Parlare delle carceri non fa prendere voti Il Mattino di Padova, 18 febbraio 2013 A pochi giorni dalle elezioni, i programmi elettorali il carcere l’hanno pressoché cancellato dai loro orizzonti, perché fa solo perdere voti, o meglio, di voti ne fa guadagnare a chi promette sempre più galera, per qualsiasi reato. Noi invece, raccontando le carceri sovraffollate, dove si passano mesi e anni a non far niente, vorremmo ricordare ai candidati che prevedere delle pene sensate, trattare i detenuti come persone e aiutarli a ricostruirsi un futuro è l’unico modo per garantire ai propri elettori una vera sicurezza. Vita da sovraffollati Come trascorre il detenuto la sua giornata in un carcere sovraffollato? La domanda in sé sembra facile, ma la risposta non lo è, perché come si fa a descrivere il tempo passato a non fare nulla e la noia infinita? Cercherò comunque di descrivere una giornata ordinaria in carcere, cosi almeno la gente cosiddetta libera capirà bene cosa vuol dire il sovraffollamento, e si renderà conto anche che non è un problema di esseri umani che stanno stretti in uno spazio ridotto, ma un problema di reinserimento del detenuto, che in un carcere strapieno non è possibile. Credo che la maggioranza della gente fuori immagini la giornata di un recluso come si vede nei film americani: sveglia la mattina presto, tutti in mensa per la colazione, lavoro, palestra, pranzo in comune in una grande sala, il tempo di fumarsi una sigaretta e poi di nuovo in cella a leggere un libro o guardare la TV. Sembra una cosa divertente, mangiare, guadare la televisione e dormire sotto un tetto sicuro, e tutto gratis, sembra quasi la descrizione di una vacanza a tutto relax, ma non è cosi la realtà delle carceri italiane. Io sono un detenuto che faccio parte della redazione di “Ristretti Orizzonti”, dove scriviamo sui problemi carcerari, incontriamo gli studenti, discutiamo, siamo impegnati per due ore la mattina e due ore il pomeriggio, cosi ogni giorno ho qualcosa da fare e da imparare e dò un senso alla detenzione. Ma nei giorni delle feste la redazione era chiusa, allora anch’io ho sperimentato cosa significa dover stare in cella a non fare niente dalla mattina alla sera, come sono costretti a fare ogni giorno almeno cinquecento detenuti, dei novecento che ci sono nella Casa di reclusione di Padova. Ecco allora una giornata di carcere, da dimenticare interamente perché non c’è niente che valga la pena ricordare: mi sveglio la mattina all’apertura dei cancelli, faccio colazione e fumo una sigaretta, dopo torno a letto a guardare la tv, alle 11:30 arriva il pranzo, mangio e fumo un'altra sigaretta, dopo mi metto a guardare il telegiornale, verso le 12.30 vado a fare la doccia, mi rivesto, rifaccio il letto, bevo un caffè mentre penso a cosa dovrei fare dopo, ma siccome non c’è niente da fare torno a letto a guardare la tv (i soliti programmi ripetuti all’infinito) fino all’ora della cena che viene servita alle 16.30, dopo mangiato passo un’oretta camminando avanti e indietro in pochi metri e chiacchierando con un compagno, alle 19:30 è l’orario della chiusura delle celle e la fine di una giornata inutile come migliaia di altre qui dentro. Avete immaginato bene tutte le scene della giornata? io sì, mi sono immaginato come un cane chiuso in una gabbia di meno di tre metri quadrati, che mangia e dorme e qualche volta si muove avanti e indietro, in questo caso gli animalisti dicono che è maltrattamento far vivere un cane in queste condizioni, immaginate un essere umano fare questa vita per tre quattro cinque anni anche di più, per forza la maggior parte dei reclusi cerca di evadere da questa realtà con gli psicofarmaci. Ho cercato di descrivere una giornata qualsiasi di un detenuto immerso nel problema del sovraffollamento, senza un percorso di rieducazione vero. Io mi sento fortunato perché qualcosa sto facendo, ma la maggioranza dei detenuti che non fa niente dalla mattina alla sera cosa potrà imparare dalla sua carcerazione? niente, proprio niente, solo delinquenza, e potrà così diventare un pericolo per la società. Perché se nessuno cerca di fargli capire dove hanno sbagliato, è impossibile che diventino delle persone diverse e utili per la società. Sofiane. M. Programmi elettorali che promettono sicurezza e creeranno solo insicurezza In campagna elettorale si sente in modo quasi ossessivo pronunciare la parola “sicurezza” per tranquillizzare la gente con l’idea che lo Stato si preoccupa realmente di questo aspetto della vita della popolazione. Ecco allora una gara di notizie di cronaca nera, con filmati, interviste, coinvolgimento di psicologi, criminologi, per contribuire a “condannare” almeno mediaticamente le persona sospettate di aver commesso un reato. E non mancano i particolari anche più crudi, ora siamo tutti assunti dal RIS, sappiamo tutto, ci sentiamo tutti poliziotti, avvocati, giudici. Giornali e televisioni ci dicono che vogliono fermare la violenza, ma come? Con altrettanta violenza nel linguaggio, nell’istigazione al fai da te, al farsi giustizia da soli, a creare nuovi reati, come l’omicidio stradale o il femminicidio. Si raccontano storie di reati senza neppure rispettare la fascia protetta, non conta più il riserbo delle procedure investigative, serve “ripiantare” un ulteriore coltello in una piaga già aperta dallo stesso reato, mostrare scene raccapriccianti, mettere in bocca agli intervistati parole come: mi faccio giustizia da me, le pene sono troppo leggere nel nostro Paese. Ho l’impressione che nella società si stiano creando altre mura oltre a quelle del carcere, sono mura invisibili, ma per chi come me è dentro, sono palpabili e immettono nel corpo di ciascuno la paura del futuro, l’incubo di cosa succederà quando usciremo. Certo che con il biglietto da visita di ex detenuto, se poi si aggiunge il fatto che per il sovraffollamento ognuno di noi non è stato se non minimamente seguito all’interno e tanto meno è stato messo a contatto con l’esterno durante la pena, chi mi accetterà con il marchio che ho appiccicato in fronte e che ogni detenuto si sente moralmente addosso? Chi esce dal carcere oggi, dopo essere stato ammassato per anni in condizioni sempre più disumane, ha paura anche di rientrare in famiglia, se ancora c’è una famiglia che lo aspetta, o la famiglia proprio non ce l’ha più, se per colpa del suo reato ne ha in qualche modo causato la fine, magari anche senza volerlo, perché ha fatto uso di droghe e per procurarsele è arrivato a compiere reati. Ed è stato poi escluso dal contesto sociale e per giunta lasciato solo in un carcere, non seguito come dovrebbe essere se fosse in una struttura per tossicodipendenti, se fosse curato, seguito da psicologi, aiutato a ridurre con gradualità gli psicofarmaci. Oggi invece se di psicofarmaci ne chiedi di più te ne danno a volontà, così stai tranquillo, dormi e nessuno deve perdere tempo per recuperarti, tanto quando sarai fuori sono problemi tuoi e di chi incontrerai. Anche questo “non fare” è violenza sulla persona che ha commesso un reato, ma anche sulla società: non si fa nulla per riportare le persone sulla strada giusta e spesso si giustifica questa inerzia con il fatto che non ci sono fondi e non c’è il personale sufficiente e adatto ad occuparsi della “ricostruzione” di chi ha commesso reati ed è finito in carcere. Queste sono le galere che dovrebbero garantire la sicurezza sociale al cittadino, che si ritrova invece a dover pagare le conseguenze di certe politiche che hanno pensato solo a punire, e non ad aiutare le persone a rientrare nella società. Ulderico G. Giustizia: matti da slegare, l’inferno finisce di domenica di Adriano Sofri La Repubblica, 18 febbraio 2013 Barcellona Pozzo di Gotto (Messina). Ci avviciniamo al Terzo Reparto, e uno grida, rivolto prima al direttore, poi a tutti noi: “Me lo merito? Non me lo merito! Non me lo merito!”. Abbiamo già visitato il Primo Reparto, il direttore ci ha avvertiti: “Al Terzo è più dura”. È il vecchio Reparto Agitati. Non ci sarà nessun atto inconsulto, solo facce e gesti gentili e ansiosi e tristi. C’è un giovane chiuso, con lui bisogna stare attenti, avvertono; è lui stesso a sbattere la porta blindata della cella addosso al cancello già chiuso. Le altre camere sono aperte, grandi e luminose, sei persone, niente letti a castello. Pochi stanno in branda: meno di quanti se ne troverebbero, a qualunque ora, in una galera “normale”. Sta passando il carrello del vitto, portato da due giovani signore dall’aria cordiale. Gli internati (si chiamano così) raccontano di sé succintamente, devono aver fatto l’abitudine ai visitatori e imparato a usare il minuto che può toccar loro. “Venivano come al giardino zoologico”. Dicono il nome, l’età, gli anni che hanno trascorso lì, e una frase essenziale o due. Giovanni, 37, di Benevento, da dodici anni negli Opg di Secondigliano e di Aversa prima di qui, mostra una pancia rigonfia da un lato, “un accoltellamento, devo essere operato”. Francesco, 33 anni, “mi sono impiccato, volevo smettere di vivere, invece ho ricominciato a fumare”. Un altro Giovanni, “faccio 82 anni il 29 dicembre, ma sulle carte legali a febbraio”, qui da due anni, “spero di restarci, a Messina un inferno, in nove in una cella”. Vincenzo, di Palermo, è qui da diciassette anni. Salvatore è di Comiso, è giovane, si mette a piangere: “Mi manca la mia mamma”. Gli Opg chiudono il 31 marzo, “ma è domenica!”, dice allarmato. Già. Mi abbraccia, ha voglia di abbracciare, molti qui ce l’hanno. Carlo è più riservato all’inizio, poi cambia. “Trentasei anni, sono arrivato a trentatré, sto invecchiando qua dentro. Ho preso due anni per oltraggio, ho picchiato uno perché non volevo i farmaci, sono già alla seconda proroga. Mio padre lavorava all’Ilva a Taranto, è morto di tumore. Io scrivevo canzoni, guardate la mia poesia su Youtube, Catene”. L’ho guardata, poi. Domenico, 40, ha fatto un anno di carcere, dieci di manicomi. “Non chiedo licenze perché non ho i soldi. Sono in dialisi da quando avevo diciott’anni. Non ce la faccio più, sono tutto consumato”. Uno mi invita in disparte, è quello che gridava: “Me lo merito? Non me lo merito!”, vuole dirmi qualcosa. Mi sussurra, che gli altri non sentano: “Non me lo merito!”. Penso che non se lo meriti. Tutti nominano le proroghe. Chi viene qui non è imputabile, ma è dichiarato socialmente pericoloso. Alla scadenza dei due anni, viene prorogato di altri due (o cinque o dieci). All’infinito. Nella maggioranza dei casi, perché non ha dove andare fuori, e nessuno vuole accoglierlo. Un obbrobrio. Il letto di contenzione è in una stanza bianca e linda. In verità tutto il reparto è ristrutturato di fresco, imbiancato: pavimento lustro, servizi igienici puliti, refettorio comune. È un letto normale, con una cinghia da passare sul petto, la “fiorentina”. Ce ne sono tre in tutto. Quando arrivai, dice il direttore, Nunziante Rosania, ce n’erano ventisette. Di quelli in cui la persona denudata è legata ai polsi e alle caviglie, e al centro del pagliericcio lurido c’è un buco dal quale defecare, e la persona a volte veniva lasciata lì per giorni e settimane e mesi. Guardate su Youtube il documentario girato dalla Commissione parlamentare, se vi regge il cuore. Buona parte dell’Opg è sequestrata dalla Commissione presieduta da Ignazio Marino, e un paio di reparti sono già chiusi. Nel prossimo, un giovane, Salvatore, mi si avvinghia al collo e mi bacia con foga, e fa lo stesso col direttore, che è due spanne più alto di lui e di me. Poi si precipita ad allestire una performance per la giovane fotografa, combinando giacche e attaccapanni, giornali, disegni, dolciumi. Intanto gli altri ci fanno ressa attorno. Remigio, 34 anni di Brindisi, racconta convulsamente la sua epopea di figlio di buona famiglia, tossicomane, rapinatore, e molto altro. Giuseppe: “Mia mamma è morta nel 2011, ho sempre il pensiero di lei, lei mi ha nutrito, mi ha vestito”. M., 36, marocchino, “ho preso due anni perché ho spaccato una televisione alla stazione centrale di Milano, dopo sempre proroghe, da sette anni. A Milano ho due sorelle, i cugini, potrei almeno fare il colloquio “. Peppino, 54 anni, li ha compiuti oggi, e ringrazia il direttore, perché sua moglie gli ha fatto la torta, “di pandispagna, buonissima “. (Non era previsto che lo sapessimo, dunque lo annoto con piacere). Salvatore, 53, “ho passato quattro mesi in carcere a Catania, molto meglio qui, leggo, scrivo poesie”, mi regala un libro che le contiene, L’altra libertà. Antonio è di quelli che se ne stanno in branda, ma si alza: 75 anni, è successo a marzo, “è partito un colpo di fucile” - ha colpito una donna, quel colpo - finisco i miei giorni qui dentro, almeno fosse un vero ospedale. Ci ha accompagnati un ispettore della polizia penitenziaria, deve averne viste tante. Chiudendo gli Opg finisce, dice, che quelli difficili da gestire li mettono semplicemente a marcire in galera. Non mi piace la demagogia, aggiunge. Ci esorta a chiedere a chi è stato anche in carcere dove si stia meglio. Gioco facile. Pasquale, 45 anni: “Non voglio che chiude”. Sta molto male, mostra il braccio tutto tagliato, avverte: “Mi impicco stanotte”. Ha girato tutti gli Opg: “Questo è il meglio”. “Non riusciamo, con lui”, dicono, e scuotono la testa. Torna sempre. Ho tanti appunti. Mi dispiace, capisco che non si intravedano nemmeno, dietro le due righe a testa, le persone in pena. Ci sono oggi a Barcellona 183 internati, più diciotto detenuti “normali” aggregati per lavorarci. La maggioranza è qui per i più futili motivi. Una quarantina ha commesso uno o più omicidi, quasi tutti in famiglia. Non è vero che non ne vogliano parlare, o che mentano. Oggi questo resta un posto infame, in cui persone malate vengono tenute prigioniere, e persone innocue vengono sequestrate perché fuori per loro non c’è posto. Ma com’è possibile, chiedo, che, alla vigilia, finalmente, di una chiusura decretata da anni, questo luogo si mostri decente, e appena poco fa era un inferno di abiezione? Dal 1997 al 2007 le cose cambiarono enormemente, rispondono. Venne espulsa la genia dei grandi mafiosi simulatori. Dal 2008 tutto precipitò. “C’erano centosessanta internati, un anno dopo quattrocento. Altro che letti a castello. Ci scaricavano - alla lettera, furgoni pieni - persone in condizioni estreme. In due anni abbiamo perso sessantadue agenti, in pensione anticipata o riformati all’Ospedale militare: non ce la facevano più. Non riuscivamo a pagare i farmaci. Abbiamo cinquantotto mila metri quadri, e diecimila euro per la manutenzione di un anno. Le comunità ce li rimandano indietro. Nel cinquanta per cento dei casi tornano per aver saltato la terapia. I servizi di salute mentale territoriali dicono di non avere le strutture. In Sicilia il passaggio dalla Giustizia alla Sanità non è mai avvenuto: confidiamo ora in Crocetta e nella Borsellino. L’Opg resta comunque un carcere, e per definizione non può curare e soprattutto riabilitare. Ma la chiusura secca è la soluzione migliore? Quando andiamo a Roma sentiamo solo la domanda: “Dove li mettiamo?”