. L’anno scorso fece già scandalo la liberazione della moglie e complice Michelle Martin, che era stata condannata a 30 anni di carcere e ora vive in un convento a Namur.