Giustizia: processi lumaca e carceri, la svolta deve partire da qui di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 26 febbraio 2013 Velocizzare i tempi dei procedimenti civili e penali. Affrontare la questione della separazione delle carriere in magistratura. Potenziare, per quel che sarà possibile, i fondi destinati a un servizio essenziale, oggi ridotti all’osso. Ribadire la scelta di una riforma che disegna la nuova mappa delle sedi giudiziarie, con la quale sono stati aboliti numerosi Tribunali minori e sezioni distaccate, accorpati alle “sedi madre”. E - ultimo ma non meno importante - risolvere l’emergenza carceraria, sciogliendo una volta per tutte il nodo gordiano del sovraffollamento penitenziario. Memorandum per il nuovo ministro della Giustizia. Nell’agenda che il prossimo Guardasigilli si troverà a sfogliare ci sono pochi, ma decisivi punti fermi da affrontare. Primo tra tutti, quello dei tempi elefantiaci di celebrazione dei procedimenti giudiziari, che attualmente relegano l’Italia agli ultimi posti delle classifiche mondiali in materia di riconoscimento del fondamentale diritto ad ottenere giustizia. La materia è spinosa. Nonostante la buona volontà di tutti - magistrati, cancellieri, personale amministrativo e rappresentanti dell’avvocatura - è chiaro a tutti che, oltre i tripli salti mortali non si può osare; e sebbene da alcuni distretti giungano buone notizie che dimostrano come si possa invertire la spirale perversa delle lungaggini e di tempi biblici per giungere al riconoscimento di un diritto, le statistiche continuano a tracciare un bilancio in rosso. Per arrivare alla chiusura di un procedimento in sede civile, oggi, servono dai sette ai dieci anni; non va affatto meglio nel settore penale. Qui lo spazio medio si attesta su un periodo che mediamente varia dai sei ai sette anni Decisamente troppo. Ciò incide negativamente anche in termini di risarcimento che lo Stato italiano è costretto a pagare, ai sensi della legge Pinto, che nel 2001 introdusse il diritto di richiedere un’equa riparazione per il danno, patrimoniale o non patrimoniale, subito per l’irragionevole durata di un processo. Il nuovo inquilino di via Arenula dovrà fare i conti con un bilancio asfittico. Tentare di dare ossigeno a quei conti che anno dopo anno si riducono progressivamente non sarà facile. Meglio puntare nella direzione già intrapresa in materia di abolizione di 37 Tribunali, un provvedimento che ridisegna i contorni della geografia giudiziaria del Paese e che dovrebbe consentire non solo il risparmio su circa mille edifici con i loro costi e la relativa manutenzione, ma anche la specializzazione degli stessi magistrati. Alla voce “riforme” il nuovo Guardasigilli dovrà prestare attenzione ad altri due punti: la depenalizzazione dei reati minori e, soprattutto, l’emergenza del sovraffollamento delle carceri. Su questi ultimi argomenti sarà necessaria, ovviamente, un’ampia convergenza politica e parlamentare. Fatto sta che l’inferno della condizione carceraria è - oggi - per l’Italia tema non più rinviabile. Giustizia: in Parlamento… ecco perché i diritti umani non contano nulla di Furio Colombo Il Fatto Quotidiano, 26 febbraio 2013 Voglio raccontarvi la storia di cinque anni trascorsi come presidente del Comitato permanente sui Diritti Umani della Camera dei deputati. L’Italia è apparsa molte volte come parte attiva nella difesa dei diritti umani nel mondo, ma solo attraverso le reti di volontariato presenti e attive anche nelle situazioni più difficili da immaginare e attraverso l’attività dell’unico partito italiano che non si ferma ai confini nazionali. Parlo dei Radicali che, dal Tibet dei monaci perseguitati alla vicenda quasi ignota del popolo Uiguro (minoranza islamica nella regione dello Xinijang in Cina) funzionano come agenti investigatori e pubblici accusatori delle violazioni più frequenti e più gravi. È una strana esperienza, quella delle audizioni del Comitato sui Diritti Umani. È come se all’improvviso si aprisse una botola che ti fa precipitare su vicende tragiche e incredibili che però sono appena avvenute o stanno avvenendo adesso, o sono storia recente e mai rivelata. È ciò che è accaduto quando si è presentato il reverendo Moissié Zerai, un prete cattolico eritreo che aveva un’informazione da dare: ci sono ostaggi in vendita nel deserto del Sinai. Sono eritrei prelevati dalla Libia e dalle paurose carceri di Gheddafi, hanno tentato di arrivare in Italia (dove avevano diritto di asilo politico) ma sono stati intercettati in mare, incatenati, ceduti ai predoni, che li hanno portati nel Sinai e messi in vendita a diecimila dollari per ogni prigioniero. Nell’attesa, spiega il prete, vengono torturati, uno è già morto. Gli altri aspettano che qualcuno faccia un’offerta. È ciò che accade quando chiede audizione un gruppo di donne argentine dell’Associazione Madres de Plaza de Mayo. Tutte hanno figli o nipoti desaparecidos ovvero vittime dell’atroce morte bianca negli anni della dittatura militare, quando i generali fascisti (Videla, Viola), tetri campioni di un fascismo di cui non si parla mai, facevano scomparire i “comunisti”, specialmente giovani, specialmente ragazze incinte a cui rubare i figli prima di uccidere, spesso buttando i corpi di persone vive dagli aerei in volo. È la storia che racconta al Comitato la signora Vera Vigevani Jarach. È ancora cittadina italiana, benché l’Argentina sia stata, come per molti ebrei italiani scampati in tempo al fascismo razzista italiano, il rifugio per la sua famiglia e per lei, bambina. Sua figlia era una ventenne “comunista” e in attesa di un figlio, quando è stata arrestata e fatta sparire. Dunque c’è un nipote o una nipote che crede di essere nato nella famiglia di qualche ex ufficiale o ex alto burocrate del regime argentino, e che invece appartiene alla famiglia della signora Jarach, che il fascismo ha colpito due volte. Spetta all’Italia proteggere i cittadini italiani. La signora Jarach è qui per chiedere l’aiuto di cui ha diritto. È ciò che avviene quando si presenta un gruppo di madri tunisine. Sanno che i loro figli si sono salvati da un violento respingimento in mare, davanti a Lampedusa. Hanno le foto e i verbali dei carabinieri da cui i ragazzi risultano vivi e in buone condizioni. Adesso nessuno dei loro nomi