Il sovraffollamento delle nostre carceri presto al vaglio della Corte costituzionale
Il Mattino di Padova, 25 febbraio 2013
“Se si sceglie di mettere tutti in prigione, per qualsiasi reato, il risultato è il sovraffollamento, e condizioni orribili. La costruzione di nuove carceri non è la soluzione. Per questo si devono sviluppare misure alternative”. Sono parole pronunciate di recente dal Commissario per f diritti umani del Consiglio d’Europa Nils Muiznieks, perché l’Europa sempre più spesso è costretta ad occuparsi delle nostre galere. Ma se ne dovrà occupare a breve anche la nostra Corte costituzionale, “sollecitata” da un magistrato di Sorveglianza di Padova, Marcello Bortolato, che ha svolto nel modo più attento una delle sue funzioni, quella di impartire “disposizioni dirette ad eliminare eventuali violazioni dei diritti dei condannati e degli internati”.
Magistrato “buono”? No, responsabile
Il magistrato di Sorveglianza di Padova ha sollevato una questione di incostituzionalità, domandando alla Corte costituzionale di valutare se la norma che prevede il differimento della pena in casi gravi, non possa prevederlo anche per il sovraffollamento del carcere. Insomma al giudice è venuto il dubbio che forse la stessa legge che consente di sospendere la pena per chi sta male a tal punto che non può rimanere in carcere, dovrebbe consentire di sospendere la pena quando le condizioni di vita in un carcere strapieno sono simili a un trattamento inumano e degradante. Cosa succede ora? Senza nascondere il timore per le reazioni che parleranno di buonismo dei giudici, alla quale ricorrerà buona parte della politica e della stampami vedo già i titoloni del tipo “Carcere pieno: niente più galera per chi delinque” - vorrei fare una riflessione sui giudici che si trovano ad esprimersi sulla condizione delle carceri.
Se il magistrato di Sorveglianza di Padova Marcello Bortolato chiede se sia legale o no mettere in galera le persone nelle condizioni attuali, non lo fa perché è “buono”. Guardando il suo operato posso affermare che è un magistrato che non è affettò da “buonismo” quando si tratta di giudicare il percorso del condannato. Credo invece che la questione sollevata dal magistrato sia un atto dovuto allo stesso senso di giustizia e di legalità che ha portato il Presidente della repubblica a pronunciarsi più volte sulla situazione delle carceri. Ma credo nello stesso tempo che sia anche una risposta alla recente condanna che la Corte europea dei diritti umani ha inflitto all’Italia l’otto gennaio scorso, nel caso Torreggiani.
Nel 2009 c’era stata un’altra sentenza simile, il caso Sulejmanovic: lo stato aveva (forse) risarcito il detenuto e la questione era finita lì. Questa volta però la sentenza è diversa: è una “sentenza pilota”, che significa che troverà applicazione in futuro per tutti i reclami contro l’Italia che hanno come oggetto analoghe questioni di sovraffollamento carcerario.
E dato che la Corte non si è limitata solo a condannare, ma ha anche indicato delle misure generali che lo Stato dovrebbe adottare per contrastare tale situazione, come quella di ridurre il numero dei detenuti prevedendo, in particolare, l’applicazione di misure punitive non privative della libertà personale in alternativa a quelle che prevedono il carcere e riducendo al minimo il ricorso alla custodia cautelare in carcere (§ 94).
Ecco che la questione sollevata dal magistrato Marcello Bortolato è da considerarsi anche un tentativo di trovare un rimedio alla stangata ricevuta dall’Europa. Anche perché la Corte ha dato un anno di tempo all’Italia per provvedere ad adottare le misure raccomandate. altrimenti pioverà una cascata di condanne relative a centinaia di ricorsi già presentati, e altrettanti in arrivo. Da oggi, chi si occupa di carcere ripone molte speranze nella decisione della consulta, senza però aspettarsi di trovare in essa dei giudici buoni, ma solo dei giudici responsabili.
Come lo sono stati i giudici della Corte costituzionale tedesca, che due anni fa hanno stabilito che debba essere interrotta la detenzione quando essa è espiata in condizioni “disumane”. E vale la pena ricordare che le cosiddette liste d’attesa vengono già usate dai paesi del Nord Europa, dove l’elevato grado di civiltà è stato raggiunto anche grazie a una visione della giustizia meno degradante, che non significa necessariamente “buona”, e tanto meno “buonista”.
Elton Kalica
In 2,85 metri quadri non è vera vita
Sono un carcerato che vorrebbe farsi la sua condanna più tranquillamente possibile, ma si trova in una situazione grave di un carcere dove, come ha scritto il nostro magistrato, “lo spazio effettivamente disponibile (per tre persone in una cella) è di 8,55 meri quadri pari a 2,85 metri quadri per persona, nettamente al di sotto del limite “vitale” di 3 metri quadri come stabilito dalla Corte Europea”. Uno prova a condividere con i suoi compagni le sue angosce, i suoi stati d’animo, i suoi pochi spazi e purtroppo deve sempre combattere, anche per le cose più semplici, come far capire che dobbiamo cercare di tenere tutto più pulito possibile, avendo già gli scarafaggi che fanno da padroni.
Mi sforzo di rimanere calmo, per farlo devo continuare a dirmi che va tutto bene, anche se lo so che mi sto prendendo in giro, non va per niente bene, mi sento solo e devo sempre combattere una battaglia senza fine, e allora mi chiudo come un riccio nel mio angolino e penso solo a qualche ricordo bello, come la mia famiglia, e i miei figli, ma anche ai miei ex compagni di cella, quelli con i quali stavo bene e che per motivi che non conosco sono stati spostati.
Non sono l’ultimo arrivato ma devo spesso soccombere, perché sono uno che non sa fare la voce grossa, ma vuole solo portare a termine la sua pena in modo decente. In questo mio percorso, sto incominciando ad usufruire di qualche beneficio, perché ho sempre avuto una detenzione modello, e non voglio butta re al vento quello che con grande fatica mi sono costruito nei vari anni di detenzione. Devo continuare allora a stringere i denti, ne ho passate tante e non mi posso proprio fermare ora che qualcosa ho ottenuto, come passare un po’ del mio tempo in una redazione, incontrare gli studenti, andare in permesso.
Sapendo che molti come me non hanno la possibilità di fare nulla e devono lottare ogni giorno con quella dura realtà che è un carcere strapieno di persone che non vedono un futuro. So che dovrò ingoiare ancora molti rospi, specialmente quelli che fanno più male, e dovrò contare solo sulla mia saggezza di persona calma. con la speranza che qualcosa. cambi, io non sono nato qui e qui non dovrò rimanere per sempre, perché come dice un amico che sta peggio di me “tu almeno hai il fine pena”, e questa è l’unica cosa certa, che tutto questo un bel giorno deve finire, anche se alle volte mi sembra quasi impossibile, mi sembra troppo lontano quel giorno.
Tento allora di concentrarmi disperatamente su quelle poche cose che mi aiutano a stare meglio. come la musica, devo evadere in qualche modo, devo scappare da una situazione che mi provoca solo ansia. Sono sempre stato una persona positiva, anche se la vita non è stata proprio generosa con me, non mi devo fermare proprio adesso, devo cercare in tutti i modi di ricordarmi ogni giorno di quando tutto questo sarà solo un lontano ricordo.
Alain C.
Giustizia: i carcerati e Benedetto XVI, profeta di misericordia
di Marco Pozza
Avvenire, 25 febbraio 2013
Lo ricorderanno come profeta amabile di una misericordia che non cancella la giustizia. E di una giustizia che non corra il rischio di trasformarsi in vendetta. Perché, illuminato dal mistero di Gesù di Nazaret, l’uomo rimane ancor oggi l’unica scommessa sensata e da vincere.
Una mattina di dicembre l’hanno visto varcare la soglia del carcere di Rebibbia, ma è come se simbolicamente avesse varcato la soglia di ogni loro cella per stringere la mano e porgere loro un frammento della speranza cristiana, quella che, attendendo il tempo futuro, è capace di riorganizzare il tempo presente. La semplicità umana di quel gesto ha reso Benedetto XVI familiare e amico al mondo che abita dietro le sbarre delle galere, laddove spesso la colpa è terreno fertile e occasione di grazia per inaspettate risurrezioni.
Nel carcere di Padova ieri hanno voluto celebrare messa per lui, per questo Papa che sovente è stato voce e sorriso di chi non ha più voce e ha smarrito la voglia di sorridere. Un grazie “a modo loro”, scritto e firmato da uomini col passaporto di ferro e cemento, che hanno in una cella il punto di osservazione sul mondo.
Questi reclusi non per scelta, ma per scelte sbagliate, riescono a cogliere il pudore quasi monastico del volto di Benedetto XVI, quasi disturbato dal frastuono disordinato del mondo d’oggi. E lo stile sobrio ed essenziale di un uomo che ha messo al centro del suo pontificato, e del suo pensiero, il racconto della storia della salvezza, così, quasi confidando a persone disperate e senza più patria civile e morale che nel Vangelo c’è ancora e sempre la bussola che aiuta a non vagare a vuoto nelle strade del mondo.
Nel presentare il suo primo volume della storia di Gesù, Benedetto XVI chiese un “anticipo di simpatia” senza la quale non ci può essere vera comprensione. Lo chiedeva per il suo lavoro e, forse, lo chiedeva pure per il suo pontificato.
E, ancor di più, per leggere pagine di storia di complessa trama e di difficile interpretazione, dove i fili del bene s’intrecciano con i fili del male. E di comprensione profonda c’è bisogno qui, perché nell’alfabeto delle galere non esiste la cultura del perdente, ma solo l’esaltazione del vincitore (e non è molto diverso là fuori, perché anche la storia degli uomini “liberi” viene scritta dai vincitori).
