Giustizia: “numero chiuso” anche in carcere, se la cella è affollata di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 19 febbraio 2013 “Detenzione da rinviare o è incostituzionale”. Il Tribunale di Sorveglianza di Venezia solleva il caso alla Consulta. Carceri a numero chiuso come “unico strumento per ricondurre nell’alveo della legalità costituzionale l’esecuzione della pena” se le condizioni detentive sono “contrarie al principio di umanità”: mentre sui 66 mila detenuti in 47 mila posti il legislatore latita e i partiti tacciono a dispetto dei richiami del capo dello Stato e delle inascoltate denunce dei radicali, con una ordinanza senza precedenti un Tribunale di Sorveglianza italiano, quello di Venezia, solleva d’ufficio una questione di incostituzionalità. E chiede alla Consulta una sentenza “additiva”, che cioè dia ai giudici la facoltà di sospendere e rinviare l’esecuzione in carcere della pena di un detenuto non soltanto quand’essa potrebbe determinare “grave infermità fisica” (unico evento oggi contemplato dalla legge), ma anche nei casi in cui verrebbe scontata in condizioni intollerabili di sovraffollamento e dunque si risolverebbe in “trattamenti disumani e degradanti”, secondo la definizione della Corte europea dei Diritti dell’uomo di Strasburgo nelle sentenze che hanno condannato già due volte l’Italia per aver lasciato ai carcerati meno di 3 metri quadrati a testa. L’espressione “numero chiuso” naturalmente non compare mai nella dotta ordinanza redatta dal Giudice di Sorveglianza di Padova Marcello Bortolato, nel collegio presieduto da Giovanni Maria Pavarin. Ma sarebbe la conseguenza pratica se la Consulta accogliesse la questione: come negli Stati Uniti, dove la Corte Suprema nel 2011 ha confermato l’ordine che nel 2009 una Corte federale aveva intimato al governatore della California di ridurre di un terzo la popolazione carceraria in base all’ottavo emendamento della Costituzione americana che vieta le pene crudeli; o a come in Germania, dove sempre nel 2011 la Corte costituzionale ha richiamato il dovere di interrompere reclusioni “disumane” se le soluzioni alternative sono improponibili. Il dilemma postosi al Tribunale riguardava una richiesta di sospensione e differimento della pena avanzata da un detenuto che, dopo 33 giorni con a disposizione 3,03 metri quadrati nella casa di reclusione di Padova (889 presenze contro 369 posti regolamentari), era stato trasferito nella casa circondariale (226 detenuti contro una capienza di 104) per 9 giorni con 2,43 mq a disposizione, e per 122 giorni con 2,58 mq di spazio, peraltro in concreto ridotti dal mobilio. Comunque sempre meno dei 3 mq a testa che Strasburgo (nelle sentenze Sulejmanovic e Torreggiani di condanna dell’Italia nel 2009 e 2013) ha ritenuto parametro vitale minimo al di sotto del quale c’è violazione flagrante dell’articolo 3 della Convenzione dei Diritti dell’uomo e dunque, per ciò solo, “trattamento disumano e degradante”. Il Tribunale muove dalla propria impotenza: deve eseguire una pena che sa disumana e degradante, ma non può evitarlo perché l’articolo 147 (invocato dall’avvocato Diego Bonavina) consente di rinviare l’esecuzione della pena solo in caso di grave malattia. Eppure, ragionano i giudici, mentre la pena resta legale anche se la rieducazione verso la quale deve obbligatoriamente tendere non viene raggiunta, il fatto che essa non possa consistere in un trattamento contrario al senso di umanità significa che “la pena inumana non è legale, cioè è “non pena “, e dunque andrebbe sospesa o differita in tutti i casi in cui si svolge in condizioni talmente degradanti da non garantire il rispetto della dignità del condannato”. Da qui la richiesta alla Consulta di estendere anche a questi casi la facoltà del giudice di rinviare la pena dopo aver operato, volta per volta nella vicenda singola, un “congruo bilanciamento degli interessi da un lato di non disumanità della pena, e dall’altro di difesa sociale”. Carcere sovraffollato. I giudici di Padova ricorrono alla Consulta (www.padova24ore.it) “Il nostro punto di vista è scritto tutto sull’ordinanza che verrà pubblicata in Gazzetta ufficiale non appena perverrà alla Consulta. Di più non posso dire per correttezza e rispetto nei confronti della Corte Costituzionale a cui ci siamo rivolti”. A dirlo il Giudice di Sorveglianza di Padova Marcello Bortolato, estensore del ricorso collegiale alla Consulta per chiarire la costituzionalità dell’articolo 147 del codice penale che non prevede tra i motivi di sospensione della pena il sovraffollamento del carcere. Un rinvio alla Corte costituzionale destinato a fare giurisprudenza e dottrina su un tema spinoso: quello delle condizioni del carcere. La tesi sostenuta dall’avvocato padovano Diego Bonavina nel ricorso al tribunale di sorveglianza è quella che ha già portato a sanzioni all’Italia da parte di Strasburgo in forza della sentenza Torreggiani: non esistono le condizioni minime vitali nel carcere di Padova compatibile con il dettato Costituzionale di esclusione della tortura come sanzione per chi delinque. “L’articolo 147 - aggiunge il giudice Bortolato estensore del rinvio alla Consulta - stabilisce come cause per una sospensione della pena ad esempio l’infermità fisica o lo stato di madre con prole di età inferiore a tre anni. Ma non nel caso in cui la detenzione sia incompatibile con i dettati costituzionali e quelli delle recenti sentenze di Strasburgo, quindi attendiamo indicazioni dalla Corte costituzionale in merito”. Ha 47 anni ed è un pregiudicato italiano noto alle cronache di paese nell’alta padovana per piccoli reati contro il patrimonio l’uomo che attraverso l’avvocato di Padova Diego Bonavina, rischia di introdurre anche in Italia il principio della sospensione della pena in attesa che il carcere sia in grado di accogliere il detenuto in condizioni compatibili con il principio costituzionale che vieta la tortura, derivante nel caso di specie dal sovraffollamento. Il detenuto ha presentato tramite il suo avvocato, ricorso al tribunale di sorveglianza per incostituzionalità della carcerazione e conseguente richiesta della sospensione della pena. Il 47enne padovano, residente a Galliera Veneta, è stato arrestato nel mese di settembre dai carabinieri di Tombolo (Padova), mentre pedalava per le strade del paese in bicicletta, in violazione del regime di arresti domiciliari per alcune condanne per furto ed estorsione. Per quella evasione era stato condannato a ulteriori otto mesi di carcere: si trova in una cella del carcere di Padova dove a fronte di 369 posti regolamentari ci sono 869 detenuti ospitati, con meno di tre metri quadri a disposizione per detenuto. “Sono fiducioso che la Corte costituzionale accoglierà l’eccezione di incostituzionalità della norma nella relazione, tecnicamente destinata a fare dottrina e giurisprudenza scritta dal giudice Marcello Bortolato - spiega l’avvocato difensore che ha promosso il ricorso al tribunale del riesame Diego Bonavina - il mio assistito in passato ha violato gli arresti domiciliari, condizione che gli rende difficile il riconoscimento di un regime di detenzione alternativo al carcere. La sua pena termina il 18 giugno del 2015. Difficile ipotizzare che possa rimanere recluso tutti questi mesi in condizioni come quelle attuali del carcere di Padova e delle altre carceri del Veneto senza vedersi nei fatti negato il diritto ad una detenzione volta al recupero sociale del detenuto, come prescritto appunto dai padri costituenti”. Detenuto in meno di 3 mq, giudice solleva conflitto: “Differire la pena” (Il Fatto Quotidiano) Poco più di un mese fa la Corte di Strasburgo aveva condannato l’Italia per trattamento inumano nella carceri che sono sovraffollate. Un magistrato di Sorveglianza ha chiamato in causa la Corte Costituzionale perché dia la facoltà di far scontare la pena in un momento successivo garantendo la dignità di chi è privato per motivi di giustizia della libertà. Poco più di un mese fa la Corte di Strasburgo aveva condannato l’Italia per il trattamento inumano dei detenuti. Le carceri italiane sono sovraffollate: ci sono 47mila posti nelle strutture, ma gli “ospiti” sono almeno 18mila di più. E così un giudice ha pensato di chiamare in causa la Corte Costituzionale. La legge fondamentale dello Stato italiano recita, infatti, all’articolo 27: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”. Così un giudice di Padova ha pensato a prigioni a numero chiuso - riporta il Corriere della Sera - come “unico strumento per ricondurre nell’alveo della legalità costituzionale l’esecuzione della pena” se le condizioni detentive sono “contrarie al principio di umanità”. L’ordinanza del magistrato è senza precedenti perché solleva d’ufficio una questione di incostituzionalità invocando la possibilità per i magistrati di sospendere e rinviare l’esecuzione in carcere della pena di un detenuto non soltanto quand’essa potrebbe determinare “grave infermità fisica” (unico evento previsto dalle norme italiane, ndr), ma anche nei casi in cui verrebbe scontata in condizioni intollerabili di sovraffollamento e dunque si risolverebbe in “trattamenti disumani e degradanti. La questione posta ai magistrati dal giudice Marcello Bortolato riguardava una richiesta di sospensione e differimento della pena avanzata da un detenuto che “dopo 33 giorni con a disposizione 3,03 metri quadrati nella Casa di Reclusione di Padova (889 presenze contro 369 posti regolamentari), era stato trasferito nella casa circondariale (226 detenuti contro una capienza di 104) per 9 giorni con 2,43 mq a disposizione, e per 122 giorni con 2,58 mq di spazio, peraltro in concreto ridotti dal mobilio”. Comunque sempre meno dei 3 metri a testa che la corte di Strasburgo ha ritenuto parametro vitale minimo al di sotto del quale c’è violazione flagrante dell’articolo 3 della Convenzione dei Diritti dell’uomo e dunque, per ciò solo, “trattamento disumano e degradante”. “La pena inumana non è legale, cioè è “non pena” e dunque secondo il magistrato veneto andrebbe sospesa o differita in tutti i casi in cui si svolge in condizioni talmente degradanti da non garantire il rispetto della dignità del condannato”. Da qui la richiesta alla Consulta di estendere anche a questi casi la facoltà del giudice di rinviare la pena dopo aver operato, volta per volta nella vicenda singola, un “congruo bilanciamento degli interessi da un lato di non disumanità della pena, e dall’altro di difesa sociale”. Come prescrive la Costituzione italiana. Tribunale Padova a Consulta: ricorrente evase da domiciliari (Ansa) Si chiama Paolo Negroni, 47 anni, ed ha precedenti per piccoli reati contro il