Giustizia: riportare le carceri nella legalità, questa è la vera “rivoluzione civile” di Valentina Ascione Gli Altri, 1 febbraio 2013 La settimana scorsa si è inaugurato l’anno giudiziario e, oltre a fotografare lo sfascio della lentissima macchina della giustizia - col suo enorme carico di milioni processi pendenti, le centinaia di giorni di calvario per giungere a una sentenza, i costi economici di questo pantano cronico - da nord a sud, dalla Suprema di Corte di Cassazione passando per le varie Corti d’Appello, gli ermellini hanno lanciato un grido (quasi) unanime di allarme sulla situazione delle carceri italiane. Troppi i detenuti rispetto ai posti letto, com’è ormai noto all’uomo della strada. Degradanti le condizioni di vita all’interno degli istituti, come denuncia la Corte europea dei diritti umani. Tanti i suicidi dietro le sbarre “sintomo estremo di un’inaccettabile sofferenza esistenziale”, come ha ricordato anche quest’anno nella sua relazione il Primo Presidente della Corte di Cassazione Ernesto Lupo. Troppe le fattispecie di reato (35 mila secondo il Consiglio d’Europa). Pochi i permessi premio (poco più di 25 mila nell’anno appena trascorso, fa sapere il presidente Lupo), eccessivo l’impiego della carcerazione per arrestati e indagati (24 mila sono coloro attualmente detenuti in custodia cautelare secondo il ministro della Giustizia) e scarso invece il ricorso alle misure alternative. Il tutto in nome di una concezione “carcerocentrica” della pena, come l’ha definita il Procuratore generale della Cassazione Gianfranco Ciani. Un diagnosi perfetta dei mah che affliggono la nostra giustizia e che tuttavia richiederebbero una terapia ben più incisiva rispetto agli appelli e alle generiche intenzioni che serpeggiano tra gli addetti ai lavori. E se va bene dare atto al governo dei tecnici di aver quanto meno provato ad arginare il problema del sovraffollamento, continuare a lagnarsi per l’approvazione sfumata del disegno di legge sulla messa alla prova è invece un insulto alla sofferenza delle migliaia di persone che nelle nostre galere vivono come bestie. Visto che, come da più parti osservato, quel provvedimento avrebbe interessato un numero assai ridotto di detenuti. Così, di fronte all’irresponsabilità di una classe dirigente che ha perfino paura a pronunciare la parola amnistia e nell’attesa che le urne decretino a chi debba passare la patata bollente, organizzazioni e associazioni, tra cui Antigone, A Buon Diritto, Forum per il diritto alla salute in carcere, Unione delle Camere Penali, Vie, hanno confezionato e depositato tre proposte di legge di iniziativa popolare: “Tre leggi per la giustizia e diritti” che costituiscono un vero e proprio programma di governo per ripristinare la legalità nel nostro sistema penale e penitenziario. La prima proposta mira a sopperire la grave lacuna normativa che vede il, reato di tortura ancora assente dall’ordinamento italiano nonostante gli obblighi internazionali. Con la seconda si intende rafforzare il concetto di misura cautelare intramuraria come extrema ratio, ma anche garantire i diritti dei detenuti e ridurre l’affollamento attraverso misure come l’abrogazione del reato di clandestinità, la modifica della legge Cirielli sulla recidiva e l’introduzione di una sorta di “numero chiuso”, affinché nessuno entri in carcere se non c’è posto. Infine la terza proposta vuole modificare la legge sulle droghe che tanta carcerazione inutile produce nel nostro Paese e a superare quindi il paradigma punitivo della legge Fini-Giovanardi. Proposte di buon senso per realizzare dal basso una vera rivoluzione civile, la più urgente tra quelle di cui il Paese ha bisogno. Giustizia: i “big” sembrano accorgersi dell’emergenza carcere… ma per meglio ignorarla di Valter Vecellio Notizie Radicali, 1 febbraio 2013 Ora sembra che se ne accorgano anche i “big”. Cosa dice Silvio Berlusconi? Che le carceri italiane sono in condizioni “inaccettabili… Le carceri non sono soltanto vecchie e non in grado di accogliere quel terzo di posti in più rispetto ai 40mila posti letto che esistono…a un cittadino non viene tolta solo la libertà, ma anche la dignità, con celle con un solo servizio che dire igienico è un eufemismo, non si può consentire che oltre alla libertà sia tolta anche la dignità e la salute”. E cosa dice il leader del Partito Democratico che già si sente inquilino di Palazzo Chigi, Pierluigi Bersani? “Bisogna risolvere il vergognoso tema delle carceri in Italia”, a conclusione della sua visita nel carcere di Padova. Molto bene, e molto giusto, naturalmente. Ma sorge spontanea la domanda: a chi lo dicono? Sono loro che guidano le due maggiori forze politiche rappresentate in Parlamento. Perché dicono quello che occorre fare, e non spiegano invece, perché finora non l’hanno fatto? Intanto, come si è sottolineato nei giorni scorsi - ma a quanto pare non è “notizia”, dal momento che sembra interessare ben poco - il nostro paese continua a essere sul banco degli accusati. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ha accolto la denuncia di un detenuto italiano, Bruno Cirillo, recluso nel carcere di Foggia; Cirillo ha dichiarato di essere stato vittima della violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sul divieto di trattamenti degradanti e disumani. La denuncia si riferisce a un’insufficienza di cure ricevute per la paralisi parziale di cui soffre il detenuto. La Corte impone allo Stato di versare all’imputato, nei tre mesi successivi alla data in cui la sentenza sarà diventata definitiva, la somma di diecimila euro per danni morali più tremila per le spese. In sostanza, ritiene che “le autorità abbiano mancato al loro obbligo di assicurare al richiedente il trattamento medico adatto alla sua patologia”; considera quindi che “la prova che egli ha subito a causa di ciò ha superato il livello inevitabile di sofferenza inerente alla detenzione e ha costituito un trattamento inumano o degradante”, così come inteso dall’articolo 3 della Convenzione. Condanne frequenti; se si esaminano le sentenze emesse dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, la maggior parte di condanne riguarda inadempienze gravi consumate dal nostro paese; e se queste sentenze e condanne non sono molte di più, ciò probabilmente lo si deve al fatto che tanti non sanno che esiste questa possibilità di rivalersi quando un nostro diritto viene calpestato. Ma è da credere che se accadesse qualcosa di simile a quello che si vede nei telefilm e film americani, quando all’atto dell’arresto si viene avvertiti che quello che si dirà potrà essere utilizzato e si ricorda il diritto di tacere, e cioè ogni detenuto venisse informato dei suoi diritti, si verrebbe letteralmente travolti da ricorsi, sentenze, condanne di risarcimento. Lo ricorda Rita Bernardini: “Potrei elencare altri casi di detenuti che se presentassero ricorso alla Corte di Strasburgo otterrebbero un risarcimento per mancanza di cure. A Rebibbia un uomo ha le arterie femorali occluse, doveva essere operato un anno fa. Da quando è entrato in carcere è dimagrito di 35 chili, ha le gambe nere e rischia di morire da un momento all’altro perché non è curato a dovere. Un detenuto di Vicenza invece, ha gravi patologie all’orecchio. Deve sottoporsi continuamente all’asportazione di polipi che si formano. Non ha i denti e ha i canali aperti. Non può mangiare se non pane e acqua. Inoltre ha problemi all’anca. Addirittura la madre non riesce ad avere informazioni sul suo stato di salute, al punto che l’ultima volta ha dovuto chiamare i carabinieri per avere notizie del figlio. Questi sono solo gli ultimi due di migliaia di casi del genere. L’amministrazione penitenziaria scarica la responsabilità all’ASL che ora gestisce la sanità all’interno delle carceri e si finisce che i detenuti, oltre a essere privati della libertà vedono venir meno anche il diritto di ricevere cure…”. Che la situazione sia giunta a livelli ben oltre il livello di guardia lo documentano “piccole” notizie che passano inosservate. Un giorno è il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati a raccomandare i suoi sostituti di “far un uso parsimonioso della custodia cautelare”; un altro è la corrente progressista dei magistrati, Magistratura Democratica a ipotizzare “un possibile rinvio dell’esecuzione della pena detentiva quando le condizioni non garantiscono la dignità dei condannati”. Mentre l’ex ministro della Giustizia e presidente emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick suggerisce il carcere “solo per reati gravi e soggetti pericolosi. Oggi il carcere è una discarica sociale, la cui popolazione è composta per il 30 per cento da tossicodipendenti e un altro 30 per cento da extracomunitari. Tutto fa, tranne che favorire il recupero, il reinserimento, la riabilitazione”. Un esame dei programmi dei maggiori partiti e coalizioni che chiedono agli elettori fiducia e voto per poter governare, al riguardo fa ben poco sperare. Le questioni relative al carcere e alla giustizia sono relegate in poche righe, generiche dichiarazioni d’intenti. Ma sono questioni che Pierluigi Bersani, Silvio Berlusconi, Mario Monti, Roberto Maroni, Antonio Igroia, Beppe Grillo, Nichi Vendola, potranno continuare a eludere e ignorare; come finora hanno fatto. Giustizia: Severino; ho tracciato solco riforma per le carceri, prossimo governo prosegua Asca, 1 febbraio 2013 “Ho cercato di tracciare un solco facendo le cose più urgenti, a partire dall’emergenza carceraria che dura da anni. Spero che nella la prossima legislatura questo progetto possa essere ripreso”. Lo afferma il ministro della Giustizia, Paola Severino, intervenendo al congresso di magistratura democratica. Il Guardasigilli ribadisce che una delle strade per risolvere la drammatica situazione delle carceri in Italia è ribaltare il rapporto fra coloro che sono detenuti e quanti invece usufruiscono di misure alternative. “In Italia - spiega - il 75% dei detenuti è soggetto a misure carcerarie. In altri paesi invece il 75% dei detenuti è soggetto a misure alternative. Questa è la strada da seguire”. Il ministro della Giustizia ribadisce poi quelli che sono i “tre canali da riattivare per una deflazione della popolazione degli Istituti di pena: intervenire sull’edilizia, seguire la strada delle pene alternative alla detenzione, valorizzare il lavoro carcerario”. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto Severino ripete che “se si lavora il margine di recidiva si abbatte al 2,8%. Questo indica che l’impegno lavorativo del detenuto è la grande soluzione per una vera e stabile deflazione carceraria”. Giustizia: Sabelli (Anm); il sovraffollamento è una vergogna alla quale porre rimedio Agi, 1 febbraio 2013 Al centro del dibattito sulla giustizia, durante il Congresso di Magistratura democratica, è tornato il sovraffollamento carcerario. A parlarne anche il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati (Anm), Rodolfo Sabelli, che, nel suo intervento, ha dichiarato di considerare la ristrettezza di spazi e l’elevato numero di detenuti nei penitenziari italiani “una vergogna alla quale bisogna porre rimedio in fretta”. Sabelli ha chiesto una soluzione del problema immediata che “coinvolge la questione della depenalizzazione, delle misure alternative al carcere”. Il Presidente dell’Anm ha richiamato all’attenzione la classe politica sottolineando che la risoluzione del disagio nelle carceri può trasformarsi in un’occasione “per mettere mano al sistema sanzionatorio, al sistema dei reati” e invocando “un’inversione di tendenza rispetto a leggi sbagliate”. Presente al Congresso di Magistratura Democratica anche il ministro della Giustizia Paola Severino che ha insistito, come soluzione, sulle misure alternative. “Spero che il disegno di legge che il Parlamento non ha approvato in via definitiva possa essere ripreso nella prossima legislatura, magari in forma più ampia - ha dichiarato Severino - In Italia nel 75% dei casi viene applicato il carcere, mentre negli altri Paesi europei, nella stessa percentuale di casi, si dispongono misure alternative. La magistratura non può colmare questo gap, lo deve fare anche la legge”. Giustizia: Buttiglione (Udc); no ad amnistie, agire su carcerazione preventiva e recidiva Adnkronos, 1 febbraio 2013 “Il problema delle carceri è reale. Ma non si risolve facendo uscire i delinquenti. Bisogna incidere sulla carcerazione preventiva e sulla recidiva. È possibile”. Lo ha affermato questa mattina a Roma il presidente dell’Udc Rocco Buttiglione alla presentazione dei candidati del partito. “Metà dei detenuti - ha spiegato - si trovano in prigione per la carcerazione preventiva, e metà di loro sarà assolto, vale a dire un quarto della popolazione carceraria. Bisogna trovare il modo di sgonfiare la carcerazione preventiva. Altrettanto importante il tema della recidiva. Abbiamo tassi di recidiva altissimi, ma essi si possono abbassare. Con il terzo settore - rimarca il presidente Udc - sono stati fatti molti progetti per formare i detenuti, inserirli nel mondo del lavoro, seguirli e sostenerli socialmente. In quei casi la recidiva si è drasticamente abbassata”. “Bisogna passare - avverte Buttiglione - dagli esperimenti locali ad una iniziativa organica nazionale, con i movimenti e il volontariato ma coinvolgendo anche l’associazionismo economico e sociale. Noi - conclude - abbiamo già appoggiato un grande progetto in questo senso durante questa legislatura, ma non è andato a compimento: lo riprenderemo nella prossima”. Giustizia: Sappe; la mancata attivazione della Banca Dati Dna è simbolo fallimento Dap Asca, 1 febbraio 2013 “Apprezzo lo sforzo del “comunicatore del Dap”, il Vice Capo Dipartimento Luigi Pagano, che si è premurato di scrivere un comunicato per rassicurare tutti sulla funzionalità dell’attivazione della Banda dati Dna - che dovrebbe esistere già da 3 anni, da quando cioè il Parlamento l’ha istituita nel giugno 2009 in attuazione di un trattato europeo addirittura del 2005 - ma la realtà che peraltro ci conferma lo stesso Pagano è che i concorsi per i ruoli tecnici della Polizia Penitenziaria non sono stati fatti (e c’è persino chi vorrebbe escludere i poliziotti per favorire gli impiegati civili dell’Amministrazione...), la banca dati non è attiva e il Dap, per sua stessa ammissione, si è rivolto a Polizia di Stato e Carabinieri. Questa è la verità: il resto è filosofia, pari a quella (autogestione dei detenuti e vigilanza dinamica) che si vuole propinare per risolvere il sovraffollamento carcerario. L’assenza della banca dati nazionale fa pagare all’Italia un altro pesante (seppure meno conosciuto) spread dall’ Europa, stavolta sul tema della sicurezza e in scomoda compagnia: a paragone dei 27 Paesi dell’Unione europea, infatti, soltanto Italia, Grecia, Cipro, Malta e Irlanda non ce l’hanno ancora e dal 2014 rischiano di essere completamente tagliati fuori dalla cooperazione internazionale europea”. Lo dichiara Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri, commentando il comunicato stampa del Dap sul progetto Banca dati del Dna. Sardegna: carceri di Macomer e Iglesias verso la chiusura, protestano Sindacati di Polpen di Giuseppe Tola La Nuova Sardegna, 1 febbraio 2013 Con la revisione dei circuiti penitenziari, il carcere di Macomer sarà dismesso. La decisione è del ministero della Giustizia e del Dipartimento dell’amministrazione carceraria. Con quello di Macomer chiuderà anche il carcere di Iglesias. La decisione è del 29 gennaio, ma i sindacati ne hanno avuto notizia solo ieri. L’8 febbraio è previsto un incontro a Roma al Dipartimento e in quell’occasione si avranno maggiori dettagli sulle date e sulle modalità della chiusura. Che il ministero intendeva chiudere il carcere di Macomer lo aveva annunciato, nel mese di ottobre, il deputato Mauro Pili. Il parlamentare aveva spiegato che il provvedimento del ministro della Giustizia, Paola Severino, era dovuto a carenza di personale. I motivi, invece, sembrano andare oltre i problemi di organico e si parla di tagli legati a esigenze di risparmio. “Mi era giunta notizia della decisione di chiudere il carcere già da mercoledì - dice il sindaco di Macomer, Riccardo Uda, - è evidente che si tratta di tagli legati ai risparmi di spesa. Debbo però constatare amaramente che quando si risparmia tagliando le carceri e, su altri fronti, si trovano tre miliardi e mezzo per una banca, si capisce che in Italia ci sono aree forti e aree deboli e noi siamo una zona debole”. Preoccupati anche i sindacati, che hanno chiesto un incontro urgente al Dipartimento prima dell’8 febbraio, giorno in cui a Roma si decideranno modalità e tempi di chiusura delle strutture di Macomer e Iglesias. “Siamo contrari alla chiusura del carcere di Macomer - dice Libero Russo, segretario provinciale dell’Ugl polizia penitenziaria di Nuoro, - ma poniamo anche l’esigenza di inviare in Sardegna il giusto numero di agenti per gestire le strutture. Il carcere di Macomer è in buone condizioni e funziona bene. Per farlo funzionare al meglio basta adeguare il personale. Mentre si spende per aprire nuovi padiglioni in altre carceri, si chiudono strutture in buona salute come quella di Macomer. Noi siamo contrari alle chiusure. E in questo caso non è stata contrattata con i sindacati, ma è stata decisa dal Dipartimento”. Quello di Macomer è un carcere sovraffollato. Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” aveva denunciato nei giorni scorsi che, con 46 posti regolamentari e 81 detenuti, la casa circondariale sfiorava il 100% di sovraffollamento. Macomer e Iglesias verso chiusura, no della Cisl (Ansa) Nonostante le recenti rassicurazioni del direttore del carcere, secondo un documento diffuso dal Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, l’istituto penitenziario di Macomer è da dismettere. Assieme alla struttura del Marghine, uno dei più recenti come data di costruzione, secondo il Ministero della Giustizia va chiuso, entro il 2013, anche il carcere di Iglesias. Sono notizie che arrivano ad aumentare il senso di disagio delle comunità del nuorese, già colpite dai tagli e che questa mattina in una assemblea svolta in Tribunale hanno annunciato una mobilitazione popolare anche per protestare contro il ventilato declassamento degli Uffici giudiziari barbaricini. Una richiesta di chiarimenti al Provveditore regionale Gianfranco De Gesu è stata avanzata dalla Cisl che si dice contraria ad ogni tipo di dismissione. Pisa: l’ex direttore del carcere interroga i candidati… se eletti, cosa farete per i detenuti? Il Tirreno, 1 febbraio 2013 “Invito i politici di oggi, impegnati in campagna elettorale, a dirci cosa pensano del sovraffollamento delle carceri e soprattutto a dirci come intendono affrontare il problema”. A porre il quesito è Vittorio Cerri, ex direttore del carcere di Pisa: “La recente notoria condanna della Corte europea dei diritti umani di Strasburgo inferta al nostro Paese per il trattamento inumano e degradante dovuto al sovraffollamento carcerario, riconoscendo ai sette ricorsi per altrettanti detenuti ristretti a Busto Arsizio e Piacenza, il buon diritto di ottenere 100.000 euro di risarcimento cadauno, mi fa pensare che forse potrebbe essere opportuno che io, da tecnico, da ex direttore del carcere Don Bosco, facessi chiarezza della vera portata del problema ai miei concittadini. La Corte, oltre a questa condanna, ha dato anche un anno di tempo per rimuovere le cause del sovraffollamento penitenziario. Ciò significa che se tra un anno la situazione non fosse cambiata, l’Italia potrebbe essere condannata ad altri risarcimenti di pari entità nei 550 ricorsi che oggi pendono presso tale organo di giustizia. È facile, però, prevedere con ragionevole certezza che altri enti di tutela dei diritti dei detenuti presenteranno ancora altri ricorsi: non voglio mettere paura a nessuno, ma i detenuti oggi sono circa 63.000!”