risulta negli elenchi italiani, nessun contatto è più stato possibile, le autorità negano tutto, comprese le ben visibili prove dell’arrivo e della presenza in Italia, che le madri esibiscono e che affidano al Comitato. È a questo comitato che Carlos Alberto Cruz Santiago, di professione cocaleros, racconta del giorno in cui ha abbandonato la droga e deposto le armi e si è dedicato (come fa adesso, con gravissimo rischio) a fermare i ragazzi che vanno volontariamente ad arruolarsi per avere armi e danaro. I rappresentanti del Consiglio della Resistenza iraniana non hanno potuto essere accolti e ascoltati in un’aula del Parlamento fino a quando il nome di quel gruppo è stato rimosso dalla lista del terrorismo internazionale. Per quanto sembri assurdo, erano in quella lista su richiesta dell’Iran (contro il cui regime combattono) fino a quando gli Stati Uniti li hanno cancellati dalla lista. Chiedono di testimoniare in aula su ciò che accade ogni giorno in Iran. In Cina, ci raccontano gli attivisti della minoranza islamica uigura duramente perseguitata dalla polizia e dal governo cinese, il poeta nazionale Nurmenet Yasin è appena stato ucciso in prigione. Eppure, madri e padri disperati di quella minoranza ribelle erano stati portati qui (giugno 2012) dal deputato radicale Mecacci per invocare che qualcuno fermasse le mani dei boia cinesi. Non avevano calcolato la grandiosità degli interessi commerciali nei rapporti fra Repubblica cinese e democrazie del mondo. Domanderete: i risultati? Sono preghiere che si uniscono alle preghiere, testimonianze che si uniscono alle testimonianze. Conoscendo i governi, starei attento a usare la parola speranza. Giustizia: Gonnella (Antigone); instabilità politica non faccia scordare emergenza carceri Adnkronos, 26 febbraio 2013 “Ancora una volta l’emergenza carceri rischia di finire nel dimenticatoio, ma contiamo sulla responsabilità delle forze politiche”. Lo dichiara all’Adnkronos Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone, commentando i recenti risultati elettorali. Particolarmente penalizzante il mancato ingresso in Parlamento della lista Amnistia Giustizia Libertà, da sempre in prima linea sul problema carcerario in Italia. “Purtroppo era prevedibile - afferma Gonnella - Al momento non ci sono le condizioni per portare avanti una battaglia sull’Amnistia”. “Dopo 20 anni di colpevole disinteresse da parte della politica, essere fiduciosi è difficile - ammette il presidente di Antigone - Tuttavia credo che esistano margini di manovra per affrontare seriamente la questione del rispetto dei diritti umani nei penitenziari italiani. Come associazione abbiamo avanzato tre proposte di legge (legalità nelle carceri; legge sulla droga e introduzione del reato di tortura), sottoscritte da esponenti di differenti schieramenti politici con in testa Pd, Sel e Movimento 5 Stelle. A loro chiediamo che l’emergenza carceri diventi un terreno di confronto parlamentare che si traduca in interventi concreti”. A riportare l’attenzione sul tema delle condizioni di vita dei detenuti italiani era stato ancora una volta, agli inizi di febbraio, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Un intervento che Gonnella ha apprezzato molto: “La presa di posizione del presidente è stata decisiva per riaccedere i riflettori sul tema - ha sottolineato. Non dimentichiamoci che la Corte europea dei diritti umani ha concesso un anno all’Italia per mettersi in regola. Bisogna lasciare da parte le divisioni ed intervenire prontamente. Non si tratta di una campagna politica bensì di una questione di civiltà”. Giustizia: Sappe; dopo tsunami delle urne, auguriamoci un salutare tsunami anche al Dap Agenparl, 26 febbraio 2013 “Le urne ci hanno consegnato oscuri scenari per il futuro del Paese. Quel che ci auguriamo, come primo Sindacato della Polizia Penitenzia, è la stabilità perché di essa ha bisogno l’Italia: di stabilità e di una buona politica parlamentare (a cui tutti i partiti e movimenti devono contribuire, nessuno escluso) che trovi soluzioni alle molte crisi del Paese e di un nuovo volano per favorire l’occupazione, la giustizia, la sicurezza, una buona sanità. Una politica di servizio, come dovrebbe essere. Guardando “in casa nostra”, ai temi penitenziari, è ovvio che dovremmo vedere quale sarà il prossimo Ministro della Giustizia, visto che sembrano minime le probabilità di un reincarico all’attuale Guardasigilli Paola Severino. Se cambierà il Ministro, è probabile che cambieranno anche i vertici del Dap: e questa non può che essere una buona notizia, visto che riteniamo assolutamente fallimentare la gestione del Dap a guida Tamburino & Pagano”. È quanto dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri, commentando gli esiti delle elezioni politiche. “La carenza di personale di Polizia Penitenziaria, il costante sovraffollamento delle carceri con le conseguenti ripercussioni negative sulla dignità stessa di chi deve scontare una pena in celle affollate oltre ogni limite e soprattutto di coloro che in quelle sezioni deve lavorare rappresentando lo Stato come i nostri Agenti, sono temi che si dibattono da tempo, senza soluzione, e devono essere posti tra le priorità di intervento del nuovo Parlamento e del nuovo Governo”, prosegue. “Spesso, il personale di Polizia Penitenziaria è stato ed è lasciato da solo a gestire all’interno delle nostre carceri moltissime situazioni di disagio sociale e di tensione, 24 ore su 24, 365 giorni all’anno. Rispetto a tutto questo, il Dap a guida Tamburino & Pagano pensa alle favole, alla vigilanza dinamica ed all’autogestione dei detenuti: ma le tensioni in carcere crescono in maniera rapida e preoccupante. Quel che non serve per risolvere questa umiliante situazione di sovraffollamento e tensioni è la delegittimazione del ruolo di sicurezza affidato alla Polizia Penitenziaria, come invece previsto proprio dal Capo Dap Giovanni Tamburino con una scelta (che il Vice Capo Luigi Pagano continua a tentar di presentare in giro come una positiva rivoluzione normale delle carceri...) che favoleggia di un regime penitenziario aperto, di sezioni detentive sostanzialmente autogestite da detenuti previa sottoscrizione di un patto di responsabilità favorendo un depotenziamento del ruolo di vigilanza della Polizia Penitenziaria mantenendo