patrimonio l’uomo che, attraverso il proprio legale, ha chiesto di poter ottenere la sospensione della pena in attesa che il sovraffollato carcere di Padova dove è rinchiuso torni a rispondere ai principi costituzionali che vietano la tortura, anche per l’espiazione della colpa. Il 47enne padovano, residente a Galliera Veneta, è stato arrestato nel mese di settembre 2012 dai carabinieri di Tombolo (Padova) mentre pedalava per le strade del paese in bicicletta, in violazione del regime di arresti domiciliari cui era sottoposto per alcune condanne per furto ed estorsione. Per quella evasione Negroni era stato condannato a ulteriori otto mesi di carcere: l’uomo si trova in una cella del carcere Due Palazzi dove, a fronte di 369 posti regolamentari sono ospitati attualmente 869 detenuti, con meno di tre metri quadri a disposizione per carcerato. “Sono fiducioso - ha detto l’avv. Diego Bonavina - sul fatto che la Corte costituzionale accoglierà l’eccezione di incostituzionalità della norma, nella relazione, tecnicamente destinata a fare dottrina e giurisprudenza, scritta dal giudice Marcello Bortolato”. Il legale ha spiegato che proprio l’aver violato gli arresti domiciliari rende difficile al suo assistito il riconoscimento di un regime di detenzione alternativo al carcere. La pena di Negroni termina il 18 giugno 2015. Giudice Bortolato: su sovraffollamento rispondere a domanda di giustizia (Adnkronos) “Noi dobbiamo rispondere alla domanda di giustizia che ci viene chiesta da una persona. Per questo, il Tribunale di Sorveglianza di Venezia si è rivolto alla Corte Costituzionale, per chiarire se è ammissibile il differimento della pena o meno, non per malattia grave del detenuto come previsto dall’art. 147 del Codice penale, ma anche per il sovraffollamento della cella”. Così il giudice del Tribunale di Sorveglianza, Marcello Bortolato, estensore del ricorso collegiale alla Consulta spiega all’Adnkronos la domanda inviata alla Corte Costituzionale. E il magistrato padovano che, ci tiene a spiegare come si sia tratto di “una decisione collegiale”, spiega che “il ricorso fa riferimento alle sanzioni decise dalla Corte di Strasburgo, secondo cui in una cella con meno di 3 metri quadri di spazio per detenuto non esistono le condizioni minime vitali, ed anzi è una situazione degradante per la persona, e viola l’art. 27 della Costituzione, così come deciso dalla sentenza Torreggiani”. “A questo punto - continua il magistrato - abbiamo ritenuto di sottoporre questa domanda alla Corte Costituzionale. Chiediamo che decida se è ammissibile aggiungere l’ipotesi del sovraffollamento alle altre previste dall’art. 147 del codice penale. La Corte Costituzionale potrà appunto aggiungere questa norma con una sentenza addittiva, oppure rinviare al legislatore, che a sua volta dovrà legiferare in merito, oppure interpretare la norma: in pratica il sovraffollamento della cella potrebbe causare la grave infermità prevista dall’articolo del codice per il differimento della pena”. “Quindi - conclude - adesso attendiamo le determinazioni delle Corte. In ogni caso, c’è da rilevare che il differimento delle pena è facoltativo, e viene deciso dal Tribunale di sorveglianza se non esiste il pericolo di reiterazione del reato”, conclude il magistrato padovano. Magistratura Democratica: carceri al centro agenda Governo (Ansa) Ancora una volta “la sapiente ricostruzione del rapporto fra Costituzione e norme convenzionali internazionali” può consentire “la tutela dei diritti fondamentali, dei quali sono titolari anche i cittadini in vinculis, nonostante l’inerzia delle altre istituzioni statali”. Lo sottolinea Magistratura Democratica commentando la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Sorveglianza di Venezia sul sovraffollamento delle carceri e il venir meno, per i detenuti, della dignità della persona. La decisione, rileva ancora la rappresentanza dei magistrati, è frutto della recente sentenza della Corte Europea per i diritti dell’uomo e dimostra “come il proficuo dialogo fra tribunali nazionali e corti sovranazionali possa consentire una nuova fertile stagione per i diritti di tutti”. In attesa del vaglio di legittimità costituzionale, Magistratura Democratica auspica che la questione carceraria “sia al centro dell’agenda del prossimo Parlamento nazionale e del futuro Governo”. Favi (Pd): numero chiuso e sovraffollamento, soluzioni sono altre (Agenparl) “Attenderemo con fiducia la pronuncia della Corte Costituzionale, reclamata dal Tribunale di sorveglianza di Padova, nella quale si chiede una sentenza per sospendere o rinviare le condanne penali, quando nelle carceri sovraffollate - come riferisce oggi il Corriere della Sera in prima pagina - non siano garantiti gli spazi minimi e quando le condizioni di fatto dei detenuti si risolvano in trattamenti disumani e degradanti. Un istituto di garanzia che è stato introdotto in Paesi di alta civiltà giuridica e di sicura cultura democratica. Ma le responsabilità della politica non si risolvono con i vincoli e gli impedimenti, sia pure dettati da imprescindibili principi e tutele dei diritti della persona. Già la Corte europea per i diritti umani ci ha dato un anno di tempo per intervenire sul sovraffollamento delle nostre prigioni. Fra le misure urgenti, che potranno essere adottate, pensiamo a reintrodurre la sospensione dell’esecuzione delle pene detentive brevi per consentire alla Magistratura di sorveglianza di valutare e strutturare la concessione di misure alternative. Il Pd ritiene che sarebbe necessario fornire maggiori strumenti professionali alla stessa Magistratura per supportare la concessione della detenzione domiciliare fino a 18 mesi, che ha prodotto effetti inferiori alla attese per evidenti carenze di funzionalità nei Tribunali di sorveglianza e negli uffici territoriali per l’esecuzione penale esterna. Sosteniamo i percorsi terapeutici alternativi, sia nella fase cautelare che in quella della esecuzione penale, per i tossicodipendenti autori di reato per i quali il carcere è solo uno dei gironi del loro inferno di vita. Ampliamo la possibilità dell’espulsione degli stranieri condannati, quale misura alternativa alla detenzione. Chiudiamo gli ospedali psichiatrici giudiziari, come già previsto da quasi cinque anni. Restituiamo così al sistema penitenziario la sua vocazione alla rieducazione, con il lavoro anche all’esterno e percorsi che diano senso all’obiettivo del reinserimento sociale”. Lo dichiara Sandro Favi, Responsabile nazionale carceri del Pd. Ferri (Mi): no a ricorso giudice Padova per differimento pena (Adnkronos) Magistratura Indipendente non concorda con la decisione del Tribunale di Padova che ha presentato ricorso alla Corte Costituzionale per chiedere una sentenza additiva che consenta al giudice di sospendere e rinviare l’esecuzione della pena in carcere se le condizioni di sovraffollamento non consentono una situazione dignitosa e rispettosa dei diritti. “Non sono d’accordo con la decisione del magistrato di sorveglianza di Padova - commenta il segretario di Mi, Cosimo Ferri, in una nota - Ho seri dubbi in merito anche alle argomentazioni tecnico giuridiche utilizzate. Non deve confondersi il piano dell’esecuzione penale con il principio inviolabile dell’umanità della pena che deve in ogni caso trovare attuazione nel nostro ordinamento tramite l’incremento delle misure alternative”. “I casi di differimento della pena - spiega - sono tipizzati e di stretta interpretazione e legati principalmente alle gravi condizioni di salute del detenuto. Non c’è spazio per diverse interpretazioni”. Il sovraffollamento carcerario, osserva ancora Ferri, “problema serio e urgente da risolvere, non può essere affidato alla magistratura ma è compito della politica intervenire e dare le risposte giuste”. Comunicato dell’Associazione “Il Carcere Possibile Onlus” - Camera Penale di Napoli I Giudici hanno adito la Corte Costituzionale eccependo l’incostituzionalità dell’art. 147 Codice Penale, che nel prevedere il rinvio dell’esecuzione della pena, non contempla anche il caso in cui la stessa sarebbe scontata in violazione dell’art. 3 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo. Un’ordinanza coraggiosa e senza precedenti quella emessa dal Tribunale di Sorveglianza di Venezia. Dopo la recentissima sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che ha, ancora una volta, condannato l’Italia per il trattamento disumano e degradante riservato ai detenuti, ed ha concesso al nostro Paese un anno di tempo per modificare tale situazione di costante illegalità, qualcosa si muove. A sentire quest’obbligo civile non sono però i “politici”, ma alcuni Magistrati costretti a impegnarsi in un fine lavoro interpretativo delle norme, per non sentirsi “complici” di una devastante violazione dei diritti umani. Il principio che si vuole applicare è quello del “numero chiuso”. Se lo Stato può garantire una detenzione legale per “x” persone, tale numero non può essere superato, altrimenti si punisce l’autore di un reato (o presunto autore nel caso di custodia cautelare) commettendo un altro crimine. Il Tribunale ha testualmente precisato che la pena “inumana” è una “non pena” e, pertanto, non può e non deve essere scontata. Va chiarito che per sanare questo cronico male che affligge il nostro sistema penitenziario, non occorrono nuove prigioni - se non per sostituire quelle ormai fatiscenti - ma è necessario una nuova e non più differibile politica sociale e giudiziaria. L’aumento della capienza regolamentare delle carceri non è la soluzione. Si uscirà dall’emergenza - proclamata ufficialmente nel 2010 dal Consiglio dei Ministri, ma che ha radici lontane - solo pianificando una nuova società che riparta dalla Scuola, dal Lavoro, dall’Uguaglianza, da una Giustizia efficiente e veloce. Da un sistema che innanzitutto tuteli i diritti fondamentali previsti dalla nostra Costituzione. Nell’Italia degli sprechi, ci sono già decine di Istituti Penitenziari inaugurati e mai aperti. C’è un articolo del Codice di Procedura Penale (275 bis), che prevede il controllo a distanza dei detenuti agli arresti domi ciliari, che da tredici anni non trova concreta applicazione e che potrebbe risolvere, in parte, i problemi del sovraffollamento. La norma, invece, è servita solo ad arricchire la Società che ha fornito le apparecchiature con un contratto di undici milioni di euro all’anno. L’applicazione di misure alternative al carcere - senza inutili divieti ostativi - potrà far diminuire la recidiva e consentire un reinserimento più facile del condannato. Vanno abolite o comunque modificate leggi inutilmente “carcerogene” come quella sugli stupefacenti