Forse per questo, a stregarli più ancora delle sue parole è stata la profondità dell’ultimo gesto, l’umiltà di tirarsi in disparte con quell’amabilità che è il tratto caratterizzante della sua persona. Quel suo raccontare la vecchiaia, l’esperienza della fatica e del limite è stata un’altissima lezione di umanità per questi uomini che, a loro modo, si sono messi “al posto di Dio”.
Ci sono parole e incontri che cambiano la storia dell’uomo: di questi, sovente, ci rendiamo conto molto tempo dopo. Anche nel Vangelo è la luce della Risurrezione a permettere agli apostoli di comprendere la loro storia passata. Il magistero di questo Papa ci ha fatto comprendere meglio il segreto più bello, quello che accende e tiene in vita ogni vera speranza: c’è un’intelligenza buona dentro il grembo di ogni cosa, c’è una luce possibile dentro ogni vicenda. Per coglierla, o semplicemente intuirla, è necessario però sempre un “anticipo di simpatia”.
Perché l’uomo, in qualsiasi caos abiti, è prima di tutto una creatura che comincia e ricomincia per amore, anche quando meno se lo meriterebbe (e, anzi, è allora che ne ha più bisogno). A Benedetto XVI un grazie che si fa preghiera. Preghiera che in queste ore sale anche dal ventre delle galere: per essere stato voce dell’Eterno tra questi ultimi, aiutandoli a immaginare la bellezza e la vera giustizia del Giudizio finale, ad aggrapparsi a all’accoglienza amica di colui che è stato carcerato. Un grazie a un Papa al quale dietro le sbarre più d’uno ha aggiunto, come povero dono, un accento. Perché l’ha sentito Papà, per davvero.
Giustizia: emergenza carceri; l’88% dei soldi in stipendi e il 7,3% per mantenere i detenuti
di Lino Abate
Il Foglio, 25 febbraio 2013
Il vitto di un detenuto costa allo Stato meno di quattro euro al giorno, una somma che dovrebbe garantire tre pasti quotidiani. Ma non sempre le imprese che si aggiudicano gli appalti per cifre così basse riescono a garantire quantità e qualità del cibo che viene distribuito nelle celle. E così i reclusi devono arrangiarsi, con i viveri che ricevono dalle famiglie o con le merci acquistate a carissimo prezzo negli spacci delle case di pena.
Una situazione che condiziona la vita delle oltre 65 mila persone rinchiuse nelle prigioni italiane, in strutture che dovrebbe ospitarne al massimo 47 mila. Allo stesso tempo, però, alcuni magistrati al vertice dell’amministrazione penitenziaria godono di benefit scandalosi: hanno diritto ad appartamenti anche nel centro di Roma con un canone di sei euro al giorno, acqua, luce, gas e pulizie compresi, che non tutti però pagano.
Un privilegio che, come nel caso di Gianni Tinebra da sette anni procuratore generale a Catania, mantengono anche dopo avere lasciato l’incarico. E per arredare queste foresterie non si risparmia sui lussi: sul tetto - terrazza di una è stata installata una Jacuzzi con idro massagio, in salotto ci sono tv dà sessanta pollici costate duemila euro, sui pavimenti tappeti persiani e si arriva alla follia di far pagare 250 euro lo scopino di un bagno.
L’elenco di queste spese “fuori norma” è stato depositato ai pm di Roma e alla Corte dei Conti che hanno avviato indagini. Ma è solo uno dei paradossi di un sistema carcerario che continua a essere una vergogna italiana. I nostri penitenziari sono una discarica di esseri umani - dove non solo è negata ogni possibilità di rieducazione ma viene umiliata anche la dignità delle persone.
“Più volte ho denunciato l’insostenibilità di queste condizioni ma i miei appelli sono caduti nel vuoto”, ha dichiarato il presidente Giorgio Napolitano nella storica visita a San Vittore del 7 febbraio. Il dramma è stato praticamente ignorato dalla campagna elettorale, con l’unica eccezione dei Radicali, soli a portare avanti una battaglia di civiltà per l’amnistia: un provvedimento che il capo dello Stato ha detto di essere stato pronto a firmare “non una ma dieci volte”.
A testimoniare quanto sia paradossale la situazione bastano pochi dati: ogni anno lo Stato destina due miliardi e ottocento milioni per l’amministrazione penitenziaria, ma l’88 per cento finisce negli stipendi del personale. Un altro 7,3 per cento viene impegnato per il vitto dei detenuti e così rimane meno del 5 per cento per qualunque altra necessità: 140 milioni per la benzina, le vetture, le divise, gli arredi, la manutenzione e le ristrutturazioni.
Insomma, non ci sono fondi per mettere mano alle terribili condizioni delle prigioni, spesso ancora ospitate in monasteri ottocenteschi o vetuste fortezze. Se si investisse poco meno di 200 milioni di euro sulla ristrutturazione, come spiegano funzionari del Dap, il Dipartimento amministrazione penitenziaria, si potrebbero ottenere subito nuovi posti per garantire spazi a 69 mila detenuti, solo per i| circuito maschile: basterebbe puntare su un ampliamento degli istituti, senza impegnarsi nella costruzione di altre carceri.
La direzione generale risorse del Dap ha fatto un calcolo di quanto servirebbe per fronteggiare l’emergenza edilizia. La proposta è stata illustrata nei mesi scorsi al Consiglio d’Europa che si è svolto a Roma. Secondo il Dap oggi il valore convenzionale degli immobili è di circa cinque miliardi di euro: ci vorrebbero 50 milioni l’anno per la manutenzione ordinaria e 150 per quella straordinaria [...].
Ma invece di fare passi avanti; si continua a precipitare nel baratro. Perché sulla carta c’è “un numero eccessivo di istituti”: sono 206, ma di questi 120 hanno meno di duecento posti e 63 addirittura meno di cento. E le strutture piccole si trasformano in uno spreco di risorse, richiedono un numero più alto di agenti e personale rispetto al numero di reclusi. In teoria, l’Italia ha il miglior rapporto tra metro cubo di edifici e detenuti, senza però che questo dato statistico si trasformi in un miglioramento delle condizioni.
Tutt’altro: secondo le analisi del Formez ci sono in media 140 reclusi per cento posti letto. Persone obbligate a vivere per ventidue ore al giorno in celle claustrofobi - che, con tre - quattro brande sovrapposte, bagni minuscoli e pochissime docce.
Anche il primato nel rapporto tra detenuti e agenti penitenziari resta teorico: si continua a discutere della carenza di personale di custodia mentre una moltitudine di agenti è in servizio nel ministero di via Arenula, negli uffici periferici regionali o viene distaccato ad altri incarichi, lasciando sguarniti i raggi delle celle. “È assolutamente chiaro che si sia sbagliato qualcosa”, si legge nella relazione del Dap al Consiglio d’Europa, “così com’è chiaro che proprio ragionare su questi apparenti paradossi costituisca il corretto approccio per provare, almeno, ad allineare il sistema penitenziario italiano a quello degli altri Stati europei”.
Nell’ultimo anno i vertici del Dap hanno cercato di cambiare la rotta. Con investimenti limitati, evitando gli sprechi, hanno ristrutturato alcune sezioni degli istituti, realizzando 4.630 nuovi posti. La nuova legge sugli arresti domiciliari, che permette di scontare in casa condanne inferiori ai dodici mesi, ha fatto uscire quasi novemila detenuti. Su altri 6.000 con pene fino a due anni si devono pronunciare i giudici di sorveglianza. Nonostante questo l’emergenza continua.
Ad affollare le carceri sono soprattutto gli extracomunitari: ben 24 mila, con una predominanza di cittadini marocchini e tunisini. La maggioranza dei detenuti è accusata o condannata per reati contro il patrimonio: 34.583 sono finiti dentro per furti, rapine, estorsioni, ricettazione, usura, frodi, riciclaggio. Altri 26.160 hanno commesso reati. legati alla droga; 24.090 sono accusati di crimini contro la persona come violenze e omicidi; 10.425 invece devono scontare pene per armi. I colletti bianchi in cella [...] sono 8.307. Su 65 mila reclusi, solo 604 sono laureati, di cui 176 stranieri: altri 21 mila hanno la licenza di scuola media inferiore.
E gli unici a potere contare su celle comode, con uno o due letti per stanza, sono mafiosi e terroristi sottoposti a regime di media e massima sicurezza: settemila persone, tra cui 133 donne. Ma questa esigenza ha provocato un altro squilibrio, con la necessità di riservare numerose sezioni a questi sorvegliati speciali, aumentando la ressa nelle altre.
Dopo l’indulto varato dal governo Prodi nel 2007, i cui effetti sul sovraffollamento sono stati vanificati nel giro di tre anni, di fatto non ci sono stati interventi. Con la solita logica emergenziale, nel 2010 il ministro Angelino Alfano ha elaborato un piano straordinario per l’edilizia carceraria. È stato nominato un commissario con ampi poteri e risorse finanziarie: nei proclami iniziali si parlava di 700 milioni di euro, poi i soldi sono spariti.
Oggi sono in fase di avvio i lavori per costruire un paio di padiglioni mentre tutto il programma iniziale è stato riesaminato secondo criteri di efficienza dal nuovo commissario straordinario. Nel piano Alfano, oltre alla nomina di consulenti amici del politico, sono stati pianificati tanti cantieri ignorando le situazioni più urgenti o le esigenze dei territori. Come il caso del carcere che si voleva edificare a Mistretta, nel Messinese, eliminato in fretta dalla mappa.