. Ci sono grosso modo tre condizioni: i dimissibili senz’altro, la maggioranza relativa. Quelli che hanno bisogno di essere seguiti con progetti personali, in piccole comunità assistite per la salute e il lavoro legate al territorio di provenienza. Per i più gravi, il peggio è la prospettiva manicomiale classica: sono pazzi, non appartengono più alla società. Invece, anche nelle condizioni più severe, le relazioni contano quanto la protezione e i farmaci. Salvatore, infermiere caposala, un’esperienza di quarant’anni: “A volte devi insegnargli a mangiare con le posate, a vestirsi, a farsi una doccia. Le soddisfazioni a noi le danno solo loro. Grazie a Margara ci fu un concorso per infermieri, e i vincitori vennero assegnati agli Opg. Prima c’era solo un pronto soccorso, andavamo a dare la terapia con la lampadina tascabile “. C’è una bella nuova casa data in comodato dal Comune, per alcuni internati. E c’è la Casa di solidarietà e accoglienza di Don Pippo Insana. Ha 68 anni, la sua missione è di chiudere l’Opg, con un confratello, don Gregorio, e volontarie preziose. Prete a 23 anni, nell’84 diventò cappellano dell’Opg. In licenza andava solo chi aveva i soldi, allora lui li accolse a casa sua. Il nome dell’associazione lo scelse un internato: aveva buttato giù da un balcone la sua bambina, oggi è una persona risorta. “Abbiamo avuto dei pluriomicidi” dice, “ma anche un barbone arrestato per non aver mostrato la carta d’identità che non aveva”. La cosa peggiore, dice, è l’abbandono: parenti che non li vogliono più vedere, tutori che li derubano delle pensioni. Racconta il modo atroce di farli portare ai letti di contenzione dai lavoranti; non bisogna giudicare all’ingrosso il personale, dice, ma la Commissione parlamentare è stata benedetta. Però certi trattamenti sanitari obbligatori esterni riducono peggio che dentro. Quando usciamo dall’ultimo reparto, il cancello viene chiuso. Salvatore, che non ha smesso un momento di improvvisare cerimonie e giochi di accoglienza, ora si attacca alle sbarre e lancia baci frenetici con la mano, mentre ci voltiamo a ricambiare i saluti. Quando siamo a una sufficiente distanza di sicurezza - da mettere la sua timidezza al sicuro - sentiamo un grido straziante: “Amoreeeeeee”. Giustizia: Favi (Pd); inaccettabile ritardo per chiusura di Ospedali psichiatrici giudiziari Agenparl, 18 febbraio 2013 “È inaccettabile il ritardo nel processo di superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari, iniziato con le puntuali linee - guida di un decreto del Governo Prodi dell’aprile 2008 e scandito nei tempi dalla legge n. 9/2012, dopo la documentata denuncia della Commissione d’inchiesta del Senato presieduta da Ignazio Marino”. Lo dichiara Sandro Favi, responsabile nazionale Carceri del Pd. “I Ministeri della salute e della giustizia - aggiunge - hanno impiegato 8 mesi, anziché i 40 giorni previsti, per un decreto che definisse i requisiti delle nuove residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza; quasi 1 anno per approvare la ripartizione fra le Regioni dei fondi stanziati (120 milioni per il 2012 e 60 milioni per il 2013, di cui 38 per le spese di esercizio del 2012 e 55 milioni a regime). Il Comitato Stato - Regioni, a cui era affidato il monitoraggio e la verifica dello stato di attuazione della legge, anziché prevenirlo sembra aver avallato l’indecente scarica - barile, con cui si giustificherebbero le richieste di proroga degli Opg (di cui uno - Barcellona Pozzo di Gotto - sottoposto a ordinanza di sgombero ed un altro - Montelupo Fiorentino - parzialmente sotto sequestro giudiziario, entrambi su disposizione della Commissione di inchiesta del Senato)”. “Ma ancor più ingiustificabili - continua Favi, sono le mancate dimissioni dei malati psichiatrici che continuano a restare internati, con il meccanismo delle infinite proroghe della durata della misura di sicurezza comminata in sentenza, pur non essendo più “socialmente pericolosi”, perché non presi in carico dai Servizi territoriali di salute mentale. Una situazione questa che riguarderebbe più della metà delle attuali mille persone ricoverate negli Opg. Per il Partito Democratico, nessuna proroga potrà essere concessa senza un accertamento delle responsabilità politiche e delle burocrazie e senza la proposizione di progetti puntuali e credibili da parte degli attori chiamati a realizzare ed attrezzare i percorsi di cura e riabilitazione delle persone sottoposte a misura di sicurezza. Il prossimo Governo convochi immediatamente una Conferenza di servizio che ci liberi da quello orrore e restituisca onore all’Italia, e alle persone il diritto alla cura”. Giustizia: le prigioni scoppiano i detenuti vivono in condizioni disumane di Luca Di Tolla mentiinformatiche.com, 18 febbraio 2013 “Risultando inadeguata ogni altra misura”. C’è chi pensa che la vergogna delle carceri italiane, appena denunciata dal presidente Giorgio Napolitano, cominci da qui. Dalla formula usata dai magistrati per rifiutare le misure alternative alla prigione. Succede troppo spesso, dice Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale, secondo cui il ricorso a detenzione domiciliare, affidamento in prova ai servizi sociali e altre forme della cosiddetta probation, è dieci volte inferiore rispetto a quello di Spagna o Francia. Un’anomalia, e non l’unica. Perché l’inferno delle patrie galere, di cui a nessuno sembra importare tranne che al deperito e instancabile Marco Pannella, è il più affollato d’Europa: 146 detenuti dove ne dovrebbero stare 100. E visto che il tasso di detenzione, il numero di carcerati ogni 100mila cittadini, è nella media europea, i motivi del disonorevole primato vanno cercati altrove. Nelle strutture carcerarie scarse e fatiscenti. Nell’uso eccessivo della custodia cautelare, quella cui si dovrebbe ricorrere solo in caso di pericolo di fuga, inquinamento delle prove, reiterazione del reato. Invece, dice ancora Antigone, nella realtà italiana succede che su dieci persone in carcere quattro siano in attesa di giudizio. Quindi, non colpevoli, per la Costituzione. Un esercito che siamo abituati a vedere ai processi con le manette ai polsi, ma che per legge dovrebbe stare in celle distinte rispetto a quelle dei condannati. Utopia, nel Paese che la Corte europea di Strasburgo ha appena condannato a risarcire sette detenuti reclusi in celle troppo piccole: neppure 3 metri quadri a persona. E a questo che si pensa entrando a Regina Coeli, addentrandosi nelle sezioni che gli operatori decidono di mostrarci. Celle da tre o sei posti, i letti a castello a tre piani, l’angolo cottura e i servizi a volte divisi da una tendina. Per mangiare bisogna fare i turni, perché lo spazio è poco e gli sgabelli non bastano per tutti. Fa freddo e l’acqua calda, ci con fermano i pochi detenuti che riusciamo ad avvicinare, manca spesso. “Succede, e in un carcere molto vecchio come questo succede più spesso”, ci spiega il direttore Mauro Mariani. “Ora il riscaldamento c’è, magari domani mattina no. Noi facciamo le preghiere a Santo Aprile: che arrivi in fretta”. Il carcere ospita 1.030 detenuti, la capienza sarebbe di 1.000, incluse però le due sezioni chiuse per ristrutturazione, mentre secondo l’ultima valutazione del ministero della Salute la capacità è di 600. E allora? “Allora nelle celle singole di 10 - 11 metri mettiamo tre persone, con uno spazio per detenuto appena sopra i 3 metri quadri”, dice Mariani, da ottobre direttore anche di Rebibbia, dove più della metà dei detenuti sconta una condanna definitiva. A differenza di Regina Coeli, dove il 90 per cento è in attesa di giudizio, con permanenza media di 3 - 6 mesi. “Significa”, dice il direttore, “che lo spazio per i trattamenti rieducativi è minimo, limitato al sostegno dei rapporti con famiglia e avvocati”. Niente attività comuni, tranne una biblioteca e i “passeggi”. Niente misure alternative, niente lavoro. “Forse altrove c’è un ricorso minore alla custodia cautelare e quindi un maggiore accesso alle pene alternative”, sintetizza Luigi Pagano, vicedirettore del Dap, il Dipartimento di amministrazione carceraria. “I detenuti che lavorano in Italia sono pochi, il 10 per cento. Ma se il carcere offre al detenuto un percorso rieducativo, la recidiva si abbatte fino al 70 per cento”. Quanto al sovraffollamento, il punto da cui partire è quello dei tossicodipendenti. “Sono il 30 per cento della popolazione carceraria: saranno tutti pericolosi? Credo proprio di no, avrebbero bisogno di cure più che di pene”. E chissà che succederà ora che gli Opg, gli ospedali psichiatrici criminali, chiuderanno, come deciso dal decreto “svuota carceri”. Ma se le strutture che devono sostituirli non esistono, dove finiranno i 1.200 ospiti dei sei istituti esistenti? Gli addetti ai lavori sperano non nelle carceri, dove le prestazioni sanitarie, dal 2008 garantite dalle Asl, sono insufficienti per qualità e quantità, denuncia Antigone. Un caos che funge da miccia sull’esplosivo mix di precarie con dizioni igieniche e promiscuità tra sani e malati. Terreno fertile per quella che Annalisa Chirico nel libro “Condannati preventivi” (Rubettino) chiama auto soppressione. Cioè, suicidio. Uno ogni cinque giorni, uno ogni mille detenuti: mentre “fuori” il rapporto è di uno ogni ventimila. Il punto, dice Pagano, è che il carcere oggi è uguale per tutti. “Per il ragazzino accusato di furto e il grande criminale. Ma istituti e trattamenti vanno differenziati. E il modello da seguire è Bollate”. E allora ci andiamo. Quel che si vede è il verde. 1 campi da calcio e da tennis, gli spazi giochi, il maneggio. Dentro, pavimenti lucidi, pareti linde, celle spaziose: singole, doppie o a quattro letti. Ma, soprattutto, aperte. “I detenuti possono entrare e uscire dalle celle durante il giorno”, spiega il direttore Massimo Parisi. “Ma non è fine a se stesso, serve a responsabilizzare i detenuti”. Sono 1.180, quasi tutti condannati in via definitiva, pena media 7 - 8 anni. Quelli che lavorano sono 450: un terzo all’esterno, il resto all’interno per conto di aziende terze. Call center e catering, teatro e falegnamerie. Così succede che la recidiva scenda al 12 per cento e un detenuto gestisca la classe di informatica, chiavi incluse. Non tutti i tabù sono infranti, però. “Non mi sento di dire che sia stata sgretolata la cultura di diffidenza verso gli autori di reati sessuali, per esempio”, dice il direttore. “Ma è oggettivo che qui, dove i sex offender stanno con gli altri, non succeda niente”. Non sarà un hotel, ma un carcere più umano e utile alla società, con tanto di sportello servizi dedicati alla scarcerazione. “Perché vede”, ci racconta al termine del giro Roberto Bezzi, responsabile degli educatori, “il punto debole di Bollate, per assurdo, è proprio questo: uno vive qui dentro in un ambiente quasi affettivo e rischia, al momento dell’uscita, che l’impatto con il “fuori” diventi più difficile” Giustizia: bisogna difendere la nostra Costituzione… ma chi si ricorda dell’articolo 27? di Paolo Mercadella Notizie Radicali, 18 febbraio 2013 Le parole del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano dopo la recente visita al carcere di San Vittore e la sentenza di condanna emessa nei confronti dell’Italia da parte della Corte Europea dei diritti dell’Uomo rendono inevitabile una riflessione sul funzionamento della giustizia e sullo stato dei luoghi di detenzione italiani. Le carceri “disumane”, come spesso ripete il leader Radicale Marco Pannella, da sempre in prima linea su questa realtà, sono solo l’appendice di un sistema giudiziario che fa acqua da tutte le parti. Quante volte abbiamo sentito dire da illustri esponenti politici che “bisogna difendere la nostra Costituzione”? Quasi nessuno di loro, tuttavia, sembra porsi l’urgenza del far rispettare l’articolo 27 di quella Costituzione, che parla di scopo riabilitativo della pena e di pena che non dev’essere contraria al senso di umanità. Eppure le condizioni nelle prigioni italiane sono drammatiche, non solo per i detenuti, ma anche per gli agenti di polizia penitenziaria, per i lavoratori e i volontari che in esse prestano la loro opera. Molti propongono la costruzione di nuove carceri per risolvere il problema; Marco Pannella e i Radicali vanno invece controcorrente, rischiando l’impopolarità in un quadro politico che tende a impostare le campagne elettorali sul tema della “sicurezza”: da diverso tempo insistono sulla necessità di un’amnistia. Attenzione: amnistia intesa non come atto di clemenza verso i detenuti, bensì come atto di interruzione della flagranza di reato della Repubblica. Il beneficiario dell’amnistia, in quest’ottica, non è più solo il detenuto, bensì anche (e soprattutto) lo Stato, reo, a detta di Pannella, di essere quotidianamente in una posizione di flagranza di reato. Sempre Pannella sostiene che non vi sarebbe alcun rischio per i cittadini: l’atto riguarderebbe solo persone in carcere per reati che non destano allarme sociale. Qualcuno obietta che l’amnistia sarebbe solo una soluzione tampone e che tra qualche anno le carceri saranno di nuovo al limite della capienza. È vero, ed è proprio per questo che l’amnistia da sola non basta: bisogna mettere in cantiere un serio impegno sia sul fronte della depenalizzazione dei meno gravi tra i reati ad oggi puniti con il carcere, sia su quello dell’incentivo alle pene alternative. Non dimentichiamo, poi, che la tempistica della giustizia italiana comporta di fatto un’amnistia di classe: la prescrizione, facilmente raggiungibile da chi, appartenendo agli strati sociali più abbienti, può permettersi buoni avvocati che sappiano come prolungare il processo fino al fatidico termine. Altrettanta attenzione merita il capitolo relativo alla giustizia civile, la cui cronica lentezza ha un sensibile impatto non solo sul vivere civile, ma anche sull’economia: la Banca d’Italia stima intorno al punto percentuale di Pil il costo dell’eccessiva durata dei procedimenti giudiziari. Di tutto questo si parlerà mercoledì 20 febbraio al Laurentianum di Mestre, in un confronto organizzato dall’associazione “Veneto Radicale”. Interverranno, oltre all’esponente Radicale veneziano Franco Fois, alcuni candidati di gran parte delle coalizioni impegnate nella campagna elettorale, che illustreranno i rispettivi punti di vista sull’amnistia e i loro programmi sulla giustizia. Un confronto che si annuncia serrato tra il Senatore Felice Casson (Partito Democratico), l’Onorevole Maurizio Paniz (Popolo delle Libertà), l’ex magistrato Giovanni Palombarini (Rivoluzione Civile), l’avvocato Anna Zampieron (Fare per fermare il declino) e il consigliere regionale Andrea Causin (Scelta Civica con Monti per l’Italia). Giustizia: carceri sovraffollate; intervenire partendo da indicazioni Commissione Giostra di Sandro Favi (Responsabile carceri del Pd) L’Unità, 18 febbraio 2013 “Non possiamo rassegnarci alla logica: o l’amnistia o niente”. C’è anche questo nell’appello accorato di Giorgio Napolitano, che pur rispettoso delle prerogative delle istituzioni e del ruolo delle forze politiche, le chiama a rispondere responsabilmente del dramma che si consuma nelle nostre carceri, per restituire all’Italia l’onore macchiato dalle condanne della Corte di Strasburgo, che ora ci concede un anno per intervenire sull’intollerabile sovraffollamento che le affligge. Il Pd è convinto che si può fare. Ed anche presto e bene. Si può restituire dignità e senso di umanità alle condizioni della detenzione agendo in una logica di sistema, a partire dalla cancellazione della legislazione che più pesantemente ha contribuito ad accrescere i tassi di incarcerazione come la legge ex-Cirielli che ha introdotto abnormi inasprimenti di pena e ingiustificate preclusioni alla concessione delle misure alternative per i recidivi reiterati; con l’abrogazione del reato di ingresso e di soggiorno illegale nel territorio dello Stato; con la modifica della legge Fini-Giovanardi, tale da favorire l’affidamento terapeutico dei tossicodipendenti condannati per reati di minore entità ovvero con misure cautelari, per loro, a basso impatto segregante. Una serie articolata di misure incisive sul sovraffollamento delle carceri, che anche una Commissione