. Secondo Cerri, “le cause del grave aumento del numero dei detenuti negli ultimi dieci anni si possono riconoscere nella politica securitaria del nostro paese attuata con le relative leggi speciali: la legge Cirielli sulla recidiva, la Giovanardi-Fini sulla tossicodipendenza e la Bossi-Fini sull’immigrazione. Leggi che hanno fatto entrare in carcere un numero altissimo di detenuti e hanno prodotto un effetto devastante a livello di ricettività degli istituti penitenziari. Bisogna considerare anche che il cosiddetto piano governativo per la costruzione di nuove carceri, stando alle notizie fornite da “Antigone” (ente italiano principe nella tutela dei diritti dei detenuti), non ha finora prodotto la posa di un solo mattone di nuove carceri e tiene fermi 450 milioni di euro e che, al di là dei tempi lunghi di costruzione di nuove strutture, in Italia mantenere in carcere un detenuto costa ben 35.000 euro l’anno”. Salerno: l’appello dei Radicali perché sia garantito il diritto di voto ai detenuti La Città di Salerno, 1 febbraio 2013 “Libertà, amnistia e giustizia”. È diventato ormai lo slogan dei Radicali Italiani ed è, in sostanza, anche il programma che il partito guidato dalla Bonino e Pannella, intendono portare avanti in questa campagna elettorale. Ieri mattina, al Punto Einaudi di Salerno, sono state presentate ufficialmente le candidature locali alla Camera nel collegio Campania 2. Dietro Pannella c’è l’avvocato salernitano, Filomena Gallo, attivista dei diritti per la donna, tra le promotrici del referendum sulla fecondazione assistita. “Siamo in campo per portare avanti le nostre battaglie di sempre - ha spiegato - per far rispettare i diritti civili e per portare avanti i temi legati alla giustizia”. Con lei, in lista, ci sono anche altri avvocati: si tratta di Silverio Sica (posizionato al quarto posto dietro la parlamentare uscente Rita Bernardini) e Michele Capano, al sesto posto. Settimo, invece, il responsabile salernitano del partito, Donato Salzano. Proprio Salzano, ieri mattina, in concomitanza con la conferenza stampa, ha annunciato di aver inviato una lettera ai direttori delle carceri della provincia di Salerno e ai rispettivi sindaci, per chiedere che venga concesso il diritto al voto per i carcerati, come sancito anche da una recente risoluzione europea. Inevitabile un commento sulla scelta del partito, nel Lazio, di appoggiare la candidatura alla Regione di Francesco Storace, leader nazionale de “La Destra”. “Storace - ha spiegato la Gallo - ha sposato alcuni punti del nostro programma come la restituzione delle indennità. Un discorso che non è contenuto nel programma di Zingaretti”. Napoli: Camera Penale; le carceri sono inumane, unica soluzione praticabile è amnistia www.justicetv.it, 1 febbraio 2013 Con una recente sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo l’Italia è stata condannata al risarcimento dei danni nei confronti di alcuni detenuti ed è stata invitata a risolvere i problemi legati al sovraffollamento dei penitenziari entro l’anno. Napoli e la Campania non fanno eccezione al problema carceri ed è per questo che l’associazione “Il Carcere Possibile”, Onlus della Camera Penale di Napoli, ha riunito esperti di diritto per commentare la sentenza e cercare possibili soluzioni come spiega Riccardo Polidoro, Presidente della Onlus “Il Carcere Possibile”: “La sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo dell’otto gennaio 2013 non è stata un fulmine a ciel sereno sicuramente. In Italia c’è uno stato d’emergenza nelle carceri che dura da gennaio 2010. Più volte il Presidente della Repubblica è intervenuto per invitare il Parlamento a legiferare ed attuare le riforme per sconfiggere l’emergenza carceri e alcuni giorni fa c’è stata addirittura un’altra sentenza della Corte Europea per quanto riguarda la casa di reclusione di Foggia. Quindi l’Italia ha avuto un’ulteriore condanna. Riteniamo che sia importante intervenire subito e speriamo che il prossimo parlamento legiferi immediatamente”. Durante il convegno si è parlato delle possibili misure alternative alla detenzione come spiega Domenico Ciruzzi, Presidente della Camera Penale di Napoli: “Le misure sono tantissime, innanzitutto bisogna iniziare con l’abbandonare una visione carcerocentrica del sistema penale. Il carcere deve essere estrema razio quindi proporzionalità ed adeguatezza nel imporre le misure. Esistono misure alternative i cui risultati sul piano anche statistico sono assolutamente positivi, poi, senz’altro, un’amnistia data la situazione esplosiva in cui versano le carceri, perche non è possibile un’altra soluzione che non l’amnistia nell’immediato, poi si dovrà ragionare anche su altre soluzioni”. Padova: Camera Penale; al Circondariale anche dieci detenuti in celle di 21 metri quadrati di Carlo Bellotto Il Mattino di Padova, 1 febbraio 2013 Dieci detenuti in 21 metri quadrati (9 dormono in letti a castello, il letto per il decimo compare alla sera e così il pavimento non è più visibile): la legge prevede che ogni carcerato abbia a disposizione 9 metri quadrati. È allarmante il dato di sovraffollamento registrato ieri dalla visita degli avvocati della Camera Penale alla casa circondariale Due Palazzi. “Abbiamo cercato le cose spiacevoli e purtroppo ce ne sono molte” hanno assicurato Annamaria Alborghetti, presidente della Camera, Alessandro De Federicis dell’Osservatorio nazionale sulle Carceri, Manuela Deorsola e Laura Capuzzo. La delegazione ha visitato anche la casa di Reclusione. Pier Luigi Bersani l’altro giorno per la visita era arrivato alla Casa Circondariale: la sua scorta aveva sbagliato. “Era meglio se visitava anche quella oltre alla Casa di Reclusione”, ha detto ieri la delegazione della Camera Penale, visto che sono lì le condizioni peggiori. “Tutte le stanze hanno la televisione a colori, ma il sovraffollamento è da paura” ha aggiunto De Federicis “Questi spazi non ci sono nemmeno per gli animali negli zoo. Così non si recuperano le persone, ma si trasformano in bestie feroci”. “Il circondariale è stato ristrutturato nel 2007 è quindi è a norma” aggiunge Alborghetti “ma nel giro di poco tempo si è deteriorato tutto. Se un wc, una doccia sono usati ogni giorno da 10 persone si usura, si rompe qualcosa, il water s’intasa e mancano i soldi per le riparazioni. Il muro di cinta del carcere cade a pezzi, non vengono più usate le guardiole. Se uno fugge, quasi ci riesce. Se mancano i soldi per le riparazioni come si può pretendere di costruire nuovi penitenziari? Inoltre ci sono poche guardie. Di notte una per braccio, come si possono accorgere di cosa capita all’interno di una cella? Abbiamo un tasso troppo alto di custodia cautelare, il doppio rispetto all’Europa, servono più misure alternative”. Solo 17 detenuti lavorano all’esterno Un dato che non trova riscontro negli ultimi anni: solo 17 detenuti del Due Palazzi, lavorano all’esterno durante il giorno per far rientro dietro le sbarre la sera. Pochi. Pochissimi. Anni fa erano molti di più. Il governo Monti ha tagliato gli sgravi per le assunzioni di detenuti e ora si sta discutendo una proposta del ministro Severino di far tornare, a livello nazionale, un plafond di 16 milioni. Ma per ora è solo un’ipotesi. “Se un condannato finisce la pena mentre lavora” assicura la delegazione delle Camere penali, cala di un terzo la possibilità di recidive, rispetto a chi la finisce in carcere, senza lavorare all’esterno. Il volontariato non manca alla Casa di Reclusione, sono molte le cooperative attive (impiegano pochi detenuti rispetto al totale), mentre alla Circondariale la situazione è molto più delicata. In pochi vogliono impegnarsi laggiù, i problemi sono molti. I detenuti che devono scontare pene definitive (gli ergastolani sono all’incirca una settantina) vivono in celle aperte, quindi possono socializzare all’interno del proprio braccio, oltre alle 4 ore d’aria che hanno diritto durante il giorno. Il sovraffollamento I numeri fanno rabbrividire anche chi in carcere non ci ha mai messo piede. La struttura penitenziaria del Due Palazzi di Padova si divide nella casa di reclusione dove, dato di ieri, sono ospitati 886 detenuti a fronte di una capienza regolare di 350 e di una capienza tollerabile di 700 e nella casa circondariale dove sono presenti altre 245 persone a fronte di una capienza regolamentare di 97 e una tollerabile che arriva a 136 (il dato contribuisce alla multe dell’Ue all’Italia per il sovraffollamento). Nella Casa di reclusione ci sono i detenuti che devono scontare condanne definitive (gli stranieri sono il 60%), al circondariale trova alloggio chi è in via di giudizio (stranieri oltre il 90%) e i detenuti cambiano rapidamente, quasi come capita in un hotel. Per gli stranieri è alto il problema di integrazione, molti non parlano l’italiano, sorgono difficoltà di abitudini, di religione. Il costo medio per detenuto è di 250 euro al giorno. Imperia: detenuto morto per overdose di farmaci e metadone, indagate quattro infermiere Ansa, 1 febbraio 2013 Sono indagate per falso, accusate di aver alterato i dati relativi alle scorte di metadone in dotazione al carcere. Le 4 infermiere, che negano ogni addebito, sono state interrogate dal pm Lorenzo Fornace. Ancora strascichi dall’inchiesta sulla morte del detenuto Fabio Parodi, 27enne savonese, ucciso nel 2012 da un’overdose, un mix di farmaci e metadone mentre era recluso a Imperia e per il quale il compagno di cella Gian Pietro Zerbino è stato condannato a 4 anni e al pagamento di 18 mila euro. Quattro infermiere dell’Asl, tra cui una caposala, sono indagate per falso, accusate di aver alterato i dati relativi alle scorte di metadone in dotazione al carcere. Le 4 infermiere, che negano ogni addebito, sono state interrogate dal pm Lorenzo Fornace. Udine: l’avvocato del detenuto 70enne morto in cella; questa sia occasione per riflessione Messaggero Veneto, 1 febbraio 2013 “Mi sono limitato a esporre le circostanze dell’accaduto, senza gettare discredito alcuno, men che meno sull’operato del magistrato di sorveglianza, come del resto si evince pacificamente dal tenore dell’articolo nel quale erano state riportate le mie considerazioni”. Così l’avvocato Roberto Michelutti, in risposta alle accuse di “false e offensive dichiarazioni” mossegli contro da Lionella Manazzone, il magistrato che, il 18 gennaio, aveva rigettato l’istanza di detenzione domiciliare presentata per Savino Finotto, il detenuto di 70 anni colto da un malore, il giorno successivo, e deceduto sei ore dopo in ospedale. “La morte di una persona anziana e visibilmente malata - scrive il difensore - dovrebbe costituire momento di riflessione per tutti gli operatori: per chiederci se è stato fatto tutto il possibile per evitare tale evento luttuoso e se sono stati usati tutti i rimedi legislativi. Quanto accaduto - il senso del suo messaggio - dovrebbe indurre a una collaborazione approfondita tra magistratura di sorveglianza, avvocatura e personale sanitario degli istituti di pena, sul tema dell’incompatibilità per motivi di salute