e l’immigrazione, che riempiono le nostre prigioni di soggetti deboli e emarginati, che non trovano alcuna tutela nel nostro ordinamento, ma anzi sono oggetto di una vera e propria persecuzione. Si deve operare una profonda riforma del Codice Penale, depenalizzando fattispecie che possono prevedere sanzioni amministrative più efficaci. Il sistema processuale va poi rivisto e modernizzato partendo dalla notifica degli atti che, ancora oggi, vede impegnato il personale di Polizia Giudiziaria. Sapranno i “nuovi eletti” seguire questa strada ? Avv. Riccardo Polidoro Presidente “Il Carcere Possibile Onlus” - Camera Penale di Napoli Giustizia: Relazione Ministero alla Camera; in calo detenuti che lavorano e loro compensi Adnkronos, 19 febbraio 2013 Diminuisce nel 2012 il numero dei detenuti che lavorano, così come il budget assegnato per la loro remunerazione, confermando una tendenza in atto negli ultimi anni. Il calo riguarda sia il lavoro alle dipendenze degli istituti penitenziari sia quello svolto fuori, per il quale la legge 193 del 2000, la cosiddetta Legge Smuraglia, prevede sgravi e contributi fiscali. Sono i dati forniti nella relazione che il ministro della Giustizia, Paola Severino, ha trasmesso alla Camera, relativa “allo svolgimento da parte di detenuti di attività lavorative o corsi di formazione professionale per qualifiche richieste da esigenze territoriali”. Il numero totale dei detenuti lavoranti, 13.278 al 30 giugno 2012, pari al 19,96% dei presenti, conferma la riduzione in atto negli ultimi due anni: erano 14.116 a giugno 2010, pari al 20,68% dei presenti, poi 13.765 al 30 giugno 2011, pari al 20,42% dei presenti. Una diminuzione anche percentuale rispetto al numero totale dei detenuti presenti: infatti, si legge nella relazione, a fronte di un consistente aumento della popolazione detenuta, negli ultimi anni, non è stato possibile, da parte dell’Amministrazione penitenziaria, rispondere con un uguale aumento, in termini percentuali, del numero dei detenuti lavoranti. Il problema è ovviamente legato alla riduzione delle assegnazioni ottenute per le remunerazioni, in rapporto alle presenze annuali, passate da 71,4 milioni nel 2006, per 59.523 detenuti, a 49 milioni e 664 mila euro per 66.897 detenuti nel 2012. Il budget largamente insufficiente, spiega la relazione, ‘ha condizionato in modo particolare le attività lavorative necessarie per la gestione quotidiana dell’istituto penitenziario (servizi di pulizia, cucina, manutenzione ordinaria del fabbricato, ecc.) incidendo negativamente sulla qualità della vita all’interno degli istituti. Nel dettaglio, il numero dei detenuti lavoranti impegnati nella gestione degli istituti è diminuito anche quest’anno, attestandosi su 9.950 al 30 giugno 2012 (erano 10.645 del giugno 2010 e 10.324 al giugno 2011). Molte direzioni, spiega la relazione “per mantenere un sufficiente livello occupazionale tra la popolazione detenuta, hanno ridotto l’orario di lavoro pro capite ed effettuano una turnazione”. Comunque, la riduzione del lavoro interno “ha comportato una forte riduzione dei livelli dei servizi in aspetti essenziali della stessa vivibilità quotidiana delle strutture penitenziarie, con inevitabili ricadute negative anche e soprattutto in materia di igiene e sicurezza”. Per quanto riguarda i detenuti lavoranti non alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, la relazione sottolinea che i vantaggi offerti dalla Legge Smuraglia “avevano prodotto negli ultimi anni un notevole incremento nel numero di detenuti assunti da soggetti esterni. Si è passati infatti dai 644 detenuti assunti nel 2003 ai 1.342 del 2010”. Negli ultimi due anni il numero dei soggetti assunti è passato da 2.257 al 30 giugno 2011 a 2.299 al 30 giugno 2012, con un aumento molto inferiore. Già dal 2011, infatti, il raggiungimento del limite di spesa previsto per l’applicazione della legge non ha più permesso di concedere sgravi fiscali ai datori di lavoro che avessero assunto nuovi detenuti. Ma la scorsa settimana, in Consiglio dei Ministri, il premier Mario Monti ha firmato un decreto che assegna 16 milioni di euro proprio al rifinanziamento degli interventi previsti dalla Legge Smuraglia. Giustizia: visita all’Ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa… per l’ultima volta di Dario Stefano Dell’Aquila (Associazione Antigone) Il Manifesto, 19 febbraio 2013 Il 31 marzo è prevista la chiusura, per legge, degli ospedali psichiatrici giudiziari. Mancano solo poche settimane ma regna troppa incertezza. Il racconto della visita nell’Opg campano. Fa un freddo che spacca le mani mentre entriamo nell’Ospedale giudiziario di Aversa, il vecchio manicomio criminale. Qui vi sono internati sofferenti psichici autori di reato, condannati ad una misura di sicurezza detentiva. Ora ve ne sono circa 160, in una struttura che fino a poco tempo fa era arrivata a contenerne oltre trecento. Non c’è stata una evasione di massa. È che questi luoghi infernali, prima condannati al silenzio, sono rapidamente passati dall’oblio alla ribalta nazionale. Tanto da essere citati nel discorso di fine anno del presidente della Repubblica come esempio di barbarie e vergogna. Dire che siamo di casa sarebbe offensivo per chi è costretto a stare qui, ma la frequenza delle visite ci porta ormai ad una certa consuetudine con chi porta la responsabilità di questa struttura. “Dottò, non è cambiato molto dall’ultima volta che siete venuti, ci stanno giusto una decina di internati in meno. Una ventina sono stranieri”. Queste le parole del comandante degli agenti di polizia penitenziaria che ci accoglie all’ingresso. Un ispettore prende parte alla discussione, “Dottò, ma allora che facciamo, li chiudiamo veramente?”. Inutile girarci attorno, qui tutto il personale si pone questa domanda “che fine facciamo?”. Dopo il rapporto del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e il grande lavoro della Commissione parlamentare presieduta da Ignazio Marino, non era possibile ignorare oltre questi posti inumani e degradanti. Una legge votata all’unanimità lo scorso anno ne ha decretato la chiusura al 31 marzo. La norma prevede che ogni regione, con risorse trasferite dallo stato, predisponga strutture sanitarie residenziali modulari che sostituiranno gli Opg per i sofferenti psichici autori di reato considerati “socialmente pericolosi”. Per gli altri, quelli per i quali la misura è prorogata solo per assenza di alternative, è previsto l’affidamento ai servizi sociali e di salute mentale. Messa così sembra facile, ma, come si può immaginare, è un percorso ad ostacoli, impigliato nelle maglie della burocrazia e del business sanitario. Celle aperte, custodia attenuata Entriamo nel primo reparto, il VI, venticinque presenti. A differenza di altre volte non sento l’odore di urina che ti aggrediva all’ingresso. Alle pareti ora c’è vernice fresca e colorata. Non dignità, ma almeno decenza. A parte questo, nelle vite che ti circondano, non sembra esserci meno dolore o disperazione. La sezione è a custodia attenuata, le celle, piccole e spoglie (due o tre per cella) sono aperte. Gli internati ci squadrano perplessi. Il nostro è un arrivo annunciato. A rompere il ghiaccio e le cerimonie ci pensa Massimo, che attira la nostra attenzione inveendo contro il mondo, mettendo all’indice nemici immaginari e reali. Si avvicina, poi arretra, poi torna. Protesta arrabbiato. È qui da troppi anni (che io ricordi almeno cinque) rovescia una storia indecifrabile che fatico a comprendere. È solo, mi dice, nessuno si prende cura di lui, si è chiuso in una stanza perché aveva paura che la madre volesse ucciderlo e i carabinieri sono andati a prenderlo. Più parla più le parole si aggrovigliano. Provo a tranquillizzarlo, gli faccio i complimenti perché indossa, a differenza degli altri (tutti con vestiti di lana vecchia e consunta), un bel giaccone. Non coglie, non sembra. Mi dice ancora delle cose confuse e poi si allontana. Il direttore sanitario Raffaele Liardo, che ci accompagna, mi racconta dello sforzo della Asl per destinare qui sette psichiatri specialisti (a contratto), tre a tempo pieno e dieci psicologi. È difficile scegliere di investire in una struttura che in teoria dovrebbe chiudere, ma necessario per attivare percorsi di dimissione per gli internati, oltre che per assicurare livelli essenziali (ma davvero minimi) di assistenza. I più sono “sopiti” Un agente mi dice: “Dottò, questi dalle comunità ci tornano indietro, perché lì sono molto più severi che noi, voi non ci credete ma è così. Lì non li fanno nemmeno fumare”. Qui, nella monotonia di giorni sempre uguali, non vi è nulla di più richiesto di una sigaretta. Lo testimoniano le dita ingiallite dalla nicotina di quasi tutti gli internati. Proseguiamo il nostro giro, nel cortile, un piccolo quadrato di asfalto, un paio di internati rimangono indifferenti, sguardo fisso, seduti sull’unica panchina. Ci vengono incontro vite spezzate e confuse. Sono qui da molti anni, i più sono “sopiti” e lenti. M., con la tuta da lavorante, è magro e lucido. Come tanti viene dal Lazio. Per un pò ci ha seguiti sospettoso, poi si avvicina e mi racconta. È da oltre quattro anni in questo inferno per “offesa a pubblico ufficiale”. È riuscito anche ad uscire, ma l’avevano mandato in una comunità per non autosufficienti, perché non c’erano alternative. Poi l’Asl non aveva più copertura economica, lui ha litigato con quelli della comunità ed è tornato dentro. Altri due anni di proroga dalla misura. “Noi contiamo meno di un faldone giudiziario. Quello almeno l’archivi, lo metti in un posto. A noi invece non sanno nemmeno in che posto metterci”, usa queste precise parole. S. è qui per estorsione, ha preso 120 euro dalla madre e si è già fatto cinque anni. A breve ha il riesame, mi chiede se posso fare qualcosa per lui. Perché gli hanno detto che lo mandano in comunità, “ma lì sono tutti matti, non ci voglio stare”. Vorrei trovare una bugia per rassicurarlo, ma non me ne vengono. Mi sento toccare ad un braccio. Mi giro e vedo Massimo che ha indossato un nuovo giaccone e me lo mostra fiero. Una fila di denti neri stretta a forma di sorriso. Tempo un attimo e riprende agitato a raccontarmi una storia di ingiustizie e torti subiti che comprendo per gesti, ma non per parole. Nel reparto isolati Proseguiamo, passando accanto alla cella priva di ogni suppellettile che si usa per l’isolamento. Me l’ha indicata un internato, con rassegnazione che sa di paura. Raccogliamo brandelli di storie, mentre Ilaria documenta con foto. Donato ha un maglione azzurro e un jeans slavato, tagliato corto. Non so dire quanti anni abbia, ma ha il tono della voce dolce e basso. Mi