mista Csm, Ministero della Giustizia e Magistratura di Sorveglianza (meglio conosciuta come Commissione Giostra), ha puntualmente individuato e di cui una buona parte potrebbe essere adottata con un decreto legge i cui presupposti di costituzionalità ed urgenza ci sono tutti. Occorre, poi, un intervento sulle norme della custodia cautelare, eliminando le ipotesi che ne prevedono l’obbligo in base al tipo di reato e non per le strette esigenze di tutela processuale, anche per adeguarsi alle ripetute dichiarazioni di illegittimità della Corte costituzionale, che giustifica l’obbligatorietà solo nelle ipotesi di reati di mafia o di terrorismo Bisogna, inoltre, introdurre più stringenti criteri di chiara indispensabilità e di adeguata motivazione, oltre che di limitazione della durata, in rapporto al principio di massima speditezza delle indagini e del giudizio. A tale scopo, si possono estendere le misure cautelari coercitive ed interdittive, limitando ancora di più il ricorso alla custodia cautelare in carcere, per la quale abbiamo in Italia un tasso di maggiore spread rispetto ai Paesi europei nostri omologhi. La sola amnistia finirebbe per avere un più limitato impatto sul sovraffollamento penitenziario, perché si applicherebbe a reati che prevedono pene massime fino a tre o quattro anni di reclusione, ma che nella pratica giudiziaria determinano sanzioni molto minori e comunque per reati diversi da quelli che, in concreto, portano ai grandi numeri di persone in carcere. Puntiamo, invece, decisamente ad un ampliamento e ad un potenziamento delle misure alternative al carcere dotandole di risorse, di professionalità, di supporto, di opportunità concrete di reinserimento sociale. Un’area dell’esecuzione penale che in Europa viene considerata più efficace per la riduzione di alcuni fenomeni di illegalità e della recidiva di reato. Si può riprendere la previsione di sospensione del procedimento penale con messa alla prova dell’imputato, un istituto che ha dato una buona prova di efficacia in ambito minorile e, per questo, particolarmente idoneo per i giovani adulti, che incorrono in quelle aree dell’illegalità, dalle quali possono essere più precocemente ed utilmente sottratti. Si deve recepire, finalmente, la direttiva europea per l’introduzione del reato di tortura, come recentemente ha ribadito Pier Luigi Bersani, rispondendo alle puntuali domande di Amnesty International. Infine, riteniamo che per dare sostanza all’articolo 27 della Costituzione, sia necessario chiamare a raccolta le migliori energie e risorse del Paese, per mettere in campo una strategia per l’inserimento lavorativo, per il diritto allo studio, per la formazione professionale, per l’assistenza socio - familiare, per la cura e la riabilitazione dalle tossicodipendenze e dalla sofferenza psichiatrica, coordinando gli interventi dello Stato, del Servizio sanitario nazionale, delle Regioni e degli enti locali, dell’imprenditoria e del volontariato. Giustizia: Violante (Pd); lavoro in carcere, da Padova un esempio per il Paese di Ione Boscolo www.ilsussidiario.net, 18 febbraio 2013 L’aveva detto il 17 settembre scorso. Se riesco a conservare i fondi per il lavoro carcerario tornerò. Il ministro di ferro con il guanto di velluto (definizione d’autore a cura di Luciano Violante) ha mantenuto la promessa. Ha resistito a più di un tentativo di scippo istituzionale. Anzi a un certo punto, come sgradito regalo di Natale, i 27 milioni per il finanziamento della legge Smuraglia se n’erano proprio volati via, scomparsi con un gioco di prestigio in sede di commissione bilancio del Senato. Non avevano fatto i conti con Paola Severino, ben sostenuta dall’alleanza delle cooperative italiane. Nel giro di poche settimane la penalista napoletana, dimostrando di non sentirsi per nulla a fine mandato, ha recuperato 16 milioni vincolandoli solo al lavoro carcerario. E al centro congressi Padova “Luciani”, nella città in cui aveva fatto la formale promessa, ha portato con sé il testo del decreto della presidenza del consiglio dei ministri in cui i 16 milioni forse meglio investiti dall’attuale governo sono stati reindirizzati all’obiettivo giusto. Il convegno padovano, pur rimandato di un giorno per problemi istituzionali della Ministra, è riuscito “miracolosamente” (Severino dixit) a radunare un pubblico di oltre 500 persone con - sono sempre parole della titolare di via Arenula - “la rappresentanza vera del carcere: agenti, direttori di varie carceri, imprenditori, cooperative, magistrati, università, volontari”. Sintetico il tema: “Lavoro - carcere - giustizia - imprese”. Moltissime le autorità presenti nelle prime file, con saluti istituzionali del prorettore dell’Università Guido Scutari (incombente il varo di una convenzione con il ministero della Giustizia per i corsi in carcere), del vicepresidente nazionale Federsolidarietà Ugo Campagnaro, del sindaco Flavio Zanonato, che ha raccontato dell’impiego di detenuti nei lavori socialmente utili, ad esempio come spalatori dopo le grandi nevicate dei giorni precedenti, e del componente del Csm Giovanna Di Rosa. Significativi molti passaggi dell’intervento di Di Rosa, magistrato di sorveglianza, che ha parlato del lavoro penitenziario come “elemento fondamentale per aprire le porte del carcere, ma anche come punto di appoggio al magistrato che deve concedere i benefici ai detenuti”. I dati del problema sono esposti da Nicola Boscoletto, presidente del Consorzio sociale Rebus organizzatore dell’incontro assieme a Ministero della Giustizia, Università di Padova e Confindustria Padova. I detenuti che fanno lavori veri (non i cosiddetti lavori domestici) sono 900 su 66mila, 2.200 se si considerano anche gli “articoli 21” e i semiliberi. Il costo giornaliero di un detenuto è di 250 euro “ma calcolato per difetto”. E la recidiva è stimabile al 90% (i dati ufficiali parlano di 69%, ma riguardano solo quelli che vengono riacciuffati): per chi lavora invece - e anche il ministro conferma con i primi dati ufficiali sull’argomento - si abbassa al 2%. Ecco perché i soldi investiti in lavoro carcerario sono spesi bene: “Ogni milione investito”, riporta Boscoletto “ne fa risparmiare altri 9”. Seguono gli interventi di chi sul carcere ha scommesso sul serio. Ad esempio, Confindustria, che con Enrico Berto sottolinea l’importanza della componente imprenditoriale del lavoro in carcere, del presidente del gruppo Mantovani Piergiorgio Baita, che ha allo studio una “cittadella della sicurezza” pensata come centro di detenzione ma anche di uffici giudiziari strutturati con criteri futuribili. Di cultura della responsabilità sociale parlano Cesare Pillon, amministratore delegato del Gruppo AcegasAps e Marina Bastianello, vicepresidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo. La parola passa a Luciano Violante, definito da Boscoletto “insieme con il ministro Severino in questi ultimi due anni il nostro compagno di viaggio e sostenitore più importante”. Un intervento di ampio respiro che si concentra sulla necessità di una politica pubblica che non sia frutto di un sentimento pietistico e “che porti il carcere fuori dalla marginalità in cui si è trovato fino a oggi”. Per Violante politica moderna e civile significa responsabilità e riconciliazione insieme: “Chi ha sbagliato deve pagare, ma pagare significa ricostruire i legami con la comunità che il delitto ha interrotto”. Con due filoni di intervento principali, per chi resta dietro le sbarre: l’università e il lavoro. “Attorno a questi due profili cambia il modo di concepire il carcere. Auguro”, conclude l’ex presidente della Camera, “che da Padova nasca una rete che coinvolge tutto il Paese”. È infine il turno della ministra, che ricorda di aver visitato in questi mesi più di 25 istituti penitenziari e di essere sempre entrata nei reparti più difficili. E inoltre di aver incontrato una quantità enorme di persone “in cerca di nuove chance”. Il lavoro penitenziario, ricorda Severino, è parte integrante del trattamento e della rieducazione della persona, è “una delle grandi chiavi alla soluzioni del problema carcere”. Eppure è difficile spiegare alle persone perché il lavoro carcerario dev’essere sostenuto dallo stato. Ma “lavoro è anche dare formazione, investire in attività che all’inizio sembrano non essere fruttuose”, spiega. E ora che c’è questo piccolo patrimonio da investire “neanche un euro dev’essere utilizzato male”. Per questo è lei stessa a chiedere alle cooperative sociali (in sala presenti le rappresentanze di tutte le coop impegnate nel mondo del carcere in Italia) quale potrebbe essere il modo migliore per spendere i fondi. “Dobbiamo ancora decidere di quanto aumentare gli incentivi per l’inserimento dei detenuti nelle attività lavorative. Cosa ne pensate? Il ministero non vuole lavorare da solo”. Gli sgravi della Smuraglia non sono adeguati, “occorrerà una riflessione comune in materia”. A questo punto la ministra si accorge di continuare a parlare “come se come la mia attività dovesse durare chissà quanto”. Ma prima che il mandato finisca, assicura, vuole definire nei dettagli l’applicazione della legge. Visti i precedenti, c’è da credere che ci riuscirà. Unanime d’altra parte la richiesta di cooperative e Confindustria, di aggiornare quanto prima le vecchie agevolazioni previste dalla legge Smuraglia e di tracciare un solco ben definito per il governo che si insedierà, visto che alcuni di questi provvedimenti dovranno essere per forza di cose assunti dal prossimo governo del Paese. Giustizia: Pannella (Ri); non dobbiamo “gettare la spugna”… della Corte di Strasburgo Notizie Radicali, 18 febbraio 2013 “Alla leader di Fratelli d’Italia la risposta è una sola. Ma quale spugna? La spugna vera da non gettare è quella della Corte europea dei diritti dell’uomo, che sembra voler ascoltare noi anziché altri, a partire dal Presidente della Repubblica, che mi sembra vivere oggi solo la prepotente urgenza di impedire una soluzione per la questione giustizia in Italia”. Lo ha detto Marco Pannella, sabato sera in diretta a “Radio Radicale”, rispondendo alle affermazioni di Giorgia Meloni, che ha detto che l’amnistia sarebbe “gettare la spugna da parte dello Stato”. “Noi dobbiamo semplicemente, cara Meloni, continuare a lottare per la legalità. Lottammo contro il fascismo dell’antifascismo, che colpiva le tue origini. Oggi ci battiamo per l’amnistia, perché siamo certi che ciò che è da gettare è l’essenza di torturatore di Stato di questo Stato”. Quanto alle pene alternative, Pannella ha detto: “Se queste pene alternative verranno stabilite dopo dieci anni di processo, potranno pure essere alternative, ma resta la stortura anti costituzionale. Quello che dobbiamo - onorevole Meloni - è l’opposto di quel che a lei sembra necessario. Costruire nuove carceri, come in tutte le grandi democrazie del mondo? Mi sembra scelga una strada che non corrisponde al diritto internazionale, e neppure al diritto italiano”, ha concluso Pannella, che oggi pomeriggio, sarà nella consueta conversazione domenicale a Radio Radicale, “in una due ore straordinaria con la comunità penitenziaria”. Giustizia: Bersani (Pd); amnistia? Berlusconi ha in mente di abbonare pena ai “soliti noti” Ansa, 18 febbraio 2013 La difficile situazione carceraria italiana necessita di interventi “ma quello che ha in mente Berlusconi è un’altra cosa, come sappiamo”. Così, all’arrivo della staffetta del Pd Bettola - Piacenza, il segretario dei Democratici Pier Luigi Bersani ha replicato a chi gli chiedeva un commento sull’eventualità di un’amnistia ipotizzata da Silvio Berlusconi. “Le carceri sono in condizioni disumane - ha osservato - bisogna fare delle depenalizzazioni di alcuni reati, avere pene alternative al carcere, ma quello che ha in mente Berlusconi è un’altra cosa, come sappiamo. Siamo contrari a meccanismi straordinari che poi lasciano le cose come prima, siamo contrari - ha concluso Bersani - a meccanismi che abbuonino ai soliti noti le pene che devono subire”. Giustizia: Cucchi (Rc); in questo Paese dobbiamo riportare i diritti al centro di tutto www.ilgiunco.net, 18 febbraio 2013 A sostegno della campagna elettorale del progetto politico di Antonio Ingroia è arrivata in Maremma, a Follonica, Ilaria Cucchi, candidata alla Camera per Rivoluzione Civile anche in Toscana. Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, il giovane morto in carcere in circostanze che ancora non sono state chiarite, ha partecipato all’iniziativa pubblica dedicata alla giustizia ospitata dalla città del Golfo al Casello Idraulico. “Dobbiamo riportare i diritti al centro di tutto in questo Paese - ha detto la Cucchi. Alla luce di quello che è successo alla mia famiglia credo che a tutti debba interessare quello che succede nelle carceri, a tutti devono interessare i diritti degli ultimi: io mi impegno perché il sacrificio di mio fratello serva a qualcosa e per questo ci battiamo per introdurre in Italia il reato di tortura”. Durante l’incontro il tema principale è stato quello delle condizioni delle carceri italiane e le difficoltà che vivono ogni giorno i detenuti nel nostro paese. “Nelle nostre carceri ci sono problemi di sovraffollamento e di scarso numero di agenti penitenziari. Come iniziare a risolvere la situazione? Con un’amnistia per i reati minori e per esempio con misure alternative alla prigione. La politica su questi temi ha fallito perché è rimasta lontana. Temi come quello più ampio della giustizia che Rivoluzione Civile vuole riportare in primo piano”. Giustizia: l’ex pm D’Ambrosio; carcere preventivo? serve più cautela nell’applicarlo di Enrico Fovanna Il Giorno, 18 febbraio 2013 “Ai magistrati oggi consiglierei, per quanto possibile, di evitare la carcerazione preventiva. Indispensabile solo per impedire l’inquinamento delle prove. Si cerchi invece di definire al più presto le inchieste. È molto meglio, se le prove sono state acquisite, mandare gli atti al gip per celebrare quanto prima il rinvio a giudizio”. Tra i protagonisti del pool Mani Pulite, l’ex magistrato Gerardo D’Ambrosio, 82 anni, crede al ritorno di Tangentopoli, ma crede anche che l’esperienza debba avere insegnato qualcosa: “È una questione di diritti umani. E a un innocente, la carcerazione preventiva non la toglie più nessuno. Abbiamo molta strada da fare, e mi frustra non essere riuscito a portare a termine in tempo i disegni di legge che avevo preparato per accelerare l’iter dei processi”. Tangentopoli è tornata? “Gli episodi sono stati tali e tanti da indurci a pensarlo. E mi pare la situazione sia abbastanza seria. C’è ancora una gran voglia di ottenere appalti attraverso tangenti. Evidentemente è più facile che partecipare a una gara regolare”. Quali le differenze rispetto al 1992? Adesso si ricorre alla tangente per fini personali. Allora era sempre finalizzata a finanziare un partito e le campagne elettorali, che erano frequentissime”. Eppure ci sono meno soldi in giro, non è un paradosso? “A me pare, al contrario, un incentivo. Se un’impresa si trova in difficoltà e ottenere un appalto o meno fa la differenza tra tenere aperta o chiudere l’azienda, la tentazione aumenta”. Ma allora i partiti erano più ricchi... “Il finanziamento pubblico ai partiti era più basso e si ricorreva al sistema delle tangenti. Una volta aumentato, e reso direi anche eccessivo, oggi non si ricorre più alla stessa prassi. Ma a fini personali c’è sempre la libidine di arricchirsi”. L’Italia del 1992 era assolutamente impreparata al fenomeno, quando deflagrò. L’indignazione fu enorme. Oggi invece? “Avevamo sempre i giornali e la gente sotto il Palazzo di Giustizia. La