in capo ai Baschi Azzurri il reato penale della colpa del custode (articolo 387 del Codice penale). Di fatto, da quando è operativa questa disposizione del Dap, abbiamo constatato un aumento di aggressioni, di suicidi, dei tentati suicidi sventati per fortuna sventati dai poliziotti penitenziari, delle evasioni e di quelle tentate, delle risse e degli atti di autolesionismo. Se gli agenti non possono controllare stabilmente le celle le responsabilità non possono essere le loro ma di chi quella nota circolare ha firmato, il Capo dell’Amministrazione Penitenziaria Giovanni Tamburino, e di chi la spaccia per rivoluzione normale delle carceri, il Vice Capo Luigi Pagano. Per questo ci auguriamo che l’onda lunga dello tsunami elettorale del 24 e 25 febbraio porterà alla guida dell’Amministrazione Penitenziaria un nuovo Capo Dipartimento ed un nuovo Vice nell’ottica di una profonda ed organica ristrutturazione di tutta l’Istituzione”. Giustizia: oggi e domani il ministro Severino in Sicilia per visitare cinque Istituti di pena Italpress, 26 febbraio 2013 Prosegue la visita del ministro della Giustizia, Paola Severino, nelle carceri italiane. Tra oggi e domani visita cinque dei ventisette istituti penitenziari dell’isola: la casa circondariale di Trapani, quindi a Palermo il Pagliarelli e l’Ucciardone ed infine Mistretta (Me) e Messina. Ad ogni tappa della sua visita il Guardasigilli viene ricevuto dai direttori degli Istituti ed accompagnata prima a visitare i reparti detentivi e quindi all’incontro con il personale dell’amministrazione penitenziaria. Renato Persico l’attende a Trapani; a Palermo viene ricevuta da Rita Barbera all’Ucciardone e da Francesca Vazzana al Pagliarelli; a Mistretta è Teresa Monachino a darle il benvenuto, mentre Calogero Tessitore la accoglie nella casa circondariale di Messina. Per fare il punto sulla situazione riscontrata, il ministro incontrerà i giornalisti domani, alle 12.45, al termine della visita presso il carcere di Palermo Pagliarelli. Giustizia: Radicali; i nostri voti simili a numero detenuti… 0,20% Camera, 0,19% Senato Public Policy, 26 febbraio 2013 “Per puro caso queste percentuali omeopatiche che la lista Amnistia, Giustizia e Libertà ha ottenuto, alla Camera e al Senato, si avvicinano al numero di detenuti che sono presenti nelle carceri italiane. Voti coraggiosi e di affermazione di coscienza”. Queste le parole di Rita Bernardini, deputata radicale (eletta nelle fila del Pd), intervistata da Radio radicale, dopo i risultati delle elezioni politiche. La lista guidata da Marco Pannella non è riuscita a superare nessuna delle sue soglie di sbarramento previste per Camera e Senato (rispettivamente 4% e 8% per i partiti non in coalizione). Alla Camera, la lista Amnistia, giustizia e libertà ha ottenuto quasi 65mila voti (lo 0,19%). Poco meno al Senato con 63mila preferenze (0,20%). Per Montecitorio maggiore consenso è arrivato dalla circoscrizione Sicilia 1, dove i radicali hanno preso lo 0,52% delle preferenze. Subito dopo Calabria con lo 0,49%, Campania1 0,46%, Basilicata 1 0,42% e Sicilia con il 0,42%. La percentuale più bassa si è registrata in Sardegna con il 0,22% delle preferenze. Per palazzo Madama, nella circoscrizione Abruzzo i radicali hanno ottenuto poco lo 0,35%, in Basilicata lo 0,41%, a seguire Campania, Emilia Romagna e Lazio (rispettivamente con lo 0,39%, 0,24% e 0,29%). La percentuale più bassa è stata raggiunta in Basilicata con l’0,25% delle preferenze. (Public Policy) Giustizia: Ilaria Cucchi (Rc); definizione del reato di tortura anche in Italia si allontana Adnkronos, 26 febbraio 2013 Delusione per un’occasione perduta, quella di lavorare per arrivare alla definizione del reato di tortura anche in Italia, e più in generale di occuparsi della questione carceraria. Ilaria Cucchi, candidata alla Camera per la lista di Ingroia, Rivoluzione Civile, non nasconde di veder “nuovamente allontanarsi questo argomento. I fatti ci dicono che per oltre vent’anni si sono fatti progetti, anche belli, ma non si è mai arrivati a niente di concreto sulla questione carceraria e sul reato di tortura. Anche in questa campagna elettorale nessuno ha toccato questo argomento. E la gente continua a morire in carcere”. “Indubbiamente nel nostro Paese ci sono molte emergenze - continua - , ma quella carceraria è una di esse. E temo che neanche questa volta ne vedremo la soluzione, e non perché Ilaria Cucchi sia la paladina di questo argomento, ma perché i fatti ci insegnano questo: che l’uomo non è più al centro di tutto”. Ma oltre alla delusione, sottolinea, “c’è anche la sensazione di aver iniziato un percorso importante, ora abbiamo l’occasione di rimetterci i discussione e continuare. In fin dei conti il movimento è nato un mese fa, e ringrazio Ingroia per averci creduto e aver dato voce alle mie battaglie”. Giustizia; Tonelli (Sap); carcere per poliziotti caso Aldrovandi è vergogna per il Paese Agi, 26 febbraio 2013 Il carcere sarebbe “una vergogna per il Paese” e dunque, a breve, Enzo Pontani potrebbe “patire una tragedia” come gli altri tre suoi colleghi condannati e tuttora in prigione: Gianni Tonelli, presidente nazionale del Sap (Sindacato autonomo di polizia), è arrivato in mattinata al Tribunale di sorveglianza di Bologna, insieme ad una trentina di agenti del sindacato, per manifestare la propria solidarietà ad Enzo Pontani, uno dei quattro agenti condannati in via definitiva a tre anni e mezzo per l’eccesso colposo nell’omicidio colposo di Federico Aldrovandi, il 18enne morto del settembre 2005 durante un intervento di polizia in un parco pubblico a Ferrara. Dopo l’udienza, i giudici si sono riservati sulla richiesta dei difensori di Pontani (attualmente in servizio con compiti non operativi presso la Questura di Venezia) di far scontare in affidamento in prova ai servizi sociali (o in sub ordine ai domiciliari) i sei mesi di pena residui dopo la cancellazione di tre anni grazie all’indulto. Per gli altri tre poliziotti condannati - Paolo Forlani, Monica Segatto e Luca Pollastri - i giudici della sorveglianza, il 29 gennaio scorso, avevano disposto il carcere rigettando, quindi, le richieste dei loro avvocati. “Siamo venuti qui - ha spiegato Tonelli prima dell’inizio dell’udienza - per mostrare pubblicamente la nostra solidarietà e la nostra vicinanza alla tragedia che Enzo Pontani potrebbe dover patire come gli altri tre colleghi. È veramente triste - ha continuato il presidente del Sap - che nel nostro Paese un servitore dello Stato chiamato ad aiutare una persona, che stava arrecando a sè stesso dei danni, dopo essere intervenuto venga ritenuto colpevole di una negligenza e per questo condannato e probabilmente incarcerato. Credo sia una vergogna per il nostro Paese perché sono 40 anni che nella giurisprudenza è stato abrogato il carcere per i reati colposi. Speriamo - ha concluso - che su questa vicenda si possano riaprire tante pagine come una revisione del processo”. Lettere: nessuno si preoccupa delle carceri… di Valentino Castriota Il Fatto Quotidiano, 26 febbraio 2013 I trambusti elettorali sono finiti e adesso dentro le cabine ognuno di noi ha votato spero con coscienza e non per simpatia. 