Un vecchio vizio: negli anni Ottanta lo scandalo delle carceri d’oro ha dimostrato come i nuovi penitenziari erano stati edificati solo in base a logiche politiche, di collegio elettorale o di tangente, senza guardare alle necessità dei detenuti. Che spesso sono obbligati a rimanere concentrati negli istituti più vicini alle sedi dei processi.
Ma anche in tempi recenti le nuove prigioni sono diventate l’occasione per rapidi arricchimenti. Durante la gestione del Dap guidata da Franco Ionta ha destato curiosità la figura del “responsabile unico di progetto” che a norma di legge intascava il 2 per cento dell’opera. A firmare era sempre lo stesso funzionario, un tecnico, sostituito poi da un magistrato: lo stesso Ionta.
Oggi nella campagna elettorale la questione delle carceri è stata ignorata. Solo i Radicali hanno continuato senza sosta a proporre il problema. E ora toccherà al nuovo Parlamento dare risposte concrete per uscire da quella che il presidente ha definito una “situazione mortificante”, ribadendo senza mezzi termini: “Sono in gioco l’onore e il prestigio dell’Italia”.
Giustizia: elezioni politiche anche nelle carceri, notizia dalla Sicilia, da Cagliari e Isernia
Ansa, 25 febbraio 2013
Sicilia: nelle carceri affluenza del 5%. “Anche la popolazione detenuta siciliana ha sfiduciato la classe politica candidata alle elezioni”. Lo ha detto il vice segretario generale dell’Osapp, Mimmo Nicotra, sottolineando come in tutta la Sicilia abbia votato poco più del 5% di tutta la popolazione detenuta. L’affluenza maggiore si è registrata nell’Istituto penitenziario “Piazza Lanza” di Catania e all’Ucciardone di Palermo. “Se con il rinnovo delle Camere del Parlamento - ha aggiunto Nicotra - non si porrà attenzione alla questione penitenziaria, non si potrà che constatare il fallimento della politica nella gestione delle patrie galere”.
Cagliari: record elettori detenuti a Buoncammino. Record di detenuti elettori nel carcere cagliaritano di Buoncammino. Dopo molti anni in cui si registrava una partecipazione al voto di 5/6 persone private della libertà il rinnovo del Parlamento italiano ha visto depositare nelle urne di Camera e Senato 34 suffragi. Lo rende noto Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, sottolineando “l’importanza dell’esercizio del diritto - dovere del voto in una realtà solitamente estranea alle competizioni elettorali”. A recarsi alle urne sono stati 34 cittadini di sesso maschile. L’espressione di voto si è svolta regolarmente nella sezione appositamente allestita nella mattinata di domenica dove si è votato dalle 8 alle ore 13.30. Le urne sigillate sono state quindi portate al Comune per lo spoglio.
Isernia: clamorosa protesta al carcere di dove i detenuti non si sono recati a votare al seggio speciale allestito nel penitenziario per consentire l’esercizio del diritto costituzionalmente garantito. Il gesto può essere letto come una protesta per la situazione in cui versano le carceri in Italia e per la battaglia sull’amnistia.
Giustizia: da carceri a hotel di lusso e centri culturali, il recupero di prigioni abbandonate
di Chiara Laganà
Il Ghirlandaio, 25 febbraio 2013
Da prigioni a hotel di lusso: è quello che è successo ad alcune carceri abbandonate in varie parti d’Europa e anche d’Italia. Il magazine Swide ha elencato alcune tra le riqualificazioni migliori dai Paesi Bassi fino alla Svezia, noi del Ghirlandaio ne abbiamo aggiunte altre. Chi immaginerebbe di ricavare stanze lussuose in celle che fino a qualche tempo prima ospitavano criminali. Non solo hotel, le Murate o il vecchio carcere di Palencia sono rinati come centri culturali. La trasformazione è stata spesso lunga, ma ecco quali sono i migliori esempi.
A Zwolle in Olanda si trova il Librije Hotel, un albergo a cinque stelle che offre ogni tipo di comfort. Il Librije di Thérèse e Jonnie è l’hotel di lusso più piccolo dei Paesi Bassi, la vecchia prigione era stata costruita nel diciottesimo secolo: la nuova struttura ha aperto nel 2008 e le sue stanze possono essere usate anche per meeting, feste private e matrimoni. Non solo, il Librije può contare anche su due maggiordomi che sorridono sulla web dell’hotel.
Più a Nord, in Lettonia, a Liepaja un’ex prigione del Kgb è diventata un hotel, ma ha mantenuto l’atmosfera spartana del regime comunista. Contrariamente ai colleghi olandesi, i lettoni hanno deciso di lasciare tutto così com’era: inclusi bagni alla turca, stanze fredde e poco riscaldate. Tutto il contrario del Four Seasons di Istanbul: a Sultanahmet, lo splendido albergo affaccia sulle acque del Corno d’Oro, il mar di Marmara e il Bosforo. Sessantacinque stanze extra lusso e suite ricavate in una antica prigione neoclassica. Un lusso che si possono permettere in pochi, i prezzi vanno dai 340 euro per una camera deluxe ai 1.700 per la suite Deluxe. Ed esistono due suite di cui si conosce il prezzo: la Marmara e la Saint Sophia.
È molto probabilmente gratis, invece, l’ingresso al Centro Cultural di Palencia: nella città della Castilla León l’aerea di 5.077 metri quadrati è stata completamente reinventata dai due architetti della Exit: Ángel Sevillano e José María Tabuyo. Il carcere era stato costruito alla fine del XIX secolo ed era compost di due plessi seguendo lo stile neomudéjar. I due architetti hanno creato un centro culturale rispecchiando la struttura del vecchio edificio, donandogli però un’apparenza più luminosa: nell’edificio terminato nel 2011 la luce gioca un ruolo fondamentale. Al suo ingresso, una biblioteca e un auditorium.
Dalla Spagna alla Svezia: sull’isola di Långholmen, piccola lingua di terra nel centro di Stoccolma. Dove c’erano le celle, oggi sorgono camere d’albergo e al suo esterno c’è una piccola spiaggia e dei circuiti per fare jogging. L’hotel sull’isola è una sistemazione raffinata, ottima anche per organizzare conferenze. C’è anche un piccolo ristorante e la possibilità di visitare il museo della prigione.
Un altro esempio si trova a Boston: nel 1990 la Charles Street Jail è stata abbandonata perché non era più in grado di ospitare detenuti. Un tempo fiore all’occhiello della città, fu acquistata dal Neighboring Massachusetts General Hospital e ristrutturata dal Cambridge Seven Associates to transform per trasformare l’ex prigione in hotel di lusso. Il vecchio edificio completato nel 1851 rappresentava uno dei più belli di tutta Boston e ha ospitato nelle sue celle alcuni fra i peggiori criminali. Dopo l’opera di ristrutturazione, la prigione di Boston è rinata diventando uno dei migliori alberghi del New England. In alcuni tratti sono ancora visibili le “cat walk”, i corridoi fra una cella e l’altra, mentre il ristorante dell’hotel, il Clink, è stato ricreato all’interno di una vecchia cella. Il Liberty conserva altre caratteristiche dell’ex istituto di detenzione: i muri perimetrali delle celle, i fregi sulle porte, i finestroni, le passerelle. Accanto all’edificio principale è stata costruita una torre che ospita 18 camere a vista. Il Liberty può ospitare fino a 300 persone.
Non solo gli Usa e il Nord Europa, anche in Italia alcune carceri sono state reinventate. Il carcere delle Murate di Firenze è stato attivo dal 1883 al 1985, il progetto di recupero è stato affidato a Renzo Piano. Nell’ex struttura sorge oggi un centro dedicato alla cultura contemporanea fiorentina e non solo. Le mura del carcere ospitano: l’officina della creatività Suc, lo sportello Eco-Equo, il parco dell’innovazione, un caffè letterario e il quartier generale della Fondazione Robert F. Kennedy. Le porte dell’ex carcere Le Murate sono state aperte per mostre, incontri, convegni e alte attività culturali. Meno fortunato il carcere borbonico sull’Isola di Santo Stefano a Ventotene: questa struttura ha ospitato fra i detenuti anche l’ex presidente della Repubblica Sandro Pertini. Ideato nel 1795, il carcere sorgeva nell’antico monastero dedicato al primo martire della chiesa cattolica: le 99 celle della struttura sono da tempo abbandonate. Nel 2010, spuntò l’idea, poi accantonata di trasformare la struttura in un resort a cinque stelle. Progetto poi abbandonato per assenza di spiagge nelle vicinanze, ma perché non prendere esempio dalle altre città?
Lettere: al Presidente Napolitano; detenuti ed operatori “travolti da un insolito destino!”
Di Alessandro Bruni (Società Italiana Psicologia Penitenziaria) e Rosa Monti (Criminologi Penitenziari)
Ristretti Orizzonti, 25 febbraio 2013
La situazione degli istituti penitenziari è oramai nota in tutta la sua gravità, che sicuramente è legata ad una fase di sovraffollamento, ma soprattutto a condizioni strutturali: assiduo ricorso alla detenzione negli istituti, mancato potenziamento delle attività di rieducazione e delle misure alternative.
La recentissima sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani ha sottolineato la situazione drammatica del carcere che Lei conosce bene per averla denunciata più volte.
La reclusione, a nostro avviso, deve riguardare solo una parte limitata della popolazione che deve scontare una pena e la pena non può essere solo quella della detenzione negli istituti, esistono misure (dai lavori di utilità sociale alla detenzione domiciliare fino all’affidamento in prova) che possono fin da subito rispondere all’emergenza e produrre miglioramenti sistematici. Solo in questo modo il dettato dell’art. 27 della Costituzione può trovare una sua applicazione. Certezza della pena e certezza del trattamento.