reazione allora e il consenso furono enormi, i cittadini erano sorpresi e si ribellarono. Oggi credo il consenso ci sia comunque, ma mi pare ci sia maggiore rassegnazione”. Che ne dice della giustizia a orologeria? “Le indagini non si cominciano schioccando le dita. Sono frutto di mesi e mesi di lavoro. Poi a un certo punto vengono fuori i provvedimenti. Se sono fondati, e lo vedremo, vuol dire che le prove sono state raccolte”. Tutte questi arresti sotto elezioni sono una casualità? “Potrebbero anche esserlo. Non credo che la magistratura abbia bisogno delle elezioni per attrarre attenzione su di sé”. Giustizia: terroristi e vittime, siamo sulla stessa strada di Gemma Capra Avvenire, 18 febbraio 2013 Il 17 maggio 1972 un vicequestore arriva a casa mia e mi dice che mio marito è stato ferito a una spalla. Avevo due figli piccoli e aspettavo il terzo. Mario, il più grande, aveva due anni e tre mesi, il secondo 11 mesi. Chiedo di portarmi da mia madre a lasciare i bambini per poi andare all’ospedale, che era lì vicino. Nel frattempo, mentre uscivo da casa, arriva anche il mio parroco che sale in auto con noi. Quando sono a casa di mamma il poliziotto tergiversa, il vicequestore dice di voler aspettare ulteriori notizie, nessuno vuol dire nulla, gli sguardi si incrociano, percepisco che c’è qualcosa di diverso da una ferita. Prendo il parroco per le spalle e gli dico: “Don Sandro, dimmi la verità” e lui in quel momento, con il solo movimento delle labbra, senza tirare fuori la voce, dice: “È morto”. Io - scusate, mi commuovo anche a distanza di 41 anni - mi accascio sul divano con un dolore lancinante, che non è solo interiore, è anche un dolore fisico, è uno smarrimento totale. In quel momento, piano piano, sento arrivare dentro di me una sorta di pace, di silenzio ovattato come se intorno non ci fosse più nessuno. Per me non esisteva più niente intorno e percepivo una forza interiore. Sentivo che qualcuno era venuto in mio aiuto, che non ero sola. In quel momento Dio mi ha dato la fede come dono. Ho detto al sacerdote, che mi teneva la mano: “Diciamo un’Ave Maria per la famiglia dell’assassino”. Pensavo che fosse ben più devastante il dolore di quella famiglia. A 25 anni, in attesa del terzo figlio, piena di gioia di vivere, mi piaceva andare a ballare, amavo la musica, i Beatles, non è possibile una cosa del genere, se non è Dio che opera in te, che vuole dare una testimonianza attraverso te. Io questo l’ho capito e ho pensato che probabilmente avrei dovuto testimoniare per tutta la vita, se Dio voleva questo. Sono convinta che Dio corre in aiuto di tutte le persone che provano un grande dolore o subiscono un’ingiustizia, ma sono anche convinta che bisogna saperlo riconoscere, bisogna saper dire: “Sono qui, sono disponibile, se succede questo ci sarà un perché, Lui mi darà la forza e io dovrò testimoniare”. eco anche perché oggi sono qui, dopo tanti anni. La fede non ti toglie il dolore, ma lo riempie di significato. E in questo modo ti fa crescere. Naturalmente ci sono momenti difficili in cui smarrisci questa consapevolezza. E allora mi dico: “Gemma reagisci perché lo sai che Dio esiste, tu l’hai provato”. Io ho proprio sentito il suo passaggio in me. Venivo da una famiglia molto religiosa, una mamma con una forte fede. Sono la quarta di 7 figli, per noi era normale andare a messa la domenica, recitare le preghiere, era normale crescendo fare del volontariato, ma era così perché per tradizione familiare così doveva essere. Da quel momento la scelta è mia, la fede è diversa, prima era un imitare i genitori, era anche forse farli contenti. Ma la fede è un’altra cosa, è qualcosa a cui tu ogni giorno devi attingere. Io non ho mai detto: “Perché a me?”. E allora perché agli altri? Quando apri la porta della sofferenza scopri che non sei mai solo e anzi c’è ben di peggio, quindi impari a farti aiutare, ad aiutare gli altri, e condividi. Secondo me la sofferenza, come la gioia, va condivisa. Non vorrei essere fraintesa, ma credo che questa esperienza, così tragica, mi abbia reso migliore. Vincere l’odio Dopo la morte di mio marito ho deciso che dovevo educare i miei figli nella gioia di vivere che avevo provato nella mia famiglia. La gioia è importantissima, donare il sorriso sempre, in qualunque modo agli altri, fa bene a se stessi. La seconda decisione è stata di non crescerli nel rancore, nell’odio, tanto meno nel desiderio di vendetta. L’odio, il rancore, ti divorano, ti immobilizzano, non permettono più di costruire niente, ti perdi tutto ciò che di bello c’è nella vita. Se ti alzi la mattina con il rancore, la rabbia, l’odio dentro, come fai a crescere dei bambini, vedere le loro scoperte, sentire le loro parole nuove, scoprire una nuova amicizia, godere di un tramonto? L’odio ti divora, è come far vincere ogni giorno la cultura della morte. Questo è stata la base della mia scelta per educare i figli. E poi l’impostazione con i miei figli è sempre stata quella del dialogo. È fondamentale dirsi qualunque cosa, non dirsi mai bugie. Ho imparato che bisogna sempre dire tutto, non aver paura che i figli ti ridano dietro, non aver paura di essere banale o troppo semplice o troppo profondo. (...) Anche quando c’è un periodo difficile e voi pensate che vostro figlio non vi ascolti, che vi contesti, non importa, voi date perché tornerà. L’importante è che loro sentano che date con amore! Io l’ho scoperto dal Libro di mio figlio Mario, non immaginavo che Lui avesse fatto tesoro e ricordato tante cose. La frase del necrologio Nel necrologio che abbiamo fatto sul Corriere per La morte di Luigi c’è una frase di Gesù: “Padre, perdona Loro perché non sanno quello che fanno”. L’ha scelta mia madre, io in quel momento forse non sarei stata in grado, ma L’ho accettata, ci siamo dette che bisognava spezzare quella catena di violenza e di odio con una frase di amore. Per anni non ho più pensato a quel necrologio, poi a un certo punto ecco che mi riaffiora, allora mi sono detta che era il momento di farla mia. L’avevo scritta, l’avevo firmata, quindi dovevo sentirla sulla mia pelle. Sono passati anni, ho molto meditato e mi sono data questa spiegazione: ma perché Gesù, sulla croce, non ha perdonato direttamente i suoi assassini? Lui era Dio, aveva certamente la forza e le carte in regola per dire “Vi perdono perché non vi rendete conto di quello che state facendo”. Però attenti, Gesù era anche uomo in quel momento, quindi soffriva, sia fisicamente sia moralmente, si sentiva tradito. Credo che come uomo abbia pensato che è difficilissimo perdonare nel momento in cui si è vittima di una tragedia e quindi ci indica Lui una strada, cioè fa chiedere a Dio di farlo al posto nostro. Lasciando a noi il tempo del cammino. Da allora mi sono resa conto che potevo cominciare a camminare. Il perdono è molto lungo e difficile. Non si dà con la mente, né con le parole, ma solo col cuore. Dopo tanti anni oggi riesco a pregare anche per gli assassini di mio marito. Spero di riuscire un giorno a portarli con me quando vado a fare la comunione, perché comunione, lo dice la parola, vuol dire condividere, vuol dire andare insieme. (...) Più facile è perdonare chi te lo chiede. Leonardo Marino, quello che ha confessato e che ha molto sofferto perché è stato denigrato dal suo gruppo, abbandonato, linciato, ci ha chiesto perdono. E allora lo abbiamo perdonato perché è più semplice e anche perché penso che la sofferenza, anche se di tipo diverso accomuna, ci rende veramente fratelli. Più difficile perdonare chi non chiede il perdono e non lo vuole, però io penso che si possa fare un cammino anche interiore, individuale, non avere rabbia contro quella persona, non volere il suo male, avere un pensiero tenero. (...) Mi ricordo che durante le udienze i figli di Sofri non potevano avvicinarsi perché facevano parte del pubblico. Quando c’era l’intervallo lui andava sempre da loro, soprattutto il maggiore che c’era sempre, e l’ho visto fargli una carezza con una grande tenerezza, dicendogli: “Dai, vai a casa, non stare qui”. Voi sapete che io spessissimo, quando penso a Sofri lo ricordo in questo atteggiamento? Perché mi aiuta, perché lui è anche quella persona, per cui può aver sbagliato, ma perché non dobbiamo ricordarlo per quella carezza? Il perdono è questo tipo di cammino. La felicità in carcere Un paio di anni fa sono stata invitata nel carcere Due Palazzi di Padova perché c’era una grande festa, una persona aveva scelto di fare la cresima, una di ricevere il battesimo e un’altra faceva la prima comunione, quindi avevano aperto il carcere agli esterni, ed ero tra gli invitati. In quella sezione sono quasi tutti assassini e le pene sono tutte molto pesanti. È un carcere dove i detenuti lavorano, assemblano biciclette, montano valigie, fanno catering per l’esterno, cucinano per la mensa interna e gestiscono un cali center dando appuntamenti per la Asl di zona. Ho scoperto che queste persone avevano una tale felicità di lavorare che la mattina non vedevano l’ora di alzarsi per andare a lavorare, malgrado per farlo si spostassero di pochi metri. Ed è proprio vero che il lavoro nobilita, perché li fa sentire importanti, veri, utili. E soprattutto è un ponte verso l’esterno. Poi mi sono soffermata a parlare con alcuni di loro, soprattutto con quelli che avevano fatto la scelta di ricevere i sacramenti. Ho scoperto che queste persone provavano un’enorme sofferenza per il dolore causato dal loro gesto, e ho scoperto che avevano incontrato Dio. Per tanti anni non ci avevo pensato: Dio corre in aiuto delle vittime, corre in aiuto dei familiari delle vittime, e anche di quelli che hanno fatto del male. Ovviamente c’è chi sa rispondere, chi dice sì e chi magari non riesce a riconoscerlo o ha bisogno di un cammino più lungo. Però stavamo facendo la stessa strada! i rendete conto? Loro, assassini, in carcere, soffrono come soffriamo noi, vittime del terrorismo, noi facciamo la strada per perdonare e loro per chiedere perdono. Entrambi soffriamo ma chi è più vicino di noi? Abbiamo una sofferenza comune, siamo stati avvicinati da Dio, l’abbiamo sentito, l’abbiamo incontrato e tutti e due facciamo un percorso o per chiedere o per dare perdono, quindi non si può fare altro che incontrarsi. Questa scoperta che ho fatto solo due anni fa mi ha cambiato la vita, improvvisamente ho visto gli assassini di mio marito in un altro modo. Non sta a me giudicare chi fa il percorso e chi non lo fa, solo Dio lo può dire, nessuno può sapere quanta sofferenza provino le persone. Ma Dio lo sa e quindi solo Lui ci può giudicare e ci può amare con il suo infinito amore, però noi possiamo attingere a quell’amore. Il fatto che Dio sia corso in loro aiuto e che si sia fatto sentire da loro come si è fatto sentire da me quando quel giorno ero su quel divano, ti rovescia la vita completamente. Voci dagli anni di piombo Il testo qui pubblicato è un estratto del dialogo tenuto nei giorni scorsi a Roma da Gemma Capra con i giornalisti Alessandro Banfi e Angelo Rinaldi, durante un incontro promosso da “Il Centro”. Tema: “L’educazione, tra perdono e felicità”. Gemma Capra è stata la moglie del commissario di polizia Luigi Calabresi, assassinato il 17 maggio 1972 a Milano davanti alla sua abitazione, mentre andava in ufficio, da un commando composto da almeno due sicari che gli spararono alle spalle. Erano gli anni di piombo, Calabresi era al centro di una pesante campagna mediatica e politica orchestrata da ambienti della sinistra extraparlamentare (e non solo), con in prima fila il giornale “Lotta continua”, che lo accusavano di essere responsabile della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, coinvolto nelle indagini sulla bomba di Piazza Fontana a Milano (1969), che provocò la morte di 17 persone. Calabresi lasciò la moglie, incinta, e due figli: Mario, attuale direttore de “La Stampa”, che ha raccontato la storia della sua famiglia nel libro “Spingendo la notte più in là”, e Paolo. Il terzo figlio (Luigi) nascerà pochi mesi dopo la sua morte. Lettere: un altro carcere è possibile… avellino.ottopagine.net, 18 febbraio 2013 “Chi scrive è un detenuto del nuovo padiglione della casa circondariale di Avellino. Mi trovo ristretto in questo regime di restrizione all’avanguardia dal 16 maggio 2012, giorno della sua inaugurazione. La riflessione che seguirà è il frutto delle constatazioni fatte da me medesimo sui ripetuti attacchi ultimamente mossi presso questo circondario in seguito a fatti avvenuti e presunti tali, in quanto seppur difficoltosa la sua vivibilità ha sempre garantito, a mio avviso, la dignità di noi detenuti e, grazie all’apertura del nuovo padiglione e anche il reinserimento sociale con vari corsi e le varie attività svolte, tra cui spicca la nascita al suo interno del liceo artistico statale di Avellino. Il nuovo padiglione di Avellino, creato per entrare a far parte degli “Città” campani e nazionali, è sicuramente il più idoneo al trattamento del detenuto per potenzialità e capacità degli operatori penitenziari che lo amministrano professionalmente ed umanamente sotto le direttive specifiche del suo responsabile di reparto ed il suo staff collaborativo, che nonostante i pochi e limitati mezzi posti a loro disposizione si occupano instancabilmente dei circa 150 detenuti ristretti all’interno di questo reparto sperimentale indetto dai magistrati di sorveglianza del circondario di Avellino, i quali da sempre occupano la figura di garanti dei detenuti. L’attiva partecipazione al ruolo da parte dell’amministrazione penitenziaria ha permesso che ad oggi un settimo dei ristretti sia stato predisposto ad i tanto agognati permessi premio utili per sbloccare i benefici di legge con le misure alternative alla detenzione, nonostante l’odierna agonia del pianeta giustizia. Con la nascita di questo progetto e di chi lo amministra, un raggio di sole è entrato a far parte delle nostre speranze, creando in noi l’unica àncora di salvezza in attesa che la giustizia possa riequilibrare le cose con interventi celeri e mirati. Frattanto, speranzoso di aver sollevato la questione alla vostra valutazione e curiosità, la invito a rendere pubblico questo fenomeno ormai mediatico, ma no ancora approfondito e risolto”. Giuseppe La risposta Caro Giuseppe, pubblichiamo con molto piacere la sua lettera. Le confido anzi che avevo già in animo di fare sul nostro giornale qualche riflessione sulla problematica delle carceri. La sua lettera me ne dà oggi un motivo in più, offrendomi, tra l’altro, l’opportunità di un approccio non astratto alla questione. Negli ultimi tempi le condizioni delle carceri italiane sono sotto gli occhi severi della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, nelle parole indignate del Presidente della Repubblica, nella ferma protesta dell’Unione delle Camere Penali, nelle documentate denunce di Sindacati e Associazioni. Ciò malgrado e proprio per questo lei ci invita a rilevare anche al positivo - cosa cui ci sentiamo, in verità, sempre meno inclini di questi tempi - e a far conoscere una realtà fortunatamente non isolata, ancorché eccezionale. Lei ci parla di una struttura all’avanguardia, dove, con encomiabile spirito di servizio, professionalità e umanità, il personale si prodiga, pronto e attento a tutelare la dignità delle persone. Un carcere dove si sperimentano misure alternative alle pene. Ricordo bene l’aiuto alla collettività che proprio voi di Bellizzi avete dato lo scorso anno durante l’emergenza neve. Ma la realtà che lei descrive, quella del Padiglione in cui si trova, costituisce essa stessa un’eccezione all’interno dello stesso penitenziario. Ha il valore, importante, di