1 mio rammarico è che pochi hanno parlato di amnistia e di indulto, se non i radicali di Pannella, che come sempre sono fedeli e non scendono a compromessi quando si tratta di temi seri e delicati come il sovraffollamento carcerario e la giustizia soffocata di processi. Ma perché i grandi leader non hanno speso una parola sui detenuti e le loro condizioni? È corretto poi andare nelle carceri a fare le visite con tv a seguito, battendosi il petto per le condizioni da quarto mondo? Sembra una vera ipocrisia. Lettere: il volontariato in carcere di Carlo Silvano La Tribuna di Treviso, 26 febbraio 2013 Le carceri italiane stanno scoppiando e di certo il futuro Parlamento avrà altre priorità da affrontare (come tasse, lavoro, istruzione, sanità, ecc.), piuttosto che preoccuparsi sia delle condizioni dei detenuti, in molti casi disumane, che dei disagi di quanti, a vario titolo, lavorano nelle case circondariali. Se per il futuro non si prevedono importanti cambiamenti nella politica carceraria, ed è necessario comunque garantire la certezza della pena insieme al recupero della persona detenuta, occorre allora anche ripensare ad un miglioramento della presenza dei volontari nelle varie realtà carcerarie. Personalmente condivido l’azione di volontariato che don Marco Di Benedetto sta perseguendo nel carcere di Rebibbia: intervenendo ad un recente incontro sulla realtà carceraria svoltosi presso la libreria delle Paoline a Treviso, don Marco ha sostenuto che il volontario non deve recarsi in carcere per garantire i diritti del detenuto, ma per permettergli di esercitare un diritto che già gli è concesso. Può sembrare una sottigliezza da manuale, ma spesso si ha l’impressione che quando i volontari perdono di vista il focus della propria presenza in carcere e si assumono compiti che non competono direttamente a loro, rischiamo di avere vita dura con le figure istituzionali o di renderla tale anche a loro stessi, senza riuscire ad aiutare il detenuto a cogliere la diversità di occasione che ha nell’incontrare il volontario, rispetto ai colloqui che fa con educatori, garanti e psicologi. Per il volontario è di fondamentale importanza avviare un confronto col detenuto eliminando ogni forma di pietismo e di assistenzialismo. Taranto: Radicali; alle elezioni politiche hanno votato 100 detenuti del carcere cittadino www.giornaledipuglia.com, 26 febbraio 2013 “Nel seggio speciale allestito all’interno dell’Istituto penitenziario Maglie di Taranto hanno votato circa 100 detenuti”. Lo ha riferito Amnistia Giustizia e Libertà Taranto. “Un dato - si apprende ancora nella nota - mai registrato prima nella storia. Questo grazie alla mozione parlamentare presentata dall’onorevole radicale Rita Bernardini che ne facilitava l’esercizio e alla visita ispettiva effettuata la scorsa settimana dalla stessa insieme a Sergio D’Elia e Annarita Digiorgio, durante la quale i detenuti sono stati informati circa questo loro diritto. Un dato importante sui diritti dei detenuti, per i quali i radicali, candidati a queste elezioni con la lista di scopo Amnistia Giustizia e Libertà, continueranno a lottare, invitando sin da ora gli eletti di Taranto ad occuparsene. Un plauso anche a tutti gli agenti della polizia penitenziaria di Taranto che con il loro lavoro hanno permesso questo miracolo laico di civiltà, e ai 1.200 elettori che nella provincia di Taranto, nonostante la nostra involontaria assenza dalla tv e stampa locale, hanno dato la loro preferenza alla lista Amnistia Giustizia e Libertà”, conclude la nota dei radicali. Cagliari: Sdr; eliminati letti a castello in Centro Diagnostico Terapeutico di Buoncammino Agenparl, 26 febbraio 2013 “Si avvia verso la normalità la degenza nel Centro Diagnostico Terapeutico del carcere di Buoncammino. Mentre si attendono i lavori di ristrutturazione, in questi ultimi giorni sono stati rimossi i letti a castello. L’iniziativa si era resa necessaria a causa dell’eccessivo numero di pazienti ricoverati”. Lo rende noto Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, che in più occasioni aveva segnalato “il disagio per il sovraffollamento della casa Circondariale e per la presenza di letti a castello nell’area in cui sono assistiti i detenuti in precarie condizioni di salute”. “Resta però irrisolto - ricorda Caligaris - il problema della presenza di un eccessivo numero di persone ammalate nella struttura penitenziaria cagliaritana. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dovrebbe infatti individuare strutture alternative alla detenzione nei conclamati casi di persone sofferenti e anziane. È assurdo che si trovino nel Centro Clinico cittadini impossibilitati a deambulare autonomamente o costretti a rifiutare i colloqui con i volontari per i dolori che li affliggono. Sono ricoverate inoltre persone con il morbo di Parkinson incapaci perfino di infilarsi le calze o tenere in mano una forchetta”. “La rimozione della doppia branda a castello - conclude la presidente di SdR - è comunque un segnale positivo. In questo modo si riduce drasticamente il rischio di cadute con conseguenti traumi. L’auspicio è tuttavia che le persone malate siano ricoverate nelle strutture ospedaliere con tutti i necessari supporti”. Sulmona: Cgil Penitenziaria pronta sciopero contro ridimensionamento personale del 15% www.rete5.tv, 26 febbraio 2013 Un ridimensionamento dell’organico del supercarcere sulmonese da 320 a 271 agenti penitenziari, con una