Giustizia: problema carceri… cosa intendono fare su questo fronte le forze politiche di Danilo Paolini Avvenire, 21 febbraio 2013 I processi sono troppo lunghi, le carceri scoppiano di umanità dolente e di dignità negata, l’Italia ha un tasso di corruzione imbarazzante. Insomma, peggio di così ci sono soltanto: la paralisi totale dei tribunali; la legalizzazione dell’illegalità (e ci siamo vicini, con circa 400 reati prescritti al giorno); la revoca della qualità di “essere umano” ai detenuti e a coloro che nelle prigioni lavorano. Vediamo, allora, che cosa intendono fare su questo fronte le forze politiche che si presentano alle elezioni. Per l’area che fa capo al premier uscente Monti, nell’Agenda sottoscritta dai candidati di Scelta Civica, dell’Udc e di Fli figurano due fitti capitoli dedicati a legalità, giustizia e sicurezza. La ricetta è “tolleranza zero per corruzione, evasione fiscale ed economia sommersa”, con la riforma del falso in bilancio, il completamento della legge anti-corruzione, l’introduzione di norme anti-riciclaggio e contro l’auto-riciclaggio, l’allungamento dei termini di prescrizione dei reati, la riforma delle intercettazioni e “una più robusta disciplina sulla prevenzione del conflitto d’interesse”. Per quanto riguarda, invece, le carceri, i montiani puntano su un più ampio ricorso alle pene alternative. Ricco anche il menu giudiziario del Pdl, in cui spiccano la separazione delle carriere dei magistrati inquirenti e giudicanti, la responsabilità civile delle toghe (due punti condivisi anche da La Destra di Storace), un giro di vite sulle intercettazioni con divieto di pubblicazione, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione. Per l’emergenza penitenziaria si propone la “limitazione della carcerazione preventiva” e “l’incentivazione del lavoro” per i detenuti. L’alleata Lega Nord, invece, punta sull’elezione dei giudici di pace e sull’eliminazione dei tribunali per i minorenni. I Fratelli d’Italia di Meloni-Crosetto-La Russa ipotizzano di sostituire l’obbligatorietà dell’azione penale con “indirizzi generali” in base alle emergenze del momento. Per il Pd le priorità riguardano l’attuazione reale del processo civile telematico (in teoria già vigente), la digitalizzazione completa del penale, la “revisione organica del sistema delle impugnazioni”, l’ampliamento delle misure alternative al carcere, la sospensione del processo con “messa alla prova” dell’imputato, l’abolizione del reato di “ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato”. Spostandoci più a sinistra, Sel vorrebbe non la separazione delle carriere, ma “una più netta separazione delle funzioni” di giudice e pm, e il ribaltamento di un sistema che definisce “classista” nonché figlio delle leggi “Bossi-Fini” sull’immigrazione e “Fini-Giovanardi” sulle droghe. Alla “liberalizzazione delle droghe leggere” si dice favorevole il leader di Rivoluzione civile Ingroia, che chiede il ripristino del falso in bilancio, una “vera legge sul conflitto d’interessi e l’eliminazione delle leggi ad personam”. Il M5S di Grillo sollecita, per la giustizia civile, l’introduzione della class action (causa di massa) all’americana. Più articolato il programma di Fare-Per fermare il declino di Giannino: disincentivare l’abuso delle cause civili agendo sulle spese processuali; allargare il ricorso ai riti alternativi nel penale; accrescere la possibilità di misure cautelari diverse dal carcere, come il braccialetto elettronico; costruzione di nuovi istituti penitenziari e gestione degli stessi (tranne la sorveglianza) affidata a privati, tramite gare d’appalto. Giustizia: tre leggi iniziativa popolare promosse da associazioni per problema delle carceri Agi, 21 febbraio 2013 Tre proposte di legge di iniziativa popolare per risolvere la questione delle carceri. A promuoverle è un cartello di associazioni e sindacati, tra i quali l’Arci, Antigone, l’Associazione nazionale giuristi democratici, l’Unione Camere penali italiane, Libertà e giustizia, la Cgil e la Cgil Funzione Pubblica. La raccolta delle firme è iniziata oggi, contemporaneamente alla presentazione delle proposte, avvenuta a Roma, nella sede dell’Unione delle Camere penali. Il primo provvedimento prevede l’introduzione del reato di tortura nel codice penale, il secondo reca il titolo: “Per la legalità e il rispetto della Costituzione nelle carceri”. Nella terza proposta sono invece contemplate delle modifiche alla legge sulle droghe, in particolare la depenalizzazione del consumo e la riduzione dell’impatto penale. “In Italia, i casi di tortura sono isolati ma se non vengono dovutamente perseguiti rischiamo di creare un alone di impunità che alla fine danneggia tutto il sistema”, ha detto l’organizzatore dell’iniziativa, Mauro Palma, vice presidente del Consiglio europeo per la Cooperazione nell’esecuzione penale ed ex presidente del Comitato europeo per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa. “Quindi - ha proseguito, riferendosi alla prima proposta - occorre introdurre una norma ad hoc applicabile nei confronti dei pubblici ufficiali”. Anche perchè, ha ricordato, “l’Italia ha una legislazione carente in materia ed è stata condannata per ben 17 volte dal 2008 al 2013 dalla Corte Europea dei diritti dell’Uomo di Strasburgo per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo, che vieta la tortura”. Per Palma bisognerebbe “rivedere il codice penale” ma nel frattempo, con queste proposte, vi sarebbe “un minore ricorso al carcere, soprattutto come misura cautelare”. Infine, Palma ha sottolineato che il numero di detenuti “è triplicato dagli anni Novanta ad oggi” e che una depenalizzazione del consumo personale delle droghe risolverebbe il problema del sovraffollamento. Alla presentazione delle proposte sono intervenuti rappresentanti delle forze politiche. “Queste proposte sono benvenute - ha spiegato Sandro Favi, responsabile nazionale carceri del Pd - e siamo assolutamente favorevoli all’introduzione del reato di tortura, ma non condividiamo fino in fondo alcuni punti, come quello di differire l’ingresso in carcere fino a quando non si liberano i posti occupati. Ad ogni modo - ha sottolineato - il nostro partito si è impegnato, in caso di vittoria alle elezioni, a varare nei primi giorni un decreto legge che affronti i nodi strutturali delle carceri”. “Mi auguro che nel prossimo parlamento vi sia una convergenza sul tema dei diritti civili - ha affermato Flavia Perina di Fli - sul quale tutta la politica dovrebbe trovare una posizione comune”. Carlo Leoni, responsabile giustizia di Sel ha detto: “Queste proposte vanno sostenute con forza. La situazione delle carceri è inaccettabile ed è inaccettabile anche il tentativo di far calare un silenzio su questo argomento”. “La Bossi-Fini, la Fini-Giovanardi e la Cirielli sono tre leggi che aggiungono una tortura alla pena. Vanno quindi cambiate e sono d’accordo che le carceri non debbano essere piene di tossicodipendenti”, ha concluso Mario Marazziti, capolista alla Camera di Scelta Civica per l’Italia nel Lazio. Giustizia: affollamento carceri e detenzione da rinviare; commenti di operatori e politici di Cristina Genesin e Carlo Bellotto Il Mattino di Padova, 21 febbraio 2013 “È un’ordinanza acuta e intelligente quella del tribunale di Sorveglianza” commenta Salvatore Pirruccio, direttore della casa di reclusione Due Palazzi di Padova, carcere modello per tante attività di lavoro e culturali ma anche sovraffollato: quasi 900 detenuti contro una capienza di 439 ospiti. “Il concetto è chiaro: l’esecuzione della pena in regime di sovraffollamento non rispecchia il dettato costituzionale e nemmeno quello dell’ordinamento penitenziario. Certo bisognerà aggiungere qualcosa al semplice rinvio”. Il riferimento è al fatto che “i differimenti della pena dovranno essere attuati nei confronti di persone che non hanno commesso reati di particolare allarme sociale”. Con l’esecuzione differita nei casi previsti “in carcere ci sarà più spazio e le condizioni di detenzione diventeranno finalmente legittime”. Non è fantascienza, il direttore Pirruccio avverte: “Nel nord Europa c’è già qualcosa di simile”. Ma la questione è più complessa: “Fin dal momento del differimento, bisognerà pensare a misure alternative. Faccio un esempio: scatta il rinvio dell’esecuzione pena per una persona condannata a uno o due anni e, nel frattempo, questo soggetto si ricostruisce una vita. Cosa facciamo? Andiamo a prenderlo e a portarlo in carcere vanificando un processo di reinserimento che, magari, sta già avvenendo?”