un modello. Che vorremmo diventasse norma. Ma la norma, nelle nostre carceri, sono sovraffollamento e inattività. Il carcere deve garantire il rispetto della dignità dei detenuti e porre le condizioni per favorire il loro futuro reinserimento. Sovraffollamento e inattività non vanno in direzione di questi obiettivi, non in direzione di una giustizia rieducativa, come vuole la Costituzione. Lei racconta, per certi versi, di un carcere che non c’è. Che non c’è ancora nella sua generalità, ma che può diventare possibile grazie anche alle proteste, alle denunce, all’indignazione, agli “attacchi” che lei trova ingiusti. Portare a conoscenza dell’opinione pubblica le situazioni di degrado, mostrare le carenze e la drammaticità dei dati che riguardano il nostro sistema penitenziario non significa colpevolizzare ma sollecitare una coscienza collettiva che può significativamente incidere sul cambiamento. E questo è il compito anche dell’informazione. Oggi sappiamo che la rieducazione cambia e matura la personalità e che gli individui sono modificabili, cambiano sulla base delle esperienze che fanno. Istruzione, educazione lavoro sono gli strumenti che realizzano le potenzialità individuali e sociali. Il Liceo artistico attivo nel carcere di Bellizzi è un esempio concreto della consapevolezza che l’acquisizione di competenze è condizione indispensabile per un realistico reinserimento sociale. Soprattutto se vogliamo che la libertà che verrà non spaventi… Reclusi, dunque, ma rieducati. Victor Hugo, che ha vissuto nella nostra città, in quella “Casa della cultura”, che speriamo di tenerci ben stretta… pensava che aprire una scuola potesse servire a chiudere un carcere. Un’utopia, quest’ultima, che da alcuni si vuole oggi possibile. Nell’Istruzione lui vedeva un potente dispositivo anche di sicurezza sociale. Dovremmo considerare dunque le risorse da destinare a scuola e carcere non una spesa ma un investimento Ma il carcere possibile è anche quello cui sapremo guardare senza troppe paure e pregiudizi. Che sono poi le nostre prigioni… Dal nuovo Parlamento ci aspettiamo risposte all’altezza della complessità e urgenza dei problemi. Intanto un raggio di sole illumina la speranza, come dice lei. Grazie della sua testimonianza. Lucia Vigorito Toscana: chiusura Opg; mancano strutture per ricovero detenuti con problemi psichiatrici www.toscanaoggi.it, 18 febbraio 2013 Il consigliere del gruppo “Più Toscana” e membro della IV Commissione, Gian Luca Lazzeri, a un mese dalla dismissione degli Ospedali psichiatrici giudiziari prevista dal cosiddetto “decreto svuota carceri” punta l’attenzione sulla mancanza di strutture alternative che garantiscano la gradualità del reinserimento dei pazienti. “Chiusura Opg di Montelupo, rischio dismissioni selvagge in assenza di interventi strutturali che garantiscano la sicurezza dei pazienti e della comunità. Ma anche mancanza di un piano che assicuri il futuro lavorativo dei 23 operatori impiegati nella struttura”. È l’allarme lanciato dal consigliere del gruppo “Più Toscana” e membro della IV commissione Sanità, Gian Luca Lazzeri, che, a un mese dalla dismissione degli Ospedali psichiatrici giudiziari (fra cui quello di Montelupo in provincia di Firenze) prevista dal cosiddetto “decreto svuota carceri” (il 211 del 2011), punta l’attenzione sulla mancanza di strutture alternative che garantiscano la gradualità del reinserimento dei pazienti. “A luglio - spiega - gli internati erano 107 e su di loro pendono condanne per omicidio, lesioni personali, omicidio aggravato, stupro di minore e piromania. Persone che dal primo aprile rischiano di trovarsi senza sedi alternative rimanendo privi di assistenza”. Un rischio denunciato anche dalla Società Italiana di Psichiatria con la proposta di una proroga al decreto per i sei Opg su suolo italiano, della quale il consigliere raccoglie l’appello. “La chiusura dell’Opg di Montelupo - prosegue l’esponente di Più Toscana - è una scelta storica per il nostro Paese, ma i problemi di gestione rischiano di trasformarla in un boomerang sanitario che potrebbe avere gravi conseguenze sul tessuto cittadino e toscano. La Regione avrà, infatti, solo sessanta giorni di tempo per presentare un piano di utilizzo risorse che stabilisca come allocare parte dei 173 milioni di euro sbloccati il 7 febbraio da Roma per finanziare il ricollocamento dei pazienti. E tutti sappiamo come “presto e bene” stiamo male insieme. La Toscana è impreparata ad accogliere e collocare questi pazienti, specie con fondi sbloccati praticamente la settimana scorsa a fronte di un progetto, quello della ricollocazione, che richiederebbe anni di lavoro per essere a prova di bomba e garantire i diritti dei malati”. Nodi da sciogliere che si aggiungono a quelli sul destino dei pazienti che dovranno continuare a scontare la loro pena in carcere. “Per queste persone - commenta - servono misure da attuare immediatamente come reparti dedicati negli istituti di pena che in Toscana sembrano un paradosso viste le condizioni dei carceri di Firenze, con 935 detenuti a fronte dei 450 previsti, o di Lucca, dove un giorno fa sono state rinvenute deiezioni di topi nelle cucine. Il patto per la riforma del sistema carcerario toscano - conclude Lazzeri - è un buon inizio, ma in assenza di un organismo di vigilanza con poteri sanzionatori rischia di restare una lettera dei desideri”. Abruzzo: mancata nomina del Garante dei detenuti, i Radicali mettono in mora la Regione Notizie Radicali, 18 febbraio 2013 I Radicali Abruzzo, impegnati nella campagna elettorale a sostegno delle Liste Amnistia Giustizia e Libertà, hanno denunciato la grave omissione in atto da parte della Regione. Infatti, hanno spiegato gli esponenti Radicali, “nonostante l’approvazione della legge istitutiva del garante regionale dei detenuti dell’agosto 2011, ad oggi la Regione non ha ancora provveduto a dare corso alle procedure necessarie per la nomina”. “La battaglia che conducemmo insieme all’Associazione Giustizia Giusta - ha dichiarato Roberto Di Masci, secondo capolista della lista senatoriale di Amnistia Giustizia e Libertà e all’epoca segretario di Radicali Abruzzo - e che portò all’approvazione della legge, costituisce solo un primo passo verso la effettiva nomina del Garante”. L’esponente radicale Alessio Di Carlo, responsabile di Giustizia Giusta, ha ricordato di aver ricevuto rassicurazioni in occasione della audizione tenuta l’8 giugno 2011 in V Commissione Regionale, aggiungendo che “la nomina del Garante è tanto più urgente se si considera che in Abruzzo, tra Comuni e Province interessati, solo Pescara si è dotata di tale figura”. I Radicali abruzzesi, rammentando che la battaglia per il rientro dello Stato in condizioni di legalità e per il riconoscimento dei diritti delle persone detenute è al centro della campagna elettorale in corso da parte delle liste Radicali di Amnistia Giustizia e Libertà, hanno preannunciato iniziative per “indurre la Regione ad ottemperare agli obblighi previsti dalla legge che essa stessa ha approvato”. Emilia Romagna: Garante dei detenuti Desi Bruno visita Comunità Papa Giovanni XXIII Ristretti Orizzonti, 18 febbraio 2013 Desi Bruno, Garante regionale delle persone private della libertà personale, ha visitato la “Casa Madre del Perdono”, struttura d’accoglienza per detenuti della Comunità Papa Giovanni XXIII, accompagnata da Giorgio Pieri, responsabile del servizio. Nel pomeriggio, la Garante ha raggiunto la Casa Circondariale di Rimini, accompagnata da Gloria Lisi, vicesindaco di Rimini con delega alle politiche socio - sanitarie. “L’uomo non è il suo errore” è il motto che campeggia all’ingresso della “Casa Madre del Perdono”. La struttura accoglie detenuti comuni non tossicodipendenti e propone un progetto educativo e rieducativo che fonda le sue radici nella formazione umana e religiosa dell’individuo, attraverso il lavoro e una rigorosa analisi della propria esperienza. Complessivamente, sono una ventina le persone presenti: una parte agli arresti domiciliari (quelli in attesa di giudizio), e poi ci sono i condannati definitivi, in affidamento in prova al servizio sociale. “La positiva impressione riscontrata durante l’incontro, il risultato riferito di abbattimento della recidiva fino al 10% per le persone che accettano di impegnarsi in progetti di autentico cambiamento personale e vengono avviate al lavoro, dimostra l’utilità delle misure alternative al carcere e la possibilità di ridurre al minimo il ricorso al carcere. Invece di impegnare risorse faraoniche nel cosiddetto piano carceri, sarebbe doveroso costruire luoghi di accoglienza e di recupero su tutto il territorio, creare opportunità di crescita personale, di formazione, lavoro e di dialogo. Questo consentirebbe - secondo Desi Bruno - di ridurre davvero il sovraffollamento, rendendo un servizio alla collettività in termini di maggior sicurezza, accompagnando le persone che escono dal carcere ad una esistenza normale, evitando inutili sofferenze e condizioni di vita disumane in carcere”. Dopo il pranzo comunitario con gli ospiti della Casa, gli operatori e i volontari, la Garante si è recata alla Casa Circondariale di Rimini. Si tratta della terza visita, dall’inizio del suo mandato. Insieme alla vicesindaco Gloria Lisi, alla direttrice del carcere e al comandante di Polizia penitenziaria, Bruno ha visitato la sezione “Andromeda”, destinata a persone tossicodipendenti in regime di custodia attenuata senza vigilanza notturna (attualmente 16), dal riconosciuto valore trattamentale. Subito dopo, l’ispezione alla Prima sezione, già oggetto di un intervento dell’Asl per la situazione di degrado complessivo e di pessime condizioni igienico sanitarie. “A seguito della chiusura di alcune celle per inagibilità da parte della direttrice Maria Benassi, alla data della visita la Prima sezione ospita 38 persone: il numero delle persone presenti è stato dimezzato, ma permane una situazione caratterizzata da gravi condizioni igienico - sanitarie, che ne consiglierebbero caldamente la totale chiusura, e di sovraffollamento delle celle ancora in uso”. La vicesindaco e la Garante “auspicano e chiedono al Provveditore regionale e al Dap che le persone ancora presenti vengano collocate in luoghi più idonei, in modo da consentire la chiusura della sezione. A breve, tra l’altro, dovrebbero iniziare i lavori di ristrutturazione di un’altra sezione, la Seconda, già da tempo chiusa per inagibilità, e questa potrebbe essere l’occasione per rimettere a norma anche la Prima sezione. Realizzare contestualmente tutte le opere necessarie sarebbe sicuramente utile e logisticamente efficace”, conclude Desi Bruno. Empoli: il carcere di Pozzale chiude, 700mila € buttati con progetto detenuti transgender Il Tirreno, 18 febbraio 2013 Il carcere di Empoli chiude. E la Villa dell’Ambrogiana a Montelupo prenderà il suo posto, non appena andrà in archivio l’esperienza dell’Ospedale psichiatrico giudiziario. Il disegno è contenuto nella circolare del 29 gennaio scorso, firmata dal Capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria “a conclusione degli incontri tenuti con i provveditori in cui sono stati discussi i progetti da loro presentati per la creazione/revisione dei circuiti penitenziari regionali”. Giovanni Tamburino del Ministero della Giustizia sottolinea nel documento che “l’obiettivo dell’amministrazione consiste nella realizzazione graduale di un sistema integrato dove la differenziazione delle strutture per tipologia detentiva sarà la premessa di un miglioramento complessivo delle condizioni sia del personale, sia dei detenuti”. Allegato alla circolare c’è la descrizione dei circuiti con l’indicazione della destinazione di ogni istituto, dove si legge che “è prevista la soppressione del carcere di Empoli, ma solo quando sarà disponibile Montelupo Fiorentino”. Questo significa che la casa circondariale del Pozzale, che al momento ospita una ventina di detenute, chiuderà definitivamente i battenti. E la Villa montelupina ospiterà il carcere. Nessun riferimento però alla tempistica dell’operazione. L’Opg doveva chiudere entro il mese di marzo, ma di fatto l’operazione è slittata. Proprio in questi giorni è stato sottoscritto un patto tra il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria della Toscana Carmelo Cantone e dal garante dei detenuti della Toscana Alessandro Margara, insieme ai garanti di Firenze, Livorno, Pisa, Pistoia, San Gimignano e Massa Carrara, proprio nell’intento di migliorare le condizioni di vita nelle carceri e potenziare i percorsi di trattamento e reinserimento. Il patto prevede anche la chiusura dell’Opg (dove gli internati sono un centinaio), oggetto del sequestro di un reparto anche nello scorso mese di dicembre per decisione della commissione parlamentare di inchiesta sul servizio sanitario nazionale presieduta da Ignazio Marino per carenze strutturali e sanitarie. Il Ministero ha sbloccato i fondi (173 milioni) per il ricollocamento dei pazienti, affidando il compito alla Regione, che deve presentare un progetto entro sessanta giorni. Intanto però la notizia della chiusura del carcere empolese ha colto di sorpresa il Comune, dove si attendono comunicazioni ufficiali, che finora non sono pervenute. Bocche cucite invece dagli uffici della direzione della casa circondariale, mentre il provveditore regionale Carmelo Cantone - come ha spiegato la segreteria ieri non era contattabile telefonicamente. Nell’ambito della stessa riorganizzazione l’istituto di Volterra sarà destinato solo a media sicurezza, quello di San Gimignano avrà una vocazione prettamente di alta sicurezza; a Pistoia vien soppressa la sezione collaboratori e spostata la semilibertà in edificio esterno; il nuovo padiglione di Livorno è destinato all’alta sicurezza; ad Arezzo viene istituita la sezione collaboratori; prevista infine la riduzione dei definitivi dal giudiziario di Sollicciano. La storia di 700mila euro buttati Dovevano esserci ospitati detenute transessuali con un progetto all’avanguardia. Ma all’epoca, era il 2010, il ministro Angelino Alfano non volle e questi detenuti speciali non arrivarono mai. Da tre anni Pozzale ospita le donne che erano detenute al Don Bosco di Pisa ma le sorti di questo carcere sono state alterne con un anno di chiusura quasi totale. L’istituto per oltre dieci anni è stato a custodia attenuta, anche in questo caso al centro di un’esperienza innovativa che ha portato a percorsi di recupero importanti. Poi, però, le detenute con caratteristiche tali da entrare in questo percorso non ce ne erano più. E le ultime tre, iper sorvegliate da tutto il personale in forza al Pozzale, andarono via a giugno del 2009. Con tempi non certo veloci, iniziarono in seguito i lavori per rafforzare la sicurezza. A inizio 2010 erano conclusi. Il 4 marzo, con decreto che era stato già approvato, il provveditorato toscano aveva fissato l’arrivo dei transgender: si passava da un’esperienza innovativa (quella della custodia attenuata per ragazze con reati legati soprattutto alla droga) a un’altra, quella delle transessuali. In tutto dovevano arrivare 25 detenuti da Sollicciano. Ma il ministro Alfano bloccò tutto inspiegabilmente. A fine maggio sempre 2010 il garante dei detenuti Franco Corleone fece un digiuno per sei giorni come forma di protesta contro il ministro. Con la struttura chiusa per un anno all’interno di Pozzale ci avevano comunque lavorato una ventina di persone: 4/5 persone per turno tenendo in considerazione ferie, malattie e permessi. Considerando che uno stipendio medio lordo di una guardia carceraria si aggira sui 2.500 euro al mese, in un anno sono