perdita di personale del 15%. La denuncia è di Matteo Balassone, coordinatore regionale della Fp-Cgil della polizia penitenziaria, in riferimento al rinnovo dei circuiti penitenziari annunciato sull’istituto di pena sulmonese. “Una ridefinizione della pianta organica regionale a nostro parere quanto mai inopportuna per un istituto, quale quello di Sulmona che, invece di essere rafforzato nella quantità dei poliziotti penitenziari, ne viene esautorato con evidente pericolo per l’ordine e la sicurezza - denuncia Balassone. Si consideri che tale sede è una di quelle indicate a livello nazionale e l’unica a livello regionale per l’Abruzzo, nel “Piano carceri” che, prevede la realizzazione di un ulteriore padiglione detentivo per circa 200 unità e che lo renderà capace di ricevere oltre 700 detenuti (di Alta Sicurezza). Si aggiunga poi che per consentire l’apertura del padiglione presso la casa di reclusione di Pescara sono state utilizzate nove poliziotti penitenziari di Sulmona, facendo diminuire il saldo della forza disponibile, che era già al limite della possibilità e comunque distante da quella prevista. Il personale di Polizia penitenziaria in servizio effettivo a Sulmona è sempre stato al di sotto dell’organico previsto in media di circa 60 unità. Ora, con il previsto incremento dell’Alta Sicurezza, non ci saremmo mai aspettati una illogica, pericolosa ed ulteriore diminuzione del personale di Polizia penitenziaria. Per questo, ci dichiariamo, da subito, indisponibili ad assecondare scelte non condivise con le organizzazioni sindacali e che vengono imposte dall’alto sulla pelle dei lavoratori della Polizia penitenziaria senza tenere conto della realtà. Con la presente chiediamo, quindi, che l’amministrazione centrale - conclude Balassone - convochi al più presto un tavolo di confronto nazionale su una tematica, quale quella della dotazione organica del personale di Polizia penitenziaria della casa di reclusione di Sulmona, ormai irrisolvibile ad altri livelli. Diversamente, se la situazione dovesse stabilizzarsi sulla contestata diminuzione, mediante un nuovo decreto dell’Amministrazione penitenziaria, siamo pronti a mettere in campo ed organizzare tutta una serie di iniziative legittime di protesta, non escludendo manifestazioni anche davanti al Dap. Secondo le previsioni dell’Amministrazione, in Abruzzo gli internati, attualmente ristretti presso la Casa Reclusione di Sulmona, lasceranno il posto ai detenuti appartenenti al circuito di Alta Sicurezza. Evidentemente, vi è, nella scelta dell’Amministrazione, la considerazione della idoneità dell’istituto di Sulmona per la gestione di una tipologia di detenuti, quella dell’A.S., che presuppone anche una funzionalità della struttura specie, in termini di sicurezza. È proprio rispetto a tali considerazioni che, la Cgil è rimasta a dir poco basita e perplessa alle notizie che si sono diffuse riguardo ad un ridimensionamento dell’organico dell’istituto penitenziario”. Savona: Progetto “Jailhouse Gym - Detenzione e attività fisica”, cofinanziato dal Comune Ansa, 26 febbraio 2013 Nella casa circondariale savonese di Sant’Agostino, nell’ambito del progetto “Jailhouse Gym - Detenzione e attività fisica” è stata allestita una palestra per i detenuti. Il progetto è stato possibile grazie al sostegno della Fondazione Carisa De Mari e del Comune di Savona, assessorato alla Promozione sociale del Comune di Savona e assessorato allo Sport. A partire dal mese di marzo sono previste sedute settimanali di allenamento individuale. “Indignati per le condizioni di vita dei detenuti nel carcere di Savona - dicono gli assessori Isabella Sorgini e Luca Martino - abbiamo avviato un percorso formativo, concorrendo alla riabilitazione del detenuto. La scommessa è quella di trasformare il problema dell’eccesso di tempo in una risorsa dove l’attività fisica sia intesa come allenamento dell’igiene della persona”. Pesaro: l’Associazione Italiana Allenatori di Calcio incontra i detenuti di Villa Fastiggi Ristretti Orizzonti, 26 febbraio 2013 L’associazione italiana Allenatori di Calcio di Pesaro e Urbino incontra i detenuti del carcere di Villa Fastiggi di Pesaro. È quanto accaduto qualche giorno fa, tra gli appuntamenti previsti durante il corso allenatori - Uefa B, ormai entrato nella fase conclusiva (nel prossimo week end sono in programma gli esami di teoria e pratica). È stato un incontro fortemente voluto dal presidente dell’Assoallenatori di Pesaro, Paolo Muratori: “Cerchiamo sempre di abbinare le nostre attività, nel limite del possibile, alle tematiche sociali e per l’occasione voglio rivolgere un sentito ringraziamento al Direttore della Casa Circondariale di Pesaro, Claudia Clementi, ed ai suoi collaboratori per la riuscita dell’iniziativa”. All’evento hanno preso parte i rappresentanti delle varie componenti calcistiche della provincia di Pesaro. In agenda era stata prevista anche una partita a “calciotto” che però è stata rinviata causa maltempo. Poco male perché per i detenuti è stata davvero un’occasione importante per interloquire prima con il presidente provinciale degli arbitri, Luca Foscoli, e poi con il docente federale del settore tecnico Walter Nicoletti. Quest’ultimo ha messo in evidenza i valori dello sport, con particolare riferimento al calcio, evidenziando come lo sport debba essere un’occasione di unione e non di divisione. 