. L’ordinanza del tribunale di Sorveglianza di Venezia ha sospeso il procedimento in corso, disponendo la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale per la decisione. Il processo e la detenzione riguardano Paolo Negroni, 47 anni, di Galliera Veneta, che ha precedenti per piccoli reati contro il patrimonio. Attraverso il proprio legale, ha chiesto di poter ottenere la sospensione della pena in attesa che il sovraffollato carcere di Padova, dov’è rinchiuso, torni a rispondere ai principi costituzionali che vietano la tortura, anche per l’espiazione della colpa. Negroni era stato arrestato nel settembre 2012 dai carabinieri di Tombolo mentre pedalava per le strade del paese in bici, in violazione del regime di arresti domiciliari. È entrato in casa circondariale al Due Palazzi il 18 settembre scorso e vi è rimasto fino all’11 gennaio 2013 (sono stati in 9-10 detenuti in 23 metri quadrati, anche 2,43 metri a persona) poi è stato trasferito nella Casa di reclusione, dove si trova ora: in 9 mq sono in 3. “Sono fiducioso” ha detto l’avvocato Diego Bonavina “sul fatto che la Corte costituzionale accoglierà l’eccezione di incostituzionalità della norma. Sulla richiesta interviene il giudice Marcello Bortolato che fa parte della Camera di Consiglio (presieduta da Giovanni Maria Pavarin) che si è riunita il 13 febbraio. “Siamo chiamati a rispondere alla domanda di giustizia che ci viene chiesta da un detenuto. Per questo il tribunale di sorveglianza di Venezia si è rivolto alla Corte Costituzionale, per vedere se è ammissibile il differimento della pena o meno, non per malattia grave del detenuto come previsto dall’art. 147 del codice penale, ma anche per il sovraffollamento della cella”. Il ricorso si riferisce alle sanzioni decise dalla Corte di Strasburgo, secondo cui in una cella con meno di 3 metri quadri di spazio per detenuto non esistono le condizioni minime vitali, ed anzi è una situazione degradante per la persona, e viola l’art. 27 della Costituzione, così come deciso dalla sentenza Torreggiani”. “Ora la Corte Costituzionale deve decidere se aggiungere questa norma con una sentenza “addittiva”, aggiunge Bortolato “oppure rinviare al legislatore che a sua volta dovrà legiferare in merito, oppure interpretare la norma. Il differimento delle pena è facoltativo, e viene deciso dal Tribunale di sorveglianza se non esiste il pericolo di reiterazione del reato. La Corte potrebbe anche ritenere non ammissibile il ricorso. Solitamente il differimento si chiede per malattia terminale”. In attesa del vaglio di legittimità costituzionale, Magistratura Democratica auspica che la questione carceraria “sia al centro dell’agenda del prossimo Parlamento e del futuro Governo”. Radicali: subito il via alle misure alternative Secondo Maria Grazia Lucchiari, padovana della direzione Radicali italiani, la questione di legittimità costituzionale sollevata con l’ordinanza del tribunale di Sorveglianza veneto “punta ricondurre nell’alveo della legalità la permanenza in carcere. Oggi molti detenuti vivono in meno di 3 metri quadrati a testa, mentre il minimo previsto è di 7 metri. Non è un caso che, nelle scorse settimane, la Corte Europea dei diritti umani di Strasburgo abbia condannato l’Italia per il trattamento inumano e degradante di alcuni carcerati”. Ma l’ordinanza “è anche un atto d’accusa alla politica: in Italia la vita in carcere è fuori dalla Costituzione e dalle leggi di cui il presidente della Repubblica Napolitano è il garante: a lui si sono appellati Marco Pannella e un gruppo di costituzionalisti affinché invii un messaggio alle Camere investendole del problema. Finora invano”. Considera importante la questione di legittimità sollevata Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, rivista della casa di reclusione di Padova: “È l’affermazione che le carceri sono fuorilegge. Oggi viviamo una situazione carcerogena: in quelle celle il detenuto, che entra sano, si ammala. Perciò sono favorevole al “numero chiuso” nelle carceri. Ma a una condizione: che la pena cominci a decorrere da subito grazie a misure alternative. Altrimenti rischiamo di moltiplicare la lentezza della giustizia in tutte le sue forme, dai processi all’esecuzione della pena Giustizia: Pm Capo Schinaia; carceri sovraffollate, valuteremo sospensione delle condanne di Giampaolo Chavan L’Arena, 21 febbraio 2013 Il ricorso della Sorveglianza di Venezia alla Corte costituzionale apre una breccia anche a Verona. Se non viene rispettata la dignità dei detenuti, Schinaia valuta il rinvio della pena dei condannati definitivi. Che potrebbero uscire. Ad aprire una nuova breccia nel muro delle invivibili carceri italiane, è stato il tribunale di sorveglianza di Padova. Nei giorni scorsi, ha presentato un ricorso alla Corte costituzionale con la richiesta di una sentenza che offra la possibilità di sospendere la pena a chi vive nelle celle senza il rispetto dei parametri imposti anche dalla Corte europea. Su tutti, i tre metri a disposizione per ogni detenuto nelle stanze a sbarre. E al secondo piano dell’ex Mastino, il procuratore Mario Giulio Schinaia sta valutando se e quali provvedimenti prendere alla luce anche del ricorso del tribunale di sorveglianza di Padova. “Dovrò studiarmi bene la situazione”, conferma il capo dei pm veronesi, “e poi deciderò se inviare una direttiva sul differimento della pena per i detenuti con sentenza passata in giudicato”. Il motivo è facilmente intuibile: “Il carcere deve servire a privare la libertà non la dignità del detenuto”. E anche il carcere di Montorio non garantirebbe a chi occupa le celle una vita degan di un essere umano. Il percorso, però, è tutto in salita. Prima di tutto, c’è da attendere la risposta della Corte costituzionale al ricorso del tribunale di sorveglianza di Padova. Che d’altro canto, parla chiaro nel suo ricorso: “Se la pena è inumana”, riporta la “contestazione” dei giudici di Venezia, “diventa illegale e dunque andrebbe sospesa o differita in tutti i casi in cui si svolge in condizioni talmente degradanti da non garantire il rispetto della dignità del condannato”. È questo il presupposto da cui partono i giudici padovani per arrivare a chiedere la sospensione della pena non solo per chi è gravemente malato così come già previsto nel nostro codice ma anche per chi non ha lo spazio sufficiente per poter vivere nelle celle dei penitenziari. “L’eventuale decisione di rinviare la pena”, ha commentato Mario Giulio Schinaia, “rappresenterebbe anche uno strumento di coazione per le forze politiche perché non si limitino solo alle parole ma passino anche ai fatti”. Per il procuratore, infatti, “il problema è politico, non spetta ai giudici risolvere la questione del sovraffollamento del carcere”. Schinaia insiste e non risparmia frecciate al nostro legislatore “che parla di questi problemi solo quando ci sono le elezioni per poi dimenticarsene una volta inserita la scheda nell’urna”. In procura a Verona, invece, non sembra aver fatto breccia l’iniziativa del procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati che ha chiesto ai suoi pm “il ricorso più largo possibile alle misure alternative alla detenzione” come ha scritto la Corte europea nella sentenza di condanna dell’Italia per i casi Sulejmanovic e Torregiani tra il 2009 e il 2013. “Sostengo da sempre”, rivela ancora il procuratore Schinaia, “che il ricorso alla misura cautelare del carcere dev’essere fatto solo in extrema ratio”. E a chi gli chiede quali potrebbero essere gli altri strumenti per diminuire il sovraffollamento in carcere, il procuratore ricorda che “a Verona, vengono già applicate le misure alternative mentre un’altra via sarebbe quella della depenalizzazione ma questa alternativa non dipende dai giudici”. Giustizia: lavoro in carcere, le risorse a picco; la relazione del ministero è al parlamento di Patrizio Gonnella Italia Oggi, 21 febbraio 2013 In extremis il Consiglio dei ministri ha deliberato lo stanziamento di 16 milioni di euro a copertura della legge Smuraglia n. 193 del 2000 sul lavoro penitenziario. Si tratta di fondi che erano stati tagliati dalla legge di Stabilità di fine anno e che servono a sostenere quelle imprese e cooperative che assumono manodopera detenuta; il meccanismo è quello della defiscalizzazione degli oneri sociali e previdenziali. E lavoro penitenziario, essenziale per offrire opportunità autentiche di recupero e integrazione sociale, è oggi in grandissima sofferenza, così come testimonia la relazione annuale al parlamento presentata dall’amministrazione penitenziaria e resa pubblica nei giorni scorsi. Le risorse economiche a disposizione delle singole direzioni penitenziarie sono state fortemente ridotte. Un tempo erano molte le attività manifatturiere nelle carceri alle strette dipendenze del Ministero della Giustizia. Nel 2010 a tal fine il budget per comprare macchinari e pagare i detenuti era di 11 milioni di euro. Nel 2012 è stato ridotto a poco più di 3 milioni di euro. Eppure la futura realizzazione di nuovi padiglioni da costruirsi nelle aree penitenziarie già esistenti avrebbe potuto andare di pari passo con l’affidamento in house ai detenuti della relativa fornitura, tipo arredi e biancheria, visto che in giro per gli istituti carcerari operano ancora falegnamerie e impianti tessili. I detenuti impiegati alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria in attività di tipo industriale sono passati da 612 nel 2010 a 371 nel 2012. Il 2013 presenta una leggera inversione di tendenza con uno stanziamento in crescita su questo specifico capitolo finanziario. Guardando, invece, al complesso dei detenuti lavoranti (quindi non solo a quelli impegnati in attività manifatturiere pubbliche) questi sono passati dai 14.116 del giugno 2010, pari al 20,68% dei presenti, ai 13.278 del giugno 2012, ossia il 19,96 dei presenti. Una diminuzione sia in termini assoluti che percentuali, visto che nel frattempo è cresciuta la popolazione reclusa che oggi si attesta intorno alle 66 mila unità. Questo dato è poi da analizzare in dettaglio. Molti di questi detenuti, conteggiati come lavoranti, sono in realtà impiegati per un numero insignificante di ore, ad esempio un’ora al giorno o un giorno a settimana o un mese all’anno. Tra l’altro si tratta di persone impiegate in attività non qualificate di amministrazione domestica, tipo pulizia o distribuzione del cibo. Esiste e resiste ancora un gergo penitenziario che ben spiega la dequalificazione di tali attività: i detenuti sono chiamati scopino, spesino, portavitto. Qualifiche irrilevanti ai fini di progetti di reintegrazione all’esterno. D’altronde i fondi per retribuire i detenuti sono stati nel tempo enormemente tagliati. Nel 2006 erano 71 milioni di euro. Nel 2012 sono stati stanziati meno di 50 milioni eppure nel frattempo la popolazione detenuta è pressoché raddoppiata visto che nel luglio del 2006 con l’approvazione dell’indulto i detenuti erano scesi intorno alle 35 mila unità. È in calo anche il numero di detenuti che lavorano nelle colonie agricole. Oggi sono 257 contro i 477 del 30 giugno 2010. Infine è utile rivolgere uno sguardo alle retribuzioni che in termine tecnico si chiamano mercedi. Un detenuto, in base