Dentro questo quadro gli operatori penitenziari (educatori, polizia penitenziaria, direttori, assistenti sociali, volontari) possono contribuire in modo diretto ad un intervento qualitativo per dar vita a quel trattamento che, con dignità umana, permetta maggior sicurezza negli istituti e riduca la recidiva nella società.
Un tassello di questo lavoro è rappresentato anche dalla nostra figura dell’esperto ex art. 80 O.P. (psicologi e criminologi) che svolge i compiti previsti dall’Ordinamento Penitenziario negli istituti penitenziari (e che si dovrebbero occupare in modo sistematico, a nostro avviso, anche della Polizia Penitenziaria, per la complessità del lavoro svolto e per l’alto indice di stress - lavoro correlato a cui giornalmente è sottoposta).
In sintesi, gli esperti in psicologia e in criminologia - tutti reclutati tramite una selezione pubblica del Ministero della Giustizia “per titoli e per esame” - si occupano di contatti diretti con i detenuti per affrontare le difficoltà legate all’impatto con il carcere, alla perdita degli affetti, alla distanza dalle famiglie; per sostenere nei momenti di sconforto che portano, a volte, a gesti di autolesionismo, di suicidio o di violenza; accompagnare i detenuti ad affrontare le lunghe carcerazioni e l’ergastolo; contribuire al lavoro dell’ équipe per conoscere la personalità e favorire i processi di maturazione e revisione critica rispetto al proprio passato, per definire percorsi di trattamento che dal carcere possano creare la basi per progetti mirati al reinserimento sociale.
Purtroppo la figura di esperto ex art. 80 O.P. è di fatto in via di estinzione: si tratta di un lavoro “a cottimo”, di “professionisti coatti” (partite iva), di fatto precari che da trentacinque anni lavorano negli istituti penitenziari senza garanzie ed oggi la situazione, non solo non è migliorata, ma rischia di peggiorare per problematiche burocratiche (in particolare l’anomalia della tipologia di contratto, le modalità di conferimento degli incarichi, ecc.) ed interrompere così la continuità dell’intervento.
Come vengono trattati gli operatori (che non devono espiare nessuna pena!) è oramai speculare a come vengono trattati i detenuti (fatte, ovviamente, le debite proporzioni rispetto a chi non dispone della propria libertà), tutti travolti dall’insolito destino: tutti ne parlano e la situazione precipita.
Poniamo una semplice domanda: si ritiene utile l’intervento di esperti in psicologia e in criminologia per affrontare il disagio di chi sconta una pena e contribuire alla osservazione, al sostegno e al trattamento per favorire il cambiamento e un inserimento sociale ?
Si vuole rinunciare a trentacinque anni di lavoro in équipe, “spalla a spalla” con educatori, direttori, assistenti sociali e polizia penitenziaria? Non si è forse visto che il metodo più proficuo è la collaborazione multidisciplinare, che andrebbe potenziata e non defraudata dell’apporto della professionalità di psicologi e criminologi, peraltro previsto per legge?
Se la risposta è “no”, ci scusiamo per il disturbo e scriviamo qui la parola fine al nostro appello.
Se la risposta invece è “sì”, allora bisogna - soprattutto in tempi di “spending rewiev” - riqualificare veramente la spesa e mettere in condizione gli esperti di poter operare. Spendere poco, aver ridotto il lavoro solo ad una sorta di testimonianza, non è un modo per risparmiare, ma un modo per sprecare risorse anche se esigue: in queste condizioni l’intervento è inutile per una reale riabilitazione della persona detenuta.
Nel 2012 sono stati stanziati 1.095.727 euro per gli “esperti”; la popolazione complessiva dei detenuti presenti nel 2012 (al 1° gennaio + entrati dalla libertà) è stata di 129.917; la retribuzione oraria lorda è di 17,63 euro. Da questi semplici dati si evince che l’intervento psicologico e criminologico è stato nel 2012, in media, di 28 minuti per detenuto. Probabilmente è inutile aggiungere altro.
Da moltissimi anni abbiamo avanzato delle semplici proposte, in parte raccolte nel tempo anche da diversi disegni di legge presentati da tutti gli schieramenti politici (il più recente è il n. 4363 la cui approvazione costituirebbe un notevole passo in avanti), che non hanno mai avuto seguito:
1. monte ore adeguato (poiché i 28 minuti a detenuto nel 2012 si commentano da sé);
2. un nuovo contratto stabile per garantire condizioni di lavoro decenti (la convenzione scade ogni anno, è priva di garanzie, rende l’attività precaria e mette a rischio la continuità e l’esperienza maturata);
3. strutturazione di un servizio di psicologia e criminologia (che migliori l’organizzazione del lavoro).
Attendiamo un segnale da Lei che in più occasioni si è espresso sul tema penitenziario: non vogliamo essere un problema, ma dare un contributo per trovare soluzioni.
In attesa delle inevitabili riforme strutturali del sistema penitenziario, chiediamo un intervento definitivo nei confronti di chi come noi (solo qualche centinaio di persone) opera in modo precario da trentacinque anni e rendere così effettivo, utile e stabile il contributo di psicologi e criminologi negli istituti penitenziari.
Firenze: entro marzo chiude l’Opg di Montelupo ma la villa medicea diventerà un carcere
di Laura Montanari
La Repubblica, 25 febbraio 2013
I cento pazienti saranno smistati in piccole strutture ancora da trovare, anche se la scadenza del 31 marzo si avvicina. Il conto alla rovescia è di quelli che tolgono il fiato: entro il 31 marzo l’Opg di Montelupo Fiorentino, l’ospedale psichiatrico giudiziario, dovrà chiudere e trovare una sistemazione adeguata per i suoi detenuti pazienti. Trentacinque sono quelli toscani, gli altri torneranno nelle regioni di appartenenza: Liguria, Sardegna, Umbria.
Sono circa cento gli attuali pazienti dell’Opg: il 30% degli ospiti di Montelupo hanno reati di omicidio alle spalle, gli altri lesioni, maltrattamenti, rapine. Sono tutti uomini e tutti hanno bisogno di trovare strutture attrezzate per curarli. Domani al ministero si terrà una riunione con gli assessori regionali per fare il punto sulla situazione. “Stiamo pensando di creare piccoli centri per venti pazienti al massimo - spiega il dottor Franco Scarpa, psichiatra che è stato per anni direttore dell’Opg e che adesso è responsabile di una unità operativa della Asl 11 - i luoghi distribuiti nelle varie aree vaste, saranno strutture sanitarie in grado di seguire meglio i pazienti con problematiche anche gravi”. Fra le location accreditate c’è una struttura a San Miniato nell’empolese. Altre strade invece sono ancora da esplorare. Fra i pazienti che dovranno rientrare in Toscana an - che una donna attualmente ospite a Castiglione delle Stiviere. La struttura di Montelupo, antica (era una villa medicea), è inadatta a curare quel genere di pazienti, ma non resterà abbandonata. “Noi ci auguriamo non torni ad essere un carcere” spiega il sindaco Rosanna Mori.
“Avevamo sollevato da tempo il problema della inadeguatezza di quella struttura, adesso ci auguriamo che la villa medicea venga destinata ad usi diversi”. Un augurio che probabilmente non è destinato ad andare in porto dal momento che il provveditore della Toscana all’amministrazione carceraria, Carmelo Cantone spiega: “Il progetto è di sostituire l’Opg con una struttura di reclusione per detenuti con lunghe condanne, ma con un basso livello di pericolosità”.
Cantone spiega anche che nell’area dell’Opg si è creata una interessante interazione fra carcere e associazioni di volontariato che non va dispersa perché è in qualche modo un patrimonio di esperienza e collaborazione che può essere applicato anche a realtà diverse e che aiuta chi è detenuto a relazionarsi con il mondo esterno. C’è anche un’altra possibilità: l’ospedale psichiatrico giudiziario ha diversi padiglioni (in tempi non lontani ha ospitato anche 180 detenuti - pazienti), in uno, ancora da individuare, verrebbe realizzato un centro di osservazione psichiatrica con al massimo una capienza di dieci letti. Si tratta ospitare detenuti per esempio che hanno dato segni di squilibrio mentale e che da un istituto carcerario classico potrebbero avere bisogno di un’assistenza diversa, più di carattere sanitario. Ma l’urgenza in questo momento è quella di individuare sul territorio toscano due o tre luoghi in cui creare le nuove strutture per l’assistenza e cura di chi è ancora “prigioniero” dell’Opg. Il tempo ormai è poco, il 31 marzo è dietro l’angolo.
Trento: il Provveditore Pietro Buffa; il nuovo penitenziario? è moderno e sopra la media
Il Trentino, 25 febbraio 2013
Ai tempi della spending review pure l’amministrazione penitenziaria ne risente. Pietro Buffa, provveditore per l’Emilia Romagna, è infatti diventato dal dicembre scorso anche reggente per il Triveneto, carceri di Trento e Bolzano compresi.
Prendendo il posto di Felice Bocchino, andato in pensione. Torinese, 53 anni, prima di arrivare a Bologna in seguito alla promozione, Buffa è stato per 12 anni direttore delle Vallette, l’istituto di pena del capoluogo piemontese. E, in precedenza, ha diretto altre strutture.
Ha seguito con attenzione l’inchiesta del “Trentino” sul carcere di Spini di Gardolo visto che in quanto provveditore, che è un dirigente generale dell’amministrazione penitenziaria, ha tra l’altro competenze in materia di personale, organizzazione dei servizi e degli istituti e rapporti con gli enti locali. Complessivamente, il provveditore smorza i toni precisando che rispetto ad altre situazioni quella trentina è senz’altro una realtà di una certa eccellenza.