7 Si è quindi aperto il dibattito: al presidente degli arbitri sono state rivolte in particolare domande su eventuali errori arbitrali verificatisi durante le partite mentre a Nicoletti sono state poste domande sulle tecniche di gioco e sull’evoluzione dello stesso nel corso degli anni. In particolare poi è stata posta la domanda sull’atteggiamento spesso tenuto da Delio Rossi, in considerazione del fatto che lo stesso era stato in passato giocatore allenato da Nicoletti. Nel corso della discussione è anche emerso quello che dovrebbe essere l’aspetto educativo e sociale del calcio con particolare riferimento alla violenza negli stadi; è stato infatti messo in rilievo come in altre nazioni non vi siano barriere che dividono il recinto di gioco da quello degli spettatori sottolineando come una partita inizi e termini ai fischi arbitrali senza ulteriori strascichi a volte anche violenti che si verificano prima e dopo l’inizio delle partite. L’incontro è stato molto apprezzato sia dagli ospiti dell’istituto che dai partecipanti esterni con l’intento che questo sia il primo di altri incontri, seguiti da relativa partitella, che si possano realizzare in futuro. Iran: l’Ong Iran Human Rights; 500 esecuzioni da ottobre 2012 in carcere Mashad Aki, 26 febbraio 2013 Sarebbero circa 500 le condanne a morte eseguite in segreto, dall’ottobre dello scorso anno ad oggi, nel carcere Vakilabad di Mashad, nell’Iran nordoccidentale. Lo denuncia Iran Human Rights (Ihr), un’Ong che si batte contro la pena di morte nella Repubblica Islamica, secondo cui le esecuzioni sono riprese negli ultimi mesi dopo uno stop dovuto alle “pressioni internazionali” sul governo di Teheran. Negli ultimi cinque mesi, si legge sul sito di Ihr, le impiccagioni si sono tenute a Vakilabad a intervalli regolari: il mercoledì e la domenica di ogni settimana e in ogni occasione sono saliti al patibolo almeno 10 detenuti, con punte anche di 50 esecuzioni tra novembre e dicembre. Tra loro, stando agli attivisti dell’Ong, sarebbe stato impiccato anche un minorenne. Come hanno spiegato fonti in Iran a Ihr, sono proseguite anche nelle ultime settimane le esecuzioni a Vakilabad, in gran parte di persone condannate per narcotraffico, ma anche di molti cittadini afghani, i cui corpi non sono stati sepolti nel loro Paese d’origine ma in una sezione speciale del cimitero di Mashad Behesht-e-Reza. Arabia Saudita: decapitato omicida, da gennaio eseguite 17 condanne a morte Aki, 26 febbraio 2013 Un cittadino saudita è stato decapitato in Arabia Saudita dopo essere stato condannato alla pena di morte per omicidio. È quanto si apprende da una nota del ministero dell’Interno di Riad, riportata dall’agenzia di stampa ufficiale saudita Spa. Nemr al-Subaie era stato condannato alla pena capitale per aver ucciso a colpi d’arma da fuoco un uomo al culmine di una lite. Da inizio anno sono almeno 17 le condanne a morte eseguite in Arabia Saudita, dove nel 2012 - secondo Human Rights Watch - sono state messi a morte almeno 69 detenuti. Omicidio, stupro, apostasia, rapina a mano armata, oltre al traffico di droga, sono i reati che nel regno vengono puniti con la pena di morte. Svizzera: imparare un lavoro dietro le sbarre, reportage dal carcere di Wauwilermoos di Susan Vogel-Misicka www.swissinfo.ch, 26 febbraio 2013 Nel penitenziario di Wauwilermoos, nel Canton Lucerna, i detenuti sono obbligati a lavorare. Per molti di loro il lavoro è un modo per trascorrere il tempo in attesa del rilascio, ma alcuni lo considerano un’opportunità di miglioramento. L’edificio color corallo nella campagna lucernese non appare molto diverso da una scuola o da una palazzina di appartamenti. Solo il cancello e il filo spinato ricordano che si tratta di una prigione. Wauwilermoos è una cosiddetta “prigione aperta”. Durante il giorno i detenuti possono muoversi liberamente nella tenuta di 150 ettari che circonda il penitenziario. Attorno alla tenuta non ci sono muri. Il penitenziario ospita 61 uomini tra i 19 e i 70 anni, che scontano condanne che vanno dai due mesi ai quattro anni. “Possiamo offrire 20 diversi tipi di lavoro. Molti detenuti lavorano bene, alcuni anche molto bene. Altri hanno delle difficoltà”, dice Hans Troxler, il vicedirettore dell’istituto. Che si tratti di lavoro in cucina, nell’edilizia o nell’agricoltura biologica, gli uomini devono presentarsi al lavoro alle 7.30. E devono svegliarsi da soli. “Cerchiamo di creare un ambiente di lavoro realistico, dando responsabilità ai detenuti”, spiega Troxler. Il lavoro è un modo per aiutarli a ritrovare il proprio posto nella società, consentendo loro di mantenere o migliorare le loro capacità professionali. Circa il 50% dei detenuti era disoccupato prima di arrivare a Wauwilermoos. Un terzo di loro non era mai stato in prigione. Dei 61 detenuti solo uno è scappato, nel 2012. Nello stesso anno sono stati concessi 1200 periodi di licenza; solo in tre occasioni un detenuto non è tornato all’ora stabilita. “Sono molto pochi quelli che vogliono scappare”, osserva Troxler, che fa il paragone con le prigioni in cui sono detenuti quelli che lui chiama “turisti del crimine”, persone che non hanno legami con la Svizzera e che sono impazienti di andarsene. Durante la nostra visita, l’atmosfera di Wauwilermoos appare piacevole e rilassata. I detenuti sono occupati in vari lavori, sia all’interno degli edifici, sia all’aperto. Molti di loro svolgono il loro compito in modo indipendente. Joseph, 42enne condannato per reati di droga, prima di arrivare al penitenziario lavorava nell’edilizia. Ora prepara i prodotti del penitenziario destinati alla vendita nei supermercati Coop o Migros. Un lavoro che sembra piacergli. “Certo, il lavoro è più interessante in estate, quando c’è una maggiore varietà di prodotti”, dice, mentre pesa una cassetta piena di lattuga invernale appena colta. “Ma è anche più intenso”. I prodotti biologici del penitenziario, che comprendono frutta, verdura, latticini, carne, possono essere acquistati anche nel negozio dell’istituto. Il negozio è gestito da due persone, un impiegato e un detenuto. Una sera a settimana il detenuto frequenta un corso di gestione commerciale ad Aarau. Alois Dubach, responsabile della giardineria, lavora nel penitenziario da 30 anni. Ritiene il suo lavoro molto gratificante: “È un piacere vedere qualcuno che arriva qui senza aver mai lavorato e se ne va con le capacità necessarie per essere impiegato”. Nel codice penale svizzero, il lavoro è considerato un elemento centrale della detenzione. I detenuti sono tenuti a lavorare. I compiti assegnati devono corrispondere per quanto possibile alle capacità e alla formazione del detenuto. In genere le prigioni svizzere hanno officine e laboratori in cui è possibile seguire una formazione professionale. Per il loro lavoro i detenuti ricevono un salario, inferiore tuttavia a quello corrente. Solo una parte del salario è versata ai detenuti in prigione. Il resto viene consegnato loro dopo il rilascio. Anche la scuola fa parte del programma di riabilitazione. Divisi in gruppi di 4 - 6 persone, i detenuti possono frequentare le lezioni mezza giornata alla settimana. Si insegnano materie di base, come tedesco, matematica, informatica. “Molti di loro non sono andati a