a quanto previsto dall’articolo 22 della legge penitenziaria del 1975, dovrebbe guadagnare i 2/3 del trattamento previsto dei contratti collettivi nazionali di lavoro. Dal 1994 non si procede più ad adeguare le retribuzioni ai contratti. Tantissimi sono di conseguenza i ricorsi ai giudici che, come la stessa amministrazione ammette, danno sempre ragione ai detenuti. Una relazione amara, quella del Dap, ma sincera e molto critica nei confronti di chi al governo e al parlamento ha provocato il collasso del lavoro penitenziario. Giustizia: ministro Severino; Polizia penitenziaria non sia intaccata dalla spending review Agi, 21 febbraio 2013 “Continuerò a combattere sino all’ultima ora di mia permanenza al ministero perchè le forze di polizia penitenziaria non vengano intaccate, come poi ho combattuto perchè nell’ambito della spending review non venisse toccato il carcere”: dal carcere di Parma, dove sono in corso indagini per accertare le cause della doppia evasione avvenuta all’inizio di febbraio, il ministro della Giustizia Paola Severino ha voluto esprimere un segnale di vicinanza alla polizia penitenziaria, impegnata - ha detto - in un lavoro difficile reso ancora più gravoso dai recenti fatti accaduti. “Si può risparmiare su tante cose non sul carcere - ha detto il ministro ricordando il suo fortissimo impegno. Sto ancora combattendo questa battaglia e credo che questa sia una battaglia importante. In questo settore non ci sono sprechi ma solo spese necessarie, anzi se ci fossero più fondi si potrebbero fare molte cose. Negli ultimi giorni ho avuto una piccola soddisfazione - ha poi detto Severino - l’assegnazione definitiva dei 16 milioni di euro al lavoro carcerario. Era diventata anche quella una battaglia difficile, ma con l’impegno assunto in commissione e in consiglio dei ministri quei soldi sono stati definitivamente assegnati”. Per Severino, il problema principale delle carceri è “sempre quello della proporzione fra detenuti e personale” e “quanto più c’è sovraffollamento tanto meno c’è sicurezza”. “Comunque - ha proseguito - abbiamo mantenuto con grande determinazione la possibilità di continuare ad assumere personale. La nostra è una delle poche amministrazioni che è riuscita ancora ad assumere agenti di polizia penitenziaria. L’ultimo concorso ce ne ha portati circa 700, quindi un numero considerevole”. Di Giovan Paolo (Pd): basta risparmi sui penitenziari “L’evasione dal carcere di Varese è il frutto di un’insicurezza generale che attanaglia i penitenziari”. Lo sottolinea Roberto Di Giovan Paolo, senatore del Partito Democratico e presidente del Forum per la Sanità Penitenziaria. “Il prossimo Parlamento dovrà occuparsi del problema - aggiunge Di Giovan Paolo - non considerando le carceri esclusivamente come soggetti su cui risparmiare”. “Di questo stato di disagio ne soffrono tutti: carcerati, agenti, educatori ed anche direttori - conclude. È ora di cambiare la nostra politica carceraria, evitando qualsiasi impostazione securitaria. Le pene alternative servono a questo”. Giustizia: Bernardini (Radicali); carceri, l’Italia torni su binari della legalità costituzionale di Claudio Porcasi Blog Sicilia, 21 febbraio 2013 Terza tappa siciliana per Rita Bernardini, capolista alla Camera nelle circoscrizioni Sicilia 1 e Sicilia 2 per la lista Amnistia Giustizia e Libertà. Dopo Catania e Messina, la deputata radicale anche a Palermo ha scelto l’ingresso di un carcere, l’Ucciardone, come teatro della sua conferenza stampa in vista del voto di sabato e domenica prossimi. Rita Bernardini, da parlamentare, ha visitato tante volte il penitenziario borbonico e ne ha denunciato la situazione di grande degrado e abbandono: le celle sono superaffollate, contengono 700 detenuti contro i 430 previsti per regolamento, e le condizioni igienico sanitarie sono allarmanti. La deputata radicale fonda sulla riforma del sistema carcerario e della giustizia i punti salienti del programma elettorale. “Fino a quando l’Italia non si porterà sui binari della legalità costituzionale su carcere e giustizia - spiega Bernardini - non potrà affrontare neanche i grandi temi economici e far ripartire il Paese. L’Europa non si fida più dell’Italia perché oggi non è uno Stato di diritto”. Il capolista al Senato dei radicali in Sicilia è l’avvocato Tommaso Farina Sciacca che non risparmia critiche ad Antonio Ingroia, candidato premier di Rivoluzione Civile. “Credo nella separazione delle carriere dei magistrati non vedo bene il loro inserimento in politica. Non si può votare Rivoluzione civile, un movimento fondato da tre magistrati e guidato dal Torquemada Ingroia. Non voglio uno Stato di polizia”. Giustizia: Bindi (Pd); affrontare sovraffollamento delle carceri con tempestività Ansa, 21 febbraio 2013 “Il problema del sovraffollamento è reale e su questo bisogna intervenire con tempestività per affrontare una situazione che è nazionale”. Lo ha detto Rosy Bindi, capolista alla Camera del Pd in Calabria, al termine della visita nel carcere di Locri. “Nel carcere di Locri - aggiunge - la direzione e gli agenti di custodia sono impegnati in modo serio a rendere civili e dignitose le condizioni di vita dei detenuti. Ma a Locri si è creato un buon clima e non ci sono tensioni drammatiche, merito degli operatori che, nonostante una carenza di organico di ben 20 unità, fanno fronte insieme ai detenuti alle carenze strutturali con grande dignità”. Giustizia: Sel con direttori delle carceri; sbagliatissimo disinvestire, diritti vanno garantiti Dire, 21 febbraio 2013 “È sbagliatissimo disinvestire sul settore carcerario, dove serve invece una svolta radicale. In carcere oggi ancora si muore, i suicidi e gli atti di autolesionismo stanno lì a testimoniare che la fase dell’esecuzione della pena è attuata in condizioni disumane”. È quanto mandano a dire i candidati Sel (Sinistra Ecologia e Libertà) per l’Emilia-Romagna, esprimendo solidarietà per i direttori delle carceri che hanno proclamato lo stato di agitazione contro gli annunciati tagli mirati a ridurne il numero. Per Sel è “sbagliatissimo disinvestire sul settore carcerario”, mentre occorre fare il possibile per “garantire o diritti fondamentali dell’individuo, anche con interventi di edilizia carceraria, affinché le strutture detentive siano idonee ad assicurare il rispetto della dignità umana”. I vendoliani puntano all’applicazione del “diritto penale minimo” e chiedono di “potenziare il ricorso alle misure alternative alla detenzione”. E, se da un lato occorre riforma le misure di custodie cautelari (“vera e propria sciagura del nostro sistema”), va invece introdotto “il reato di tortura, la cui assenza fin qui, in molti casi di maltrattamento e di violenza”. Giustizia: ex detenuto “chi entra a Poggioreale non è più considerato un essere umano” di Fabrizio Ferrante www.epressonline.org, 21 febbraio 2013 Al termine della settimana che ha visto Rita Bernardini in visita nei penitenziari campani di Poggioreale (Napoli) e di Fuorni (Salerno) diamo spazio a una testimonianza particolarmente eloquente di un cittadino ex detenuto nel carcere napoletano. A supporto delle denunce - alcune ormai note, altre meno - fatte da questo cittadino che ha pagato - a suo dire ingiustamente - il proprio debito con la Giustizia, proponiamo alcune dichiarazioni che Rita Bernardini ha rilasciato ai nostri microfoni sia prima che dopo la visita ispettiva a Poggioreale. In particolare, il tema centrale che merita di essere quanto meno reso noto, riguarda presunti pestaggi che a Poggioreale avrebbero luogo ai danni dei detenuti. Alcuni di questi, infatti, hanno parlato alla deputata radicale della fantomatica “cella zero”, un luogo che - se realmente esistente - rappresenterebbe una violazione dei diritti umani da censurare e sanzionare a livello internazionale. 2.839 detenuti, capienza massima 1.600 circa; 930 con sentenze passate in giudicato, 325 stranieri e il 30% della popolazione detenuta è tossicodipendente. 102 mila colloqui annui conditi da code umilianti per i parenti, che spesso partono fin dalla sera prima della visita al congiunto in cella. Ancora, 750 agenti penitenziari in luogo dei 940 necessari per gestire la struttura. 18 educatori su 26 previsti e 12 psicologi. Queste sono le cifre di Poggioreale, numeri che da soli raccontano una realtà ormai ben oltre i limiti del tollerabile. Da pochi mesi è venuto fuori da questo inferno un cittadino residente in un comune del napoletano, che ci ha raccontato alcuni aspetti della propria detenzione. Per chi conosce la materia, forse, non c’è nulla di particolarmente nuovo da scoprire. Se, vice versa, l’opinione del lettore fosse contraria a ogni forma di provvedimento in grado di alleggerire la pesantissima situazione delle carceri, la conoscenza di questi pochi spunti sulla quotidianità a Poggioreale - come in altri istituti - potrebbe contribuire a giudicare la questione anche sotto altri punti di vista. Nel corso della breve chiacchierata è emerso anche un dettaglio che, di per sé, rappresenta una violazione delle norme comunitarie sulla ragionevole durata dei processi. Violazione già più volte sanzionata dalla Cedu, con oltre 2000 sentenze di condanna verso l’Italia. Ci può descrivere in poche parole la sua quotidianità durante la detenzione? “Quando entri nel carcere di Poggioreale non sei più considerato un essere umano. Sono stato in una stanza quattro per quattro con nove persone. Dormivamo su letti a castello di tre piani che arrivavano sotto al tetto. La doccia la facevamo due volte a settimana se andava bene, dato che spesso mancava l’acqua calda. Dovevamo comprare a spese nostre le bombolette del gas da usare per scaldare l’acqua con cui lavarsi in quello che non possiamo neanche definire un bagno. Ecco, noi ci lavavamo così, questo era il nostro modo di lavarci e che ancora oggi è quello che in molti sono costretti a utilizzare