Conosce e ha visitato il nuovo carcere di Trento?
Certo, ci sono stato qualche tempo fa, un paio di volte, per delle ispezioni. Ma conto di tornarci al più presto. E che indicazioni ne ha tratto? È una struttura assolutamente moderna, dotata di molti spazi. Senz’altro di un livello oltre la media dei carceri italiani.
Però si lamenta un certo sovraffollamento e carenza di personale.
Allora, Trento ha una sua specificità, quella di un accordo quadro tra Stato e Provincia che fissa dei parametri precisi. L’accordo prevede 240 detenuti, al massimo. Adesso siamo tra i 270 e i 280. Quindi, siamo leggermente sopra la media, è vero. Però, bisogna anche cercare di rapportarsi all’interezza del panorama italiano, che è assai più complesso.
Ma c’è un accordo sottoscritto.
Sì, e gli accordi vanno rispettati. Però mi richiamo sempre alla situazione complessiva del sistema penitenziario che, ripeto, è parecchio complicata. Ci sono situazioni drammatiche. Quindi, ovvio che se il contesto generale permettesse di risolvere queste problematiche manifestatesi a Trento lo si farebbe.
Si diceva del personale.
Ma, guardi, anche gli agenti che non sono impegnati effettivamente sul “campo” ma distaccati ad altri servizi sono pur sempre funzionali alla vita dell’istituto. Dobbiamo tenere presente un aspetto e cioè che il carcere di Trento è stato pensato con una forte automatizzazione. Non siamo in un carcere vecchia maniera, “chiave e cancello”, tanto per capirci.
E sulla distanza della struttura dalla città e nei rapporti con la comunità che idea s’è fatto?
Quando ero venuto a Trento la prima volta mi aveva particolarmente colpito che la Provincia avesse già previsto e concordato gli interventi sia nell’area educativa che in quella lavorativa. I dati in mio possesso non fanno altro che confermarmelo. Mi sembra che questa distanza di cui si parla tutto sommato sia stata colmata anche se ovviamente le cose possono essere sempre migliorate. La struttura lo consente. D’altronde, il Trentino è terra molto attenta alle questioni sociali.
Cosa pensa della figura del Garante dei detenuti la cui istituzione in Trentino è arenata in Consiglio provinciale?
Quello che posso dire, per esperienza diretta, è che in questi anni ho lavorato con diversi Garanti, comunali o regionali che fossero. In genere mi sono trovato molto bene, ho trovato in loro stimoli e collaborazione.
Varese: il carcere dei Miogni cade a pezzi, ma con ci sono soldi per un nuovo istituto
di Francesca Manfredi
Il Giorno, 25 febbraio 2013
Dopo l’evasione rocambolesca di tre detenuti dai Miogni è tornato di strettissima attualità l’annosa questione del carcere in città. Pratica che, per un problema di mancanza di soldi pubblici, è ferma al palo da ben tre anni. Il piano carceri varato dal governo Berlusconi nel 2010 infatti ha messo l’amministrazione cittadina in una condizione che ha del paradossale: obbligata da un decreto a indicare un’area dove realizzare il nuovo carcere, una maxi struttura che dovrebbe contenere almeno 450 detenuti, non ha ancora ricevuto però i soldi dovuti dal ministero di Grazia e Giustizia per procedere con l’operazione; nel frattempo, come se non bastasse, il vecchio e fatiscente Miogni sulla carta risulta un carcere dismesso: significa che il ministero non spenderà un centesimo per sistemarlo o ampliarlo. Nel frattempo, qualcuno deve intervenire quanto meno per “mettere una pezze” viste le lacune denunciate dagli stessi operatori, come nell’ultima relazione del comandante della Polizia penitenziaria risalente a un mese fa. Il Comune, però, non ha le risorse necessarie per fare alcunché.
“Non ho la minima idea di quello che succederà perché è una partita totalmente in mano al ministero e al provveditore regionale per le opere pubbliche - afferma il sindaco Attilio Fontana - Da parte nostra abbiamo fatto quello che ci hanno chiesto a tempo debito, cioè indicare un’area, ma non abbiamo più avuto notizie. In ogni caso dubito fortemente che ci siano le risorse per farlo”.
Il piano carceri imponeva alle amministrazioni comunali delle grandi metropoli e di altre otto città considerate strategiche - Varese, Brescia, Bolzano, Pordenone, Pinerolo, Paliano, Latina e Marsala - di mettere a disposizione delle aree, non necessariamente di proprietà comunale, per edificare la nuova struttura. Formalmente, il quartiere indicato dal consiglio comunale il 23 ottobre 2008 è ancora quello dei Duni a Bizzozero, ma il sindaco da tempo ha messo il veto. “Per quanto mi riguarda non se ne parla di rovinare una delle ultime zone verdi rimaste”, ribadisce Fontana. Anche perché la nuova edilizia carceraria prevede strutture a un solo piano con un consumo di territorio decisamente esteso. Così l’Amministrazione ha individuato altre zone, in primis un terreno nel rione Valle Olona, nonostante qualche difficoltà relativa al rischio idrogeologico per il quale però sono già in corso opere di messa in sicurezza sul corso del fiume per circa 2 milioni di euro, finanziati dalla Regione e da fondi europei. Il problema però resta ancora di natura economica.
Costruzione della struttura a parte, il collegamento con la rete fognaria e tutte le opere accessorie infatti dovrebbero essere a carico del Comune, secondo il ministero, senza che però lo Stato paghi in cambio gli oneri di urbanizzazione o realizzi strutture necessarie alla cittadinanza. L’amministrazione non fa i salti di gioia all’idea di accollarsi anche queste nuove, ingenti spese. Impossibile anche utilizzare le aree dismesse: anche qui questione pecuniaria, tanto per cambiare. Intanto oltre alle condizioni strutturali a dir poco problematiche, con una capienza regolamentare di 53 posti e una massima tollerata di 99 il Miogni non rispetta nemmeno la normativa europea sugli spazi per ogni detenuto.
Varese: finita la fuga degli evasi dal carcere dei Miogni, sono stati ripresi tutti e tre
Asca, 25 febbraio 2013
Fuga bloccata in sole 72 ore: arrestati tutti e tre gli evasi dal carcere di Varese lo scorso 21 febbraio. L’ultimo a mancare all’appello era Daniel Parpalia, 32 anni rumeno, costituitosi alle 20 di oggi ai carabinieri del comando di Vigevano.
Il fuggiasco si è presentato spontaneamente ai carabinieri probabilmente perché aveva capito di essere braccato: gli uomini della squadra mobile di Varese erano già sulle sue tracce. Costituendosi Parpalia ha tentato di alleggerire per quanto possibile la propria posizione.
Nulla si sa, invece, sulla sorte della compagna di Parpalia che stando a quanto dichiarato da Marius Bonoru, il primo evaso ad essere arrestato in Svizzera poche ore dopo la fuga, in sede di udienza di convalida davanti ai giudici del tribunale di Como avrebbe aiutato il trio nella fuga. Anche per la donna potrebbe essere questione di ore; la fidanzata di Parpalia dovrà spiegare la propria posizione. Victor Sonir Miclea, 30 anni anche lui romeno, era invece stato arrestato ieri sera alle 23 in un abergo di Lugano. È stato ascoltato dalla magistratura elvetica: lunedì si chiarirà se anche per lui, come per Bonoru, sarà attivata la procedura d’urgenza per la consegna alle autorità italiane oppure dovrà restare dai quattro ai cinque mesi nelle carceri elvetiche in attesa dell’estradizione. S. Car.
Milano: corsi di informatica all’interno delle carceri, la Cisco espande il “modello Bollate”
di Alessia Maccaferri
Il Sole 24 Ore, 25 febbraio 2013
“Quando arrivano, mi dicono “Io non conosco i computer, li ho sempre e solo rubati” racconta un po’ divertito Lorenzo Lento che insegna nel carcere di Bollate. Lui dal 2001 è diventato il punto di riferimento per centinaia di detenuti. Libero professionista, lavora come volontario (quasi a tempo pieno) alla Cisco Networking Academy nel carcere milanese. La struttura propone corsi di informatica di diverso tipo, creando così occasioni di crescita personale e opportunità di lavoro.
“C’è addirittura un ex allievo - continua Lento - che ora configura gli apparati di videosorveglianza per tabacchi, ricevitorie”. Ma non si deve sapere in giro perché per un ex detenuto perdere il lavoro è molto facile, se si viene a conoscenza dei trascorsi. Lo sa bene un ex - carcerato che preferisce raccontare la sua storia con lo pseudonimo di Enrico.
“Dal carcere si esce distrutti o incattiviti” dice lui che ha scontato due condanne (di cui una per rapina in banca) per un totale di sei anni. “Ho trascorso l’ultimo anno e mezzo di pena a Bollate. Lì ho acquisito competenze tecniche, ho scoperto la mia passione informatica ma soprattutto ho sentito di poter fare qualcosa di bello nella vita e sono stato incoraggiato a farlo”. Ora, a 46 anni, Enrico progetta e realizza siti web e offre anche una collaborazione a due persone.
Lorenzo Lento di solito accompagna gli ex detenuti, come Enrico, nella ricerca di un lavoro. Ora per facilitare il percorso Lento ha fondato Universo Cooperativa sociale, che ha vinto un contratto per gestire la rete dati e wi-fi, posta elettronica, la telefonia del Conservatorio Verdi di Milano. Il compito sarà affidato a due detenuti del carcere. E non è finita qui. Con i suoi allievi Lento fa volontariato, fuori dal carcere. Ha messo in piedi la rete wi-fi e configurato router e switch dell’Opera Cardinal Ferrari.