stati spesi 600mila euro inutilmente. E se si aggiungono le spese per le bollette si arriva a 700mila euro. Grosseto: Sappe; 60 posti a rischio con chiusura carcere, serve costruire nuova struttura di Francesca Gori Il Tirreno, 18 febbraio 2013 Che il carcere di via Saffi sia destinato a chiudere non è una novità. Almeno per il Sappe, il sindacato autonomo della polizia penitenziaria che non è rimasto colpito dalla circolare ministeriale con la quale si ridisegna la mappa degli istituti nella nostra regione. Nessuno stupore, certo, ma anche la speranza che, dopo l’invio di questa circolare, qualcosa possa cambiare. E che le istituzioni del territorio, soprattutto, facciano la loro parte. “Grosseto non può restare senza una struttura carceraria - dice il sindacato - e soprattutto non possiamo mettere a rischio il posto di una cinquantina di lavoratori”. Il responsabile regionale del Sappe Pasquale Salemme, lo dice e lo ripete. “Gli enti locali, gli amministratori devono mettersi in moto per trovare una soluzione - spiega - perché spesso quando a un proclama come questo seguono proteste, il dietro front è quasi assicurato”. Che la struttura di via Saffi sia vecchia e poco adeguata ad ospitare i detenuti è risaputo. “Quello che serve in Maremma è un nuovo istituto - dice Salemme - perché non possiamo lasciare scoperto un territorio così vasto. Togliere il carcere significa far lievitare i costi del comparto giustizia”. Significa, ad esempio, fare avanti e indietro da altre strutture, da Livorno piuttosto che da Pisa o da Siena e creare anche qualche difficoltà alla Procura. Il carcere di Pitigliano è stato dismesso da anni, quello di Massa Marittima ha una struttura differente, che non permette la detenzione di chi deve restare in carcere, seppur per brevi periodi, senza uscire. “Le istituzioni locali possono e devono fare qualcosa - dice ancora Salemme - perché avere un casa circondariale in città ha comunque portato alcune ricadute sul territorio”. Il sindacalista non pensa solo al posto di lavoro degli agenti della penitenziaria. “Penso anche ai fornitori - dice - penso alle persone che comunque lavorano con questa struttura e che non sono dipendenti diretti del ministero”. Insomma, va bene chiudere la struttura in via Saffi, a patto però che se ne possa costruire un’altra sempre in città. “Non resteremo certo fermi a guardare cosa succede - aggiunge Salemme - ma cominceremo ora una serie di trattative per ottenere qualche risposta seria che non metta i bastoni tra le ruote anche al lavoro della procura”. Il Comune, un’area dove realizzarlo, l’ha già trovata. Quelli che mancano, ora, sono i soldi. Volterra: in carcere chiude Sezione di Alta Sicurezza, a rischio il corso geometri e il teatro di Manolo Morandini Il Tirreno, 18 febbraio 2013 Chiude la sezione Alta sicurezza del carcere di Volterra. Lo dispone una circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia, in attuazione dell’ex art.115 Dpr 231 del 30 giugno 2000. Un provvedimento destinato a ridisegnare la geografia dell’istituto penitenziario che sarà solo per detenuti in regime di media sicurezza. La circolare ministeriale è dello scorso 29 gennaio si delinea una “realizzazione ritmata, secondo una attenta gradualità, di un sistema integrato, coerente con la previsione dell’articolo 15 Dpr 231 del 2000”. E l’obiettivo è chiaro: “la differenziazione delle strutture per tipologia detentiva sarà la premessa di un miglioramento complessivo delle condizioni sia del personale sia dei detenuti”. Un riassetto che porterà nelle intenzioni del Ministero della giustizia a un miglioramento. Che sarà, a sua volta, “favorito dal necessario potenziamento delle attività trattamentali da realizzarsi anche attraverso la ricerca di ogni forma di collaborazione con le altre istituzioni dello Stato, con gli enti locali, con la società esterna in tutte le sue costruttive iniziative”. Un fulmine a ciel sereno per il Colle etrusco. La direttrice del carcere Maria Grazia Giampiccolo ieri non era a Volterra. Impossibile chiedere lumi sulle ricadute del provvedimento. Quel che è certo è che a rischiare di pagare ad alto prezzo la riorganizzazione è il corso per geometri. Attivo sin dal 1995, il corso organizzato e gestito dall’Itcg Ferruccio Niccolini all’interno del carcere nel tempo è cresciuto e si è affermato come una delle maggiori realtà a livello nazionale. È l’unica scuola carceraria nell’intera provincia e una delle pochissime in Toscana, ogni anno riceve centinaia di richieste di iscrizione da ogni parte d’Italia. E a fronte di una popolazione carceraria di 147 detenuti, gli studenti attualmente toccano quota 111. Una percentuale elevatissima, che raggiunge la totalità se si considerano anche gli iscritti alle scuole elementari e medie. Eppure da due anni in estate torna lo spettro di una drastica riduzione delle classi e delle ore a disposizione. Quest’anno i corsi sono organizzati con due pluriclassi e una classe. Il primo e secondo anno insieme, così come gli studenti di quarta e quinta. “Non c’è ancora la certezza sui tempi di attuazione ma inevitabilmente sarà un passaggio traumatico”, dice Alessandro Togoli, insegnante responsabile della sezione geometri in carcere e anima della compagnia teatrale Alta sicurezza. “A sparire con la riforma sarà la sezione dei geometri e poi si perderebbe anche l’attività teatrale che si svolge ininterrottamente dal 1997 e che ogni anno ha prodotto uno spettacolo”. Tuttavia, il professor Togoli è prudente e lascia aperta una porta: “Di concreto per adesso non c’è ancora niente”. Ma come si vive all’interno del Mastio? Celle singole per tutti, personalizzate e con la possibilità di tenere animali, pappagalli e pesci, dieci cani e in moltissimi casi computer potatili sia per i detenuti comuni che per quelli in alta sicurezza. Tutto questo per 147 detenuti a fronte di una capienza di 175 (122 comuni, 25 alta sicurezza), di cui 33 stranieri, solo 2 in attesa di giudizio, 6 tossicodipendenti e 2 sieropositivi. Vasto (Ch): da Casa circondariale a “Casa lavoro”, presto l’istituto ospiterà solo internati Il Centro, 18 febbraio 2013 Il carcere di Torre Sinello è stato inserito in un progetto del Ministero della Giustizia per la rieducazione e il recupero sociale dei detenuti attraverso il lavoro. L’istituto vastese da fine marzo cambierà pelle. Molti dei detenuti attualmente reclusi a Vasto saranno trasferiti nei penitenziari di Lanciano, Pescara e Sulmona. A Vasto arriveranno altri internati da avviare al lavoro. L’iniziativa rientra in un progetto molto più ampio deciso dal governo per promuovere e potenziare le attività già in essere nell’istituto e promuovere vere e proprie filiere produttive. Lavoro come speranza di vita. “Lavorare è essenziale nel trattamento rieducativo”, spiega il nuovo direttore Massimo Di Rienzo. “La trasformazione di Torre Sinello in Casa lavoro rientra in un progetto ampio e articolato diviso in più fasi e con diversi livelli. La trasformazione è appena iniziata”, spiega il dirigente che per il momento preferisce non sbilanciarsi sui dettagli dell’operazione. La “Casa lavoro” seguirà i dettami dell’articolo 27 della Costituzione che prevede la rieducazione e reinserimento sociale degli internati. Il nuovo progetto oltre a favorire il riscatto sociale dei detenuti, porterà anche un notevole risparmio alla casse del ministero. Attualmente Torre Sinello ospita 250 detenuti. Più volte il carcere ha dimostrato di essere un istituto - modello per via dei progetti di reinserimento lavorativo degli ospiti. Da anni in collaborazione con il Comune, alcuni detenuti vengono utilizzati per la pulizia della riserva di Punta Aderci. Nel 2009 grazie all’associazione Opificio AlterArs ai detenuti è stata offerta l’opportunità di dar vita a un laboratorio di arte itinerante ed esporre quadri sulla Loggia Ambling. Presto, grazie all’impegno della direzione e del personale, la detenzione si trasformerà per gli internati (soprattutto detenuti che devono scontare pene lievi) in un percorso di recupero e reinserimento lavorativo. L’Aquila: Uil-Pa; la situazione Casa circondariale è al collasso per mancanza di personale Il Centro, 18 febbraio 2013 Il segretario provinciale della Uil Penitenziari, Mauro Nardella scrive in una nota: “La situazione presso la casa Circondariale dell’Aquila è al collasso. La realtà penitenziaria del capoluogo - dove l’ordine e la sicurezza, stante la presenza di molti detenuti di cui al regime del 41bis, non dovrebbe mai essere messa in discussione ma elevata a potenza - sta conoscendo il periodo più nero della sua storia in fatto di garanzia dei parametri minimi di sicurezza e di assicurazione dei diritti soggettivi del personale che mai, come in questo momento, vedono forti ripercussioni in negativo in tal senso. Per capire meglio la situazione esplosiva che si sta delineando basta vedere cosa è successo nel tempo e precisamente negli ultimi 5 anni: nel 2008 erano 310 le unità di polizia penitenziaria presenti a fronte di 73 detenuti sottoposti al regime del 41bis; allo stato attuale si contano 189 unità di polizia penitenziaria amministrate a fronte di 130 detenuti al 41bis. Di essi si elencano 2 commissari, 13 ispettori su 32 previsti dal decreto ministeriale del 2001, 9 sovrintendenti su 23 previsti, 165 tra assistenti capo, assistenti ed agenti su 190 previsti. Molti sono gli ufficiali di polizia giudiziaria che quotidianamente devono essere prelevati da altri istituti penitenziari della provincia per garantire l’effettuazione dei processi a distanza attraverso le videoconferenze e pochissimi sono gli agenti utilizzati per garantire la sicurezza all’interno del reparto ove vengono svolte le videoconferenze. Pochissimi sono anche gli agenti utilizzati nei reparti detentivi e molti di loro, soprattutto quelli che fanno capo al Gom (Gruppo operativo mobile), effettuano turni anche di 12 ore con logiche ripercussioni a livello psicofisico. Anche a livello strutturale, considerati i pochissimi fondi messi a disposizione per la manutenzione ordinaria dell’istituto, la situazione va facendosi sempre più critica ed il rischio che molti supporti, utilizzati per garantire il mantenimento degli standard in fatto di sicurezza e non solo, possano caratterizzare in peggio la salvaguardia della struttura stessa si fa sempre più serio. Sono numeri che fanno accapponare la pelle e che rappresentano il punto estremo di una corda che è prossima a spezzarsi. Se a tutto ciò si somma il fatto che la maggior parte degli operatori ha più di 25 anni di servizio ed un’età media che supera di gran lunga i 45 anni si possono ben capire le drammatiche conseguenze che in un tempo non certo lungo potrebbe, e si spera di non raccontarlo mai, portare serie ripercussioni non solo per la sicurezza interna e quindi per l’incolumità di tutti gli operatori ma anche per l’intero territorio. La Uil penitenziari dice basta a questa sciagurata politica vocata all’annientamento delle aspettative di tutto il personale operante all’interno della Casa Circondariale dell’Aquila. Dice basta alla superficialità di un’Amministrazione che non solo non riconosce i diritti soggettivi dei suoi consociati ma che di fatto li sta costringendo ad operare in una trincea di cartone incapace di sopportare il peso specifico che un istituto da tutti riconosciuto essere uno dei più pericolosi d’Italia può avere. Invitiamo l’Amministrazione a prendere cognizione della gravissima situazione e a porvi rimedio. Il tutto prima che possa succedere l’irreparabile. La Uil Penitenziari attiva da subito lo stato di agitazione del personale e invita il Prefetto a concorrere, con tutti i mezzi che ha a disposizione, alla risoluzione immediata del problema”. Salerno: Radicali; la magistratura di sorveglianza? “è come un plotone d’esecuzione” La Città di Salerno, 18 febbraio 2013 Rita Bernardini, deputata radicale, sintetizza con la frase di un detenuto, sentita ieri mattina lungo i corridoi del carcere di Fuorni, la situazione esplosiva della più grande struttura penitenziaria della provincia di Salerno. Stando alle testimonianze raccolte, ogni richiesta di valutare un eventuale sconto della pena con misure alternative viene sistematicamente bocciato. “Nonostante ci siano tutti i pareri e le relazioni positive” sottolinea la parlamentare uscendo dal carcere dopo una visita ispettiva durate tre ore, in compagnia di Donato Salzano e Manuela Zambrano dei Radicali salernitani, attesa all’uscita dall’altro Radicale Michele Capano. Il sistematico diniego alle istanza colpirebbe la quasi totalità dei detenuti. “Tutti - sostiene inoltre la deputata radicale - potrebbero presentare ricorso alla Corte europea per i diritti dell’uomo denunciando le condizioni inumane di questa struttura”. La Bernardini racconta di celle di ventuno metri quadrati “dove ci si sta in otto: meno di tre metri a testa. Queste persone - continua - stanno in cella 22 ore su 24, senza poter fare nulla. Solo l’otto per cento di loro è impegnato in un lavoro, e la scolarizzazione si ferma alla terza media. D’inverno, poi, chiudono anche il campo di calcio”. Poi ci sono i divieti sugli alimenti portati dai familiari: “Solo recentemente è stato concesso di portare acqua o latte. Ma questi - sottolinea - sono comportamenti che vanno avanti da anni”. I Radicali hanno anche informato i detenuti e i loro familiari sulla possibilità, per chi non perso i suoi diritti, di poter esercitare il voto. “L’informazione - ha proseguito la parlamentare - è arrivata dall’esterno. Qualcuno era informato, ma ascoltando Radio Radicale. Dentro, invece, fino a questa mattina (ieri per chi legge, ndr) non c’era neanche un avviso nella sala di socialità. Credo che in molti faranno richiesta di poter esercitare il loro diritto di voto”. A seconda del numero delle domane, potrebbe essere allestito un seggio proprio all’interno del carcere oppure un cosiddetto “seggio volante”, se il numero degli elettori sarà più esiguo. In questo caso il presidente del seggio più prossimo alla struttura penitenziaria andrà a ritirare le schede votate. Ieri mattina hanno effettuato una visita ispettiva al carcere anche i senatori del Pdl Franco Cardiello ed Enzo Fasano. I due esponenti politici si sono schierati per l’incremento delle strutture e la depenalizzazione di alcuni reati. Cardiello si è anche dichiarato favorevole all’amnistia. “Bisogna fare qualcosa - hanno detto - o la situazione diventa esplosiva”. Cardiello e Fasano hanno poi raccontato di aver incontrato anche l’ex sottosegretario Paolo Del Mese, detenuto da qualche giorno - dopo otto mesi di arresti domiciliari - nell’ambito dell’inchiesta sul crac Amato. “È un accanimento”, hanno denunciato. E a chi gli riferiva delle motivazioni del giudice, che ha confermato il carcere motivandolo con il concreto rischio di reiterazione del reato, Cardiello ha risposto con un eloquente “sono barzellette”. Cagliari: Sdr, grave ritardo in restauro Centro Diagnostico Terapeutico di Buoncammino Agenparl, 18 febbraio 2013 “I cittadini privati della libertà ricoverati nel Centro Diagnostico Terapeutico di Buoncammino dovranno ancora sopportare per un po’ i calcinacci che cadono sulle brande e sui letti a castello, i piatti delle docce intasati, i tubi arrugginiti da cui non sempre sgorga l’acqua calda, nonché l’impianto elettrico che fa le bizze. Non è ancora stato effettuato infatti il previsto sopralluogo dei tecnici dell’Asl n. 8, che fin da gennaio avrebbe dovuto definire tempi e modalità dell’intervento di ristrutturazione nel Centro Clinico della Casa Circondariale cagliaritana”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione Socialismo Diritti Riforme. “L’intervento di manutenzione si era reso necessario in seguito alla vetustà degli impianti. Da tempo i familiari dei detenuti avevano segnalato i disagi dei loro congiunti per le difficili condizioni in cui si trovano diverse celle del Centro Diagnostico Terapeutico dove sono ricoverate persone particolarmente sofferenti. Della questione erano peraltro stati informati i responsabili dell’Azienda Sanitaria Locale, cui spetta la salvaguardia della salute dei ristretti. La puntuale ricognizione dei tecnici però non è ancora avvenuta e l’inatteso ritardo nell’avvio dei lavori sta contribuendo a rendere ancor meno agibile la struttura diagnostico - terapeutica di Buoncammino. Speriamo che la decisione di intervenire in extremis sullo storico Istituto cagliaritano si concretizzi al più presto l’umidità e il freddo di queste ultime settimane infatti sta gravando ulteriormente sui pazienti”. Ha concluso la Presidente di SdR. Agrigento: Osapp; detenuto tenta d’impiccarsi nel carcere di Sciacca, salvato dagli agenti Agi, 18 febbraio 2013 Un detenuto ha tentato il suicidio nel carcere di Sciacca. A salvarlo un assistente capo di Polizia penitenziaria in servizio di notte. Il recluso ha tentato di impiccarsi con delle lenzuola che aveva legato alle sbarre. Accortosi di quanto stava accadendo, l’agente, in servizio in due sezioni, ha allertato la sorveglianza generale, e, insieme a un altro assistente capo, ha scongiurato il peggio liberando il detenuto dal cappio. A renderlo noto il vice segretario regionale dell’Osapp Rosario Di Prima. “Questa è la Polizia penitenziaria - afferma - questa è la professionalità e il grande senso di umanità che ci contraddistingue. Al personale di Polizia penitenziaria di Sciacca, che in situazioni di difficoltà nella esiguità del personale, riesce a gestire situazioni di difficoltà, va ogni riconoscimento”. Teramo: bimbo malato in cella causa di polemiche tra i Radicali e la direzione del carcere Il Centro, 18 febbraio 2013 “La storia del bimbo malato detenuto insieme alla madre nel carcere di Castrogno è vera. Noi non strumentalizziamo nulla. Il direttore della Casa circondariale teramana pensi piuttosto a risolvere il problema”. Il caso della donna rom, reclusa con un bambino di due anni e mezzo nato senza un rene e bisognoso di cure, continua a far discutere. I referenti regionali della lista Amnistia Giustizia e Libertà, Orazio Papili, Vincenzo Di Nanna e Ariberto Grifoni, replicano al direttore del carcere di Castrogno Stefano Liberatore, che all’indomani della denuncia di Rita Bernardini (deputata della delegazione radicale nel Partito Democratico) aveva ridimensionato il problema parlando di “vicenda strumentalizzata” e puntualizzando che “il bimbo non sempre vive in carcere, visto che all’esterno ha dei familiari, ed è seguito in maniera costante sia sul piano sanitario che su quello psico-pedagogico”. I seguaci di Marco Pannella alzano il tiro e con un duro comunicato stampa rispondono a Liberatore: “Non c’è nessuna strumentalizzazione politica della triste vicenda, quanto piuttosto un’inutile e sterile polemica da parte dello stesso direttore del carcere di Castrogno”, si legge in una nota, “in effetti quanto riferito dall’onorevole Rita Bernardini in occasione della partecipazione al dibattito Giustizia e dintorni (tenutosi giovedì, ndc) all’università di Teramo e ribadito con un’intervista rilasciata all’emittente televisiva Teleponte, è stato appreso dalla lettura di una lettera che le detenute della sezione femminile di Castrogno hanno letto alla presenza della stessa Rita Bernardini, di Marco Pannella, del vice comandante e di alcuni agenti della polizia penitenziaria. Il contenuto della lettera (nella quale si evidenzia che c’è un bambino nato con un solo rene che avrebbe bisogno delle visite di un pediatra e non di un medico generico, ndc) è stato altresì confermato dalla madre del piccolo nel corso di un colloquio con Rita Bernardini e Marco Pannella. Il direttore del carcere lasci dunque da parte ogni polemica e si preoccupi piuttosto di tutelare la salute del bambino”. Gaetano Lombardino Lecce: un incontro di “Andare Oltre” per far conoscere le reali condizioni del carcere www.portadimare.it, 18 febbraio 2013 Successo di pubblico per l’evento sul tema “Morire di carcere?” organizzato sabato 16 febbraio, a Nardò, presso il Chiostro di Sant’Antonio, da “Andare Oltre”. Ha aperto la serata Pippi Mellone, consigliere comunale di Andare Oltre, che ha ricordato come ben il 40% dei detenuti sia in attesa di giudizio (e quindi da presumersi innocente fino a sentenza definitiva) e “risieda” nelle stesse celle con “chi è colpevole oltre ogni ragionevole dubbio”. In una sala gremita, nonostante la fredda serata di pioggia, sono intervenuti numerosi relatori moderati dal giornalista di Nuovo Quotidiano di Puglia, Giuseppe Tarantino. Pippi Mellone ha riconosciuto al partito Radicale il merito di essere stato spesso unico baluardo a difesa dei diritti civili e dei diritti umani in Italia. Ha chiuso ricordando le parole di Fabrizio De Andrè, “poeta degli ultimi”, che in una sua famosa composizione affermava: “Anche se non gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo”. Poi è stata la volta dell’avv. Giuseppe Bonsegna, delegato distrettuale dell’Organismo unitario dell’Avvocatura, che ha illustrato le soluzioni prospettate dal “parlamentino degli avvocati” e proposto l’istituzione di un’Autorità super partes, un Garante del detenuto che ne tuteli la posizione anche qualora sia stato condannato in via definitiva. Luigi De Micheli, di Ordine Futuro, ha, invece, portato all’attenzione del pubblico il caso di Daniele Scarpino, Diego Masi, Luca Ciampaglia e Mirko Viola, quattro giovani detenuti per reati d’opinione in regime d’isolamento da 3 mesi. Un’assoluta ingiustizia per cui i ragazzi hanno chiesto l’intervento dei radicali di Nessuno Tocchi Caino. Quindi la parola è passata al radicale Sergio D’Elia, componente di Nessuno Tocchi Caino, che ha ringraziato calorosamente il gruppo neretino della Comunità Militante Andare Oltre per l’attenzione dimostrata sul tema delle carceri e si è detto piacevolmente colpito dalla strepitosa partecipazione dei cittadini all’evento. Ha chiuso con una frase che è il senso stesso della serata: “Dopo aver abolito la pena di morte occorre eliminare la morte per pena”. È toccato poi al dr. Antonio Fullone, da 13 mesi direttore del carcere di Borgo San Nicola, che ha affermato come il suo ruolo debba tendere non alla rieducazione, termine che rifiuta, ma al ritorno in società del detenuto. Ha, quindi, sottolineato come la giunta leccese di Paolo Perrone gli stia mostrando grande attenzione e collaborazione. Quindi è stato il turno di Rita Bernardini che visitava Nardò per la prima volta e ha ricordato le battaglie radicali su aborto, divorzio e fame nel mondo. Battaglie che in un primo momento apparivano come obiettivi irraggiungibili. Ha poi ricordato le sue 1.500 visite nelle carceri italiane da parlamentare e sottolineato come la probabile assenza dei Radicali dal prossimo Parlamento sia una iattura anche per i detenuti oltre che per l’Italia. Hanno chiuso le due mamme: Ornella Chiffi, mamma del neretino Gregorio Durante, e Cecilia Greco, madre del leccese Simone Renda. Due racconti strazianti e commoventi quelli delle madri. Racconti che hanno toccato i cuori di tutti i presenti per un evento che difficilmente potremo dimenticare. Libri: “Condannati preventivi”, di Annalisa Chirico 9Colonne, 18 febbraio 2013 “In Italia il carcere preventivo svolge una funzione ufficiale e una ufficiosa. Da tempo si è trasformato in antidoto alla irragionevole durata dei processi. Così da misura eccezionale e residuale, come previsto dal Codice, è diventato abuso quotidiano e sistematico. I detenuti in attesa di giudizio sono il 40% del totale, sequestrati in celle immonde dove non scontano una pena ma la lentezza della cosiddetta giustizia italiana”. Lo afferma Annalisa Chirico, giornalista e dirigente radicale che oggi pomeriggio, al Circolo dei lettori di Torino, presenta il suo libro “Condannati preventivi” (ed. Rubbettino) nel corso di un dibattito al quale partecipano il sindaco della città Piero Fassino, il procuratore generale presso la Corte d’appello Marcello Maddalena e la vicepresidente della Camera penale torinese Emilia Rossi. Modera la scrittrice Elena Loewenthal. Immigrazione: regolamento di Dublino, decennale amaro Redattore Sociale, 18 febbraio 2013 Compie dieci anni il Regolamento Dublino ma secondo il Cir e altre organizzazioni c’è poco da festeggiare. Il sistema che vincola i richiedenti asilo al primo Paese europeo di ingresso viola i diritti. Servono regole più umane. Il Regolamento Dublino II viola i diritti dei rifugiati. È quanto afferma il rapporto The Dublin II Regulation: Lives on Hold, a dieci anni dalla sua entrata in vigore. Un compleanno fallimentare sia nei confronti delle persone che chiedono protezione, sia nei confronti degli Stati membri. C’è poco da festeggiare, secondo il Consiglio italiano per i rifugiati (Cir), il Forum Rèfugiès - Cosi, l’Ecre, l’Hungarian Helsinki Committee e altri organismi nazionali che hanno pubblicato lo studio comparativo su come il regolamento viene applicato in 11 Stati: Austria, Bulgaria, Francia, Germania, Grecia, Ungheria, Italia, Slovacchia, Spagna, Svizzera e Paesi Bassi. Il Regolamento Dublino è il sistema che identifica lo Stato europeo competente per la decisione su una domanda d’asilo. La procedura prevede che un richiedente asilo debba restare nel Paese europeo in cui per la prima volta è stato identificato attraverso le impronte digitali. E quindi, se rintracciato a chiedere protezione in un altro Stato viene rimandato indietro nel primo Paese. Il rapporto denuncia gravi conseguenze sui richiedenti asilo a causa dell’applicazione meccanica del sistema Dublino da parte delle autorità. Le persone vengono lasciate senza mezzi di sostentamento o detenute, l’accesso alla procedura d’asilo non è sempre garantito, le famiglie sono separate. Come nel caso avvenuto in Austria di un padre ceceno separato dal suo bambino appena nato e mandato in Polonia a causa del Regolamento Dublino. Il figlio invece è stato riconosciuto rifugiato in Austria con la madre. I cosiddetti “casi Dublino” sono frequentemente trattati come “persone di serie B” che godono di meno diritti in termini di condizioni di accoglienza, dice il rapporto. Vengono colpiti nel diritto all’alloggio, spesso costretti a ricorrere ai tribunali per accedere all’abitazione oppure a costruirsi alloggi di fortuna. “Meno della metà dei trasferimenti concordati sotto Dublino sono realmente portati a termine, il che suggerisce il fatto che ci sia molta burocrazia sprecata - si legge nella nota che accompagna la diffusione della ricerca. Tuttavia, nessun dato completo sul costo finanziario dell’applicazione del Regolamento Dublino è stato mai pubblicato”. È prevista l’adozione del nuovo Regolamento Dublino III, che contiene dei miglioramenti, come il diritto ad un colloquio personale, ma mantiene i principi e le carenze alla base del Sistema Dublino. La richiesta è di rivedere la procedura per renderla più equa e più umana e per favorire l’integrazione in Europa dei rifugiati. Immigrazione: scoppia violenta protesta al Cie di Ponte Galeria, la cronaca e i commenti Agi, 18 febbraio 2013 Momenti di tensione oggi al centro di identificazione ed espulsione (Cie) di Ponte Galeria, alle porte di Roma, dove un gruppo di immigrati, perlopiù nigeriani, ha danneggiato parte della struttura e dato alle fiamme alcuni materassi. Nel corso della protesta una poliziotta è rimasta ferita ad una mano ed è dovuta ricorrere alle cure mediche. Sul posto sono ancora al lavoro i vigili del fuoco per spegnere le fiamme appiccate dagli immigrati. Secondo quanto si è appreso a far partire la protesta sarebbero stati cinque nigeriani colpiti da decreto di espulsione. I disordini sono scoppiati, riferisce il Garante dei detenuti del Lazio, Angiolo Marroni, a seguito del rifiuto, da parte di un ospite nigeriano del centro, di essere rimpatriato per effetto di un decreto di espulsione. La sua resistenza alle forze dell’ordine ha causato la reazione degli agenti e gli altri ospiti nigeriani che hanno assistito a questa scena, hanno protestato e messo a ferro e fuoco il settore maschile, causando ingenti danni, tanto che sono intervenuti i vigili del fuoco. La rappresentanza nigeriana è attualmente la più folta nel Cie, circa il 40% della popolazione maschile ospite (43 su 132 ospiti) Per tutta la durata degli incidenti, gli ospiti non nigeriani sono rimasti alquanto indifferenti all’accaduto. Proprio questa mattina era prevista la presenza di una delegazione di giornalisti di diverse testate nazionali. Il giovane nigeriano, Victor, di 29 anni alla fine non è stato rimpatriato e otto dei suoi connazionali sono in stato di fermo giudiziario. “La crisi che sta vivendo il Paese e la campagna elettorale - ha detto il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni - hanno fatto sparire dall’agenda della politica il problema dell’immigrazione. Non solo a Ponte Galeria, ma in molte altre strutture in tutta Italia, centinaia di persone vivono quotidianamente una situazione da tortura psicologica. In questo contesto, le fughe dai Cie, le proteste anche violente e gli atti di disperazione personale sono all’ordine del giorno. A Ponte Galeria in particolare, che è la struttura di cui ci occupiamo in prima persona, il clima è tale che qualsiasi episodio di vita quotidiana può essere il detonatore di proteste e di violenze”. Ospiti chiedono permesso soggiorno e condizioni più umane Si cerca ancora di riportare la calma al Cie di Ponte Galeria a Roma, dove questa mattina è scoppiata la rivolta degli immigrati ospiti del Centro, dove vivono in attesa di essere rimpatriati. Al momento i Vigili del Fuoco, giunti sul posto a causa di un incendio che proprio gli stessi ospiti avevano appiccato, fanno sapere che le fiamme sono state domate. La struttura è agibile, ma resta il problema di materassi e coperte che sono stati bruciati. Le forze dell’ordine presenti sul posto stanno cercando di riportare la calma e una funzionaria di Polizia, nel tentativo di contenere la sommossa, si è rotta una mano. Tra gli ospiti non si registrano feriti. La zona è stata circoscritta, ma dai cancelli arrivano le urla di protesta degli immigrati contro le “condizioni disumane in cui ci tengono”. Uomini e donne, tenuti in due settori separati, chiedono il permesso di soggiorno, e non il rimpatrio. I nigeriani, in particolar modo, a causa della guerra in corso nel loro Paese, chiedono di restare in Italia. Permessi scaduti e mai più rinnovati, cibo cattivo, lunghe permanenze nella struttura, sono tra le lamentele più ricorrenti. “Io sono qui da due anni - ha raccontato uno di loro - voglio solo lavorare e non tornare nel mio paese. Lì rischio di morire”. Anche tra le donne la situazione non cambia: “Io in Nigeria non ho nessuno - ha spiegato una ragazza - chiedo solo di stare qui e lavorare”. Le ha fatto eco una compagna: “Basta stare qui, siamo esseri umani anche noi. Il cibo è cattivo e spesso abbiamo dei forti mal di pancia che ci curiamo da sole”. Rossodivita (Radicali): c’è situazione umanitaria grave, peggio che nelle carceri “Lo scorso 6 febbraio ho fatto formale richiesta al ministero degli Interni, anche nella mia qualità di consigliere regionale ancora in carica, di poter far visita al Cie di Ponte Galeria di Roma per verificare le condizioni di detenzione di