a Poggioreale. Su Poggioreale aleggiano delle voci circa maltrattamenti ai danni dei detenuti. Lei ne sa qualcosa? “Le rispondo facendo un esempio: se non ti senti bene e chiami una guardia può essere un rischio che in molti, spesso, preferiscono non correre. Infatti non si sa mai che tipo di squadretta si può incontrare né che fine si può fare dopo, dato che alcuni non guardano in faccia a nessuno e se incontri la squadretta sbagliata, puoi anche essere riempito di botte. Ma su questo non mi faccia aggiungere altro”. Eppure, carte alla mano, la sua detenzione aveva anche una particolarità non da poco… “Infatti. Sono stato in cella dal novembre del 2011 al novembre del 2012. Ho avuto 45 giorni di buona condotta e la condanna di quattro anni, riferita a un reato commesso nel 2000, è stata ridotta a uno grazie all’indulto. Quindi, come capisce, ho scontato la pena dopo quasi 12 anni dal reato che mi è stato attribuito. Avevo dei piccoli precedenti ma risalenti a molti anni prima, da 25 anni a oggi ho sempre lavorato e la pena che ho scontato la ritengo ingiusta dato che il reato per cui sono stato condannato a distanza di 13 anni, non l’ho mai commesso”. Lettere: il carcere preventivo è come la tortura di Andrea D’Ambrosio La Repubblica, 21 febbraio 2013 La carcerazione preventiva, ormai abusata ampiamente in Italia, è tortura. Lo dice Amnesty International. Un qualsiasi individuo prima di essere sbattuto in galera dovrebbe subire un regolare processo e, se condannato, essere arrestato. In Italia questo avviene raramente a causa di processi infiniti e per le storture di una giustizia “giustizialista” che mette i brividi. Cito un esempio recente: l’ex deputato Paolo Del Mese, dopo otto mesi di arresti domiciliari, è stato incarcerato nonostante l’età e le sue precarie condizioni di salute. Una scelta rapida, contrariamente all’iter dei normali procedimenti italiani. Questa cosa si chiama tortura. Un paese civile come l’Italia non dovrebbe permettere cose del genere, e davvero sembra un accanimento senza precedenti. In uno Stato di diritto mettere in galera qualcuno prima di un regolare processo è una cosa antidemocratica e incivile. Non entro nel merito della vicenda giudiziaria che farà il suo corso, ma mi sembra una profonda disumanità mettere in carcere un uomo in precarie condizioni di salute che ha già subito mesi di arresti domiciliari. Gli altri hanno patteggiato, avrebbe potuto farlo anche Del Mese, ma, per un atto di profonda dignità, ha scelto il carcere. Va tutto il mio rispetto a questa scelta pur non avendo mai condiviso la politica dell’ex deputato. La civiltà di un paese si evince dalla equità della sua giustizia. Soprattutto una diversità di trattamento in base al reato di cui si è sospettati. Lele Mora non è come Francesco “Sandokan” Schiavone. Chi si presuppone abbia compiuto reati di natura finanziaria non può essere trattato preventivamente come un pluriomicida. Mesi fa nel carcere di Fuorni, Carmine Tedesco, arrestato per aver rubato solo una bicicletta, è morto solo come un cane in galera. In carceri che ormai sono gabbie da zoo più che celle di detenzione. C’è poco da fare: in Italia servirebbe una riforma seria in cui anche i magistrati dovrebbero pagare in caso di errore. Ma questo non avviene mai. Chiedetelo ai familiari di Enzo Tortora, chiedetelo a Massimo Carlotto, chiedetelo a Daniele Barillà e ai tanti uomini messi in carcere prima ancora di sapere di che cosa fossero accusati. Vorrei ancora credere in uno Stato di diritto, ma faccio fatica a credere che in una democrazia moderna ogni uomo possa essere privato della propria libertà prima di essere giudicato colpevole. Lettere: dare priorità all’emergenza carceri di Ivano Peduzzi (Prc-Rivoluzione Civile) Dire, 21 febbraio 2013 Il rapporto del garante dei detenuti e della Fp Cgil Roma e Lazio sull’emergenza carceri nella nostra regione ci indigna ma non ci sorprende. Da anni denunciamo le problematiche condizioni delle carceri del Lazio, la mancanza d’organico, il sovraffollamento, i tagli al budget che non consentono lo svolgimento di attività e di percorsi finalizzati al reinserimento sociale dei detenuti. Tutto questo non solo vanifica ogni tentativo di recupero del detenuto, perché rende le carceri un luogo di sola detenzione, ma rende inattuabile l’articolo 27 della Costituzione. Alla drammatica situazione che stanno vivendo le carceri laziali, si aggiungono i problemi legati al deficit sanitario. Come evidenzia il rapporto, questo si traduce nei mancati pagamenti per i servizi offerti ai detenuti, nei ritardi nella redazione dei piani per la salute mentale in carcere, nella diminuzione dei percorsi terapeutici per i tossicodipendenti. Tutto questo l’abbiamo potuto constatare con i nostri occhi nel corso dei numerosi sopralluogo effettuati nelle carceri del Lazio in questi anni. Nell’attuale legislatura abbiamo condotto una battaglia che ha portato all’approvazione della mozione sui diritti dei detenuti, che indica con chiarezza la necessità di superare la visione del carcere quale discarica sociale, prendendo in considerazione misure alternative alla detenzione nell’espiazione della pena. Dobbiamo però evidenziare che la nostra legge sulle carceri, approvata nella precedente legislatura, nonostante affrontasse due questioni cruciali quali il diritto alla salute in carcere e il reinserimento lavorativo dei detenuti, non è mai stata applicata dal centrosinistra nella giunta Marrazzo ed è stata definanziata con la Polverini. Riteniamo per questo che l’emergenza carceri debba tornare a ricoprire un ruolo di prim’ordine nell’agenda politica della prossima amministrazione regionale. Emilia Romagna: Garante dei detenuti Desi Bruno; no al taglio dei dirigenti penitenziari Dire, 21 febbraio 2013 Una serie di sigle sindacali ha proclamato lo stato di agitazione dei dirigenti di istituto penitenziario e di esecuzione penale esterna. Sulla vicenda interviene Desi Bruno, Garante regionale per le persone private della libertà personale. “Esprimo solidarietà alle OO.SS. del personale della carriera dirigenziale penitenziaria che hanno proclamato lo stato di agitazione in riferimento alle problematiche della categoria, con particolare riguardo alla prossima emanazione di un decreto del Governo volto ad operare una riduzione del numero dei dirigenti penitenziari. Già nei mesi scorsi, insieme ai garanti dei diritti dei detenuti, in un’apposita lettera a firma congiunta indirizzata alla Ministra Severino, avevo stigmatizzato il riesame della spesa dell’Amministrazione penitenziaria, e oggi ribadisco con forza la contrarietà a provvedimenti che abbiano ad oggetto la riduzione del numero dei dirigenti penitenziari, paventando, in particolare, che in quelle carceri dove è assente la titolarità della direzione possa prevalere un’organizzazione della vita dell’istituto caratterizzata in termini di contenzione. In verità, già allo stato c’è una carenza di personale direttivo, tanto in Emilia-Romagna quanto su tutto il territorio nazionale, il che comporta attribuzioni plurime delle direzioni. Anche nella nostra regione è in atto l’accorpamento di più istituti sotto una direzione unica. Ciò comporta disagi per chi riveste ruolo direttivo nell’organizzare la vita dell’istituto e assicurare la fondamentale presenza all’interno. Non va dimenticato che è il direttore che svolge funzione di sintesi e di coordinamento tra le varie aree (della sicurezza, educativa, contabile) che si occupano del carcere. Nell’attuale momento storico in cui l’Amministrazione penitenziaria si accinge ad effettuare la sua “rivoluzione normale” - così come è stata definita dal Capo Dipartimento la realizzazione dei circuiti regionali -, consistente in una razionalizzazione del sistema della detenzione per implementarne l’efficienza e l’efficacia, con un auspicato miglioramento delle iniziative trattamentali per la popolazione detenuta, appare privo di logicità un intervento orientato a privare alcuni istituti penitenziari della figura di un direttore titolare, la cui funzione fondamentale è di propulsione, controllo e coordinamento dell’istituto, venendosi così, di fatto, a rendere non attuabile la riorganizzazione”. Desi Bruno conclude così la sua presa di posizione: “Si ritiene che il Governo, ad una manciata di giorni dal finire della legislatura, non possa ulteriormente provare un sistema penitenziario ridotto ai minimi termini, riducendo anche il numero dei direttori, ma debba prioritariamente valutare l’opportunità politica di bandire un nuovo concorso per l’assunzione di figure direttive, risalendo l’ultimo ad oltre 20 anni fa”. Lazio: Assessore Cangemi; sono soddisfatto del lavoro svolto in tre anni per le carceri Adnkronos, 21 febbraio 2013 “Siamo lieti, in questa occasione, di poter inaugurare la nuova sala colloqui della sezione femminile del carcere di Rebibbia. Ogni nuovo intervento pubblico nel mondo penitenziario rappresenta un piccolo tassello per contribuire al benessere di chi, in carcere, deve vivere: e perché deve scontare una pena e perché vi lavora”. Lo ha dichiarato l’assessore agli enti locali e sicurezza, ambiente e sviluppo sostenibile, politiche dei rifiuti della Regione Lazio, Giuseppe Cangemi, intervenendo oggi alla inaugurazione della nuova sala colloqui per le detenute della casa circondariale Rebibbia femminile di via Bartolo Longo. Ad inaugurare la nuova struttura la Presidente della Regione Lazio, Renata Polverini, il direttore della struttura, Lucia Zainaghi e il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria del Lazio, Maria Claudia Di Paolo; l’assessore Cangemi si è detto soddisfatto del risultato ottenuto grazie ad un finanziamento regionale. In particolare si tratta del finanziamento di oltre 230mila euro per le opere di ristrutturazione del parlatorio e la fornitura degli arredi per la casa circondariale. La