Bollate è stato il primo carcere a livello mondiale a ospitare Cisco Networking Academy, un programma di responsabilità sociale che, in tutto il mondo, contribuisce alla formazione informatica, nelle scuole, nei centri professionali e nelle carceri.
A Bollate in dieci anni 400 detenuti hanno frequentato i corsi e circa un centinaio hanno ottenuto la Cisco Certified Network Associate. L’80% di loro ha trovato un impiego dentro o fuori dal carcere. E mentre il dato medio di recidiva nelle carceri italiane è del 70%, a Bollate scende al 16 - 17 per cento. “E si azzera tra i nostri allievi: nessuno è tornato in carcere per aver commesso nuovi reati” spiega Luca Lepore, responsabile del programma Networking Academy per Cisco Italia.
Da Bollate il progetto si è esteso. Tre anni fa è stata creata un’Academy a Castrovillari. Nel paesino calabrese alcuni docenti dell’Itis insegnano informatica all’interno del carcere. Già 50 detenuti e 15 guardie hanno partecipato. E a Cagliari un mese fa attorno al centro di formazione E - People è partita un’Academy all’interno del carcere con 10 detenuti iscritti al corso di Fondamenti di informatica e reti.
Cisco guarda al modello inglese, dove è stato firmato nel 2002 un accordo con il ministero della Giustizia per le carceri. “Ci abbiamo provato diverse volte anche in Italia, abbiamo riscontrato un interesse generale ma poi non si riesce ad andare avanti - racconta Lepore - Ci vorrebbe un accordo nazionale con una valenza operativa, che veda impegnato il Ministero direttamente, anche un investimento”.
Padova: in piazza le organizzazioni che si occupano di ex detenuti, poveri e disabili 
di Felice Paduano
Il Mattino di Padova, 25 febbraio 2013
“Prima gli Ultimi”. Questo il cartello più eloquente sistemato, ieri mattina, ai bordi della fontana di piazza delle Erbe, dove gli attivisti delle associazioni, che tutelano in città, da decenni, i diritti dei più deboli, hanno tenuto una manifestazione di protesta. Tra di loro anche il consigliere regionale, Claudio Sinigaglia. Barbara Maculan di Mimosa, Paola Marchetti di Ristretti Orizzonti, Flavio Lunardon di Unica Terra e anche Claudio Gramaglia.
Una trentina di volontari in rappresentanza di tutti gli organismi che si occupano di coloro che, per vivere, han - no bisogno di un aiuto concreto e continuo. In piazza anche i coordinatori di Granello di Senape, Cosep, Martini Associati, Xena, Iride, Equality e di tutte le altre associazioni che si sono riunite in un unico coordinamento, che è stato chiamato Mips (Movimento di Idee per il Sociale).
Tutti insieme per protestare contro i tagli alla spesa sociale da parte degli enti locali, in particolare dalla Regione Veneto e per rivendicare risorse urgenti a tutela dei senza casa, dei disabili, dei minori senza famiglia, degli ex detenuti, delle prostitute che hanno deciso di lasciare il marciapiede.
“Senza finanziamenti certi quasi tutte le attività di solidarietà che portiamo avanti da anni rischiano di scomparire” sottolinea Paola Marchetti, “se non si trovano i fondi necessari, ad esempio, non potremo più aiutare concretamente i detenuti che, una volta espiata la pena in carcere, vogliono reinserirsi nel tessuto della società civile”.
Più ampio il commento di Flavio Lunardon: “Senza fondi sono a rischio i duemila pasti al giorno che vengono distribuiti in città ai vecchi e ai nuovi poveri e la sopravvivenza dei numerosi centri diurni, che continuiamo a tenere in piedi a favore dei disabili, dei senza tetto, degli immigrati in difficoltà e di tutti quelli clic non hanno più neanche gli occhi per piangere” osserva l’esponente di Unica Terra. “A rischio anche la gestione dell’asilo notturno di via del Torresino, una struttura d’accoglienza di primo ordine che, ogni notte, viene incontro alle esigenze di tante persone, sia italiane che straniere, che, per vari motivi, sono rimasti senza casa”.
Milano: 25 detenuti-volontari nella “Casa della carità” di don Virginio Colmegna
La Repubblica, 25 febbraio 2013
La sera tornano in cella a scontare la loro pena, ma di giorno hanno chiesto ore di permesso per fare volontariato. Sono già 25 i detenuti del carcere di Opera, condannati in via definitiva per reati di varia natura, che hanno cominciato a lavorare gratis alla Casa della carità.
Accompagnano gli anziani del quartiere a fare commissioni, vanno a prenderli a casa in macchina per portarli dal medico, puliscono le docce usate dai poveri e dai senzatetto, fanno le pulizie nelle stanze e nelle sale comuni usate dagli ospiti della “casa” aperta da don Virginio Colmegna dieci anni fa. Nessuno degli anziani sa da dove vengano quegli uomini che ogni settimana arrivano in pulmino da Bollate e sbarcano in via Brambilla, a Crescenzago, la sede della Fondazione.
I detenuti, in accordo con Massimo Parisi, direttore del carcere di Bollate, hanno fondato l’ associazione Articolo 21 e hanno partecipato a un corso di formazione. “Sono entusiasti - spiega Colmegna. Molti di loro fanno già lavoro esterno e hanno voluto aggiungere anche queste ore di volontariato, per dare il segno della loro concreta volontà di reinserimento sociale. È una forma di risarcimento alla società, il completamento di un percorso di riscatto”. I carcerati - volontari fanno i turni ogni settimana e la domenica partecipano al pranzo con i 300 ospiti e tutti i collaboratori di don Virginio.
Asti: violenze sui detenuti; quattro agenti coinvolti, due hanno perso il lavoro
Adnkronos, 25 febbraio 2013
Ad Asti, non si è ancora conclusa una inchiesta condotta nel carcere per accertare le responsabilità di quattro agenti della polizia penitenziaria che nel 2004 erano accusati di abuso di autorità per aver picchiato e perseguitato un detenuto. Processati nel gennaio 2012 per due agenti era scattata la prescrizione del reato e due erano stati assolti per assenza di querela da parte del detenuto. Ieri, l’apposita commissione del “Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria” di Roma, a conclusione di un’istruttoria amministrativa ha destituito dal Corpo della Polizia Penitenziaria due degli agenti accusati di violenze e vessazioni. Si è immediatamente provveduto al ritiro della pistola e del distintivo. Come conseguenza i due poliziotti dovranno trovarsi un altro lavoro. Gli altri due sono stati sospesi dal lavoro per alcuni mesi. Per i quattro c’è ancora la possibilità di ricorrere al Tribunale Amministrativo.
Ferrara: rissa per le preghiere rumorose, tra quattro detenuti albanesi e due magrebini
La Nuova Ferrara, 25 febbraio 2013
La preghiera notturna disturba i vicini, e il giorno dopo volano botte. Non una lite da condominio, ma una rissa scoppiata all’Arginone tra sei detenuti, quattro albanesi e due magrebini, usciti con ferite lievi dalla zuffa ma stangati ieri in tribunale con condanne comprese tra 1 anno e 8 mesi e 1 anno. I fatti risalgono all’8 settembre del 2008 nella Prima Sezione della casa circondariale ferrarese.
Secondo la testimonianza dell’ex direttore Francesco Cacciola, a sua volta informato dagli agenti di polizia penitenziaria, la colluttazione era nata per contrasti di tipo culturale e religioso. In particolare, i detenuti musulmani Ramzi Katani, marocchino di 31 anni, e Miled Orabi, suo coetaneo tunisino, in osservanza del Ramadam avevano recitato le preghiere durante le ore di riposo. Infastiditi, i detenuti albanesi Bashkim Dervishi, 43 anni, Elton Hylviu, 30 anni, Robert Lusha, 32 anni e Anton Staka 30 anni avevano protestato ricevendo per tutta risposta, a quanto sembra, uno sputo. Il mattino dopo, alla riapertura delle celle, la resa dei conti cominciata nel vano scale e culminata nel corridoio, aree in cui non ci sono telecamere.
Accorsi sul posto, alcuni agenti penitenziari, avevano calmato contendenti che, divisi in due gruppetti da tre, stavano dando e ricevendo calci e pugni (per tutti alla fine solo tagli e contusioni). Il viceprocuratore onorario Stefania Borro ha chiesto 15 mesi (con l’aggravante della recidiva) per Dervishi, Hylvio e Saka, e nove mesi per gli altri tre.
Le difese (avvocati Smanio e Baiocchi) avevano puntato a smontare la contestazione della rissa, sostenendo che la colluttazione si era tenuta a gruppetti separati. Il giudice ha respinto questa tesa accogliendo la ricostruzione del pm e condannando i tre “recidivi” a 1 anno e 8 mesi e gli altri a 1 anno. Parte dei diretti interessati comunque, non lo saprà probabilmente mai: uno risulta latitante, un altro nel frattempo è evaso dal carcere di Parma.
Immigrazione: l’emergenza profughi dimenticata in campagna elettorale
di Andrea Gabellone
www.linkiesta.it, 25 febbraio 2013
Migliaia di profughi sbarcati sulle coste italiane per fuggire dalla guerra in Libia. Il 28 febbraio finisce l’emergenza Nord Africa. Che fine faranno i profughi arrivati in Italia?