del detenuto con il regime carcerario”. Reggio Calabria: Nucera (Pd); carcere Laureana non riapre? Governo chiarisca intenzioni www.newz.it, 1 febbraio 2013 “Appare sempre più incerto, tra proclami e annunci, puntualmente smentiti dai fatti, il destino del carcere “Luigi Daga” di Laureana di Borrello. Mi chiedo, a questo punto, quali siano le reali intenzioni del Governo sul suo futuro”. È quanto afferma il Segretario Questore del Consiglio regionale della Calabria Giovanni Nucera (Pd), dopo l’ennesima farsa riguardante la riapertura della casa di reclusione a custodia attenuata, chiusa tre mesi fa per consentire un urgente e temporaneo utilizzo del personale di vigilanza della Polizia Penitenziaria in altre strutture della Regione. “Una decisione improvvisa - ricorda Nucera - che provocò indignazione e rabbia, non solo tra gli operatori carcerari, improvvisamente sballottati in altre sedi, ma dell’intera società civile calabrese, per l’affronto dello Stato verso uno dei pochi istituti carcerari italiani all’avanguardia e di livello europeo per gli innovativi progetti di rieducazione e reinserimento che in quella struttura si stavano sperimentando, con notevoli ed importanti risultati”. “Una struttura - ricorda Nucera, riprendendo i contenuti di una sua mozione presentata ed approvata in Consiglio regionale - che ha permesso di sottrarre molti giovani detenuti alla sub cultura tipica del carcere e della criminalità organizzata, incidendo sul fenomeno della recidiva attraverso la prevenzione e l’inclusione sociale”. “Un risultato che non poteva essere sacrificato e mortificato sull’altare della convenienza economica e del Bilancio. Quella decisione - aggiunge Nucera - ha rappresentato una sconfitta, anzi una resa dello Stato in Calabria. Ma ci confortò la rassicurazione che nei primi mesi del 2013 quel carcere, e con esso quell’esperienza positiva, sarebbero tornate a vivere”. “Oggi, invece, dobbiamo registrare la beffa dei proclami e delle mancate inaugurazioni, peraltro annunciate dai più alti rappresentanti istituzionali dell’Amministrazione penitenziaria. Ecco perché mi chiedo quale sia il vero orientamento del Governo nell’affranta re l’emergenza carceri in Italia, a causa di sovraffollamento, con un indice che supera il 148%, e carenza di uomini e mezzi”. “Un Governo - conclude il Segretario Questore del Consiglio regionale - che smentisce se stesso, non solo sulla volontà di riaprire presto - ma quando? - quel penitenziario modello, ma anche sull’opportunità di rimettere in condizione l’istituto di operare a pieno regime per conseguire gli importanti risultati di un progetto e di un modello gestionale che rappresentavano un esempio d’eccellenza nel generale e sconfortante panorama del sistema carcerario italiano”. “La speranza è dunque affidata nel nuovo governo che si formerà all’indomani delle consultazioni politiche - conclude Nucera. Un governo nel quale si affermi una chiarezza di idee e progetti inerenti il sistema carcerario italiano, che tra indifferenza e rinvìi è al momento condannato al collasso”. Potenza: Sappe; ieri tentativo di evasione di un detenuto italiano dal carcere Ristretti Orizzonti, 1 febbraio 2013 A denunciarlo Saverio Brienza, segretario regionale lucano del Sappe: “Il detenuto italiano, Q.I.G. - di anni 40, molto noto per comportamenti assai turbolenti all’interno della Casa Circondariale del capoluogo, durante la fruizione dell’ora d’aria nei cortili della sezione detentiva, si è arrampicato dai discendenti pluviali con il tentativo di raggiungere il tetto, il quale attraverso un pericoloso percorso permette di arrivare all’area esterna del carcere. Non è riuscito a porre in essere la fuga perché il tentativo è stato immediatamente arrestato dal personale di Polizia Penitenziaria, il quale intervenendo ha ricondotto il Q.I.G. nella propria cella, denunciandolo all’Autorità Giudiziaria. Si tratta di un soggetto che durante tutta la detenzione presso il carcere di Potenza si è reso responsabile di altri reati, quali danneggiamenti, oltraggio a P.U. ed altro ancora e che ha già annunciato di provocare ulteriori azioni contro gli appartenenti alla Polizia Penitenziaria ed altri operatori dell’Area Trattamentale e Sanitaria. Per questo sollecitiamo urgenti provvedimenti da parte dell’Amministrazione Penitenziaria”. “È solamente grazie alla professionalità, alle capacità ed all’attenzione del Personale di Polizia Penitenziaria che ieri a Potenza è stata impedita una clamorosa evasione dal carcere”, aggiunge Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri. “Grazie all’intuito, all’attenzione ed allo scrupolo dei nostri Agenti, ciò è stato impedito per tempo, ma questo grave episodio conferma ancora una volta le gravi criticità del sistema carcere. Il Sappe rinnova l’invito alle Istituzioni di arrivare a definire, come sosteniamo da tempo, circuiti penitenziari differenziati in relazione alla gravità dei reati commessi. Quello che invece non serve è la delegittimazione del ruolo di sicurezza affidato alla Polizia Penitenziaria, come invece previsto da una nota del Capo Dap Tamburino che vorrebbe consegnare le carceri all’autogestione dei detenuti attraverso fantomatici patti di responsabilità. Una nota (che il Vice Capo Pagano cerca di presentare in giro come una positiva rivoluzione normale delle carceri, forse perché pensa che i penitenziari italiani siano tutti come quello di Milano Bollate, una struttura così tanto “a trattamento avanzato” che una ristretta rimase incinta durante la detenzione…) favoleggia di un regime penitenziario aperto, di sezioni detentive sostanzialmente autogestite da detenuti previa sottoscrizione di un patto di responsabilità favorendo un depotenziamento del ruolo di vigilanza della Polizia Penitenziaria mantenendo però in capo ai Baschi Azzurri il reato penale della colpa del custode (articolo 387 del Codice penale). Di fatto, da quando è operativa questa disposizione del Dap, abbiamo constatato un aumento di aggressioni, di suicidi, dei tentati suicidi sventati per fortuna sventati dai poliziotti penitenziari, delle evasioni e di quelle tentate, delle risse e degli atti di autolesionismo. Se gli agenti non possono controllare stabilmente le celle le responsabilità non possono essere le loro ma di chi quella nota circolare ha firmato, il Capo dell’Amministrazione Penitenziaria Giovanni Tamburino, e di chi la spaccia per rivoluzione normale delle carceri, il Vice Capo Luigi Pagano, che il Ministro Guardasigilli non può ulteriormente lasciare alla guida del Dap”. Rovigo l’On. Spinello in visita al carcere “verificherò i finanziamenti per il nuovo Istituto” Rovigo Oggi, 1 febbraio 2013 Il senatore Sandro Gino Spinello ha visitato il carcere di Rovigo per rendersi conto del suo stato. Il sopralluogo è andato molto bene e nel poco tempo di permanenza a Roma, Spinello promette che controllerà che al ministero di Grazia e giustizia i finanziamenti per il completamento del nuovo carcere ci siano tutti. “Partire dagli ultimi ho voluto segnare così il mio passaggio come parlamentare” Sandro Gino Spinello, senatore della Repubblica italiana insediatosi lo scorso 16 gennaio in sostituzione della defunta Franca Donaggio, non ha perso tempo ed ha visitato la casa circondariale della propria città per capire come sia la situazione delle carceri in Polesine. “Paradossalmente i problemi sono sempre quelli - spiega Spinello riferendosi ad una suo vecchio sopralluogo - attualmente si corre il rischio che non ci sia l’applicazione dell’articolo 24 sul diritto alla difesa. In carcere ci restano specialmente i detenuti che non hanno le risorse per potersi difendere”. Attualmente la casa circondariale di Rovigo ospita 103 detenuti, 81 maschi e 22 femmine. “Sono rimasto colpito soprattutto dalla sensibilità degli operatori che cercano di mettere a proprio agio sia i detenuti che i loro famigliari durante gli orari di visita - spiega Spinello - parlando con Ottavio Casarano direttore del carcere e con Salvatore Opipari capo della polizia penitenziaria, ho scoperto che si stanno attivando con la fondazione Cariparo per avere dei fondi per organizzare dei corsi per imbianchino”. Il settore femminile presenta maggiori criticità poiché c’è carenza di personale femminile, di 16 agenti ce ne sono 12 operative di cui alcune con oltre 50anni. In via Verdi si attende l’apertura del nuovo carcere. “Dopo il fallimento della ditta a cui il ministero di Grazia e giustizia aveva affidato i lavori già da domani mi informerò che i finanziamenti necessari per la sua ultimazione ci siano tutti - ed infine Spinello ultima la sua prima conferenza stampa da Senatore appellandosi ai candidati alle prossime elezioni politiche - il mio invito ai partiti e ai candidati è quello che cerchino di misurarsi con i problemi del nostro territorio”. Voghera (Pv): Uil; impossibile aprire nuovo padiglione detentivo senza aumentare agenti La Provincia Pavese, 1 febbraio 2013 “Aprire un nuovo padiglione alla casa circondariale di Voghera senza aumentare il personale non va bene, in quanto gli organici della polizia penitenziaria sono già carenti così”. Gianluigi Madonia, segretario regionale della Uil di categoria, non ha dubbi: “Il nuovo padiglione di fatto è già pronto, mancano ancora alcuni collaudi ma la struttura può essere operativa: ha la possibilità di ospitare circa 200 detenuti. Se pensiamo al fatto che Voghera è un istituto in cui sono ristretti detenuti ad elevato indice di vigilanza e che la pianta organica è assolutamente inadeguata anche solo per la situazione attuale, non possiamo esimerci dal manifestare la nostra contrarietà rispetto al progetto, almeno per come è stato illustrato. Chi ha deciso l’apertura del nuovo padiglione evidentemente lo sta facendo sull’onda di un’emergenza che non tiene conto della peculiarità dell’istituto”. Ancora Madonia: “Non siamo disposti a subire arretramenti rispetto ai diritti, alla sicurezza del personale ed alle condizioni di civiltà all’interno della struttura. A Voghera, rispetto a una pianta organica già inattuale, mancano 15 ispettori, 11 sovrintendenti e una ventina di agenti: si tratta di numeri che non contemplano l’apertura del nuovo padiglione”. Anche il segretario generale della Uil, Eugenio Sarno, sottolinea: “Sono decenni che la Uil chiede l’aggiornamento