ristrutturazione della sala colloqui - ha proseguito Cangemi - rappresenta solo l’ultimo degli interventi che abbiamo messo in campo per venire incontro alle esigenze del mondo penitenziario. Abbiamo cercato di stanziare il massimo delle risorse a disposizione per rendere meno gravosa la permanenza nelle carceri della nostra regione. Pur in un quadro di tagli nazionali alle risorse, in tre anni, abbiamo instaurato una proficua collaborazione istituzionale con il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria”. “Questo impegno ci ha portato a realizzare moltissimi progetti di diverso impatto strategico - ha aggiunto Cangemi - Per esempio: abbiamo finanziato progetti tesi al miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti con l’organizzazione di corsi falegnameria, serigrafia, informatica, agricoltura, edilizia; di musica, di moda e sartoria e di ristorazione. Abbiamo predisposto un servizio di teledidattica per permettere loro di studiare e sottoporsi ad esami restando in carcere, con una buona risposta anche a livello universitario; e ancora la serie di iniziative di solidarietà con concerti organizzati per gli ospiti degli istituti in occasione della manifestazione È Natale per tutti, cui hanno partecipato famosi interpreti della musica italiana”. “La soddisfazione dei responsabili del Dap - ha concluso - delle strutture carcerarie, il riscontro positivo da parte degli operatori penitenziari e degli stessi detenuti, ci conferma che, grazie ad un continuo impegno, abbiamo impostato in modo giusto le azioni da intraprendere, anche per il futuro, per offrire adeguate risposte alle innumerevoli e variegate esigenze dell’universo carcerario della nostra regione”. Parma: visita del ministro Severino; un carcere sovraffollato è meno sicuro Gazzetta di Parma, 21 febbraio 2013 Il ministro della Giustizia, Paola Severino, ha fatto visita oggi a Parma. In mattinata, il Guardasigilli ha visitato il complesso degli istituti penitenziari di via Burla. Sono già oltre venti le carceri visitate in quindici mesi di permanenza della Severino in via Arenula. Nella struttura, il ministro della Giustizia ha incontrato detenuti, personale, operatori e agenti in servizio. Al termine della visita, l’incontro coi giornalisti. Ed inevitabile parlare della fuga dei due pericolosi detenuti albanesi da via Burla ma anche dell’ultima evasione, quella di stamattina, quando tre detenuti romeni sono scappati dal carcere di Varese segando le sbarre della cella. “La doglianza che esprimo oggi per quest’ultima evasione è la stessa che ho manifestato quando non siamo riusciti a portare a compimento il progetto sulle misure alternative alla detenzione. Un carcere meno affollato è più sicuro anche perché il progetto di misure alternative per i soggetti meno pericolosi estremizza il tema”, ha detto il ministro Severino. “La notizia - ha spiegato ai giornalisti - mi ha raggiunto in treno mentre venivo qui e naturalmente la prima considerazione che ho fatto è chiedermi: ma che cosa è successo? Ho due risposte possibili: la prima è che, ahimè, le evasioni ci sono sempre state ed il numero delle evasioni ha una certa costante nel tempo. Purtroppo se ne sono verificate due a breve distanza di tempo l’una dall’altra, ma le statistiche si calcolano sempre nei tempi lunghi e gli statistici direbbero vediamo cosa succede a fine anno”. “Ma quando si tratta di sicurezza - ha aggiunto - non si possono aspettare le statistiche o aspettare la fine dell’anno per capire cosa è successo. Certo, le prime modalità che mi sono state comunicate testimoniano di un episodio molto diverso da quello del carcere di Parma, anche per la tipologia dei detenuti. Ma anche lì si dovranno svolgere delle indagini. E poi io non vorrei essere ripetitiva, ma tutti possiamo condividere l’idea che quando un carcere è sovraffollato la sorveglianza è più difficile. E allora torniamo al concetto fondamentale e alla doglianza che io ho sempre espresso: il sovraffollamento è un’emergenza che va affrontata con tutto l’impegno possibile”. Il boss Bernardo Provenzano non è ancora tornato nel carcere di Parma, come sembrava in un primo momento, ma è stato trasferito dal reparto del Maggiore dove è rimasto ricoverato dopo il suo ultimo malore in cella al reparto riservato ai detenuti. È previsto per oggi, intanto, il deposito da parte del legale del boss, l’avvocato Rosalba Di Gregorio dell’istanza con cui si chiede la revoca del 41 bis per il capomafia che, secondo una perizia medica, sarebbe affetto da un gravissimo deficit cognitivo. Nella cella del carcere di via Burla dove tra pochi giorni rientrerà Bernardo Provenzano è stata installata una telecamera che permetterà di vigilare costantemente sulle condizioni del detenuto e sul suo stato di salute. Con lo stesso scopo, per evitare cadute, è stato posizionato un letto con sbarre di protezione, di tipo ospedaliero. Finora attraverso una telecamera all’ingresso, venivano visionati solo i momenti in cui il detenuto entrava e usciva dalla cella. Ora invece ci sarà una telecamera fissa all’interno della cella, che finora non c’era e che è già stata installata, con un operatore fisso e la possibilità di visionare costantemente il movimento all’interno. Trento: Consigliere Civico; al carcere serve direzione duratura, che prenda mano gestione di Paolo Piffer Il Trentino, 21 febbraio 2013 Il nuovo carcere di Spini di Gardolo, inaugurato nel febbraio del 2011, è costato alla Provincia 112,5 milioni di euro. Un carcere modello, di nuova concezione, se non fosse che, come sta evidenziando l’inchiesta del Trentino, è già sovraffollato e con meno personale rispetto a quanto necessario e previsto. Nonostante l’accordo di programma quadro tra Provincia e governo sia molto preciso al riguardo. Mattia Civico, consigliere provinciale del Pd, che di questo tema si occupa da tempo, non ci sta. “Oggettivamente - attacca - il sovraffollamento porta ad una vivibilità interna molto più ridotta. Riducendosi gli spazi la situazione in cui sono costretti a vivere i detenuti non è certo delle più facili. Ricordiamoci che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha sanzionato l’Italia per le condizioni delle sue carceri”. Appunto, è una situazione generale. E perché? Perché la legge Giovanardi-Fini prevede che si finisca in carcere anche in attesa di giudizio e per reati legati alla piccola detenzione di stupefacenti. A Trento il 60% dei detenuti è dentro sulla base di queste due condizioni. Non è possibile. Quindi? È necessario cambiare la legge. E prevedere misure di recupero alla legalità diverse dalla detenzione, alternative al carcere. In galera ci deve stare chi ha commesso reati gravi ed è pericoloso per la società. Ma c’è anche un problema di rapporti Stato-Provincia. L’accordo prevede che i detenuti siano non più di 240. E ce ne sono quasi 300. La Provincia ha fatto un grosso investimento per garantire condizioni di vivibilità ai detenuti. Ed è innegabile che a tutto ciò non corrisponde il rispetto dell’accordo. Non c’è dubbio che la Provincia debba richiamare lo Stato a rispettare i patti. Seguendo quali strade? Ad esempio richiedendo con forza che ci sia una direzione definitiva. Dopo la rimozione, più di un anno fa, di Antonella Forgione, si sono succedute direzioni a scavalco e part time, prima dal Friuli, poi da Padova, adesso da Bolzano. In questo modo non c’è una regia complessiva che governa la struttura in tutti i suoi aspetti. Se la situazione di precarietà si protraesse, è a rischio la possibilità del recupero del detenuto? È un dettato costituzionale che la pena sia orientata al recupero. Se non ci sono progetti seri e il ricorso a misure alternative il rischio c’è. Ora il carcere di Trento è un luogo isolato con rapporti con l’esterno fragili e non strutturati. E la politica trentina che può fare? Non avere paura. Decidere che queste persone fanno parte della nostra comunità, che è necessario investire in percorsi di inserimento lavorativo e sociale. Perché, in questo modo, possiamo recuperare alla legalità molti individui ed evitare che tornino a delinquere. Concretamente. Istituire il garante dei detenuti, figura fondamentale per adottare buone pratiche di reintegro lavorativo e sociale. E poi passare dallo Stato alla Provincia la competenza socio-trattamentale. Il carcere non può essere una sorta di discarica umana di cui disinteressarsi. Trento: agente sotto processo con l’accusa di aver fomentato una rivolta dei detenuti Il Trentino, 21 febbraio 2013 Si ritrova sotto processo con l’accusa di aver fomentato una rivolta in carcere. Contestazione pesante per un assistente della polizia penitenziaria in servizio nel carcere di Spini. Soprattutto se si tratta di una persona che ha sempre lottato per i diritti dei suoi colleghi e degli stessi detenuti. Da qualche giorno è iniziato il processo nei confronti di Andrea Mazzarese, difeso dall’avvocato Nicola Canestrini. L’accusa nei suoi confronti è di interruzione di pubblico servizio. Secondo l’accusa, Mazzarese avrebbe lasciato la sezione del carcere a lui affidata e sarebbe andato in un’altra sezione per parlare con alcuni detenuti. In questo modo, sempre secondo l’accusa, avrebbe intenzionalmente arrecato un danno all’amministrazione penitenziaria un danno ingiusto fomentando atti di protesta contro una decisione carceraria interna. In questo modo avrebbe turbato la regolarità del servizio della struttura in quanto i detenuti effettivamente intraprendevano azioni di contestazione quali la battitura delle stoviglie e il lancio di oggetti e di materiale incendiario dalle finestre delle celle. L’avvocato Canestrini nella sua memoria difensiva ha contestato tutto l’assunto accusatorio. Anche lo stesso Mazzarese ha respinto le contestazioni. L’assistente ha spiegato che alcune carenze organizzative non hanno consentito l’esatta determinazione sulle modalità