scuola in Svizzera. Soprattutto i più giovani sono molto motivati, sanno di aver perso qualcosa”, afferma l’insegnante Adolf Amrein. Anche se non ci sono esami e voti, gli allievi ricevono un attestato di frequentazione, che può servire per cercare di lavoro dopo la scarcerazione. Nell’attestato non si dice che i corsi sono stati frequentati in prigione. Attualmente tre detenuti stanno seguendo un apprendistato. Uno si reca a Lucerna un giorno alla settimana per seguire i corsi della scuola professionale. Solo l’insegnante e il preside sanno che è un detenuto. Per gli altri è solo uno studente qualsiasi. Un altro ha avuto di recente l’opportunità di frequentare un corso settimanale come saldatore, professione in cui ha ottenuto un attestato federale di capacità. Si chiama Antonio, ha 25 anni: “Non è un lavoro difficile o pericoloso, ma ci vuole pratica”, dice. Antonio è stato condannato a 21 mesi per furto e aggressione, ma se tutto andrà per il verso giusto potrà scontare gli ultimi sette mesi in una struttura sorvegliata per uomini, svolgendo durante il giorno una normale attività professionale. Poi potrà raggiungere sua moglie, che ha sposato in prigione. Ivan invece, di origini serbe, è finito nei guai per spaccio di droga. All’epoca dell’arresto era già sposato con una donna svizzera, con cui gestiva un’azienda di telemarketing. Oggi il 32enne sta seguendo la formazione di aiuto - cuoco. “A volte la motivazione è venuta a mancare, ma è la mia unica possibilità di imparare qualcosa qui dentro”, dice Ivan. Ammette che quello di aiuto - cuoco non è il lavoro dei suoi sogni, ma è riconoscente per l’opportunità offertagli. “Abbiamo tutti molte opportunità qui dentro, se vogliamo fare qualcosa”, aggiunge. Ivan dovrà attendere l’agosto del 2014 per riabbracciare moglie e figlia. Per beneficiare davvero delle offerte del penitenziario, i detenuti devono trovare soprattutto la motivazione necessaria, nota Troxler. “Noi siamo qui per aiutarli e sostenerli, ma ci deve essere un contributo personale significativo da parte loro. È un dare e avere”. Le offerte formative sono finanziate in parte dagli stessi detenuti, in parte dalle loro famiglie e in parte da organizzazioni caritatevoli. Se la scuola è facoltativa, i detenuti sono però tenuti a frequentare corsi che li aiutano a stare lontano dai guai, permettendo loro di riconoscere le situazione ad alto rischio e di reagire in modo adeguato. Non ci sono statistiche sulla recidività dei detenuti, ma si possono osservare la loro attitudine e il loro statuto professionale dopo il rilascio. Al momento di lasciare Wauwilermoos, i detenuti compilano un questionario sulla loro esperienza nel penitenziario. In genere la valutazione è positiva, afferma Troxler. E anche se non è sempre facile, il personale penitenziario aiuta i detenuti a trovare un impiego dopo che hanno scontato la condanna. “Troviamo lavoro per quasi tutti”, dice Troxler. I detenuti di Wauwilermoos Nazionalità Svizzeri: 54% (compresi i naturalizzati) Serbi: 11% Macedoni: 7% Turchi: 5% Algerini: 3% Italiani: 3% Srilanchesi: 3% Altri detenuti provengono da: Angola, Bosnia Herzegowina, Congo, Costa d’Avorio, Croazia, Kosovo, Libia, Spagna, Thailandia. Motivo della detenzione: Reati sessuali e contro il buon costume: 20% Reati di droga: 18% Frode e corruzione: 18% Rapina: 13% Omicidio: 13% Lesioni corporee: 11% Violazione della legge sugli stranieri: 5% Violazione del codice della strada: 2% Stati Uniti: “The Last Mile”, primo incubatore tecnologico all’interno di un penitenziario di Anna Lagorio Il Sole 24 Ore, 26 febbraio 2013 Tulio Cardozo ha trascorso gli ultimi sei anni nel carcere di massima sicurezza di San Quintino, in California, dopo essere stato arrestato per motivi di droga. Appena uscito di prigione, è stato assunto come business analyst da Kicklabs, società di consulenza sul mercato digitale, e ha fondato Collaborative Benefit, il LinkedIn per ex detenuti alla ricerca di impiego. Ma il suo successo professionale non è frutto del caso, anzi. Nel 2012, Cardozo ha frequentato il corso “pilota” di The Last Mile, il primo incubatore tecnologico all’interno di un penitenziario americano. Il progetto nasce da un’idea di Chris Redlitz e Beverly Parenti, venture capitalist del gruppo Transmedia Capital di San Francisco. “L’anno scorso, siamo stati invitati a San Quintino per parlare di impresa, tecnologie e innovazione. Non ci aspettavamo che il nostro intervento suscitasse tanto interesse e così ci siamo chiesti: che cosa succederebbe se aprissimo un acceleratore d’impresa in carcere?”. Dopo aver ottenuto il consenso del Department of Corrections and Rehabilitation della California, hanno iniziato a studiare la questione da un punto di vista economico. “I dati che abbiamo trovato sono sconfortanti. Ogni anno, lo Stato versa 50mila dollari per il mantenimento di un singolo detenuto. In dieci anni, questo comporta un esborso di 500mila dollari. Ma, senza un programma di reinserimento, il rischio di recidiva è del 60% e ciò significa un cattivo investimento per lo stato”. Con questi numeri alla mano, hanno convinto aziende come Microsoft e Twitter a entrare a far parte del progetto, attraverso donazioni di attrezzature e know how. “Il nostro obiettivo è di formare figure professionali altamente qualificate da inserire nel mondo del lavoro attraverso stage pagati nella Silicon Valley”. A partire da queste considerazioni, i due imprenditori hanno dato vita a una scuola d’eccellenza e l’hanno chiamata The Last Mile, “perché l”ultimo tratto di strada che separa la vita dentro da quella fuori è il più difficile da percorrere”. Il training si svolge in sei mesi di attività e prevede lezioni di economia, business plan, comunicazione, gestione dei social media e incontri con mentori e ispiratori di cambiamento: alla prima edizione hanno partecipato, fra gli altri, Guy Kawasaki, guru della Apple, Brian Wang, startupper di successo (“Forbes” lo ha inserito nella lista dei migliori imprenditori del mondo under 30) e i coniugi Johanna Rees e John Hamm, angel investor della Silicon Valley. La classe è composta da tredici allievi, selezionati in base a test psico - attitudinali, colloqui e curriculum (per entrare, è necessario essere iscritti ad almeno due corsi del Prison University Project, curato