“Non abbiamo soldi, non abbiamo un lavoro e non sappiamo dove andare”. Il 28 febbraio terminerà l’”emergenza Nord Africa” e sulle migliaia di profughi, fortunosamente sbarcati sulle coste italiane nel 2011 per fuggire dalla guerriglia libica, incombe un futuro preoccupante. Sono i testimoni quasi inconsapevoli di un passaggio drammatico, lungo quasi due anni e minacciosamente imprevedibile, dall’emergenza Nord Africa a quella italiana: uomini, donne e bambini trasportati dagli eventi in un limbo di palpabile incertezza. Oggi qui, domani non si sa.
Henry è nigeriano, 30 anni, e anche lui, come molti, nel maggio del 2011, si è imbarcato a Tripoli per toccare terra a Lampedusa. Una settimana nel Cie dell’isola e poi via, a Manduria, Taranto, nel campo provvisorio, e per molti versi improvvisato, allestito dalla Protezione civile. Dopo 15 giorni, Henry è stato trasferito in provincia di Brindisi insieme ad un buon gruppo di suoi connazionali. Da allora, vive e sopravvive al “Greengarden”, una struttura alberghiera nelle campagne di Carovigno, adibita a centro di accoglienza per i profughi dei conflitti nordafricani. La sua storia è affine a quella di tanti. “Sono un elettricista - spiega - e ho lavorato in Libia per alcuni anni. Lì avevo uno stipendio dignitoso, intorno ai 1.000 euro.
Vivevo bene e non avevo bisogno di altro. Ora non so cosa fare. Ci hanno detto che il 28 febbraio finirà l’emergenza Nord Africa e dovremo essere fuori da questo centro, altrimenti verrà la polizia a mandarci via. Il problema è che non ho soldi, non ho una casa, né un lavoro. Vorrei andare a Roma per cercare una sistemazione. Lì, forse, potrei lavorare. Chissà”.
Henry il lavoro l’ha cercato a lungo; ma si sa, in alcune zone d’Italia, dove la diffidenza verso chi viene dall’altra parte del mare è quasi ordinaria, avere la pelle nera può fare la differenza. A lui, come ad altri, è stato negato questo diritto perché, “sì, magari sei anche bravo, ma avere un collaboratore africano può essere sinonimo di problemi”.
Secondo i dati ufficiali della Regione, durante la fase di “emergenza” per le rivolte nordafricane, in Puglia sono state accolte 1.373 persone, delle quali 1.272 uomini. Molti originari della Nigeria, il 28%, del Mali, il 16 per cento, e del Ghana, il 14 per cento. Tutta gente che aveva la sua vita e il suo lavoro nelle zone devastate dalla guerriglia, soprattutto in Libia. In Italia, per gestire l’emergenza, lo Stato ha stanziato un totale di 1 miliardo e 300 milioni di euro. Sempre nel nostro Paese, in quest’ultimo anno e mezzo, sono stati accolti circa 26mila profughi, poi diventati meno di 18mila col passare dei mesi, e sono state esaminate circa 39mila richieste di asilo da parte delle Commissioni territoriali e delle loro Sezioni per il riconoscimento della protezione internazionale.
Dopo le prime settimane segnate dall’improvvisazione delle tendopoli, in Puglia, come su tutto il territorio nazionale, l’accoglienza dei profughi è stata affidata a centri Caritas, piccole cooperative o strutture turistiche, come hotel e residence. Sui criteri di smistamento si sa poco: di sicuro c’è che alcuni hanno avuto la fortuna di ritrovarsi in contesti dignitosi, altri no.
La Protezione civile, incaricata di gestire l’emergenza, ha stanziato fino a 46 euro al giorno per ogni migrante; cifra con la quale ogni struttura ricettiva aveva l’obbligo di assicurare loro i servizi essenziali, dal cibo ai vestiti al cosiddetto “pocket money”: 2,50 euro al giorno. Gli unici soldi che ogni immigrato poteva gestire in maniera autonoma. E così, nella parvenza di un’ospitalità organizzata e di una nobile solidarietà si è consumato un altro dramma: quello dell’assistenzialismo.
Il denaro messo a disposizione dallo Stato per ogni profugo - in media, 40 euro giornalieri, ovvero, più di 1.200 euro al mese, quindi, 14.600 euro all’anno - contrasta con una continuata condizione di instabilità. Il perché di questo paradosso lo spiega bene Valeria Sallustio, presidente di Finis Terrae, associazione pugliese che si occupa di immigrazione, attiva nell’emergenza Nord Africa: “L’accoglienza italiana è stata basata sull’assistenza perché la legge ha voluto così. Come associazione operativa in un centro di accoglienza, all’inizio dell’anno scorso, abbiamo proposto una exit strategy: chiedevamo che parte di quei fondi fosse destinata all’inserimento di queste persone nella nostra società.
Un processo che avrebbe portato alla loro autonomia: corsi di formazione, inserimento nel mondo del lavoro, ricerca di un alloggio al di fuori delle strutture ricettive. Tutte soluzioni che avrebbero contribuito anche al risparmio di denaro pubblico.
Purtroppo, però, la nostra richiesta è caduta nel vuoto, probabilmente perché andava contro gli interessi di qualcuno. Uno dei problemi fondamentali è che lo stato di emergenza permette di stanziare fondi, distribuirli, ma senza un effettivo controllo. Così come è stato per le emergenze legate alle calamità naturali, anche in questo caso nessuno si è occupato di sapere come siano stati spesi tutti quei soldi”.
Va da sé che, dichiarato lo stato emergenziale, l’idea è proprio quella di poter usufruire in maniera immediata del denaro, senza le lungaggini della vigilanza. Il punto è un altro: quella del Nord Africa, in Italia, poteva veramente definirsi un’emergenza? Le 34.100 richieste di asilo effettuate nel nostro Paese nel 2011 - delle quali ne sono state accettate 7.155 - parlano di un dato ordinario, se confrontato con quelli di altri Stati e di periodi precedenti. Secondo i dati dell’Unhcr - l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, infatti, nel 2010, prima dell’esodo dalla Libia, le richieste di asilo in Francia sono state 47.800 e in Germania 41.330. 
Questa situazione ha prodotto un consistente giro di fondi: concretamente, nell’ultimo anno e mezzo, una struttura alberghiera che ha ospitato 80 profughi, ha ricevuto dalla Protezione civile, in media, più di 1 milione e 700 mila euro. Di contro, questo enorme dispendio di moneta non è riuscito nell’intento di assicurare un futuro a migliaia di immigrati, generando, di fatto, una nuova emergenza che nascerà dopo il 28 di febbraio. Emergenza alimentata anche dai ritardi giuridici nel dare una risposta ai richiedenti asilo. In teoria, le risposte alle domande presentate dai migranti, esaminate delle commissioni territoriali, dovevano arrivare dopo quattro mesi dalla richiesta. In realtà, l’attesa è stata di almeno otto mesi. Inoltre, molti tra i profughi di guerra, ancora oggi, fra dinieghi e ricorsi, si trovano in possesso di un semplice permesso di soggiorno temporaneo senza aver ricevuto un inquadramento giuridico sul territorio italiano. Così, per molti, sono passati quasi due anni nella realtà ovattata dell’assistenza, senza la possibilità di lavorare, in un Paese dove non hanno scelto di venire, ma che ha rappresentato il rifugio dalla guerra. 
“Dopo il 28 febbraio saremo per strada o chissà dove - spiega, preoccupato, Henry. Non abbiamo niente. Dei 2,50 di pocket money che ci davano non è rimasto nulla: con quei soldi abbiamo dovuto comprare anche le medicine. Sappiamo che in Italia c’è crisi, ma non possiamo fare altro che rimanere qui, sperando che ci riconoscano il diritto di avere un permesso per motivi umanitari. È l’unica possibilità che abbiamo per avere un lavoro duraturo e con un contratto. Per questo, aspettiamo che qualcuno faccia qualcosa per noi, che risolva questa situazione”.
Sembra proprio che la fine dell’emergenza ufficiale possa segnare l’inizio di un altro allarme, ufficioso e, per molti versi, sottaciuto; un problema colpevolmente, e forse intenzionalmente, lasciato cadere nel silenzio durante quest’ultima, strana campagna elettorale. Una “patata bollente” della quale nessuno, parrebbe, ha intenzione di occuparsi. Intanto, Henry, come tanti suoi compagni di sventura, attende una sorte più clemente e affronta l’incedere minaccioso dei giorni con quel suo sorriso indulgente. Nonostante tutto. 
Israele: detenuto palestinese muore in carcere, migliaia in piazza per protesta
Nova, 25 febbraio 2013
Migliaia di manifestanti palestinesi sono scesi in strada ieri in diverse località della Cisgiordania dopo la morte, avvenuta sabato scorso per arresto cardiaco, del detenuto palestinese Arafat Jaradat nel carcere israeliano di Megiddo.
Il comando centrale delle Forze armate israeliane ha rafforzato gli sforzi per contrastare le proteste e le violenze che si sono verificate ad Hebron e nei dintorni, dove centinaia di dimostranti hanno lanciato pietre contro le forze di sicurezza, che hanno risposto con il lancio di lacrimogeni e proiettili di gomma per disperdere i manifestanti. Altre tensioni, secondo quanto si legge sul quotidiano “Haaretz”, si sono registrate anche nelle città di Beit Ummar e Beitounia. 
Le forze dell’ordine dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) si sono rifiutate di tenere a bada le proteste, nonostante l’inviato speciale del premier Benjamin Netanyahu per il processo di pace, Isaac Molho, abbia chiesto esplicitamente alle autori di Ramallah di prendere il controllo della situazione. Negli scontri sono rimasti leggermente feriti un soldato e una donna israeliana e due manifestanti palestinesi. I palestinesi detenuti nelle carceri israeliane hanno indetto tre giorni di sciopero della fame.