in cui doveva svolgersi la distribuzione della posta. Quel giorno doveva consegnare un telegramma. Per questo aveva cambiato sezione. L’assistente ammette di aver parlato con i detenuti, ma esclude di aver fatto accenno ai motivi delle loro proteste. Quindi non ha fomentato in alcun modo le manifestazioni di protesta da parte dei detenuti. Anzi, l’assistente spiega di aver cercato di rassicurare e tranquillizzare i detenuti. Quindi l’uomo non ha alcun ruolo nelle proteste di quel giorno. Salerno: Radicali e penalisti uniti nella battaglia per “Amnistia, giustizia e libertà” La Città di Salerno, 21 febbraio 2013 Amnistia, giustizia e libertà. Sono i tre capisaldi o, ancora meglio, gli obiettivi dei Radicali. E, non a caso, a Salerno, nel partito sono confluiti tantissimi avvocati, alcuni dei quali sono anche presenti in lista, proprio a sancire quel vincolo tra i Radicali di Salerno e la Camera penale, che ieri ha celebrato la terza assemblea congiunta, con un video documento sul caso Tortora, prodotto da Roberto Mancuso, e la presentazione dei candidati con Agl. “Siamo oramai alla bancarotta dello Stato di diritto - ha evidenziato Donato Salzano, segretario di Radicali Salerno e candidato alla Camera - perché oramai la carcerazione preventiva viene utilizzata non come misura eccezionale ma, piuttosto, per estorcere la confessione. E, mi chiedo, come sia possibile non concedere gli arresti domiciliari a Paolo Del Mese, operato ad un’anca e costretto ad andare in bagno, nel carcere di Fuorni, accompagnato dai compagni di cella”. Proprio il sovraffollamento della carceri è uno degli argomenti maggiormente a cuore dei Radicali. “I tanti avvocati presenti in lista - ha rimarcato Salzano - rappresentano anche i lori clienti”. Caso emblematico è quello del legale Paolo Vocca, in corsa per la Camera, in lista anche per rendere note le istanze del suo cliente, Paolo Maggio, detenuto battipagliese in dialisi nel carcere di Parma. A sostenere in candidati è stato l’ex segretario del partito Radicale, Gianfranco Spadaccia, mentre a partecipare al dibattito, incentrato naturalmente sulla giustizia, sono stati i capolista a Campania 2, Silverio Sica, presidente della Camera penale, e Filomena Gallo, segretario dell’Associazione Luca Coscioni, i candidati alla Camera Massimiliano Franco, Michele Capano, Luca Bove, il capolista al Senato, Antonio Cerrone, gli avvocati Massimo Torre e Gaetano Sessa. Varese: 3 detenuti romeni sono evasi scorsa notte. Sappe: frutto depotenziamento carceri Ansa, 21 febbraio 2013 Nella notte, ad un’ora imprecisata, tre detenuti di origine rumena sono evasi dal carcere di Varese “segando le sbarre della cella e guadagnando la fuga con modalità in corso di accertamento”. Ne dà notizia Angelo Urso, Segretario Nazionale Uil-Pa Penitenziari, che aggiunge: “L’evento odierno non potrà non essere oggetto di discussione al Convegno previsto nel pomeriggio a Milano con il responsabile del Forum Sicurezza del Pd, Emanuele Fiano”. Ancora un’evasione dalle carceri italiane, tre detenuti romeni evadono dal carcere di Varese. I tre detenuti di origine rumena sono evasi dal carcere di Varese segando le sbarre della cella. L’evasione dei 3 detenuti è avvenuta nella notte. Al momento sono in corso accertamenti per chiarire con che modalità, una volta usciti dalla cella, i 3 detenuti sono riusciti a guadagnare la fuga e ad allontanarsi dall’area del carcere. Secondo i primi riscontri, i detenuti, di origine rumena, sono evasi nella notte dal carcere di Varese segando le sbarre della cella. “I tre detenuti evasi nella nottata dal carcere di Varese sono: Mikea Victor Sorin nato nel 1983, detenuto per sfruttamento della prostituzione, condannato definitivamente a due anni con fine pena giugno 2013; Marius Georgie Bunoro nato nel 1989, imputato in attesa di giudizio per furto aggravato; Parpalia Daniel nato nel 1984, imputato in attesa di giudizio per furto aggravato”. Severino: evasione Varese diversa da quella di Parma “Dalle prime modalità, si tratta di un episodio molto diverso da quello del carcere di Parma, anche per la tipologia dei detenuti, ma anche lì si dovranno svolgere delle indagini”: è il primo commento a caldo del ministro della Giustizia Paola Severino sulla evasione di questa mattina di tre detenuti romeni evasi nella notte dal carcere di Varese. Severino era appena giunta in treno a Parma per visitare il carcere di massima sicurezza, dove però lo scorso 2 febbraio sono evasi due detenuti albanesi, di cui uno ritenuto particolarmente pericoloso. Sappe: evasioni frutto depotenziamento carceri “Le evasioni dalle carceri sono il frutto di un depotenziamento della sicurezza che questa guida del Dap sta percorrendo. Pensare alla vigilanza dinamica ed all’autogestione dei padiglioni detentivi da parte dei detenuti vuol dire, nella situazione attuale, vivere irresponsabilmente sulle nuvole. Certo che quel che non serve per risolvere questa umiliante situazione è la delegittimazione del ruolo di sicurezza affidato alla Polizia Penitenziaria, come invece previsto dal Capo Dap Giovanni Tamburino che vorrebbe consegnare le carceri all’autogestione dei detenuti attraverso fantomatici patti di responsabilità”. Così commenta l’evasione di tre detenuti dal carcere di Varese Donato Capece, segretario generale del Sappe, Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. “Ora l’imperativo è collaborare tutti alla cattura dei fuggitivi. Ma va stigmatizzata con forza la scelta del Dap di rendere le carceri italiane meno sicure. Una scelta - prosegue il sindacalista - (che il Vice Capo Luigi Pagano cerca di presentare in giro come una positiva rivoluzione normale delle carceri, forse perché pensa che i penitenziari italiani siano tutti come quello di Milano Bollate, una struttura così tanto “a trattamento avanzato” che una ristretta rimase incinta durante la detenzione) favoleggia di un regime penitenziario aperto, di sezioni detentive sostanzialmente autogestite da detenuti previa sottoscrizione di un patto di responsabilità favorendo un depotenziamento del ruolo di vigilanza della Polizia Penitenziaria mantenendo però in capo ai Baschi Azzurri il reato penale della colpa del custode (articolo 387 del Codice penale)”. “Di fatto, da quando è operativa questa disposizione del Dap, abbiamo constatato un aumento di aggressioni, di suicidi, dei tentati suicidi sventati per fortuna sventati dai poliziotti penitenziari, delle evasioni e di quelle tentate, delle risse e degli atti di autolesionismo. Se gli agenti non possono controllare stabilmente le celle le responsabilità non possono essere le loro ma di chi quella nota circolare ha firmato, il Capo dell’Amministrazione Penitenziaria Giovanni Tamburino, e di chi la spaccia per rivoluzione normale delle carceri, il Vice Capo Luigi Pagano, che il Ministro Guardasigilli non può ulteriormente lasciare alla guida del Dap”. Cagliari: Sdr; cantiere nuovo carcere è vergogna nazionale, operai ancora senza stipendio Ristretti Orizzonti, 21 febbraio 2013 “Ancora una montagna di giustificazioni per nascondere un’intollerabile vergogna nazionale. Dopo anni di tira e molla, con interrogazioni parlamentari, pubbliche denunce e la necessità di una Commissione d’inchiesta, la vicenda del nuovo carcere di Cagliari conferma la debolezza dello Stato nei confronti di un’impresa che non paga gli operai e non rispetta i tempi previsti per la consegna dei lavori”. Lo sostiene Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, con riferimento “all’ennesimo mancato rispetto dei diritti dei lavoratori, costretti a scioperare per gli stipendi e i versamenti contributivi”. “Alle notizie poco rassicuranti che giungono dai sindacati dei lavoratori si aggiunge - sottolinea Caligaris - quella del pignoramento di una gru. Sono tutti segnali che dovrebbero far immediatamente intervenire il Ministero delle Infrastrutture che invece sembra indifferente e incapace di assumere un’iniziativa forte nei confronti di Opere Pubbliche. Si tratta di un comportamento inspiegabile in quanto ciò non accade quando una piccola impresa si trova in difficoltà ad onorare il contratto”. “I ritardi accumulati rischiano di trasformare il carcere di Uta in una struttura che ha bisogno di un intervento di ristrutturazione - conclude la presidente di SdR - prima ancora di vederla completata. È inoltre ancora senza soluzione il problema del rapporto tra la struttura penitenziaria e il territorio. Manca infatti quella rete di servizi pubblici per rendere fruibile, in modo agevole, la struttura agli operatori penitenziari, agli impiegati amministrativi e ai familiari dei cittadini privati della libertà. La landa desolata in cui è ubicata necessita anche di spazi idonei all’accoglienza”. Castrovillari (Cs): bimbi in cella con mamma, appello dell’Associazione “Diritti Civili” Agi, 21 febbraio 2013 Il leader del Movimento Diritti Civili, Franco Corbelli, interviene su un nuovo caso legato al dramma dei bambini in carcere e chiede che “si ponga fine a questa barbarie dei bimbi in cella con le loro mamme detenute”. “Il caso di oggi - afferma Corbelli - è ancora più grave e inaccettabile, si tratta di due bambini, il piccolo Antonio Giuseppe, di un anno e mezzo, e la sorellina Chanel, di due anni, che vivono in cella, nel reparto femminile del carcere di Castrovillari, con la loro giovanissima mamma calabrese detenuta, S. I., 27 anni, incinta e in attesa del terzo figlio”. “Si può tenere in una cella - prosegue - una intera famiglia, addirittura due bambini e la loro mamma che sta, tra poche settimane, per partorire? La giustizia deve fare il suo corso e deve essere uguale per tutti, ma non si possono far pagare colpe e tenere in una cella dei bambini e la loro mamma incinta. Questa - dice - non è una giustizia giusta e umana. È semplicemente una disumanità, una barbarie, anche se applicata nel rigoroso rispetto della