si avvicina e mi chiede come sto, che ho fatto a Natale, perché non passo più spesso. Sono felice che sei qui, mi dice in un orecchio. Vuole farsi una foto assieme. Lasciamo il reparto che il freddo e l’umidità si sentono fin sotto i vestiti, eppure sono poco più di due ore. Fuori un pò di luce ci ridà il calore che non si sente in reparto. Ci raggiunge Peppe Nese, psichiatra che conosce bene questo posto e che è responsabile per la Campania del tavolo tecnico che si occupa della chiusura. Il decreto che ripartisce le risorse per le regioni è stato ieri (7 febbraio ndr) pubblicato in Gazzetta ufficiale, mi dice. È cautamente ottimista, numeri alla mano. Qui in Campania abbiamo anticipato i criteri contenuti per la realizzazione delle nuove strutture, siamo pronti a realizzarne otto che accoglieranno i campani sottoposti a misure di sicurezza. Ma nemmeno qui, dove si è partiti in tempo, è immaginabile costruire queste strutture entro il 31 marzo. Figuriamoci in quelle regioni dove il processo non è stato nemmeno avviato. Una proroga sembra essere nelle cose, questo è il giudizio di molti operatori. Il termine può essere prorogato solo con legge e a Camere sciolte non potrebbe che intervenire un provvedimento del governo. Ed è escluso che si interverrà prima delle elezioni. Qui da 5 anni per piccoli furti Siamo ora nel reparto sociosanitario, interamente gestito dagli infermieri. Nello spazio cortile di ingresso una decina di internati, coperti di vestiti spaiati, è seduta a fumare o a guardare nel vuoto. Due ragazzi stranieri, africani, siedono di fianco su una panchina. Dentro, al primo piano, tre letti per stanza, c’è un uomo di settantacinque anni. Steso sul letto sembra ancora più piccolo, peserà pochissimo e dimostra almeno dieci anni in più. Una vicenda complessa (che rende ancora più difficile affidarlo ad una Asl) che non vuole raccontare, si scusa ma la sua è “una storia che non dice niente”. Ne rispettiamo il silenzio. Nella stanza di fianco Paolo C., (qui da cinque anni per una serie di piccoli furti) ripete che lui in carcere non può stare, che il cibo fa schifo, che lui è anoressico. Il volto scavato e teso, il corpo magrissimo ne sono testimonianza. Dietro il suo letto foto di padre Pio e ritagli di giornale che parlano di amnistia. C’è poco da dire o da fare, Paolo può essere saziato solo dalla libertà. Speriamo che non sia una bugia Sono trascorse quattro ore, quando usciamo abbiamo più dubbi di prima. L’unica certezza è che questo posto vada chiuso. Il futuro è invece incerto e non solo per il rispetto dei tempi. Il rischio concreto è che, in assenza di modifiche al codice penale e alla proroga delle misure di sicurezza, anche a sistema, non si darà la fine dell’internamento manicomiale ma il suo moltiplicarsi in piccole strutture sanitarie e in reparti psichiatrici diffusi nelle carceri. Penso a Donato, che, dopo la foto fatta assieme, mi si è avvicinato e, con tono complice, mi ha sussurrato, in un orecchio, “questa la mandi a papà”. “Donato - ho risposto - te la conservo così, quando esci, a papà glie la dai tu”. Vorrei non aver detto una bugia. Giustizia: la riforma degli Opg rimasta senza attuazione di Ignazio Marino (presidente della Commissione d’inchiesta sul Servizio Sanitario Nazionale) La Repubblica, 19 febbraio 2013 Ho letto con grande emozione il bel reportage di Adriano Sofri sull’Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, sequestrato interamente dalla commissione d’inchiesta a dicembre. Già da molti mesi la commissione ha formulato una proposta per l’attuazione della riforma sugli Opg. Una riforma che abbiamo voluto fortemente dopo due anni di inchiesta e di denuncia sulle condizioni di degrado di queste strutture e che, grazie anche alla collaborazione del ministro Severino, è diventata legge nel 2012. Il 15 ottobre scorso ho suggerito al presidente del Consiglio una soluzione: si nomini una figura che abbia pieni poteri per applicare la legge e che possa gestire il percorso di chiusura e le risorse economiche messe a disposizione. Ci è stato detto che non era possibile. Sul superamento degli Opg, nonostante il lavoro della commissione e gli appelli ripetuti del presidente della Repubblica Napolitano si è accumulato un ritardo vergognoso e disarmante. Il governo ha prodotto da poco il decreto di finanziamento legato alla legge e, a questo punto, deve esserci un impegno vero da parte delle Regioni: bisogna attuare in via definitiva questa riforma per consentire ai folli autori di reato privati della libertà di poter avere accesso alle cure di cui hanno diritto e al rispetto della loro dignità umana. Giustizia: Castellano (Rc); sì all’amnistia… ma basterebbe abrogare la legge Bossi-Fini di Matteo Pucciarelli La Repubblica, 19 febbraio 2013 Quand’era direttrice di carcere a Bollate, a due passi da Milano, i suoi “ospiti” (li chiamava così) potevano coltivare le rose in un vivaio di eccellenza. Poi Lucia Castellano - 48 anni, originaria di Napoli, in Lombardia da 11 anni - è diventata assessore comunale alla Casa, al demanio e ai lavori pubblici a Milano con Giuliano Pisapia. Il quale, qualche settimana fa, le ha consigliato di candidarsi per il Pirellone con Umberto Ambrosoli, nella lista civica dell’avvocato. Sarà lei l’emissario arancione al palazzo della Regione. Cosa ha portato e cosa porterà ancora in politica della sua esperienza nei penitenziari italiani? “Ho sempre conservato una visione politica delle strutture nelle quali ho lavorato. Con questa idea: in carcere è compressa la libertà, ma non gli altri diritti. Il lavoro di squadra, unito a dei chiari obiettivi, è il segreto per ben riuscire. Anche da assessore ho tentato di fare la stessa cosa. E non mi sono mai sentita una “illuminata”: ho applicato come potevo la reale visione del costituente”. La situazione delle carceri in Lombardia qual è? “In alcuni penitenziari siamo messi un po’ meglio, come a San Vittore e a Bollate. In altri peggio. Non a caso una sentenza del mese scorso dice che l’Italia viola i diritti dei detenuti tenendoli in celle dove hanno a disposizione meno di 3 metri quadrati. Per questo la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ci ha condannati per trattamento inumano e degradante di sette carcerati. Alcuni detenuti nel carcere di Busto Arsizio”. È favorevole all’amnistia? “Certo, ma solo se il provvedimento si accompagna ad altri che vanno alla radice del problema. La legge Bossi - Fini, per esempio, riempirebbe le carceri nel giro di pochissimo. Le chiamo “leggi carcerogene”, che mandano in galera i più deboli invece di puntare sulle pene alternative”. E quindi le è dispiaciuto che il centrosinistra lombardo non abbia trovato un accordo con i radicali? “Io a suo tempo insistetti, ma non mi è piaciuto l’atteggiamento dei radicali, come se vendessero il tema dell’amnistia al miglior offerente. Ambrosoli in Lombardia, Francesco Storace nel Lazio. Senza contare che non è un tema di competenza regionale”. Dovesse vincere Ambrosoli, farà l’assessore anche al Pirellone? “Questo non lo decido io. Dipende dalle congiunture, diciamo...”. L’assessorato alla Casa della Regione era retto da un certo Domenico Zambetti, finito sotto inchiesta per i suoi rapporti con la ‘ndrangheta... “Non avrei certo paura di fare la fine di Zambetti. Non è che chi assume quel ruolo si prende un virus dal quale non ci si può difendere”. Sente di poter fare un pronostico per il voto di domenica e lunedì? “Sento di poter contare sul buonsenso dei cittadini lombardi. La giunta di Roberto Formigoni non è caduta per caso. E i protagonisti di quel centrodestra sono gli stessi dell’attuale centrodestra. Ho troppa stima dei lombardi per pensare che si affideranno ancora una volta a chi ha fatto un disastro”. Sente lo stesso entusiasmo che ci fu attorno a Pisapia? “Sì, anche se va detto che il sindaco ebbe più tempo a disposizione per lavorare alla propria candidatura. Un anno per Pisapia, un mese e mezzo per Ambrosoli. Ma domenica in piazza Duomo si respirava davvero un bel clima”. Anche se si profila un testa a testa fino all’ultimo voto. Quale potrà essere la chiave della vittoria? “Spero molto nel voto disgiunto degli elettori del Movimento Cinque stelle. La candidatura di Ambrosoli è essa stessa in linea con le idee e i valori di buona parte di quel movimento. E sbarrare la strada a Roberto Maroni oggi è troppo importante per il futuro non solo della Lombardia, ma anche dell’Italia”. Giustizia: Beneduci (Rc-Osapp); allarme voto nelle carceri, rischio manipolazione mafie Adnkronos, 19 febbraio 2013 “In alcune regioni come la Sicilia i detenuti stanno chiedendo in massa per esercitare il diritto al voto alle prossime elezioni ma a nostro avviso permane il rischio che il voto espresso nelle carceri situate nelle regioni a maggiore rischio criminale possa essere il risultato di qualche manipolazione per mano delle organizzazioni mafiose”. A lanciare l’allarme è Leo Beneduci, capolista al Senato per il Lazio per Rivoluzione Civile per Antonio Ingroia e già segretario generale dell’Osapp. “Sia ben chiaro - ha continuato Beneduci - il diritto al voto è una prerogativa fondamentale di ogni cittadino, sia che si trovi in stato di libertà sia che si trovi in regime di detenzione, se in possesso del relativo diritto, come Rivoluzione Civile auspichiamo una massiccia partecipazione della popolazione detenuta, ma una cosa è difendere un diritto costituzionalmente riconosciuto e altra cosa è restare inermi davanti al rischio che il risultato elettorale venga ad essere determinato in modo tutt’altro che democratico, magari grazie alla gravissima promiscuità delle nostre carceri tra detenuti e cosiddetti comuni e detenuti già affiliati alle mafie. Invitiamo quindi le istituzioni ad una sorveglianza strettissima sulle operazioni di voto, affinché il risultato elettorale dalle carceri corrisponda alla reale volontà dei detenuti e non coincida con altri pericolosi interessi”. Giustizia: Balducchi (Ispettore Capo Cappellani); politica non si dimentichi dei detenuti Adnkronos, 19 febbraio 2013 “Dietro le sbarre si spera che qualcosa cambi. La politica non dimentichi il dolore dei detenuti”. Lo sottolinea Don Virgilio Balducchi, ispettore capo dei cappellani carcerari, raccontando l’attesa per il voto nei penitenziari italiani. “Anche sul mondo del carcere si stanno facendo tante promesse - spiega Balducchi all’Adnkronos - spero che i politici mantengano ciò che dicono. Quasi tutti si sono pronunciati a favore di misure alternative o che aumentino la socializzazione. Non devono restare parole nel deserto”. “Non vorrei che le parole di questo periodo cadano nel dimenticatoio - rimarca l’ispettore capo dei cappellani carcerari - sarebbe un’altra delusione tremenda per i detenuti. Senza contare che l’Italia rimedierebbe altre condanne dall’Europa. Nelle carceri - aggiunge - ci sono i detenuti che seguono la campagna elettorale, soprattutto per i temi che riguardano l’emergenza sovraffollamento e le loro prospettive”. “Sul discorso della giustizia - rimarca - i detenuti sono vigili e attendono risposte. Per risolvere in modo strutturale i problemi della giustizia, i politici diano finalmente una svolta radicale che permetta di arrivare a un nuovo codice penale, in modo che il carcere resti l’estrema ratio. Anche perché - conclude - ho la sensazione che anche il prossimo Parlamento non raggiungerà un’intesa sull’amnistia”. Anche nuovo pontefice sarà vicino a detenuti Il successore di Benedetto XVI “sarà sicuramente vicino ai detenuti”. Lo dice all’Adnkronos don Virgilio Balducchi, ispettore capo dei cappellani carcerari. “I detenuti - aggiunge - sperano che l’attenzione per i loro problemi sia costante e fraterna, come è accaduto per gli ultimi Papi. C’è bisogno di speranza”. Puntare su lavoro per detenuti “Il lavoro rende liberi e autonomi, se portiamo via questo elemento all’interno delle carceri crescerà il numero dei poveri e si toglierà la speranza ai detenuti”. Lo dice all’Adnkronos don Virgilio Balducchi, ispettore capo dei cappellani carcerari, commentando la diminuzione nel 2012 del numero dei detenuti che lavorano, come emerge dalla relazione che il Guardasigilli, Paola Severino, ha trasmesso alla Camera, “relativa allo svolgimento da parte di detenuti di attività lavorative o corsi di formazione professionale per qualifiche richieste da esigenze territoriali”. “Purtroppo - prosegue Balducchi - invece di un cambiamento positivo, continuiamo a vedere un restringimento di quelle misure che aiutano i detenuti a prendere una strada di responsabilità verso se stessi e la società. Su questi temi - conclude l’ispettore capo dei cappellani carcerari - bisogna impegnarsi e aumentare le possibilità di lavoro per i detenuti”. Lazio: Rapporto congiunto di Garante dei detenuti e Cgil-Fp; situazione carceri al collasso Agenparl, 19 febbraio 2013 A fronte di un sovraffollamento che ha raggiunto quasi il 50% (4.834 i posti disponibili nelle carceri, 7.069 i detenuti effettivi) sono sempre più pesanti le carenze di organico fra coloro che le carceri le dovrebbero sorvegliare: gli agenti di polizia penitenziaria. Secondo le ultime stime, infatti, in servizio nelle 14 carceri del Lazio ci sono il 25% di agenti in meno rispetto a quanto previsto dalla dotazione organica (3.166 effettivi contro i 4.136 previsti). È questo, il dato più allarmante che emerge dal Primo rapporto congiunto sulla situazione delle carceri del Lazio - intitolato Emergenza carceri Lazio: i diritti violati dei detenuti, le condizioni insostenibili dei lavoratori - realizzato dal Garante dei detenuti Angiolo Marroni e dalla CGIL Funzione Pubblica di Roma e Lazio. Nelle carceri della Regione, il tasso di sovraffollamento è del 46%. La metà degli istituti ha un sovraffollamento superiore al 50%. Le percentuali più alte si registrano al Nuovo Complesso di Civitavecchia con l’88% (332 posti, 625 presenti), a Latina con l’85% (86 posti, 161 i presenti) e a Cassino con il 73% (172 posti disponibili, 298 i presenti). In assoluto, il carcere con più detenuti è Rebibbia N.C., per altro privo di un direttore effettivo, con 1.768 presente a fronte di 1.218 posti disponibili (45%). In quasi tutte le carceri non ci sono più i vice Direttori, e a Rebibbia Reclusione, il direttore è a part time perché si occupa anche della Scuola di Polizia Penitenziaria di Via Brava. Il lavoro quotidiano compiuto dagli operatori del Garante (che nel 2012 hanno effettuato quasi 10.000 colloqui con i detenuti) e le testimonianze degli agenti hanno permesso di tracciare un quadro della situazione delle carceri del Lazio che il rapporto non esita a definire “allarmante”. Il 93% dei 7.069 detenuti sono uomini; il 40% non è un cittadino italiano. Il 44% dei reclusi è in attesa di giudizio definitivo. In carcere, oltre ai 7.000 detenuti, ci sono anche 17 bambini di età inferiore ai 3 anni, figli di detenute madri. Fra la popolazione maschile sono ricompresi anche 23 transessuali, uomini per l’anagrafe ma donne nel fisico, rinchiusi in speciali sezioni delle carceri maschili per evitare il contatto con gli uomini, con tutte le problematiche che ciò comporta. “Dal rapporto - ha detto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni - emerge la crisi di tutti gli ambiti che riguardano il complesso pianeta carcere: dalla sanità all’istruzione, dalla formazione al lavoro fino al delicato tema del reinserimento sociale di chi ha scontato la pena, che comprende la scarsità di comunità alloggio e di case di accoglienza e l’estrema difficoltà a garantire un impiego esterno agli ex detenuti. Una situazione destinata a peggiorare visto che il Prap ha comunicato, per il 2013, tagli di budget per le attività culturali, ricreative e sportive ed alle mercedi dei detenuti lavoranti mentre, per le politiche della tossicodipendenza, non ci sono più stanziamenti. In ultima analisi, la drammatica situazione che stanno vivendo le carceri italiane rende inattuabile l’articolo 27 della Costituzione, che prevede che le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e debbano tendere alla rieducazione del condannato”. Secondo il Garante, l’ambito più delicato è il Diritto alla Salute. In assenza di statistiche ufficiali, l’esperienza sul campo ha accertato che il 35% dei detenuti è tossicodipendente; circa il 50% assume psicofarmaci e solo il 10% può contare su un sostegno psicologico. Fra i detenuti, anche 25 minorati psichici ed oltre 150 internati provenienti dagli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. Le carenze riguardano, soprattutto, l’assenza di una politica regionale per la sanità penitenziaria a 5 anni dal trasferimento delle competenze dal Ministero di Giustizia alle Asl (Dpcm 1/4/08), che causa una disomogeneità dei servizi erogati. La mappa dei disagi comprende l’assenza di assistenza sanitaria notturna nel carcere di Rieti, l’assistenza a singhiozzo negli istituti per la carenza di personale, lunghe liste d’attesa per le visite esterne. “Molte problematiche - ha aggiunto il Garante - sono legate al deficit della sanità regionale, che causa ritardi nella redazione dei piani per la salute mentale in carcere, la contrazione dei percorsi terapeutici per i tossicodipendenti e dei programmi in comunità terapeutiche. I mancati pagamenti da parte della Regione hanno causato anche l’interruzione del servizio di Telemedicina in carcere”. Per trovare una soluzione, il Rapporto Garante/Cgil suggerisce l’avvio di una programmazione regionale della sanità in carcere che consenta, fra l’altro, di rendere omogenee le procedure delle ASL, di potenziare le strutture di accoglienza, di garantire il pieno funzionamento delle strutture sanitarie nelle carceri e di finanziare progetti di inclusione sociale. Un capitolo a parte merita la situazione della Polizia Penitenziaria. Nel Lazio sono in servizio 3.166 agenti contro i 4.136 previsti. Una dotazione inadeguata alle necessità; basti pensare che nel 2001, l’Amministrazione Penitenziaria aveva determinato un organico di 4.136 agenti a fronte di 5.397 detenuti mentre oggi, con 7.069 detenuti, gli agenti dovrebbe essere sempre gli stessi. “Il lavoro dell’agente di Polizia Penitenziaria è l’emblema dell’impossibilità di essere normali - ha detto Paolo Camardella, segretario regionale Cgil Fp Roma e Lazio - Per citare alcuni casi, a Regina Coeli un agente deve controllare tre piani, a Frosinone, il pomeriggio e la notte, le sezioni vengono accorpate, a Rebibbia N.C. e a Regina Coeli il lavoro è aggravato dai piantonamenti in ospedale e dalle traduzioni in altri Istituti e in Tribunali. A Viterbo e Civitavecchia si è aggiunta anche l’acqua all’arsenico, che costringe le carceri a rifornirsi all’esterno”. “Nel rapporto poniamo, alle autorità, alcune domande - ha detto Stefano Branchi coordinatore regionale Fp Polizia Penitenziaria. Dove sono gli agenti che mancano rispetto alla pianta organica? Oltre ad essere impegnati in compiti istituzionali, sono utilizzati anche in compiti che non riguardano il loro profilo? Quali risposte intende dare l’Amministrazione? Si continuerà a far conto solo sul senso di responsabilità dei lavoratori e a programmare turni di 12/16 ore fronteggiare le carenza di organico?”. “È giunto il momento che le istituzioni facciano sentire la propria voce - ha concluso Silvia Ioli, Segretario Regionale CGIL Roma e Lazio - Non si può più continuare a pensare che, all’interno delle carceri, lo Stato sia rappresentato solo dagli Agenti di Polizia Penitenziaria”. Rossodivita (Radicali): situazione gravissima, nostra lista unica a porsi il problema Un rapporto che lascia sconcertati, che parla di una situazione carceraria, nel Lazio, drammatica e in via di peggioramento. I numeri diffusi dal Rapporto presentato dal Segretario Fp Cgil Roma e Lazio, insieme al Garante dei detenuti della Regione, Angiolo Marroni, impongono una riflessione seria. Il Candidato Presidente Regione Lazio per la Lista Amnistia Giustizia Libertà, Giuseppe Rossodivita, che insieme ai Radicali per migliorare la condizione di vita nelle carceri si è sempre battuto chiede risposte serie. “Secondo i dati diffusi dal Segretario Regionale Fp Cgil Roma e Lazio, che confermano quanto da anni i Radicali denunciano, anche nella Regione Lazio c’è una gravissima situazione di sovraffollamento delle Carceri - si legge in una nota di Rossodivita. L’incremento della popolazione carceraria del 50% con un decremento della polizia penitenziaria (- 25%) è la dimostrazione della grave emergenza umanitaria delle 15 strutture carcerarie che ci sono nel territorio della Regione Lazio. L’unica risposta politica seria e credibile è dare fiducia alla lista di scopo Amnistia Giustizia Libertà che ha l’obiettivo prioritario di avviare al più presto una vera azione di Riforma della giustizia nel nostro paese e nella nostra Regione”. Nel programma della Lista Amnistia e Libertà per le elezioni regionali largo spazio è stato dato a questa problematica. “Nel nostro programma politico è posta bene in evidenza l’analisi che la Corte europea dei diritti dell’uomo ha compiuto sulle proprie decisioni nel cinquantennio 1959 - 2009 dove risulta che per l’eccessiva durata dei procedimenti civili e penali l’Italia ha riportato 1095 condanne, la Francia 278, la Germania 54 e la Spagna 11 - prosegue il candidato presidente alla