Sciopero fame 3.000 palestinesi detenuti
Circa 3mila palestinesi detenuti nelle carceri israeliane hanno iniziato oggi un giorno di sciopero della fame per protestare contro la morte ieri nel carcere di Megiddo di un prigioniero. Secondo quanto riporta oggi radio Israele, Arafat Shalish Shahin Jarada, che era stato arrestato lo scorso 18 febbraio dopo aver partecipato durante una manifestazione ad un lancio di pietre che aveva ferito un israeliano, è morto nella sua cella dopo aver detto di non sentirsi bene.
All’autopsia, prevista per oggi per accertare le cause del decesso, assisteranno anche i medici legali dell’Autorità palestinese insieme ai legali di Jaradat. L’Anp ha dichiarato di considerate Israele responsabile della morte e associazioni per i diritti umani hanno già chiesto di avviare un’inchiesta.
Protesta per detenuti palestinesi anche in Italia
Lo sciopero della fame per i detenuti palestinesi, e, in particolare, per Samer Issawi, si fa itinerante e si trasferisce a Torino. Sei giorni fa Rosario Citriniti di Invicta Palestina, centro di documentazione sulla Palestina, ha avviato uno sciopero della fame sistemandosi in una tenda montata all’entrata della chiesa di Pentone, paese catanzarese che ospita il centro stesso. La protesta ora proseguirà a Torino, nei pressi del Centro Studi Sereno Regis, insieme ad altre persone. Intanto, Samer Issawi, in sciopero della fame da circa 210 giorni, il 6 marzo rischia di non uscire perché gli si addebita una precedente condanna.
Giappone: inchiesta sulle carceri…. dove tutto sembra funzionare alla perfezione
www.ilpost.it, 25 febbraio 2013
Dove ci sono pochi carcerati, poche guardie e dove tutto sembra funzionare alla perfezione: ma questo ha un costo, racconta l’Economist.
Il Giappone è uno dei paesi del mondo industrializzato con la più bassa percentuale di carcerati sul totale della popolazione: 55 ogni 100 mila abitanti. Soltanto l’Islanda, con 49, riesce a fare meglio. Non solo: in Giappone il tasso di recidiva, cioè di quanti incarcerati tornano a commettere reati una volta scontata la loro pena, è, anche se in crescita, tra i più bassi al mondo: poco sotto il 40% (il livello di Svizzera e Svezia) contro, ad esempio, il 67% degli Stati Uniti e il 50% del Regno Unito.
Dalla Seconda Guerra Mondiale non c’è mai stata una rivolta in un carcere. Le evasioni sono rarissime, lo spaccio di droga e il contrabbando all’interno delle carceri sono quasi inesistenti. Non solo non ci sono rivolte, ma si ricordano pochissimi casi di violenza di qualsiasi tipo nei confronti di un agente carcerario. Eppure il rapporto detenuti agenti è di 1 a 4, la metà di quello del Regno Unito (in Italia è ancora più basso: circa un agente ogni 1,5 detenuti).
Davanti a dati del genere viene subito da pensare che il sistema carcerario giapponese abbia qualcosa che vale la pena di imitare. Un’impressione aumentata dal racconto che ha fatto l’inviato dell’Economist che ha visitato la prigione di Chiba a Tokyo: “Assomiglia in qualche modo a una caserma di soldati spartani. I corridoi e le piccole celle non hanno una macchia. Prigionieri ordinati avanzano in fila indiana dietro le guardie e si inchinano prima di entrare in cella”. La domanda, a questo punto è: a quale costo viene raggiunto tutto questo?
In un rapporto del 1995, Human Rights Watch ha sostenuto che il costo umano per i detenuti era troppo alto ed è l’impressione che ha riportato anche l’inviato dell’Economist. Nelle prigioni giapponesi i carcerati non possono parlare, se non durante il poco tempo libero. Il lavoro non è una scelta o un privilegio, ma un obbligo per tutti e non viene pagato. A Chiba vengono prodotte scarpe di pelle e mobili, e i carcerati lavorano sorvegliati soltanto da una guardia disarmata.
Metà dei prigionieri devono scontare un ergastolo che in Giappone significa carcere a vita senza possibilità di permessi premio o diminuzioni della pena per buona condotta. Le visite coniugali non sono permesse. Secondo un rapporto di Amnesty International l’ordine nelle prigioni giapponesi viene mantenuto usando punizioni pesantissime per le più piccole infrazioni. Secondo l’ONG, un prigioniero può ritrovarsi chiuso per giorni in una cella di isolamento, costantemente ammanettato, solo per aver risposto in maniera scortese a una guardia.
Americani ed europei che hanno scontato un periodo di carcere in Giappone hanno sviluppato disturbi mentali, una cosa di cui alcuni giapponesi intervistati dall’Economist sembrerebbero andare in qualche modo orgogliosi. “Naturalmente il nostro sistema è troppo rigido per gli stranieri”, ha detto al corrispondente una guardia della prigione di Chiba. Ma, ha aggiunto, i prigionieri oggi sono tutti giapponesi e per loro il sistema funziona benissimo.
Norvegia: viaggio sull’isola di Bastoy, la galera “di lusso” più famosa del mondo 
www.giornalettismo.com, 25 febbraio 2013
Sull’isola di Bastoy, in Norvegia, sorge una delle carceri più grandi del paese. I prigionieri, tra i quali per un certo periodo ha figurato anche Anders Breivik, vivono in condizioni che molti definiscono “comode e di lusso”. Eppure la Norvegia ha il più basso tasso di recidività d’Europa. È il quotidiano britannico Guardian a compiere questo viaggio all’interno del carcere di Bastoy, situato qualche chilometro al largo della costa norvegese, collegato con un servizio di traghetti che serve esclusivamente per i trasporto dei detenuti e del personale carcerario.
“Qui ci danno fiducia e ci responsabilizzano - spiega Petter, che sta scontando una pena per traffico di droga - Ci trattano come persone adulte”. È difficile fare un paragone tra questa prigione e una qualsiasi altra struttura detentiva del resto d’Europa: a Bastoy e celle hanno la televisione, ci sono computer, le docce, i bagni sono puliti.
Alcuni prigionieri sono in celle di isolamento, ma la maggior parte dei detenuti passano il proprio tempo studiando, lavorando o imparando un mestiere. Invece che del “braccio”, qui ci sono piccoli quartieri. Questa lontananza fisica tra i detenuti sembrerebbe anche essere funzionale a limitare il diffondersi di quella “cultura da carcere” che, spesso, fa precipitare gli ex detenuti nella recidività. La Norvegia, infatti, ha un tasso di recidività minore del 30%, il più basso d’Europa e circa la metà di quello della Gran Bretagna.
“È come vivere in un villaggio, in una comunità - racconta ancora Petter, che guida il giornalista inglese nel carcere - Ognuno ha il suo lavoro. Ma abbiamo anche del tempo libero, quindi possiamo pescare o nuotare. Sappiamo di essere prigionieri, ma ci sentiamo delle persone”. L’isola di Bastoy misura 2,6 chilometro quadrati e conta solo 35 guardie carcerarie. Il loro compito principale è quello di contare i prigionieri - alla mattina, due volte al giorno e alla sera - soltanto quattro guardie restano sull’isola dopo le quattro del pomeriggio.
I detenuti vivono a gruppi di sei persone dentro alcune casette: condividono la cucina e gli altri spazi comuni, ma ognuno ha una stanza singola. “L’idea - spiega un altro detenuto - è quella di tenerci abituati alla vita fuori dal carcere”. I carcerati norvegesi possono chiedere di essere trasferiti a Bastoy per i loro ultimi cinque anni di condanna. La legge non prevede né la pena di morte né pene detentive superiori ai 21 anni. Ogni tipo di criminale, indipendentemente dal tipo di reato commesso, può essere accettato.
“La perdita della libertà sembra l’unica cosa che affligge queste persone - scrive il giornalista del Guardian Erwin James - Ed è comprensibile che alcune persone possano trovare questo sistema carcerario piuttosto controverso: nell’immaginario collettivo, una prigione è il posto delle rinunce, e il comfort domestico non è previsto. Ci vuole coraggio per diffondere la filosofia di Bastoy fuori dalla Norvegia ma, allo stesso tempo, i politici dovrebbero prendere nota della rivoluzione riabilitativa che avviene su questa piccola isola”.
Qatar: pena ridotta a 15 anni al poeta condannato all’ergastolo per aver criticato l’emiro
Tm News, 25 febbraio 2013
Pena ridotta a 15 anni per il poeta qatariota Mohammed al Ajami, noto come il cantore della Primavera araba, condannato lo scorso novembre all’ergastolo per aver criticato l’emiro del suo Paese. Il tribunale per la sicurezza dello Stato del Qatar gli aveva inflitto il carcere a vita per aver “vilipeso le autorità dello Stato e istigato all’abbattimento dell’ordine costituito”. “La pena è stata ridotta oggi dalla corte d’appello a 15 anni”, ha detto alla France presse il suo legale ed ex ministro della Giustizia, Mohammed Najib al-Naimi, deciso a portare la vicenda “davanti alla Corte di cassazione”. L’avvocato ha contestato davanti alla Corte di appello la mancanza di prove “del fatto che il poeta abbia letto in pubblico la poesia per cui è stato giudicato”. La poesia contestata rende omaggio alla rivolta della Tunisia ed esprime la speranza di cambiamento che ha investito gli altri Paesi arabi attraverso il verso “Siamo tutti tunisini, alla faccia delle elite repressive”.