legge. Quella donna incinta (condannata in primo grado, che non conosco, così come non conosco la sua vicenda processuale) e i suoi due bambini non possono e non devono restare in una cella, ma rimandati tutti a casa, con la concessione degli arresti domiciliari alla giovane donna. Domiciliari che sono stati , da pochi giorni, revocati alla donna perchè avrebbe incontrato persone (familiari) non autorizzati. Confido nella sensibilità e umanità del giudice del tribunale di Castrovillari chiamato a decidere su questo drammatico caso umano. Auspico che anche questo appello venga accolto, così come è avvenuto nei mesi scorsi per altri due casi di giovane mamme detenute, che vivevano in cella con i loro bambini, che siamo riusciti (nel dicembre e nell’ottobre dello scorso anno) a far scarcerare”. Porto Azzurro (Li): concorso “Creatività in carcere”, 24 detenuti premiati da Unitre Il Tirreno, 21 febbraio 2013 Si intitola “Creatività in carcere” il concorso rivolto ai detenuti dell’istituto penitenziario di Porto Azzurro dall’Università delle Tre Età - Unitre - della casa di reclusione, in collaborazione con l’Autorità portuale di Piombino ed Elba. Ventiquattro detenuti del carcere hanno frequentato gli incontri a tema organizzati dall’associazione, centrati sul tema “mare, porti, Forte San Giacomo”. La vicepresidente dell’Unitre del carcere Lucia Casalini ha organizzato tra novembre e dicembre quattro incontri con altrettanti relatori, Pablo Gorini, Claudio Capuano, Stelio Montomoli e Massimo Battaglini. Importante è stato il contributo dell’educatore Paolo Maddonni. Al termine dei corsi i partecipanti hanno dato libero sfogo alla creatività, presentando un elaborato scritto (saggio, poesia, racconto breve), un’espressione figurativa (dipinto, scultura o video) o un lavoro manuale, ispirandosi al tema. Lunedì mattina una delegazione dell’Unitre del carcere, assieme alle Unitre di Piombino e dell’Elba orientale, hanno premiato i detenuti partecipanti, con la giuria presieduta dal direttore dei corsi Davide Casalini e composta dai docenti e da rappresentanti degli operatori penitenziari che ha scelto i lavori migliori. Alla cerimonia di premiazione erano presenti, tra gli altri, il presidente dell’Autorità portuale Luciano Guerrieri e l’assessore provinciale al sociale Monica Mannucci. L’iniziativa ha riscosso un notevole interesse, specialmente in una fase non semplice per il penitenziario, nel quale - a causa della scarsità di fondi - sono diminuite sensibilmente le attività sia lavorative che culturali. Omaggi ai partecipanti sono stati messi a disposizione dal vescovo Ciattini, dall’azienda Locman, fino al Lyons elbano, il centro servizi Elba Life, Unicoop Tirreno, Tiemme, Appe, Rotary e Cesvot. Pavia: Vincenzo Andraous ottiene la libertà condizionale, ha trascorso in carcere 26 anni di Maria Fiore La Provincia Pavese, 21 febbraio 2013 Lettere ai familiari delle vittime, all’Arma dei carabinieri, alla polizia locale di Milano e alla polizia penitenziaria. Lettere in cui Vincenzo Andraous chiede perdono e offre la sua disponibilità a riparare i danni versando il quinto dello stipendio sul conto corrente “pro vittime Andraous”. “Se la somma raccolta su questo conto non sarà richiesta dalle parti offese - spiega il suo avvocato Maria Teresa Zampogna - verrà devoluta ad associazioni che si occupano dell’assistenza alle vittime e a familiari di vittime di azioni criminali”. I giudici, comunque, tenuto conto che “nessuna cifra potrà mai compensare i danni subiti dalle vittime e dai loro parenti”, chiedono che di Andraous sia “valorizzato l’impegno costante nel sociale in favore delle fasce più deboli e la testimonianza di vita che egli spende nei confronti dei giovani e degli studenti con intenti di prevenzione, affinché costoro possano comprendere il baratro della violenza, della droga e del carcere”. Cinque ergastoli, poi riuniti in uno, e 30 anni di carcere per sei omicidi, rapine a mano armata ed estorsioni. Ma per Vincenzo Andraous, 58 anni, di cui 26 trascorsi in carcere, non sarà “fine pena mai”. Il “boia delle carceri” diventato “poeta” nei bracci di isolamento, da anni impegnato in un percorso personale e a fianco dei giovani e dei disagiati, ha ottenuto dai giudici del tribunale di sorveglianza di Milano la libertà condizionale. Cinque anni fa era stata respinta la sua domanda di grazia. Aveva però ottenuto diversi permessi premi e, nel 2001, la semilibertà. Di giorno impegnato con la Casa del giovane - dove è tutor di progetti che danno la possibilità ai condannati di scontare la loro pena al servizio degli altri e dove Andraous avrà domicilio - e di notte in cella. I giudici hanno ripercorso le tappe del suo ravvedimento, passato attraverso l’esperienza del Collettivo verde con i detenuti del carcere di Voghera, e, sulla base di questo percorso e delle offerte di risarcimento danni alle vittime, hanno firmato il provvedimento libera Andraous anche dall’obbligo di tornare in carcere alla sera. “Preferisco non commentare la decisione del tribunale - si limita a dire Andraous. Una nuova vita? La mia nuova vita dura da almeno 15 anni ed è all’interno della Casa del giovane, come volontario. La mia intenzione è proseguire su questa strada. Non commento il provvedimento perché non voglio che ci siano speculazioni di nessun tipo”. I giudici, nonostante la decisione finale, non gli fanno sconti. Mettono in fila i delitti commessi negli anni Settanta, gli anni della mala milanese e delle rapine agli istituti di credito, quando Andraous si distinse, dicono i giudici, per la “fredda ferocia e la diabolica precisione con cui, in almeno due occasioni, non ha esitato a sacrificare vite umane per sottrarsi alla cattura”. I magistrati citano la rapina all’istituto bancario di Milano, a marzo del 1977, finita nel sangue. Durante la sparatoria Andraous entrò nel negozio di parrucchiera di Ada Fornaro da cui uscì facendosi scudo con la donna presa in ostaggio, rimasta uccisa. E gli omicidi di Francis Turatello e Massimo Loi, avvenuti in carcere. A questo capitolo ne segue un altro, ugualmente corposo. È quello, appunto, dell’impegno di Andraous nel volontariato, della sua attività nelle scuole, negli oratori, nei centri giovanili, della sua attività letteraria. A questo capitolo il suo avvocato, Maria Teresa Zampogna, allega la perizia psicologica del professore Marco Lagazzi, secondo cui “la personalità di Andraous si è evoluta attraverso un profondo e complesso processo di revisione critica e di comprensione della realtà. L’attuale pericolosità del soggetto quindi è analoga a quella di chiunque noi”. Con in più “il fattore freno rivestito dalla consapevolezza del passato e dalla scelta razionale emotiva del rifiuto” di ogni violenza. La conversione dell’assassino che scoprì il male a 14 anni “Ho una gran brutta storia alle spalle, che incute timore. Non potrò mai scordarmi di dosso il dolore che ho provocato, ma oggi non nascondo più il mio passato”. La brutta storia di Vincenzo Andraous, 58 anni, origini catanesi, figlio di un ufficiale di marina egiziano che abbandonò la madre quando lui aveva 8 anni, e che oggi parla della figlia Yielena come “della sua rivincita più grande”, comincia a 14 anni. Con un sasso con cui spaccò la testa al suo amico che durante una partita di calcio lo chiamò “terrone”. Il “bullo” Andraous, che tirava i cancellini contro l’insegnante, abbandonò presto la scuola per dedicarsi al crimine. Prima solo scippi, poi le rapine alle banche. Dai cancellini alle armi. Un crescendo di violenza che raggiunge il suo culmine negli anni Settanta. Andraous firma sei omicidi, 16 rapine aggravate, diverse estorsioni. Due volte evade dal carcere. A marzo del 1977 è coinvolto in una sparatoria fuori da un locale di Milano in cui restano gravemente feriti i due brigadieri Angelo Pinto e Raffaele Pazienza. A qualche giorno dopo, il 9 marzo, risale la rapina a mano armata ai danni di un istituto bancario di Milano. Resta uccisa la parrucchiera Ada Fornaro, con cui Andraous si fa scudo, e il vigile urbano Vincenzo Ugga. Ma la sua caratura criminale si esprime anche in carcere. Tra il 1979 e il 1980 Andraous cerca di uccidere nel carcere di Trani Enrico Pagherà, colpendolo più volte con un puonteruolo, e Angelo Petralia. Nel 1981, nel carcere di Novara, durante una rivolta, vengono uccisi Massimo Loi, componente della banda di Vallanzasca, subito dopo la morte mutilato della testa, e Bozidar Vulisevich. Il 30 marzo dello stesso anno gli viene contestata l’uccisione nel carcere di Nuoro di Claudio Olivati e 17 agosto di Francesco Turatello. Infine, nel 1982, nel carcere di Pisa, viene riconosciuto come mandante dell’omicidio del detenuto Claudio Gatti. La lezione agli studenti: “Il mio passato vi sia d’esempio” Una lezione sulla condizione delle carceri, nel salone dell’aula magna dell’Istituto Canossiano di corso Garibaldi. I ragazzi delle scuole Cairoli e Bordoni hanno potuto ieri assistere allo spettacolo organizzato dall’associazione culturale Demetrio, “Art. 27 e vecchi merletti”, monologo scritto e interpretato da Vincenzo Andraous. “Vogliamo mettere in evidenza - ha spiegato Costantino Leanti, responsabile per le iniziative scolastiche del Demetrio -, una questione importante come il sovraffollamento delle carceri, luoghi che dovrebbero svolgere una funzione di recupero e reinserimento, ma purtroppo nel nostro Paese non funziona così”. Uno spettacolo di denuncia, che allo stesso tempo vuole essere l’inizio di un percorso educativo per le nuove generazioni. Così sulle note del sassofono del maestro Andress Villani, Vincenzo Andraous ha raccontato la sua storia e la sua esperienza di condannato all’ergastolo, partendo dalla sua giovinezza di ragazzino contro le regole, fino ad arrivare a spiegare ai tanti giovani presenti in platea cosa vuol dire vivere in carcere, invitandoli a non commettere