Pisana per i Radicali - La situazione di grave crisi e sfascio in cui versa il nostro apparato giudiziario incide pesantemente sulla sua appendice ultima, quella carceraria, sicché nel contesto dato i concetti stessi di “pena certa” e di esecuzione “reale” della stessa rischiano di risultare fortemente limitativi se non del tutto fuorvianti. Il numero elevato ed in costante crescita della popolazione detenuta, che al 31 dicembre 2012 ammontava a quasi 67 mila unità - a fronte di una capienza regolamentare di poco più di 45 mila posti, produce un sovraffollamento insostenibile delle nostre strutture penitenziarie”. “Obiettivo della Lista Amnistia Giustizia Libertà - conclude Rossodivita - è quello di dare una risposta concreta rispetto allo sfacelo di cui sono corresponsabili tutti i partiti che hanno fino ad oggi letteralmente sgovernato il paese”. Nobile (Rc): emergenza delle carceri dimenticata “Quando si parla di dati allarmanti ci si aspetta che arrivi un intervento immediato da parte delle istituzioni per frenare e risolvere un’emergenza. Ma in Italia non funziona così soprattutto se si parla del nostro sistema carcerario. Basta leggere quanto emerge dal rapporto congiunto del Garante dei detenuti e della Fp Cgil Roma e Lazio sull’emergenza carceri nella nostra regione: tasso di sovraffollamento del 46%, carenza di organico del 25%, mancanza di misure alternative, sospensione di ogni diritto riconosciuto dalla Costituzione e dalle leggi italiane ed europee. Dati che confermano tutte le nostre denunce sulle condizioni di chi sconta una pena e di chi lavora all’interno dei penitenziari laziali. Un’emergenza che non nasce certo oggi ma che è il risultato di un sistema che non funziona, come certifica la recente condanna della Corte europea dei diritti umani, e di anni di politica degli annunci. Un’emergenza dimenticata dai nostri ultimi Governi e pure dalla Giunta Polverini, che mancando l’obiettivo della pianificazione della sanità penitenziaria, ha generato ulteriore caos e negato a tanti detenuti il diritto alla salute. Porre fine a questa vergogna e riformare il sistema della giustizia italiana sono impegni prioritari a cui il prossimo Governo non si potrà sottrarre”. Lo afferma, in una nota, Fabio Nobile, candidato di Rivoluzione Civile per la Regione Lazio. Roma: un call center dentro le mura di Rebibbia, progetto pilota della Coop “Alternative” di Fabrizio Caccia Corriere della Sera, 19 febbraio 2013 Sono 17 le detenute che lavorano all’interno al penitenziario: scontata la pena, potranno essere assunte a titolo definitivo. C’è un modo per evadere ancora piuttosto raro: va via solo la voce, esce dalla prigione, sega le sbarre, anzi le attraversa. Succede nel carcere romano di Rebibbia femminile, 399 ospiti recluse: 11 febbraio 2013, una data storica. È la loro voce che fugge libera nel vento, la voce delle 17 donne detenute che da lunedì scorso sono assunte, con contratto a progetto, nel call center interno al penitenziario e gestito dalla cooperativa sociale “Alternative”. Voce che più nessuno rincorre e ammanetta, anzi, dalle 9 alle 15 tutti i giorni entra nelle case degli italiani e dice al telefono “buongiorno” in maniera educata. “Ma che parlate a fa, ma che parlate a fa...”, era la canzone delle Mantellate, scritta nel 1959 da Giorgio Strehler e Fiorenzo Carpi, che raccontava la vita delle galeotte nel carcere romano di via della Lungara, ospiti di un vecchio convento riadattato. “Le Mantellate so delle suore, a Roma so soltanto celle scure, una campana suona a tutte l’ore, ma Cristo nun ce sta dentro a ‘ste mura...”. Poi, di nuovo, il triste ritornello: “Ma che parlate a fa, ma che parlate a fa, qui dentro ce ‘sta solo infamità”. Parlano eccome, invece, e sorridono pure, le 17 neo - assunte di Rebibbia, italiane e straniere, tra i 21 e i 65 anni, detenute per reati anche gravi, come l’omicidio e il traffico internazionale di stupefacenti. Tre mesi di rodaggio, poi a Rebibbia si spera di far partire pure il secondo turno, quello pomeridiano - serale. Le detenute vendono i servizi di telefonia di H3G (Tre Italia) e i servizi di connessione internet e Wi-Fi della società Aria Spa, grazie al protocollo sottoscritto il mese scorso dal Garante dei Detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, insieme con la direttrice di Rebibbia Lucia Zainaghi e il presidente della cooperativa sociale “Alternative” Gianni Fulvi. La retribuzione delle lavoratrici non è da buttar via: a un fisso di 500 euro al mese, infatti, si deve sommare una parte variabile, legata al volume di telefonate e di contratti, che può arrivare fino a 1000 euro mensili (più premi di produzione consistenti in borse di studio per i figli). Millecinquecento euro sono uno stipendio che i lavoranti detenuti all’interno delle prigioni italiane (il 20 per cento della popolazione carceraria) ormai si possono soltanto sognare, visto che la spending review ha colpito duro anche in questo campo e il Ministero della Giustizia, per il 2013, ha dovuto tagliare praticamente a “zero euro” il capitolo di bilancio relativo alle cosiddette “mercedi”, i compensi cioè legati alle attività svolte dai carcerati (cuochi, spesini, imbianchini, scrivani, porta vitto, scopini eccetera) che ormai lavorano gratis. Non solo. Per colpa della crisi ci ha rimesso pure gravemente la “legge Smuraglia”, che da due anni non viene rifinanziata, e prima invece garantiva incentivi economici alle aziende private in grado di assumere detenuti nelle carceri. Il ministro Severino ha annunciato 16 milioni di euro per quest’anno, ma finora il rifinanziamento è rimasto teorico. A Rebibbia, da lunedì scorso, funziona così: un vecchio magazzino è stato ristrutturato e ora ci sono 20 postazioni telefoniche e pure l’angolo del caffè. E come nel film Tutta la vita davanti di Paolo Virzì, titolo in questo caso decisamente beneaugurante, le nostre speciali operatrici di call center possono pure contare su una motivatrice, una team leader esterna, Marilena, con la fedina penale immacolata e bella come la Ferilli del film. Ci son voluti 6 mesi per far partire il progetto: in un carcere, infatti, neanche il direttore può usare il telefonino, figuriamoci autorizzare delle detenute a collegarsi col mondo intero! Ma il Ministero, dopo uno studio accurato, ha dato il via libera a un sistema di controllo che garantisce la massima sicurezza: è il centralino esterno della società Nover di Pomezia, infatti, a far partire le telefonate ai clienti e solo quando il ricevente alza la cornetta s’inserisce la voce dell’operatrice del “Rebibbia Call Center”, a cui le chiamate vengono inoltrate. Il Garante dei detenuti, Angiolo Marroni, è molto soddisfatto di questo esperimento: in un mondo come quello dei call center italiani sempre più caratterizzato dalle delocalizzazioni low cost nei Paesi più poveri (Albania, Tunisia), la scelta dell’amministratore delegato di Nover, Antonio Guarracino, che ha puntato sul carcere romano, appare decisamente in controtendenza. In più, nel protocollo firmato, è stato aggiunta una condizione: la possibilità, una volta scontata la pena, di essere assunte a titolo definitivo. “Carcere femminile ci hanno scritto, sulla facciata d’un convento vecchio, Sacco de paja ar posto der tù letto, mezza pagnotta e l’acqua dentro ar secchio...”. No, non è più tempo di Mantellate, per fortuna. Pistoia: Radicali; sovraffollamento record in carcere, detenuti quasi doppio del consentito La Nazione, 19 febbraio 2013 Visita dei Radicali alla Casa circondariale: 129 detenuti per un capienza di 70 posti. “Gravissimi problemi in infermeria”. I detenuti presenti attualmente sono 129 su una capienza di 70 posti (oltre 50% sono stranieri), mentre gli agenti di polizia penitenziaria sono 42 sui 70 previsti. È l’aggiornamento della situazione del carcere di Pistoia, dato dai Radicali dopo la visita di ieri di Marco Perduca, senatore radicale candidato in Toscana al Senato nella lista Amnistia giustizia libertà, Matteo Angioli, candidato in Toscana alla Camera, e i militanti radicali Laura Harth e Leandro Rafanelli. Sia i detenuti che gli agenti di polizia penitenziaria hanno ribadito le consuete denunce di un sistema “che - dicono i Radicali - da tutti i punti di vista rimane fuori norma e tutti hanno voluto manifestare sostegno alla lotta per la riforma della giustizia e per l’amnistia”. Quanto all’esercizio del diritto di voto alle prossime elezioni politiche, soltanto 11 detenuti hanno fatto formale richiesta di votare e soltanto 4 potranno effettivamente farlo. “Grave - continuano i Radicali - è la situazione dell’infermeria del carcere, che presenta una struttura inadeguata e al di sotto degli standard minimi di operatività necessari per assicurare un servizio sanitario accettabile. La situazione è a tal punto fuori norma che persino l’Asl si è rifiutata di farsi carico di questo problema, rinviando così la responsabilità al Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria”. Rimini: la Garante regionale Bruno; gravi condizioni igieniche, la prima sezione va chiusa www.nqnews.it, 19 febbraio 2013 Nuova visita ieri al carcere di Rimini della Garante regionale dei detenuti. Desi Bruno, garante regionale dei detenuti, in visita ieri alla Casa Circondariale di Rimini e alla “Casa Madre del Perdono” della Papa Giovanni XXIII. “A seguito della chiusura di alcune celle per inagibilità da parte della direttrice Maria Benassi, alla data della visita la Prima sezione ospita 38 persone: il numero delle persone presenti è stato dimezzato, ma permane una situazione caratterizzata da gravi condizioni igienico - sanitarie, che ne consiglierebbero caldamente la totale chiusura, e di sovraffollamento delle celle ancora in uso”, ha commentato la Garante dopo l’ispezione alla prima sezione del carcere riminese (terza visita dall’inizio del mandato) già oggetto di un intervento dell’Asl per la situazione di degrado complessivo e di pessime condizioni igienico sanitarie, ispezione che ha seguito quella di ‘Andromedà, sezione destinata a persone tossicodipendenti in regime di custodia attenuata. Desi Bruno e il vicesindaco Gloria Lisi (che l’ha accompagnata assieme alla direttrice del carcere e il comandante della Polizia penitenziaria) “chiedono al Provveditore regionale e al Dap che le persone ancora presenti vengano collocate in luoghi più idonei, in modo da consentire la chiusura della sezione”. Belle parole per la struttura d’accoglienza per detenuti della comunità Papa Giovanni XXIII Casa Madre del Perdono. “Invece di impegnare risorse faraoniche nel cosiddetto piano carceri, sarebbe doveroso costruire luoghi di accoglienza e di recupero su tutto il