del decreto ministeriale sulle piante organiche della polizia penitenziaria, sono passati diversi governi ma mai nessuno ha dato seguito a questa necessità. Si chiede al personale di aprire i nuovi reparti senza prevedere nuovi inserimenti di personale e senza aumentare le disponibilità economiche. Negli istituti ad elevato indice di vigilanza, come Voghera, non si può pretendere di aprire un reparto a costo zero”. Torino: Ipm “Ferrante Aporti”, nelle celle dove i ragazzi vivono di nostalgia di Elisabetta Graziani La Stampa, 1 febbraio 2013 Al carcere “Ferrante Aporti” non è facile uscire né tanto meno entrare. Per visitare ai detenuti bisogna spogliarsi di tutto quanto permetta un contatto con l’esterno. Come succede ai ragazzi che arrivano qui dopo la condanna del tribunale. Via i telefoni cellulari, via la connessione internet, via qualsiasi oggetto “pericoloso”. Lasciato alle spalle il portoncino di ferro e superato il controllo al metal detector, si entra in una dimensione parallela: il mondo che qualche detenuto definisce “dei matti”. Qui sono rinchiuse “persone sole che vivono nei loro mondi di fantasia e di nostalgia”. La vita “normale” si lascia indietro, prima di ogni cancello attraversato e subito richiuso, prima di ogni gradino salito verso i piani delle celle. Nell’istituto penale di via Berruti e Ferrero dal 2010 vengono incarcerati soltanto i ragazzi (la sezione femminile è in Toscana). Nel 2012 ne sono passati circa 150, si fermano in media un mese, poi se ne vanno: verso le comunità, o verso la strada. Sono soprattutto stranieri: qualche anno fa la maggioranza erano gli arabi, ora ci sono soprattutto senegalesi. Oggi i detenuti sono 27, distribuiti in gruppi di due odi quattro nelle otto celle. Ogni tanto qualcuno finisce in quella di isolamento, dove ai tempi sono stati rinchiusi anche Erika e Omar, i due di Novi Ligure. Sotto i soffitti, nei corridoi, dietro ai portoncini detti “blindi” i carcerati trascorrono le ore di privacy: dalla notte alle sette e mezzo del mattino, quando squilla la sveglia, e tra mezzogiorno e l’una e mezzo, mentre gli agenti pranzano. Anche la musica si può ascoltare solo in orari prestabiliti e la pausa sigaretta è controllata. La libertà qui è soltanto quella di coscienza, e non è poco. Non può essere diversamente. L’istituto penitenziario è una grande casa con le inferriate, dentro cui devono convivere adolescenti di etnie diverse che hanno fallito altri percorsi. “Se serve il carcere per i minorenni? No, non serve”. Si avverte rammarico e altrettanta consapevolezza nella voce di Gabriella Picco, la direttrice. “Ma non ci sono alternative - dice. Noi cerchiamo di organizzare attività, di far studiare chi lo vuole e di insegnare un mestiere, ma è pur sempre una realtà brutta. Relegare in un luogo chiuso un adolescente problematico è quanto di meno educativo ci sia” Soluzioni? “La prevenzione - conclude Picco. Servono più segnalazioni da parte delle scuole e maggiori prese in carico da parte dei servizi sociali”. Una volta nelle celle, gli unici spiragli verso l’esterno sono una finestra con le sbarre e lo spioncino della porta blindata. Sono quelle le ore più pericolose, dove la solitudine attanaglia il cuore e la mente. È in quegli attimi che i ragazzi possono ferirsi, con una mattonella o una scheggia. Quando la disperazione annebbia la ragione, qualsiasi oggetto può trasformarsi in un’arma per farsi male e insieme per richiamare l’attenzione. L’ultimo episodio, martedì sera. “Si tratta di un caso particolare - spiega il sostituto commissario Rocco Traili, da 12 anni al Ferrante Aporti. Un ragazzo arabo, arrivato in Italia dopo la traversata del Mediterraneo, non è mai riuscito a mandare aiuti economici alla famiglia. Ha accumulato dentro una carica esplosiva”. Succede spesso di sera. Gli agenti lo sanno e cercano di intervenire al più presto, ma sono in tutto 43 distribuiti su più turni. Dovrebbero essercene almeno altri venti; novembre scorso i radicali hanno inviato una segnalazione in merito al ministero della Giustizia. Come se non bastasse, c’è un solo medico a disposizione per tutti i detenuti. E anche l’infermeria è sotto pressione. In un anno si sono avuti circa 50 episodi di ragazzi che hanno tentato di ferirsi. Nessun suicidio, per fortuna. “Per noi anche un piccolo gesto è sintomo di una criticità e ci mette in allarme - spiega il comandante -. Ci vuole un attimo perché si trasformi in qualcosa di più grave”. Per questo motivo si cerca di lasciarli soli il meno possibile. E qui parte il lato “buono” del carcere, fatto di ore di lezione al mattino e di laboratori al pomeriggio. Un mondo, dove i ragazzi possono assaggiare quella normalità che fuori hanno rifiutato o non hanno trovato. “Entro marzo aprirà la nuova sede - annuncia Antonio Pappalardo, dirigente del centro giustizia minorile - sedici stanze e uno spazio centrale per le attività”. E i muri scrostati e incolori saranno solo un ricordo opaco. Ferrara: Sappe; troppe carenze strutturali e igienico sanitarie, il carcere andrebbe chiuso Ansa, 1 febbraio 2013 Nel carcere di Ferrara sono detenute 369 persone, 95 delle quali sono tossicodipendenti. Gli agenti in servizio sono circa 180. “Si tratta di una struttura che andrebbe chiusa, a causa delle carenze strutturali e igienico sanitarie”, ha detto Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto del Sappe, sindacato autonomo polizia penitenziaria, dopo che una delegazione del sindacato ha visitato il carcere. È stata tenuta una conferenza stampa con il segretario provinciale Roberto Tronca e il delegato provinciale Fabio Renda. “Abbiamo constatato - riferisce Durante - con enorme stupore, che all’interno della cucina, dove si prepara da mangiare per i detenuti, ci sono carenze strutturali (andrebbe rifatto il tetto) ma, soprattutto, non funzionando l’aspiratore, la condensa dell’acqua rimane all’interno del locale. Il pavimento è completamente bagnato e scivoloso. Ci è stato riferito che qualcuno è già caduto, fortunatamente senza riportare ferite. Quando si entra in quel locale sembra di entrare in una nuvola di vapore acqueo. Ricordiamo che ci lavorano agenti della polizia penitenziaria e detenuti cuochi. Si tratta di un ambiente privo delle minime condizioni igienico sanitarie e, quindi, o si procede a ripristinarle immediatamente oppure bisogna chiuderlo; chiudere la cucina vuol dire, però, chiudere il carcere”. “Inoltre - aggiunge Durante - non ci sono le necessarie condizioni di sicurezza per ospitare i sei detenuti AS2 (terroristi) che il Dipartimento vuole inviare a Ferrara. Le garitte, dove staziona il personale di polizia penitenziaria impiegato nel servizio di vigilanza lungo il muro di cinta, non sono riscaldate e a Ferrara la temperatura, soprattutto di notte, scende al di sotto dello zero”. Caltanissetta: Osapp; carenze logistiche al minorile, pochi spazi riservati al personale La Sicilia, 1 febbraio 2013 Emergono carenze strutturali e logistiche dall’ispezione della delegazione del sindacato Osapp che ieri ha visitato l’Istituto Penale per Minorenni. Disagi, quelli riscontrati e riferiti al personale di Polizia penitenziaria, che sono stati racchiusi in un documento trasmesso da Vincenzo Mattina, coordinatore regionale del settore dell’Osapp, anche al capo dipartimento della giustizia minorile, Caterina Chinnici. L’esponente sindacale, durante la visita all’Ipm di via Turati, è stato affiancato da Dimitrio Bonsignore, vice segretario regionale dell’Osapp, e dal dirigente locale Vincenzo Lomonaco che sono stati accompagnati dalla direttrice del carcere minorile, Nuccia Micciché, e dal comandante di reparto facente funzione. Mattina parla di “un contesto lavorativo non alquanto sfavillante per il personale di Polizia penitenziaria che vi opera”, evidenziando che i locali adibiti ai posti di servizio - portineria e sezione - non sono abbastanza ampi. “Per quanto attiene il secondo piano dove sono ubicate le aule scolastiche frequentate dai minori detenuti - osserva ancora l’Osapp - preme evidenziare l’assenza di un conforme posto di servizio per l’agente preposto alla vigilanza, il quale è costretto a sorvegliare nell’antistante corridoio. Dicasi lo stesso per quanto concerne i “passaggi detenuti” sprovvisti di postazione di servizio nonché di allarme a circuito chiuso. Allarme inesistente, anche nelle sezioni detentive così come previsto, tant’è che in caso di pericolo imminente il personale è costretto ad utilizzare il telefono interno o il sistema ricetrasmittente, sperando che tali congegni funzionino correttamente o si possa reperire qualcuno nell’immediatezza. Fatto grave e spiacevole meritevole di approfondimento - aggiunge Mattina nel documento - aver constatato che l’attuale facente funzione di comandante di reparto parrebbe scrutare la posizione logistica di movimento dei dipendenti e no, con opportuno monitor nella propria stanza. Il tutto per mezzo di telecamere collocate all’ingresso della portineria dov’è ubicato l’orologio timbra-badge e i distributori di caffè. Per motivi opportuni di sicurezza sarebbe stato più sensato puntare l’obiettivo esclusivamente all’ingresso colloqui familiari. Si rammenta che l’uso di telecamere a circuito chiuso, anche se necessarie, sono sempre illecite e vietate quando risultino finalizzate a controllare anche a distanza l’attività dei dipendenti”. Teramo: chiusa inchiesta su pestaggio di detenuto, nessun reato dalla polizia penitenziaria Il Centro, 1 febbraio 2013 Il giudice chiude per sempre il caso Castrogno. L’inchiesta sul pestaggio di un recluso e sull’audio shock con la frase “un detenuto non si massacra in sezione, si massacra sotto” è stata archiviata dal gip Giovanni de Renis che ha respinto la seconda opposizione presentata da Mario Lombardi, il detenuto che accusava di essere stato pestato in carcere. Nell’inchiesta erano indagati l’ex comandante Giuseppe Luzi e quattro agenti di polizia: Donatello Pilotti, Giampiero Cordoni, Roberto Cerquitelli e Augusto Viva (difesi dagli avvocati Nicola De Cesare, Raffaella Orlando, Filomena Gramenzi, Renzo di Sabatino, Carla Vicini, Antonio Valentlni). Quella arrivata a de Hensis era la seconda richiesta di archiviazione. La prima era stata respinta dal gip Marina Tommolini (ora in servizio alla Corte d’appello di Ancona) che aveva