certi errori e a riflettere sul vero significato di libertà. L’articolo 27 della costituzione, cha dà il nome allo spettacolo, parla proprio delle pene per i detenuti. “Sessanta settemila detenuti - ha spiegato Andraous - su 40 mila posti. Oggi il carcere non esiste, è il maggior produttore di sottocultura ed emarginazione”. Parole che i giovani hanno ascoltato con attenzione. “Lo spettacolo più bello al quale abbiamo assistito - dicono Fabio e Davide della 5LB del Bordoni. Consideravamo fino ad oggi giusto punire in modo severo chi sbagliava, ma ora ci rendiamo conto che rieducare è l’unica azione che può dare dei risultati positivi”. “È stata una lezione di vita - spiegano Elena, Matteo e Lorena della 4TB Bordoni. Ammiriamo molto il coraggio di Andraous e la forza con cui ci ha trasmesso informazioni e insegnamenti”. Giappone: impiccati tre detenuti, prime esecuzioni dall’insediamento del nuovo governo Tm News, 21 febbraio 2013 Il Giappone ha annunciato di aver impiccato un killer di bambini e altri due condannati a morte per omicidio, le prime esecuzioni da quando un governo conservatore si è insediato dopo le elezioni di dicembre. Kaoru Kobayashi, 44 anni, uccise una bambina di sette anni e spedì una fotografia del cadavere alla madre nel 2004, mentre Masahiro Kanagawa, 29 anni, uccise un uomo e ferì altre sette persone con un coltello all’esterno di un centro commerciale a Tokyo nel 2008. Uccise inoltre un altro uomo in un altro incidente lo stesso anno. Il terzo condannato nel braccio della morte era Keiki Muto, 62 anni, che per denaro strangolò nel 2002 il proprietario di un bar. “Ho ordinato le esecuzioni dopo un’attenta valutazione dei dossier”, ha detto il ministro della Giustizia, Sadakazu Tanigaki, durante una conferenza stampa a Tokyo, in cui ha confermato che i tre condannati a morte sono stati impiccati al mattino. Russia: intervista a pittrice Viktorija Lomasko; la rieducazione in carcere passa dal disegno Russia Oggi, 21 febbraio 2013 Recuperare i condannati attraverso un foglio bianco: la pittrice Viktorija Lomasko insegna la sua arte ai giovanissimi in riformatorio. Viktorija Lomasko ha ritratto i partecipanti di noti processi legati al mondo dell’arte: quello alle Pussy Riot e quello agli organizzatori della mostra “L’arte proibita” (“Zapretnoe iskusstvo”). Durante le manifestazioni politiche del 2012 ha tenuto la “Cronaca della resistenza”, un resoconto grafico delle proteste nella capitale, e ha disegnato dei bozzetti della provincia russa. Inoltre, l’artista insegna disegno ai bambini delle carceri minorili e sta scrivendo un libro sul suo metodo, per quanti decideranno di seguire il suo esempio. A Bolshoj Gorod Viktorija Lomasko ha raccontato che cosa disegnano i detenuti adolescenti, e perché un artista dovrebbe entrare nelle carceri. Come è iniziato il lavoro con i bambini dei riformatori? Una volta nel riformatorio di Mozhajsk i bambini mi hanno fatto la stessa domanda: che cosa ci facevo lì? Perché insegnavo? Dicevano che probabilmente per le mie lezioni prendevo un bello stipendio. Cercavano un mistero da svelare. Ho iniziato per la curiosità di sapere com’era la vita in un riformatorio, volevo fare dei bozzetti di genere. Poi ho cominciato a interessarmi alle lezioni con i piccoli detenuti: come avrei potuto organizzare delle lezioni di disegno qui, in condizioni così particolari? È iniziato il contatto diretto con gli allievi: sapevo già che c’erano questi ragazzi, conoscevo i loro nomi e i loro interessi, sapevo che mi stavano aspettando. Ma non mi sono trasformata del tutto in un’operatrice sociale, sono rimasta un’artista. Un artista sperimenta, cerca un tema su cui non abbia ancora lavorato nessuno, degli aspetti inesplorati della realtà. Quando avrò finito di elaborare il programma delle lezioni di disegno nei riformatori, il progetto sarà concluso. Per me è importante fissare in un libro i risultati del mio lavoro, perché questo materiale possa tornare utile ad altri volontari disposti a insegnare nelle carceri minorili. Che cosa disegnano i piccoli detenuti? La vita in un istituto di correzione assomiglia al film “Ricomincio da capo”: c’è una serie di rigidi orari da rispettare. Qualcuno dei ragazzi, naturalmente, cerca di riflettere, ma tutti sono completamente avulsi dalla vita normale e sono come intontiti. Non hanno voglia di pensare, di analizzare. Le lezioni di disegno possono risvegliarli, rianimarli un pò, perché si tratta di un lavoro intellettuale molto intenso. Se si chiede a un adolescente in riformatorio di disegnare un soggetto a suo piacere, quasi sempre disegnerà temi legati al carcere. Avevo un allievo, Andrej, che disegnava degli splendidi “francobolli” (disegni particolareggiati che contengono simboli della vita in prigione, realizzati su fazzoletti o su dei semplici pezzi di stoffa). Per gli altri allievi Andrej era un autorevole “artista di prigione”. All’inizio il ragazzo aveva preso in odio le mie lezioni, perché quello che gli facevo fare era diverso da ciò a cui era abituato, e non gli riusciva bene. Andrej mi accusava di costringerlo a disegnare senz’anima. E anche gli altri ragazzi mi accusavano: perché li tormentavo con tutte quelle forme e contro-forme? Per “disegnare con l’anima” si intendeva un filo spinato avvinghiato intorno a un cuore o a una rosa, il sole dietro le sbarre, o un ingenuo ricopiare le icone. Ma quando il Centro per il sostegno alla riforma delle carceri ha pubblicato un calendario con i disegni fatti dagli allievi alle lezioni di disegno, e tra questi vi erano i disegni di Andrej, il ragazzo ha cambiato atteggiamento nei confronti delle nostre lezioni. Di solito i miei allievi si lamentano, dicono di non sapere che cosa disegnare: tutte le cose di quando erano liberi le hanno dimenticate, e nel riformatorio non c’è niente di interessante. Io ho tenuto loro una lezione su “Come rendere interessante ciò che è noioso, spiacevole o spaventoso”, sul disegno di reportage, sugli album disegnati durante l’assedio di Leningrado, durante la guerra, nei campi di concentramento. Dopo questi racconti, di solito i ragazzi cominciano a guardarsi intorno con più attenzione. Uno dei miei compiti preferiti l’ho trovato in un libriccino sull’artista ebrea Friedl Dicker-Brandeis, prigioniera in un campo di concentramento, che aveva fatto disegnare i bambini che si trovavano con lei. Il loro compito era questo: pensare a una metafora buffa, a una frase, e disegnarla in quattro e quattr’otto. Questo procedimento aiuta a cominciare il disegno e a non aver timore del foglio bianco. Friedl Dicker-Brandeis morì in una camera a gas, e così pure molti dei bambini. Ma i sopravvissuti al campo di concentramento ricordavano queste lezioni come l’unica cosa che li aveva aiutati a sopravvivere. Ho provato ad assegnare un compito simile alle bambine del riformatorio di Novyj Oskol. Mi inventavo una frase, ad esempio: “Un vecchietto è cascato sul parquet”. Le ragazze ridevano e disegnavano: com’è fatto il vecchietto, perché è caduto. Poi hanno inventato anche loro un tema: “Dima Bilan è diventato un portinaio”. La lezione è stata molto divertente, tutta la classe risuonava delle risate delle ragazze. Poi, sentendo le risate, sono arrivate le educatrici e hanno voluto inventare anche loro degli esercizi. I loro titoli erano: “Siete uscite dal riformatorio e siete diventate delle brave mamme”, “Siete uscite dal riformatorio e avete trovato un bel lavoro”, “Siete uscite dal riformatorio e avete trovato un bravo marito”. Subito l’atmosfera è diventata formale, ed è scomparsa l’allegria. Che cosa sognano i ragazzi del riformatorio? A lezione di solito non si domanda ai ragazzi perché sono finiti in riformatorio. Recentemente però sono cambiati i cartellini sulle divise, e oltre al nome dei ragazzi ora viene indicato anche il reato per cui sono detenuti, l’articolo del codice violato. A lezione ci sono sempre ragazzini con i reati più diversi. Uno dei miei primi allievi, Oleg, uno skinhead, era stato condannato per un omicidio commesso in gruppo. Una piccola cittadina, la mafia del Caucaso, gli scontri tra bande di adolescenti. Oleg aveva assistito all’omicidio di un suo amico per mano di adolescenti di origine caucasica. Gli autori del delitto erano rimasti impuniti, e allora Oleg aveva deciso di vendicarlo: aveva creato un gruppo di skinhead che dava l’assalto ai mercati dei caucasici. Si considerava un patriota: se il governo non aveva intenzione di prendere provvedimenti, lo avrebbe fatto lui stesso. In seguito abbiamo organizzato delle mostre con i disegni degli allievi, tra cui c’era un disegno in cui Oleg aveva raffigurato il suo delitto, in una delle migliori scuole di Mosca. Ascoltando i discorsi dei ragazzi più grandi, che erano venuti a visitare la mostra, ho capito che molti condividevano il punto di vista di Oleg. Erano scioccati dal fatto che degli adolescenti come loro fossero in prigione, ma molti di loro condividevano le idee nazionaliste. È chiaro che bisogna parlare di questi temi con i ragazzi delle scuole. Ma che cosa possiamo dire loro? Veniamo in riformatorio una volta al mese. Ogni sei mesi la composizione della classe di disegno si rinnova completamente: qualcuno viene rimesso in libertà, qualcuno viene trasferito nel carcere per adulti. Quindi ciascun partecipante riesce a seguire al massimo sei lezioni. In tre anni credo di avere incontrato tra i miei allievi almeno cinque ragazzi che sarebbero potuti diventare degli artisti se le lezioni di disegno fossero continuate. Un tempo, i ragazzi potevano restare negli istituti di correzione fino all’età di 20 anni, e in caso di buona condotta anche fino a 21. Ora invece sanno che li attende il carcere, e vi si preparano. Vedono il riformatorio come una tappa temporanea, dove studiare non è indispensabile. Bisogna imparare le regole del carcere, il gergo, farsi dei tatuaggi.