territorio, creare opportunità di crescita, formazione, lavoro e dialogo, riducendo il sovraffollamento e accompagnando le persone che escono dal carcere a ùesistenza normale”, ha concluso la Garante delle carceri. Genova: detenuti al lavoro nei cimiteri, Comune sigla protocollo con Magistratura e Prap Adnkronos, 19 febbraio 2013 Detenuti al lavoro nei cimiteri genovesi. Il Comune di Genova, assessorato Legalità e Diritti, il Provveditorato Regionale per l’Amministrazione Penitenziaria per la Liguria e la Magistratura di Sorveglianza di Genova, hanno sottoscritto un protocollo d’intesa per l’inserimento lavorativo di persone sottoposte a esecuzione penale. In collegamento al protocollo, nell’ambito del progetto “Una Mano Amica nei Cimiteri di Genova”, sono stati sottoscritti alcuni accordi operativi con le direzioni delle case circondariali di Genova - Marassi e di Pontedecimo e con l’ufficio Esecuzione Penale Esterna, per l’inserimento lavorativo di otto persone, uomini e donne, sottoposte a provvedimenti giudiziari restrittivi nei due istituti genovesi, e di soggetti sottoposti a misura alternativa alla detenzione in carico al locale ufficio di Esecuzione Penale Esterna. Il progetto prevede l’erogazione di otto borse - lavoro, nel periodo compreso tra i mesi di marzo e ottobre, per interventi di manutenzione ordinaria, pulizia e mantenimento del decoro in alcuni cimiteri della città (il cimitero monumentale di Staglieno, il cimitero Torbella di Rivarolo e il cimitero Castagna di Sampierdarena). Gli interventi, che si ripeteranno tre volte alla settimana, avranno inizio dopo una breve formazione di addestramento al lavoro. Ragusa: proposta Comune; detenuti puliscano Vallata S. Domenica, polmone verde città di Giovanna Zappulla www.lagazzettaiblea.it, 19 febbraio 2013 Ripulire e riqualificare la Vallata di Santa Domenica, il polmone verde di Ragusa, tramite un progetto, di respiro sociale, che impieghi, nelle operazioni di pulitura del sito, propedeutiche alle successive azioni di bonifica della Forestale, i detenuti del carcere di contrada Pendente. È la proposta, presentata lo scorso mese, dal consigliere comunale di Ragusa Grande Di Nuovo, Emanuele Di Stefano, al Commissario straordinario dell’ente di Palazzo dell’Aquila, Margherita Rizza. Progetto scaturito, spiega Di Stefano, dal recupero, assieme ai vertici della casa circondariale di Via G. Di Vittorio, della bozza della convenzione che i due enti, Comune e Casa circondariale, potrebbero stipulare. Ho provveduto a stilare, spiega Di Stefano, anche il programma degli interventi di pulizia da attuare, dopo aver contattato un agronomo e quantificato con lui la mole di lavoro utile alla ripulitura del sito. Occorrerebbero, spiega Di Stefano, 7 - 8 persone per circa 10 mesi. Le operazioni riguarderebbero lo smaltimento dei rovi che andrebbero accumulati a porzioni e incendiati in maniera controllata. Insomma interventi utili alle successive operazioni di bonifica della Forestale, per i quali esiste già una convenzione che attende soltanto di essere firmata. Dunque, le operazioni di bonfica a carico della Forestale sarebbero la potatura degli alberi che insistono sulla vallata, la ripulitura dei terrazzamenti, il recupero del ponticello che risale a qualche secolo fa, la bonifica di un piccolo fiumiciattolo e l’agibilità in toto del sito. La previa pulizia del sito, con l’impiego dei detenuti, costerebbe al Comune di Ragusa 3 mila euro circa. Soldi utili, aggiunge Di Stefano, alla copertura dell’assicurazione, acquisto dell’abbigliamento antiforntunistico, e alla diaria giornaliera di circa 5 euro per i 7 - 8 detenuti impiegati. Insomma, se si considera, conclude Di Stefano, il bilancio precedente, si tratterebbe semplicemente del 3% dei 150 mila euro destinati alla Vallata. Il Commissario Rizza, però, commenta Di Stefano, è sorda alle ripetute sollecitazioni e pare voler continuare su questa linea fino alla scadenza della legislatura. Mi appello, dunque, conclude Di Stefano, al candidato sindaco Giovanni Cosentini affinché inserisca questo progetto nel suo programma elettorale. Milano: inaugurato oggi il primo negozio di prodotti e servizi “made in carcere” www.mi-lorenteggio.com, 19 febbraio 2013 Apre a Milano il primo polo italiano dell’economia carceraria. È stata inaugurata oggi, in via dei Mille 1 angolo piazzale Dateo, la nuova sede dell’Acceleratore d’impresa. Un nuovo store dedicato ai servizi e ai prodotti di aziende nate all’interno delle case circondariali milanesi. In totale, 200 mq e 5 vetrine su strada messi a disposizione dal Comune di Milano per promuovere un’iniziativa nata dalla cooperazione tra l’assessorato alle Politiche per il Lavoro, il Provveditorato alle Carceri e 15 realtà imprenditoriali. Il risultato è uno store per commercializzare e far conoscere alla cittadinanza quanto di meglio viene realizzato dai detenuti di Bollate, Opera, San Vittore e Beccaria. “L’inaugurazione di questo nuovo spazio è il giusto punto di arrivo di un percorso volto a valorizzare il lavoro, le professionalità e le imprese nate all’interno delle carceri milanesi. Lavoro, prodotti e servizi che trovano oggi una vetrina per aprirsi alla città e rafforzarsi sul mercato”. Così l’assessore alle Politiche per il Lavoro Cristina Tajani ha commentato l’apertura della nuova sede dell’Acceleratore d’impresa, precedentemente situato in via Bottego. “L’impegno dell’Amministrazione comunale per valorizzare le attività produttive svolte in carcere non si conclude certo oggi - ha spiegato l’assessore Tajani. Grazie a un finanziamento di 20mila euro sarà realizzato, infatti, un pozzo per l’acqua nel carcere di Bollate, destinato ad alimentare le molteplici attività svolte: dalle serre al maneggio, sino alle lavanderie”. Il nuovo spazio di via dei Mille consentirà a 15 diverse realtà imprenditoriali, a rotazione, di esporre e vendere i propri prodotti e servizi. Dalla manutenzione del verde e dalle coltivazioni floro - vivaistiche ai lavori di falegnameria, sartoriali e pelletteria. Dai servizi di call center e data entry a quelli di ristorazione, banqueting e catering, passando dalla realizzazione di impianti e quadri elettrici fino alla creazione di mobili ecosostenibili, scenografie e produzioni video. La finalità della nuova sede dell’Acceleratore d’impresa consiste nell’agevolare i contatti tra imprese carcerarie, imprese esterne e cittadini, nell’ottica di considerare le carceri quali “siti produttivi” e veri e propri incubatori d’impresa. Lo spazio di piazzale Dateo ospiterà anche incontri, seminari e iniziative a livello nazionale. Lecce: resoconto convegno “Morire di carcere”, organizzato dalla Comunità Andare Oltre www.futuratv.it, 19 febbraio 2013 “Vogliamo innanzitutto rivolgere un pensiero al nostro Gregorio Durante e ai suoi familiari, ringraziare la comunità Andare Oltre per l’impeccabile organizzazione dell’evento e tutti i relatori intervenuti” afferma in una nota Pierpaolo Giuri, responsabile neretino di Forza Nuova, che continua: “una serata che difficilmente potremo dimenticare, ascoltare le parole di Ornella, la mamma di Gregorio e della mamma di Simone Renda, non può che spronarci ancora di più nel portare avanti questa battaglia di civiltà e giustizia”. “Civiltà e giustizia due parole ormai bandite nella realtà dei fatti dello stato italiano, uno stato che si trova palesemente in una situazione di flagranza di reato” - dichiara Luigi De Micheli, uno dei relatori della serata. “Sovraffollamento, carenza di personale, strutture fatiscenti, strutture nuove e mai utilizzate, lunghezza della durata dei processi, sono solo alcune delle problematiche che affliggono il sistema carcerario e più in generale la giustizia in Italia. Ma soprattutto, mi preme sottolineare, uno spregiudicato uso della custodia cautelare (il 40% dei detenuti è con uno status di imputato e non di condannato) che nella realtà dei fatti serve ai magistrati per far scontare mesi di pena sicuri prima che intervenga la prescrizione a causa della lungaggine dei processi. Situazione a dir poco drammatica, confermata dalla condanna che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha emesso nei confronti dell’Italia in violazione dell’art.3 della Convenzione Europea (Divieto della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti)”. “Situazione poco rosea che abbiamo ritrovato durante la nostra visita insieme a Sergio D’Elia nel carcere leccese di Borgo San Nicola “afferma Pierpaolo Giuri. “Carenze colmate in parte dal grande impegno del direttore Antonio Fullone e di tutto il suo personale, ma che purtroppo non bastano per riempire il vuoto lasciato dalle istituzioni. Un vuoto ancora più preoccupante se sommato al totale disinteresse della società civile nei confronti del “problema carceri”, dovuto alla sostanziale ignoranza al riguardo. Ben vengano dunque, eventi come quello organizzato dalla comunità militante Andare Oltre il 16 febbraio a Nardò e riempito di contenuti da parte di chi con coerenza e tenacia, come i Radicali, da anni porta avanti questa battaglia”. “E vogliamo ringraziare Sergio D’Elia e Rita Bernardini” - continua Luigi De Micheli - “per l’interessamento dimostrato nei confronti del caso da noi esposto di Daniele Scarpino, Diego Masi, Luca Ciampaglia e Mirko Viola. Quattro ragazzi incensurati detenuti da tre mesi in isolamento per aver pubblicato su internet testi revisionisti. È assurdo che oggi in uno stato che si definisce democratico e libero dei ragazzi vengano reclusi per reati d’opinione. Libertà e dignità di quattro ragazzi calpestata solo perché hanno avuto la “colpa” di dire qualcosa di contrario al pensiero unico imperante imposto da determinate lobbie. Invito dunque tutti, in conclusione, ad informarsi ed informare sulla questione carceraria e più in generale su quella della giustizia in Italia perché solo con la cultura e con l’informazione possiamo risollevare le sorti di questo paese. Vigevano (Pv): i carri allegorici in carcere addobbati dai detenuti La Provincia Pavese, 19 febbraio 2013 Li hanno visti con i propri occhi e hanno anche riconosciuto quei fiori, tra i 12mila, realizzati con le proprie mani. Venti detenuti, di cui 7 donne e 13 uomini, hanno sfilato ieri mattina insieme ai carri allegorici del Carnevale vigevanese. Grazie all’associazione Carnevale vigevanese, presieduta da Carmelo Tindiglia, quest’anno per la prima volta nella storia locale il Carnevale è entrato anche nella casa circondariale della frazione Piccolini. Alle 10 i tre carri - la scarpa, la torre del Bramante e l’antica Roma - hanno varcato il cancello del carcere e sfilato lungo le mura di cinta, mentre alcuni dei