disposto ulteriori indagini al pm Irene Scordamaglia. Indagini fatte scrupolosamente dal magistrato che al termine di nuove audizioni e ulteriori verifiche ha presentato una nuova richiesta di archiviazione. Nella richiesta (firmata anche dal procuratore Gabriele Ferretti) i magistrati sottolineano e rimarcano più volte l’impossibilità di poter dimostrare i fatti anche per l’omertà registrata proprio nell’ambiente carcerario. La stessa cosa ave va sottolineato il pm David Mancini (all’epoca dei fatti in servizio a Teramo e ora all’Aquila) nella prima richiesta d’archiviazione. Lombardi, 46 anni, (assistito dall’avvocato Filippo Torretta) ha sempre sostenuto di essere stato picchiato da alcuni agenti di polizia penitenziaria di Castrogno come atto di ritorsione per una sua resistenza nei confronti di un adente. Va detto che Lombardi, finito a processo con l’accusa di lesioni e resistenza ad un agente di polizia penitenziaria, è stato assolto perchè il fiuto non sussiste. L’uomo, che nel frattempo ha finito di scontare la pena ed è uscito dal carcere, ha sempre sostenuto di essere stato picchiato dagli agenti come atto di ritorsione proprio per la sua resistenza nei confronti di un poliziotto. Il caso Castrogno era finito alla ribalta della cronaca nazionale. L’ex comandante, subito dopo l’esplosione del caso, aveva ammesso che era sua la voce che si sentiva nel colloquio shock registrato sul ed. E lui che diceva: “n detenuto non si massacra in sezione, si massacra sotto. Abbiamo rischiato una rivolta perchè il negro ha visto tutto”. Quel testimone era Uzoma Emeka, detenuto nigeriano morto in carcere un mese dopo i fatti, stroncato da un tumore al cervello non diagnosticato. E questa mattina l’avvocato Vincenzo di Nanna, referente per l’Abruzzo della lista Amnistia, Giustizia e Libertà parlerà di un altro episodio di tentato suicidio nel carcere teramano di Castrogno. Lo farà nel corso di una conferenza stampa in cui illustrerà i provvedimenti che sono stati adottati dall’autorità giudiziaria. Pescara: le associazioni di volontariato tendono la mano ai detenuti Il Centro, 1 febbraio 2013 Protocollo d’intesa tra la Casa Circondariale e il Csv per incentivare le attività di supporto. Corsi di yoga e di ginnastica in carcere. Un aiuto nello studio e nella compilazione della tesi di laurea Colloqui di sostegno psicologico e accompagnamento all’esterno durante i permessi o le attività svolte in regime di semilibertà. Sono decine le attività che portano avanti i volontari impegnati quotidianamente all’interno della casa circondariale di San Donato, che in tempi di tagli ai finanziamenti pubblici da parte delle pubbliche amministrazioni diventano un appoggio indispensabile per favorire quel reinserimento sociale e lavorativo e quel modello di giustizia ripartiva che da anni va inseguendo Franco Pettinelli, il direttore del penitenziario pescarese. Per incentivare la presenza di personale qualificato attinto dalle organizzazioni no-profit del territorio, è stato firmato ieri mattina un protocollo d’intesa con il Centro servizi per il volontariato (Csv) con l’impegno a intraprendere un cammino condiviso con tutte le associazioni presenti in città. All’interno del carcere, per i prossimi tre anni, saranno promossi incontri di formazione e aggiornamento tra operatori penitenziari e volontari delle diverse associazioni del territorio, progetti e collaborazioni per incrementare le Opportunità di reinserimento e la partecipazione attiva dei detenuti nelle organizzazioni no-profit, iniziative di educazione alla legalità e gestione degli sportelli informativi integrati (Spin). “Con l’apertura della nuova sezione penale a San Donato”, sottolinea Pettinelli, “ci siamo trovati a raddoppiare il numero dei detenuti da 200 a 400. Di questi 13 si trovano in regime di semilibertà e svolgono attività all’esterno della struttura Ci troviamo in un momento segnato da carenze di risorse e di organico e per questo abbiamo bisogno di volontari qualificati, che siano in grado di gestire un’utenza problematica come la nostra, sia all’interno che all’esterno”. Per quanto riguarda il mondo della scuola, invece, si punta a sviluppare “un rapporto di collaborazione permanente in materia di educazione alla convivenza civile e promozione della solidarietà”. Compito del Csv sarà quello di incentivare la diffusione capillare del volontariato. Bologna: accordo fra Garante regionale detenuti e Dipartimento scienze giuridiche Ristretti Orizzonti, 1 febbraio 2013 Il Garante regionale per le persone sottoposte a misure restrittive o limitative della libertà personale e il Dipartimento di Scienze giuridiche dell’Università di Bologna hanno sottoscritto un accordo di collaborazione che verrà presentato in una conferenza stampa lunedì 4 febbraio alle 12.30 a Bologna, alla Scuola di giurisprudenza (Sala delle Armi, via Zamboni 22). All’incontro con i giornalisti saranno presenti: Desi Bruno, Garante regionale delle persone private della libertà personale; Giovanni Lucchetti, direttore Dipartimento Scienze giuridiche Università di Bologna; Massimo Pavarini, professore ordinario Diritto penale Università di Bologna. La conferenza stampa precede il convegno su “Emergenza carceri: Pacchetto Severino e prospettive di riforma” che prenderà il via alle ore 14 sempre alla Sala delle Armi della Scuola di Giurisprudenza. A introdurre i lavori: Nicoletta Sarti, presidente della Scuola di Giurisprudenza dell’Ateneo di Bologna, il professor Lucchetti e la presidente dell’Assemblea legislativa regionale, Palma Costi. Televisione: “Tre metri quadrati di inferno”, domani a Tg2 Dossier dramma delle carceri Italpress, 1 febbraio 2013 Nuovo appuntamento con “Tg2 Dossier”, in onda domani alle 23.30 su Rai2. Titolo della puntata “Tre metri quadrati di inferno”. Non c’è un orologio che funzioni nelle carceri italiane. Il meccanismo centralizzato che li controlla si è rotto e non ci sono i soldi per aggiustarlo. Ma a funzionare male è tutto il sistema carcerario italiano, un’istituzione che agisce sulla base di riferimenti legislativi invecchiati. Il codice penale è del 1930, la riforma penitenziaria del 1975, la legge sulle misure alternative del 1986. Il tasso di sovraffollamento negli istituti di pena è del 140 per cento con punte che superano il 200 per cento. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha imposto all’Italia di porre rimedio a questa situazione entro un anno. I giudici di Strasburgo - accogliendo il ricorso di sette detenuti rinchiusi in celle minuscole, senza acqua calda e poco illuminate - parlano nella loro sentenza di trattamento inumano e degradante e stabiliscono un risarcimento di centomila euro per danni morali. Dodici mesi di tempo per riportare la condizione di vita nelle carceri italiane a livelli di civiltà, mentre altri 480 ricorsi di detenuti sono all’esame dell’Europa e altre migliaia in preparazione. Una “missione impossibile” che passa attraverso un riesame del rapporto tra pena e gravità del reato e un rilancio delle pene alternative. Immigrazione: la Garante Bruno; al Cie di Bologna grave situazione sanitaria, va chiuso Redattore Sociale, 1 febbraio 2013 Le condizioni del Cie di via Mattei, già denunciate da Desi Bruno, sono state confermate dalla visita ispettiva dell’Asl del 14 gennaio. Un terzo dei trattenuti chiede psicofarmaci per continuare terapie iniziate in carcere; 4 casi di sospetta scabbia. Grave situazione igienico-sanitaria, il Cie va chiuso. È quanto ha dichiarato la Garante regionale dei diritti dei detenuti, Desi Bruno, alla luce di quanto hanno riscontrato i funzionari della Asl di Bologna che il 14 gennaio hanno fatto una visita ispettiva nella struttura di via Mattei. Visita a lungo richiesta dalla garante che, da tempo, lamentava come l’Azienda sanitaria non avesse mai effettuato alcun controllo sulla struttura, come fa invece per il carcere. “L’ispezione dell’Asl conferma quanto già riscontrato in occasione delle mie precedenti visite - ha detto Bruno - Le condizioni igienico-strutturali sono inaccettabili e le persone trattenute vivono in una situazione degradante, con rischio per la loro salute e per quella degli operatori presenti”. Gli ispettori hanno segnalato, inoltre, “la richiesta di psicofarmaci da parte di oltre un terzo dei trattenuti” per proseguire terapie che avevano iniziato nei periodi di carcerazione in penitenziario, e “4 casi di sospetta scabbia”. Per questo, “è di fondamentale importanza la gestione corretta della biancheria personale e degli effetti letterecci”. Secondo Bruno, quindi, “di fronte alla mancanza di beni di prima necessità e di interventi strutturali di natura idraulica, muraria, elettrica e igienico-sanitaria, ritengo che la struttura sia inidonea tanto per i ristretti quanto per gli operatori e - continua - è questo il momento opportuno per chiudere definitivamente una struttura ampiamente sottoutilizzata da tempo”. In seguito alla visita ispettiva l’Asl ha avanzato precise richieste alla direzione del Centro di identificazione ed espulsione: la consegna regolare di indumenti, biancheria e prodotti per l’igiene per evitare un “rischio gravissimo di diffusione di patologie infettive”; la definizione di procedure per la corretta gestione dei nuovi ingressi; riunioni periodiche di coordinamento tra tutti i portatori di interesse; un registro di infortuni per un programma di prevenzione degli stessi e l’attivazione di attività ludico-ricreative degli ospiti, “al fine di garantire un clima sociale adeguato e ridurre la conflittualità”. Nella relazione l’Asl segnala, inoltre, che “la struttura necessita di significativi e urgenti interventi di manutenzione, dagli interventi sull’impianto elettrico per il ripristino del funzionamento dei corpi illuminanti e delle parti di impianto non più efficienti al rimettere in funzione le parti di raffrescamento disattivate in previsione dell’estate, passando per le porte nei bagni e nelle docce e i lavabi mancanti da rimontare”. A ciò si deve aggiungere poi “una pulizia straordinaria in tutto l’edificio”. Secondo l’Asl, non bisogna poi sottovalutare il tema della gestione degli incendi: di fronte a roghi “a volte deliberatamente provocati all’interno delle stanze dormitorio” (nella relazione si segnala che al momento della visita il personale “stava spegnendo