dalla Patten University di Oakland). Inoltre, prima di essere ammessi, i candidati firmano un contratto, con cui si impegnano a rispettare il programma di studi e a diventare mentori della classe successiva. “La maggior parte dei nostri studenti è entrata in carcere prima della rivoluzione dei social network, perciò, quando iniziano, non sanno neanche cosa siano un post, un tweet o una app per smartphone. Partiamo da zero e arriviamo a costruire il business plan di una startup”. Per farlo, il team di The Last Mile (composto da 22 persone, tutte volontarie) ha dato vita a diverse azioni, come la costruzione di una biblioteca di cultura digitale e la simulazione di social network (in carcere l’accesso a internet è vietato, così i detenuti curano i loro profili social su carta e gli operatori li trascrivono). Il programma si conclude con il Demo Day, la giornata dedicata alla presentazione dei pitch. Alla prima edizione, lo scorso 18 maggio, hanno preso parte investitori, startup desiderose di conoscere i propri concorrenti, ma anche politici come Ann Brown, First Lady della California e sostenitrice del progetto. Il secondo Demo Day si è svolto tre giorni fa, il 21 febbraio, e ha confermato il successo del programma. “Questa volta hanno partecipato anche rappresentanti delle istituzioni carcerarie, interessati a esportare il format in altri stati”, conclude Redlitz con orgoglio. Nel frattempo, aziende e hub di San Francisco stanno iniziando ad offrire stage pagati ai diplomati di The Last Mile. Per il momento, la lista comprende dieci società. Ma il potenziale è enorme. Del resto Palo Alto è solo a un’ora di macchina da qui. Israele: l’Onu vuole inchiesta su morte in carcere prigioniero palestinese Arafat Jaradat Ansa, 26 febbraio 2013 Le Nazioni Unite vogliono un’inchiesta indipendente sulla morte di Arafat Jaradat, il giovane attivista palestinese deceduto in un carcere israeliano: a chiederlo è stato Robert Serry, inviato Onu per il Medio Oriente, dopo un incontro con il primo ministro dell’Autorità Nazionale Palestinese (Anp), Salam Fayyad. Secondo l’Anp la morte di Jaradat è avvenuta a causa delle torture subite, mentre per i funzionari carcerari israeliani il motivo del decesso sarebbe da attribuire ad un attacco di cuore. “Le Nazioni Unite si aspettano che in seguito all’autopsia verrà aperta un’inchiesta indipendente e trasparente sulle circostanze della morte di Jaradat, i cui risultati dovrebbero essere resi pubblici al più presto”, ha detto Serry. La scorsa settimana, il segretario generale Ban Ki-moon ha espresso preoccupazione per lo sciopero della fame dei prigionieri palestinesi detenuti in carceri israeliane, chiedendo che i loro diritti vengano pienamente rispettati. Nuovi scontri tra palestinesi ed esercito Israele Nuova giornata di scontri ieri in Cisgiordania, dove centinaia di manifestanti palestinesi si sono scontrati con le forze armate israeliane in concomitanza con il funerale di Arafat Jaradat, il detenuto palestinese morto sabato scorso per arresto cardiaco nel carcere israeliano di Megiddo. Circa un centinaio di dimostranti hanno protestato davanti alla sede del carcere dove morto Jaradat, mentre una decina di manifestanti sono rimasti feriti negli scontri avvenuti nella città di Beitounia, nei pressi del complesso militare di Ofer. Secondo quanto riferito da fonti dell’esercito israeliano, citate dal quotidiano “Haaretz”, sarebbero sei i palestinesi rimasti feriti dai proiettili di gomma sparati dalle forze armate israeliane. Il ministro della Difesa israeliano, Ehud Barak, ha riunito ieri sera il suo gabinetto per valutare la situazione dopo tre giorni consecutivi di scontri. Intanto il ministro degli Esteri egiziano, Mohamed Kamel Amr, ha condannato il trattamento “disumano” dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, avvertendo le autorità di Tel Aviv del rischio di perdere il controllo della situazione non solo in Cisgiordania ma nell’intera regione. Abu Mazen: detenuto palestinese morto per le torture Il palestinese Arafat Jaradat, 30 anni, è morto per le torture subite nel carcere israeliano. A sostenerlo, oggi, è il Presidente palestinese Abu Mazen, chiedendo l’apertura di un’indagine internazionale sul decesso, avvenuto sabato scorso. Abu Mazen ha quindi denunciato una “escalation israeliana senza precedenti contro i nostri giovani e i nostri bambini che protestano contro le pratiche dell’occupazione israeliana e i coloni, e in particolare contro i prigionieri”. Proprio riguardo ai palestinesi detenuti nelle carceri israeliane, Abu Mazen ha aggiunto: “Non sappiamo quali gravi crimini per la sicurezza abbiano commesso per gli israeliani per riarrestarli”. Stando a quanto riportato dall’agenzia di stampa Wafa, rilanciata dal Jerusalem Post, il Presidente palestinese ha poi evidenziato come le proteste in corso in Cisgiordania siano il risultato degli attacchi israeliani: “Se gli israeliani smettono di attaccare e di fare prigionieri, non ci sarà bisogno di manifestazioni”. Libia: Commissione diritti umani Assemblea nazionale denuncia violazioni diritti umani Tm News, 26 febbraio 2013 La Commissione per i diritti umani dell’Assemblea nazionale libica ha lanciato oggi l’allarme sul ricorso “quasi sistematico” a sequestri, omicidi e torture da parte delle milizie. In un comunicato, la Commissione ha ammonito sul “pericolo che minaccia i diritti umani in Libia”, citando “rapimenti, sparizioni forzate, omicidi, arresti arbitrari e tortura quasi sistematici”. “Queste violazioni e le pratiche disumane possono riportare il paese al punto di partenza”, ossia alla “dittatura e all’ingiustizia”, ha ammonito la commissione, sottolineando la sua convinzione che “non ci possono essere né libertà né dignità in una società dove regnano il disordine e il caos delle milizie”. “Evidenziamo la necessità di avviare un’inchiesta e di punire quanti sono stati coinvolti (in queste violazioni dei diritti umani), in modo da alimentare un senso di sicurezza e di giustizia nel popolo libico”, ha concluso. All’inizio di febbraio, Human Rights Watch ha denunciato come la Libia sia “ancora afflitta da gravi violazioni dei diritti dell’uomo, compresi gli arresti arbitrari, la tortura e i decessi in carcere, quasi un anno e mezzo dopo la caduta di Gheddafi”, nell’ottobre del 2011.