detenuti che hanno realizzato i fiori, li hanno seguiti gettandosi coriandoli. Gli altri detenuti hanno assistito allo spettacolo dalle proprie celle. “È una vittoria del territorio - commenta Davide Pisapia direttore del carcere - che per un giorno ha avvicinato il carcere a sé. Per i nostri detenuti è stato sicuramente un momento di riflessione, un piccolo impegno per capire che è possibile riparare a ciò che hanno danneggiato. Ho avuto subito fiducia in questo progetto”. Positivo anche il commento degli educatori. “Realizzare i fiori per i carri - ha spiegato Camilla Perrone, che ha lavorato insieme a Cira Bonocore - è stato un momento di socializzazione e di apertura. Pensare che i propri figli o i propri nipoti avrebbero potuto vedere quei carri per loro è stato importante”. I detenuti hanno anche lasciato altri messaggi. Tra i costumi, infatti, c’erano anche delle “margherite”: sui loro petali erano scritte alcune frasi: un saluto, un pensiero, qualcosa che da dietro le sbarre i carcerati hanno voluto far dire alla città. “È stato un percorso lungo - ha concluso Tindiglia - con un po’ di fatica e molta determinazione, però, ci siamo riusciti. Abbiamo dedicato il nostro tempo, ma non solo. Credo che usciremo tutti più arricchiti dopo questa esperienza”. Immigrazione: materassi dati alle fiamme e spranghe, in 5 fuggono dal Cie di Gradisca Il Gazzettino, 19 febbraio 2013 Rivolta a colpi di spranghe e materassi dati alle fiamme al Cie di Gradisca, a Gorizia: 5 ospiti della struttura, tutti magrebini, armati di bastoni, sono riusciti a fuggire ieri sera. Le violenze, scoppiate nella notte tra domenica e lunedì, sono continuate fino a questa mattina. La rivolta tra domenica e lunedì. A tentare la fuga sono stati complessivamente una trentina di clandestini detenuti nel centro, che hanno affrontato il personale di vigilanza armati di quello che hanno trovato nel centro, come le spranghe. Secondo quanto si è appreso, gli immigrati sono usciti dalle aree di pertinenza utilizzando un mazzo di chiavi, sul cui possesso da parte dei detenuti sono in corso indagini. Ieri sera il rogo dei materassi. Nella serata di ieri gli immigrati hanno dato fuoco a suppellettili e materassi, nel tentativo di danneggiare le camere con l’obiettivo di innescare una nuova rivolta. A seguito di quest’ultimo episodio, è stato deciso di rimuovere i materassi dalle camere dove si trovano gli immigrati. Il sindacato: situazione insostenibile che va affrontata. Molto critico il sindacato che denuncia la “mancata risoluzione dei problemi legati al Cie di Gradisca da parte della Questura, chiedendo l’individuazione di un funzionario che si occupi unicamente della gestione della struttura”. Immigrazione: Ilaria Cucchi (Rc); rinchiusi nei Cie senza aver fatto nulla di male di Valeria Costantini Corriere della Sera, 19 febbraio 2013 La candidata alla Camera di Rivoluzione civile: rabbia e sconforto tangibili. Gabriella Guido di LasciateCIEntrare: “Chiudere queste carceri per immigrati. “Una rivolta annunciata, portata avanti da chi è richiuso senza aver fatto nulla di male”: Ilaria Cucchi ha ancora negli occhi le immagini di quei ragazzi nigeriani disperati, detenuti nei cameroni del Cie di Ponte Galeria. La capolista alla Camera per il Lazio di Rivoluzione Civile, aveva avuto modo di visitare il centro romano lo scorso 4 febbraio in occasione della campagna “LasciateCIEntrare”. “Lo sconforto e la rabbia erano tangibili, - racconta Ilaria - uomini e donne urlavano attraverso le sbarre, cercando di raccontarci la loro storia, di chiederci aiuto. È indispensabile che oltre al problema delle carceri, il Governo si occupi anche di risolvere l’emergenza in questi centri di detenzione”. A raccontare la tensione esplosiva che si respirava al Cie, è la stessa portavoce della campagna LasciateCIEntrare, Gabriella Guido: “Da tempo insieme a tante altre associazioni, chiediamo la chiusura di queste carceri per immigrati - sottolinea - Serve una nuova normativa in materia di detenzione amministrativa, altrimenti episodi come quello di oggi non faranno che ripetersi e degenerare”. Anche Roberto Natale, ex presidente della Federazione Nazionale Stampa Italiana e oggi candidato Sel alle prossime elezioni politiche, non ha dubbi sull’urgenza di chiudere i Centri di Identificazione ed Espulsione italiani. “Non solo perché si tratta di bombe sociali pronte a esplodere, di concentrati di violenza e soprusi, in cui viene rinchiuso chi non ha commesso alcun crimine, - ricorda Natale - ma anche per lo spreco di fondi pubblici che vengono usati nella creazione e gestione di queste strutture”. A rendere più rischiosa la situazione al complesso di Ponte Galeria, secondo la Guido, è la bassa età media dei detenuti. “Ci sono molti giovanissimi, soprattutto nord - africani. - aggiunge - In altri centri sono rinchiusi uomini adulti, più drammaticamente abituati a dover subire questo genere di deprecabile detenzione”. Iraq: liberati 2.485 detenuti, metà dei quali condannati per reati di terrorismo Nova, 19 febbraio 2013 Le autorità di Baghdad hanno rilasciato 2.485 detenuti iracheni, metà dei quali erano stati condannati per reati di terrorismo. Secondo quanto riferisce il sito web d’informazione “Elaph”, una commissione ministeriale incaricata di ascoltare le richieste dei manifestanti nelle province occidentali sunnite del paese ha annunciato ieri la liberazione di una serie di persone in stato di fermo o condannate in primo grado. Tra questi individui figurano 1.077 detenuti condannati per reati di terrorismo. Da circa due mesi si tengono infatti nella provincia di al Anbar continue manifestazioni contro il premier iracheno Nouri al Maliki per chiedere la liberazione dei detenuti sunniti e l’abrogazione della legge contro il terrorismo che ha colpito soprattutto i sunniti. Israele: 800 detenuti palestinesi in sciopero fame in segno di solidarietà Adnkronos, 19 febbraio 2013 Ottocento palestinesi detenuti nelle carceri israeliane di Nafha, Ramon ed Eshel hanno intrapreso uno sciopero della fame per un giorno in solidarietà con i sei prigionieri che da mesi rifiutano il cibo in segno di protesta nei confronti di Israele. Lo annuncia la Società dei detenuti palestinesi di Ramallah citata dall’agenzia di stampa Màan. L’obiettivo è quello di aumentare la pressione sulle autorità carcerarie israeliane in modo che accolgano le richieste dei detenuti, che chiedono di essere processati o rilasciati. L’amministrazione israeliana, invece, consente di tenere in carcere una persona anche senza processo. Alla protesta hanno aderito i movimenti di Hamas, la Jihad islamica, il Front Popolare per la Liberazione della Palestina e il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina. Ieri si sono svolte manifestazioni a Betlemme, Hebron e Ramallah in solidarietà con i detenuti in sciopero della fame nelle carceri israeliane. Il ministro dell’Autorità nazionale palestinese per le questioni dei prigionieri Issa Qaraqe ha messo in guardia dallo scoppio di una rivolta popolare. Anche venerdì centinaia di palestinesi hanno protestano in Cisgiordania in solidarietà con i detenuti in sciopero della fame. Fuori dal carcere di Ofer, vicino a Ramallah, in centinaia hanno manifestato in solidarietà di Samer Issawi, in sciopero della fame da 202 giorni, e di Tareq Qaadan e Jaafar Azzidine che rifiutano cibo da 84 giorni. Israele: il “prigioniero X” s’impiccò nel bagno, notizia da rapporto ufficiale magistratura Adnkronos, 19 febbraio 2013 Ben Zygier, il misterioso “prigioniero X” morto in un carcere israeliano nel 2010, s’impiccò con un lenzuolo nella doccia della sua cella. Lo rende noto un rapporto ufficiale. A quanto riferiscono i media israeliani, l’indagine guidata dal giudice Blatman Kedrai ha stabilito che il detenuto si è suicidato e ha evidenziato negligenze da parte degli addetti alla sua sorveglianza. La procura dovrà ora decidere se tali negligenze giustificano una incriminazione dei presunti responsabili. I nuovi detagli sono stati resi noti dopo che il governo israeliano ne ha autorizzato questa mattina una pubblicazione parziale. Intanto l’ex ministro australiano degli Esteri Alexander Downer ha detto alla radio del suo paese di ritenere che Zygier sia stato arrestato “per motivi ben più gravi” dell’aver passato informazioni sul Mossad ai servizi australiani. Emersa la settimana scorsa sui media australiani, la vicenda del prigioniero X rimane ancora misteriosa. Secondo l’emittente australiana Abc, Zygier era un ebreo australiano emigrato in Israele. Ingaggiato dai servizi israeliani del Mossad si era servito di passaporti australiani per le sue missioni, una delle quali sarebbe stata la costituzione in Italia di una società di comunicazioni in affari con paesi arabi e l’Iran. L’arresto in Israele, in seguito al quale si è impiccato, sarebbe scattato perché Zygier aveva rivelato informazioni ai servizi australiani dell’Asio. L’intera vicenda era stata tenuta segreta e Zygier era noto solo come il prigioniero X. Belgio: respinta la richiesta di libertà condizionale per Dutroux, il “Mostro di Marcinelle” Ansa, 19 febbraio 2013 Il tribunale di Bxuxelles ha respinto la richiesta di scarcerazione anticipata per Marc Dutroux, il pedofilo belga meglio noto come il “Mostro di Marcinelle”, condannato all’ergastolo nel 2004 per aver rapito e stuprato negli anni ‘90 sei ragazzine di età dagli 8 ai 19 anni e di averne uccise quattro. La richiesta di Dutroux, di arresti domiciliari con il braccialetto elettronico, aveva sollevato l’ira di tutto il Belgio. La stessa madre del criminale, Jeannine, stamane, aveva chiesto di non scarcerarlo. Non rilasciatelo, lo rifarà”: a poche ore dall’imminente decisione del tribunale di Bruxelles sulla scarcerazione anticipata di Marc Dutroux a opporsi alla sua libertà è Jeannine, la madre del pedofilo condannato all’ergastolo nel 2004 per aver rapito e stuprato negli anni 90 sei ragazzine di età dagli 8 ai 19 anni e di averne uccise quattro. I giudici di Bruxelles sono chiamati a decidere oggi sulla concessione al “mostro di Marcinelle” dei domiciliari con braccialetto elettronico. L’amministrazione penitenziaria aveva già respinto due volte la richiesta della difesa di Dutroux, che però a partire dalla fine di aprile avrà scontato un terzo della pena e ha quindi diritto a richiedere misure di riduzione. Le chances che “il detenuto più odiato in Belgio” possa essere scarcerato sono poche ma questo non ha impedito alla madre, 78 anni, di lanciare un allarme: “Marc - ha detto in un’intervista a Le Soir - non è pronto per essere rilasciato poiché ancora oggi attribuisce ad altri la responsabilità di ciò che ha fatto”.