un falò di posate di plastica e pane imbustato che era stato acceso dagli ospiti”), è necessario “individuare procedure atte a consentire di effettuare gli interventi in modo celere e sicuro”, come ad esempio “manichette con sistema a pioggia dai condotti di aereazione”, oltre a “ripristinare le funzionalità dell’impianto di rilevazione fumo”. Droghe: Sentenza della Cassazione; il consumo di gruppo di cannabis non è reato di Adriana Pollice Il Manifesto, 1 febbraio 2013 La sentenza della cassazione azzoppa la legge Fini-Giovanardi. L’autore della norma che criminalizza l’uso della cannabis incassa il colpo. Marino (Pd): la decisione dei giudici avrà conseguenze positive nelle carceri. Corleone, Forum droghe: ora bisogna depenalizzare la detenzione tout court. Il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti non è reato. Lo hanno sancito le sezioni unite penali della Cassazione, risolvendo un conflitto giurisprudenziale che andava avanti dall’introduzione della legge Fini-Giovanardi nel 2006. Da allora, infatti, si è diffusa un’interpretazione restrittiva rispetto al passato, orientata a punire anche l’utilizzo tra più persone. Ieri però si è sciolto il quesito sancendo che il consumo di gruppo di sostanze stupefacenti è penalmente irrilevante “nella duplice ipotesi di mandato all’acquisto o dell’acquisto comune”, confermando l’orientamento già espresso dalle sezioni unite penali nel 1997. Per le motivazioni si dovrà attendere almeno un mese. Il nuovo pronunciamento è stato innescato dal ricorso della parte civile contro una sentenza del gup di Avellino, che il 28 giugno 2011 aveva dichiarato il non luogo a procedere (“perché il fatto non sussiste”) nei confronti di un uomo, finito sotto inchiesta per spaccio e per il reato di ‘morte come conseguenza di altro delittò, a seguito del decesso di una persona che aveva acquistato e assunto con lui eroina. Maurizio Gasparri e Carlo Giovanardi non hanno fatto una piega, diffondendo una nota: “La sentenza dimostra ancora una volta quanto siano pretestuose e in malafede le polemiche della sinistra sulla legge Fini-Giovanardi. L’Italia è uno dei pochi paesi che ha depenalizzato l’uso personale delle sostanze mentre ritiene reato lo spaccio: spetta alla magistratura stabilire se nel caso esaminato del consumo di gruppo siamo nell’ambito dell’una o dell’altra fattispecie”. Giovanardi poi insiste: “Bisogna vedere che cosa succede in quei casi in cui un giovane acquista per altri quantità di droga. Ho qualche dubbio che possa essere lecito che uno fa il pieno e poi lo distribuisce e in quel caso si possa parlare di uso esclusivamente personale”. La decisione di ieri avrà conseguenze importanti sullo stato dei penitenziari della penisola. Infatti proprio questa legge, e le relative interpretazioni restrittive, hanno gonfiato le carceri fino a livelli insostenibili: “Abbiamo circa 68mila detenuti in Italia in questo momento e il 50% sono in carcere per reati legati alla droga - ha più volte sottolineato Il senatore Pd Ignazio Marino -. Il 70% di questo 50%, quindi circa 28mila persone, stanno lì per reati legati a droghe leggere. Se non ci fosse la Fini-Giovanardi avremmo la metà dei detenuti”. La proposta di Gianfranco Fini fu presentata nel 2003, ma vide la luce solo nel 2006 grazie a un colpo di mano del sottosegretario Carlo Giovanardi: il disegno fu trasformato in maxi emendamento e inserito nel decreto legge dedicato alle Olimpiadi invernali di Torino. Secondo molti già questo vizio iniziale implica la sua incostituzionalità. La sentenza di ieri scardina almeno uno degli aspetti della norma che ha consentito processi e condanne per molti giovani, sulla base di un’interpretazione letterale. Spiega Franco Corleone, segretario di Forum Droghe: “La norma prevede svariate ipotesi di reato, a partire dalla detenzione ma anche la cessione a titolo gratuito, oltre alla coltivazione per uso personale. Si è fatta chiarezza finalmente sul consumo di gruppo, che porta con sé anche la cessione di droga. Il problema è che la legge Fini-Giovanardi rimane criminogena, bisogna depenalizzare la detenzione tout court”. Gli ultimi governi hanno affrontato la materia affidandosi unicamente alla repressione. La confluenza del Fondo nazionale per le tossicodipendenze in quello indistinto per le politiche sociali, falcidiato poi dai tagli fino all’irrilevanza, ha prodotto l’abbandono delle politiche territoriali di prevenzione e inserimento lavorativo. Droghe: sulla buona strada di Carlo Renoldi Il Manifesto, 1 febbraio 2013 Con la sentenza di ieri le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno compiuto un importante passo in avanti nel percorso di emancipazione interpretativa dalle scelte più discutibili e regressive della c.d. Fini-Giovanardi. Nei primi mesi del 2006, infatti, con una scelta tecnicamente censurabile - su cui nei prossimi mesi dovrà pronunciarsi la Corte costituzionale - il legislatore di centrodestra aveva inserito, in un decreto legge sulle olimpiadi invernali, pesanti modifiche al testo unico sugli stupefacenti, tra le quali, appunto, quella relativa all’art. 75. Mentre in origine, infatti, era prevista l’applicazione di una sanzione amministrativa per colui il quale facesse “un uso personale” di sostanze stupefacenti, la Fini-Giovanardi aveva stabilito che la fruizione dello stupefacente dovesse essere “esclusivamente personale”. Una modifica testuale apparentemente innocua, che in realtà ha spesso dato luogo, nelle interpretazioni dei giudici, a pronunce di condanna nei casi sia di “mandato all’acquisto” (ovvero di incarico all’acquisto da parte di terzi consumatori) che di “acquisto comune” (ossia di partecipazione collettiva all’acquisto stesso). La scelta del legislatore, peraltro, si inseriva in un contesto di maggiore severità rispetto ad ogni attività comunque connessa alla circolazione di sostanze stupefacenti, evidenziato da un generale inasprimento delle pene e dalla criticatissima equiparazione tra i vari tipi di droghe. Un contesto caratterizzato, in definitiva, da un preoccupante e discutibile ampliamento delle maglie dell’intervento repressivo fino a lambire i comportamenti di mero consumo. Benché non si conoscano ancora i passaggi argomentativi della Suprema corte, le cui motivazioni saranno note tra un mese, è probabile che la soluzione accolta sia stata determinata da una lettura del fenomeno ispirata ad un criterio di ragionevolezza. È infatti contrastante con il più elementare buon senso escludere la rilevanza penale del consumo individuale di droga e, al contempo, sanzionare penalmente il consumo realizzato in un contesto collettivo. Entrambe le condotte considerate, quella di mandato all’acquisto e di acquisto comune, del resto, esprimono una sostanziale condivisione di tutti i partecipanti (esecutori dell’acquisto e destinatari dello stupefacente) ad un progetto comune, sicché la differenziazione del regime giuridico appare davvero irragionevole. Siamo dunque in presenza di un’importante pronuncia, che tuttavia non può certo nascondere la necessità di un intervento di profonda rivisitazione della nostra legislazione penale sulle droghe, su cui il prossimo parlamento dovrà pronunciarsi. Anche a voler prescindere, infatti, da opzioni di schietta impostazione anti proibizionistica, di difficile percorribilità nell’attuale contesto politico-culturale, sono certamente possibili ed anzi appaiono ormai indifferibili alcuni interventi mirati: da una sensibile riduzione generale delle pene all’introduzione di un reato autonomo per i fatti di più lieve entità; dalla previsione di un regime differenziato a seconda del tipo di stupefacente fino al rafforzamento delle misure alternative destinate ai consumatori, in specie con l’eliminazione dei divieti di concessione reiterata delle misure terapeutiche. Stati Uniti: morte di un innocente nel lager di Guantánamo di Patricia Lombroso Il Manifesto, 1 febbraio 2013 L’avvocato David Remes chiede giustizia per il suo assistito, vittima di uno strano “suicidio”. Adnan Latif è stato venduto agli Usa in Pakistan per 5 mila dollari. Prosciolto da ogni accusa, dieci anni dopo è uscito cadavere da una cella nella quale non sarebbe dovuto neanche entrare. Adnan Latif, un giovane yemenita di 26 anni, fu venduto in Pakistan agli americani, un mese dopo l’attacco dell’11 settembre 2001 per 5.000 dollari. È stato fra i primi detenuti ad essere trasferito a Guantánamo, alla sua apertura nel gennaio del 2002. Dieci anni dopo, l’8 settembre 2012, ne è uscito chiuso in una bara. Il detenuto Latif è stato trovato nella sua cella “inspiegabilmente morto”. Il fatto ha provocato la reazione delle organizzazioni di diritti civili, da Human Rights Watch e Amnesty International a Reprieve, che dal 2002 è impegnata sui diritti dei detenuti a Guantánamo. Due giorni dopo la morte di Adnan, il New York Times ha scritto che “la causa del decesso del nono detenuto a Guantánamo appariva essere stata una dose spropositata di sostanze psicotiche che ha portato al probabile suicidio”. La versione ufficiale fornita ai media dal portavoce militare a Guantánamo, il capitano Robert Durand, smentiva questa tesi: “Non esiste causa per il decesso di Latif,né naturale, né autoinflitta”. Adnan dunque è l’ultimo detenuto di Guantánamo a morire nel settore di massima sicurezza “Camp 5”. Nove decessi negli ultimi tre anni, due nel febbraio e nel maggio scorso, misteriosamente dichiarati come “suicidi”. Per gli ultimi due decessi non è stato fatta alcuna autopsia per verificare le cause e capire come sia potuta avvenire la morte. Nel caso di Adnan Latif, l’avvocato David Remes che ha seguito il suo caso dal 2004 - insieme a quelli di altri detenuti a Guantánamo - per conto dell’organizzazione di Washington “Appeal for justice” e per la londinese “Reprieve”, ha avviato una battaglia legale contro il governo americano perché venisse effettuata l’autopsia e si facesse luce sul “misterioso suicidio” di Latif, da lui visitato in carcere soltanto una settimana prima della morte. Dopo due mesi di silenzio da parte dei mititari, lo scorso dicembre è giunta la risposta dell’autopsia effettuata sul corpo di Latif a Ramstein, in Germania, dai militari del Southcom. E il verdetto propone un’ipotesi ancora più peregrina sulla morte. Latif sarebbe deceduto in seguito a “polmonite acuta”. Per capire meglio la vicenda abbiamo interpellato il suo legale David Remes a Washington. Rems, oltre al legame professionale aveva stabilito con il suo cliente un rapporto di amicizia. È convinto che Latif non si sia affatto suicidato, come I militari vogliono far credere. “Latif - racconta - era un giovane yemenita con gravi disturbi psichici. Era stato dichiarato innocente. Non esistevano prove alcune né di terrorismo né di addestramento in un campo jihadista. Meritava di essere curato per ragioni umanitarie e non di essere torturato in prigione per dieci anni. Per ben tre volte era stato dichiarato innocente e idoneo alla liberazione, sia dall’amministrazione Bush nel 2006 che dall’amministrazione Obama, nel 20l0. Poi nel 20l2, per semplice opportunismo politico, Obama ha firmato l’approvazione della legge che consente la detenzione perpetua dei detenuti di Guantánamo. Il primo quesito da porsi è perché Latif e altri 126 detenuti che andavano liberati non siano stati trasferiti nei loro paesi di origine e affidati ai loro governi. In secondo luogo, contesto la tesi ufficiale e ribadisco che nel caso specifico di Latif non si è trattato di un “suicidio”. Lei ritiene quindi che i militari abbiano raccontato ai media falsità e tesi discutibili per coprire le loro gravi responsabilità, e che Adnan Latif sia dunque morto in seguito a tortura? Adnan si ribellava e protestava continuamente con me per le orribili condizioni di detenzione che gli venivano inflitte a Guantánamo. Aveva effettuato uno sciopero della fame, come altri detenuti, ed era stato obbligato all’alimentazione artificiale. È stato picchiato brutalmente dalla squadra degli agenti della “Immediate Reaction Force”, per la resistenza. Ai pestaggi seguivano prolungate detenzioni nel settore dell’ospedale psichiatrico, eufemisticamente denominato “centro per la riabilitazione comportamentale”, dove gli è stato somministrato ogni tipo di psicofarmaco, sedativi e oppiacei. Infine il trasferimento nel lager di Camp 5, in totale isolamento e con ispezioni fisiche di controllo ogni tre minuti, 24 ore su 24 ore. Ma, strana coincidenza vuole che, nel 2010, in una lettera inviatami, Latif scrisse che “sarebbe stato ucciso a Guantánamo in un modo tale e con mezzi che non avrebbero lasciato alcuna traccia”. Ritengo che questo sia esattamente quanto è avvenuto”. E come sarebbe stato possibile per Latif trafugare un surplus di pillole, se era sottoposto a una tale sorveglianza? È proprio per questo motivo che ritengo improbabile, anzi del tutto impossibile che si sia verificato quanto sostiene la versione ufficiale del trafugamento di oggetti contundenti o del passaggio di una sovradose di psicofarmaci da una cella all’altra. Non è possibile, né Latif poteva essere in possesso di quantità di psicofarmaci oltre lo stretto necessario che gli fornivano i secondini in cella. Inoltre Latif non aveva alcuna intenzione di togliersi la vita. Anche se espresse più volte la sua disperazione e il desiderio di suicidarsi. Nel 2007 scrisse una poesia dal titolo Hunger strike Poem - Guantánamo speak per dar voce alla disperazione sua e dei suoi “fratelli” di Guantánamo: “Dove è il mondo per salvarci dalla tortura? Dove sta il mondo che ci possa salvare dal fuoco di rabbia e tristezza? Dove sta il mondo per salvarci dagli scioperi della fame?” Guantánamo è un inferno che uccide ogni cosa. Nel suo racconto lei sottolinea che, a quanto risulta dalla sua esperienza, nei casi non remissivi come Latif i militari a Guantánamo somministravano a forza ogni tipo di sedativi oppiacei e alter sostanze “ignote”. Quando andavo in visita a Guantánamo Latif mi disse che i militari lo imbottivano abitualmente di sostanze antidepressive ed eccitanti. Qual è dunque la sua tesi finale per quello che i militari vorrebbero far passare per “misterioso suicidio”? Ritengo che qualcuno dei militari addetti alla sorveglianza abbia indotto e quindi facilitato il cosiddetto suicidio introducendo in cella un’abbondante dose di pillole, una quantità letale di psicofarmaci che gli ha fornito il modo di “suicidarsi”. D’altronde, già precedentemente, oggetti contundenti come rasoi o forbici sono stati trovati nelle celle degli altri detenuti che sono morti recentemente. E chi sarebbe questo qualcuno che avrebbe fornito a Latif la dose letale di pillole? La logica conclusione di questo ragionamento è che questo qualcuno sia soltanto un secondino, un militare di stanza a Guantánamo. È per coprire la verità che le versioni più kafkiane sono state date in pasto ai media: “suicida per una overdose di psicofarmaci”, “polmonite acuta” o “sostanze” trafugate da Latif stesso durante i suoi trasferimenti da un settore all’altro del carcere, quando era legato nudo e ispezionato costantemente sotto la massima sorveglianza. Tutto viene orchestrato come per costruire le immagini di un film. Un film nel quale, se venisse effettuata una reale inchiesta indipendente che indaghi su tutti questi reati e crimini commessi dal governo statunitense dal 2002 a oggi a Guantánamo, ci sarebbero degli imputati, fuori dalle celle, che andrebbero accusati di un crimine che ha un nome preciso: omicidio. Olanda: legalizzate le droghe leggere, ora si chiudono le carceri per mancanza di criminali Il Manifesto, 1 febbraio 2013 Legalizzare alcune droghe ha portato di fatto ad un minor numero di criminali in Olanda, paese che oggi è in procinto di chiudere otto carceri. L’Olanda chiuderà otto carceri perchè non riesce a riempire la capacità di 14 mila persone del suo sistema carcerario. Attualmente sono 12 mila i detenuti in questo paese che negli anni novanta aveva il problema del sovraffollamento. Una delle ragioni per cui si è avuto un calo del tasso di criminalità, sembra essere correlato alla legalizzazione di alcune droghe (probabilmente accompagnato da una politica educativa rispetto ai suoi usi ed effetti). Il ministro della Giustizia Nebahat Albayrak ha annunciato che otto prigioni verranno chiuse a breve e che 1.200 posti di lavoro andranno persi, anche se stanno valutando l’ipotesi di ospitare i detenuti del Belgio. Negli Stati Uniti, il paese con l’incarcerazione media più alta e un totale di oltre 2,3 milioni di detenuti, una delle obiezioni che sono state fatte prima della legalizzazione della marijuana, è che questo avrebbe generato più reati e aumentato il consumo, ma quello che è successo in Portogallo e Olanda smentisce queste teorie. L’Olanda ha una popolazione di 16,6 milioni di abitanti e solo 12 mila detenuti, la sola California invece, per esempio, ha una popolazione di 36,7 milioni con 171 mila detenuti nelle carceri, molti dei quali in prigione solo per fumare o vendere marijuana. Ma evidentemente qualcuno negli States preferisce riempire le carceri di giovani piuttosto che lasciarli nelle strade. Venezuela: in un anno 591 detenuti morti nelle carceri, record di violenze tra detenuti Tm News, 1 febbraio 2013 Sono 591 i detenuti morti nel 2102 nelle prigioni venezuelane, un record per il Paese, fra i più violenti del mondo: è quanto si legge in un rapporto dell’Osservatorio venezuelano sulle carceri, pochi giorni dopo una rivolta scoppiata nella prigione di Uribana costata la vita a 58 persone. Nel 2012 il bilancio delle vittime nelle 34 carceri del Paese è di 591 morti e 1.132 feriti, contro i 560 decessi dell’anno precedente: dal 1994 - data in cui è iniziata la raccolta dei dati, peraltro non ufficiali - fino ad oggi il totale è di 5.657 morti e oltre 15mila feriti. Secondo il rapporto le carceri venezuelane ospitano poco più di 48mila detenuti mentre il numero teorico di posti disponibili è di 16.539, ovvero un tasso di occupazione del 192% che in alcune carceri supera il 500%; il 62% dei detenuti non è ancora stato sottoposto a un processo e il numero di guardie carcerarie è di una ogni cento prigionieri, quando gli standard internazionali richiedono un rapporto di uno su dieci. Russia: Nadezhda Tolokonnikova, una delle Pussy Riot, ricoverata in ospedale Ansa, 1 febbraio 2013 Nadezhda Tolokonnikova, 23 anni, una delle tre Pussy Riot condannate a due anni per una preghiera punk anti Putin nella cattedrale di Mosca, è stata ricoverata in un ospedale per detenuti. Lo ha reso noto tramite la tv indipendente “Dozhd” Iekaterina Samutsevich, l’unica delle tre accusate ad avere ottenuto la sospensione condizionale della pena. Il marito della Tolokonnikova, Piotr Verzilov, ha precisato a Radio Eko di Mosca che sua moglie è stata portata in ospedale per una serie di accertamenti medici. Versione confermata dalla portavoce del servizio carcerario della repubblica di Mordovia, dove è detenuta la giovane: “si trova nell’ospedale centrale per le detenute per accertamenti medici, su richiesta del suo avvocato”, ha detto Marina Khanieva. La Samutsevich, dal canto suo, ha ricordato che l’amica “soffriva di mal di testa sin dalla prima udienza del processo e questo potrebbe essere sintomo di una grave malattia”. Inoltre, ha aggiunto, Nadezhda, come tutte le detenute, sarebbe logorata dal duro lavoro carcerario. Norvegia: Breivik lamenta di lungo isolamento e poche attività, avvocato presenta reclamo Tm News, 1 febbraio 2013 Troppo a lungo in isolamento e scarsa offerta di attività: queste le ultime lamentele inviate da Anders Behring Breivik, che sta scontando 21 anni per avere ucciso 77 persone nel luglio 2011 tra Oslo e l’isola di Utoya, al governo norvegese. È quanto riferisce l’avvocato dell’estremista di destra, secondo il quale le condizioni del detenuto violano la legge contro la tortura. La protesta è stata inviata alla ministra della Giustizia Grete Faremo e al governatore della prigione di alta sicurezza di Ila, Knut Bjarkeid. Per motivi di sicurezza, il 33enne è stato tenuto lontano dagli altri detenuti, in una cella dotata di un proprio cortile per gli esercizi, dove può trascorrere un’ora al giorno. Breivik si è lagnato anche per le scarsa offerta di attività, le innumerevoli visite mediche e un “quasi totale” divieto di espressione, tutte cose, che, secondo il suo avvocato, violano la legge norvegese che prevede il divieto di tortura in carcere. “Non importa quale crimine hai compiuto, non bisognerebbe essere soggetti a un trattamento degradante ingiustificato”, ha commentato l’avvocato Tord Jordet.