questo vero e proprio lager. Tra l’altro nel Cie di Ponte Galeria è detenuto uno dei cittadini stranieri, da me difeso, al quale lo Stato italiano deve ancora corrispondere il risarcimento dei danni che gli è stato riconosciuto dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo con la recente e nota sentenza pilota. Da notizie giuntemi la situazione umanitaria è gravissima e trovo francamente assurdo che passino così tanti giorni per avere l’autorizzazione per potervi accedere. Le notizie di oggi parlano di azioni di disperazione con incendi di materassi e rivolte violente. Dal punto di vista umanitario la situazione dei Cie è ancora più grave di quelle delle carceri e tutto questo avviene senza che nessuno intervenga per verificare le condizioni delle centinaia di stranieri lì rinchiusi. Mi auguro che i candidati cosiddetti progressisti, che blaterano e propagandano parole, parole, parole, vogliano al più presto unirsi alla mia richiesta e chiedere anche loro che nelle prossime ore ci sia consentito di fare una visita al Cie di Ponte Galeria”. È quanto dichiara Giuseppe Rossodivita, candidato presidente alla Regione Lazio per la Lista Amnistia Giustizia Libertà. Chaouki (Pd): incidenti Cie colpa politiche Maroni-Berlusconi “Gli incidenti di oggi al Centro di Identificazione e Espulsione di Ponte Galeria a Roma sono solo l’ultima disperata reazione da parte di persone stanche di essere recluse senza prospettive certe per diciotto lunghissimi mesi, conseguenza di un cattivismo targato Maroni-Berlusconi”. Lo dice Khalid Chaouki, responsabile Nuovi Italiani del Pd. “Condanniamo con fermezza qualsiasi manifestazione violenta - aggiunge, ma invitiamo le Autorità competenti ad intervenire con celerità al fine di offrire ai reclusi, vittime di una legislazione miope e gravemente lesiva della dignità delle persone, le cure e l’assistenza necessaria. Così come invitiamo tutti i mezzi di informazione a pretendere di accedere e documentare le condizioni spesso disumane in cui versano i detenuti di origine stranieri in questi luoghi dimenticati dove immigrati e operatori della sicurezza sono totalmente abbandonati senza direttive”. Sindaco Alemanno: nei Cie difficili condizioni di vita, ma strutture necessarie “Il Cie è un luogo sicuramente brutto e non entusiasmante, ma necessario per contrastare l’immigrazione abusiva e illegale degli extracomunitari, mentre i comunitari, i romeni e gli appartenenti all’Ue hanno un altro regolamento. In questa rivolta ci sono due componenti: una sarà legata alle condizioni di vita nel Cie di Ponte Galeria, che probabilmente non saranno soddisfacenti come purtroppo non sono soddisfacenti le condizioni di vita in altri luoghi di restrizione della nostra Repubblica: c’è un momento di crisi e si tende a risparmiare sulla pelle di chi non può difendersi. Ma insieme a questo aspetto ce n’è uno ideologico e culturale, l’idea di combattere contro i limiti che ci sono verso l’immigrazione clandestina”. Così il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, a Radio Radio. “Su questo piano non si può dare alcuna solidarietà verso atteggiamenti di questo genere - ha aggiunto. Rispetto all’immigrazione clandestina abbiamo un atteggiamento che fra i diversi Paesi europei è quello più disponibile e certe volte colpevolmente lasco, per cui l’idea che si mettano in discussione i Cie per mettere in discussione l’idea che uno può immigrare in Italia solo se c’è un permesso di soggiorno, autorizzazione e lavoro è un’idea da cui non si può assolutamente derogare. Se si può fare qualcosa di più per rendere più civili e umane le condizioni di vita nei Cie le istituzioni si devono muovere, ma guai a mettere in discussione norme che già sono deboli. C’è già troppa immigrazione clandestina in Italia e a Roma e questa crea grandi problemi agli immigrati regolari e ai cittadini italiani”. Droghe: i migranti ormai sono diventati protagonisti della tossicodipendenza di strada Redattore Sociale, 18 febbraio 2013 Lo dice Salvatore Giancane, coordinatore dell’Unità operativa del Sert: “I protagonisti della tossicodipendenza di strada sono sicuramente i migranti. Il trend è ascendente da molti anni”. Si passa dallo spaccio al consumo. L’allarme arriva dall’Unità di strada del Comune di Bologna: la maggior parte degli utenti che si rivolgono agli operatori del servizio sono migranti, spesso senza documenti. “Non posso che confermare - spiega Salvatore Giancane, esperto di tossicodipendenza e coordinatore dell’Unità operativa del Sert - I protagonisti di quella che in gergo tecnico si chiama open drug scene, o tossicodipendenza di strada, sono sicuramente loro: i migranti”. Giancane ci tiene a precisare come il trend sia inesorabilmente ascendente, e per giunta già da molti anni. “Basta guardare i dati carcerari: gli stranieri sono molti di più degli italiani. In carcere il sorpasso c’è stato da molto tempo”. Quello che si verifica in linea molto generale per i non italiani è il passaggio dallo spaccio al consumo per finire invischiati nella dipendenza da eroina o altre sostanze. “Immaginatevi il progetto migratorio di una persone che arriva in Italia: senza contatti e senza un’accoglienza efficace finirà ai margini, e quando si finisce ai margini l’unica accoglienza vera è data dalla scena dello spaccio, che dà alla persone un ruolo sociale riconosciuto. Purtroppo da questo punto di vista questo tipo di accoglienza, in senso lato ovviamente, funziona benissimo”. Il fenomeno, sottolinea l’esperto, non è certo nuovo. “Potremmo parlare di una bassa marea – spiega. Gli operatori dell’unità di strada se ne accorgono in questo momento perché la cosiddetta piazza ormai è occupata solo da persone ai margini. In realtà il consumo di eroina è diffuso anche tra gli italiani, che la usano a scopi ricreativi e che, se individuati, possono godere di una serie di tutele e garanzie che uno straniero difficilmente riuscirebbe ad ottenere”. Un esempio? L’accoglienza nelle comunità di disintossicazione e, se è il caso, il passaggio dal carcere ai domiciliari. Georgia: dal 2005 oltre 700 morti in carcere, avviata indagine della procura generale Tm News, 18 febbraio 2013 Oltre 700 carcerati sono morti in Georgia tra il 2005 e il 2012 durante la detenzione e la Procura generale ha avviato un’indagine per verificare le “informazioni preliminari su molte uccisioni”. La notizia, scioccante, arriva direttamente dal procuratore generale della Georgia e minaccia di aprire un nuovo fronte di tensione politica, già alta nel Paese caucasico, dopo la sconfitta elettorale del partito del presidente Mikheil Saakashvili e l’arrivo al governo del miliardario Bidzina Ivanishvili. Un cambio di guardia, tra l’altro, avvenuto sulla scia dello scandalo scoppiato con la diffusione lo scorso settembre di un video in cui si vedono funzionari di un carcere maltrattare e violentare dei carcerati. “Stiamo indagando sulle reali ragioni delle morti, in quanto secondo informazioni preliminari molti (carcerati, ndr) sono stati uccisi”, ha dichiarato oggi il procuratore capo Archil Kbilashvili, come riporta Interfax da Tbilisi. “Se queste informazioni saranno confermate, allora saremo di fronte a crimini commessi dallo stato”, ha precisato. I primi risultati dell’indagine avviata, secondo il procuratore, saranno disponibili e resi noti già a marzo. La questione del trattamento dei detenuti nelle carceri georgiane si è saldata nei mesi scorsi con quella delle incarcerazioni, quindi dei processi, in uno dei filoni più delicati del braccio di ferro tra Saakashvili e il nuovo premier Ivanishvili. Il 21 dicembre il parlamento di Tbilisi ha approvato un’amnistia che promette la scarcerazione anticipata a circa 3.500 carcerati e una riduzione di pena per altri 5.500. Il provvedimento di amnistia prevede la creazione di una speciale commissione incaricata di rivedere ogni singolo caso, ma raccomanda la grazia per i condannati per tradimento, per aver partecipato in disordini militari, per attività di spionaggio a favore della Russia, per furto e frode. Secondo il governo, infatti, questi articoli raccolgono un alto numero di persone vittime di persecuzioni politiche negli anni di potere di Saakashvili. Il presidente si è rifiutato poi di firmare l’amnistia e al suo posto l’ha vidimata il capo del parlamento, David Usupashvili. Iran: nuova ondata esecuzioni, tre omosessuali impiccati a Shiraz Aki, 18 febbraio 2013 Sette persone sono state giustiziate nelle ultime ore in Iran, nell’ennesima ondata di esecuzioni a pochi mesi dalle elezioni presidenziali. Tra i detenuti saliti al patibolo ci sono anche tre omosessuali, impiccati in pubblico a Shiraz, nella regione centro - meridionale della Repubblica Islamica, per i reati di sodomia e rapina. A riferirlo è il sito ufficiale della magistratura della provincia di Fars, secondo cui le esecuzioni dei detenuti, identificati solo con le iniziali H.A., Y. F. e M.V. sono avvenute in una delle piazze centrali della città. Un altro giovane di 29 anni è stato giustiziato, sempre a Shiraz, con l’accusa di stupro e rapimento. Stando all’agenzia d’informazione “Irna”, inoltre, quattro trafficanti di droga sono stati impiccati nel carcere di Arak ieri mattina. I giustiziati erano tutti stati condannati a morte per traffico di oppio ed eroina. Omicidio, stupro e traffico di droga sono alcuni dei reati punibili con la pena di morte nella Repubblica Islamica. Israele: detenuto palestinese in fin di vita dopo oltre 200 giorni di sciopero della fame di Riccardo Noury Corriere della Sera, 18 febbraio 2013 Samer Issawi, 34 anni, è uno dei sei detenuti palestinesi in sciopero della fame nelle carceri israeliane. Dopo 209 giorni di protesta, la sua vita è in grave pericolo. È stato arrestato il 7 luglio 2012 a un posto di blocco militare nella zona di Gerusalemme. Portato al centro di detenzione di Moscobiyya, è stato interrogato per 28 giorni, per i primi 23 dei quali senza poter contattare il suo avvocato. In seguito, è trasferito nel carcere di Nafha, nel deserto del Negev. Il 1° agosto, di fronte al rifiuto delle autorità militari israeliane di rendere noti i motivi dell’arresto, ha iniziato lo sciopero della fame. A quanto pare, avrebbe violato le condizioni concordate al momento del suo rilascio, nell’ottobre 2011, nel celebre scambio di prigionieri tra Hamas e Israele che coinvolse 1.027 palestinesi e il soldato israeliano Gilad Shalit. Tuttavia, come prevede l’istituto della detenzione amministrativa, quelle condizioni sono segrete e dunque né Issawi né il suo avvocato possono sapere in che modo sarebbero state violate. Se i giudici concludessero che effettivamente vi è stata quella violazione, Issawi dovrebbe riprendere a scontare la condanna, interrotta al momento del rilascio, a 30 anni di carcere per detenzione di armi e costituzione di un gruppo armato. All’epoca dello scambio di prigionieri, aveva scontato 12 anni di quella condanna. Il tribunale di primo grado di Gerusalemme, dopo una prima udienza tenutasi il 18 dicembre, si è riservato di decidere. Quel giorno, Issawi è entrato in aula legato a una sedia a rotelle e scortato dalle forze speciali di polizia. Quando ha cercato di salutare la madre e la sorella, presenti in aula, gli agenti lo hanno colpito al collo, al torace e allo stomaco. Mentre veniva portato fuori dal tribunale, è caduto dalla sedia a rotelle. Poco dopo, l’esercito israeliano ha fatto irruzione nella casa di famiglia, a Issawiya, arrestando la sorella Shirin. È stata rilasciata 24 ore dopo dietro pagamento di una cauzione di 650 euro, con l’obbligo di restare agli arresti domiciliari per 10 giorni e il divieto di far visita al fratello per sei mesi. Dall’inizio dello sciopero della fame, Issawi ha trascorso la maggior parte del tempo nella clinica del carcere di Ramleh, salvo assistere all’udienza del 18 dicembre ed essere trasferito diverse volte in ospedali civili per essere sottoposto a esami clinici urgenti. Secondo quanto riferito dal suo avvocato, nelle ultime settimane la salute di Issawi si è deteriorata rapidamente: il 31 gennaio pesava 47 chili. Il personale medico della clinica di Ramleh ha reso noto che potrebbe morire presto. Le manifestazioni di sostegno a Issawi crescono, in alcuni casi affrontate con la forza dall’esercito israeliano. L’Alta commissaria delle Nazioni Unite per i diritti umani, Navi Pillay, ha espresso preoccupazione per la sorte di Issawi e ha chiesto che tutti i palestinesi in detenzione amministrativa siano rilasciati o incriminati e processati. Amnesty International teme che nella clinica del carcere di Ramleh Issawi non riceva cure urgenti e specialistiche di cui ha bisogno una persona in sciopero della fame da sei mesi. Per questo, l’organizzazione per i diritti umani ha lanciato un appello rivolto al direttore delle carceri israeliane, chiedendo che Issawi riceva cure mediche appropriate o che sia immediatamente rilasciato affinché possa ricevere i trattamenti medici urgenti e necessari di cui ha bisogno. Israele: tutti i segreti del “Prigioniero X” di Elisabetta Rosaspina Corriere della Sera, 18 febbraio 2013 Viaggi in Iran, un visto per l’Italia. Rivelazioni sullo 007 israeliano morto impiccato in carcere. Tutto pareva essere filato liscio. Il caso 8493 si era chiuso senza mai essere stato ufficialmente aperto. Archiviato dopo un anno e mezzo di discretissima inchiesta giudiziaria, con un verdetto di suicidio. Né il primo né l’ultimo in un carcere, tanto più di massima sicurezza, tanto più dopo dieci mesi di completo isolamento del detenuto defunto. Per insindacabili “ragioni di Stato”, i cittadini israeliani non avrebbero dovuto sapere niente di più sulla “maschera di ferro”, quel prigioniero senza nome, senza volto e senza storia morto impiccato il 15 dicembre del 2010, nella cella di 16 metri quadri costruita 15 anni prima apposta per il più famoso ergastolano del paese: Yigal Amir, l’assassino dell’allora primo ministro Yitzhak Rabin. Quella cella, nell’unità numero 15 del carcere di Ayalon, pochi chilometri a sud est di Tel Aviv, era stata ereditata dal “prigioniero X”, sottoposto a videosorveglianza permanente, senza che nemmeno gli agenti di custodia conoscessero il suo nome. Ma una settimana fa, le avvisaglie di un improvvido scoop hanno spinto le autorità a convocare i vertici dei principali mezzi di informazione israeliana, direttori ed editori, per esortarli a ignorare, nell’interesse della sicurezza nazionale, alcune informazioni imbarazzanti per una certa agenzia governativa. Mossa inutile e controproducente: il giorno stesso, tre deputati dell’opposizione hanno chiesto conto al ministro della Giustizia Yaakov Neeman di un reportage trasmesso poche ore prima dalla tivù di Sydney, Abc, su “un cittadino australiano, che era sotto custodia israeliana, e si sarebbe ucciso in prigione”. Quelle notizie erano il frutto di dieci mesi di indagini parallele del reporter Trevor Bormann: a essersi impiccato nella cella di isolamento totale di Ayalon era un agente del Mossad. Australiano di nascita e cresciuto in una famiglia ebrea ardentemente sionista. Si chiamava Ben Zygier, come sta inciso ora sulla lapide nera del cimitero ebraico di Melbourne, la città in cui era nato il 9 dicembre del 1976 e che aveva lasciato, neanche ventenne, per vivere in Israele la sua prima esperienza in un kibbutz in Galilea. Aveva fatto “aliyah”, il ritorno alla terra promessa, ma non soltanto per servire la sua nuova patria nell’uniforme dell’esercito. Il mistero di Ben Zygier ha più risvolti dei passaporti (australiani) che gli sono stati intestati sotto altri nomi: Ben Alon, Ben Allen, Benjamin Burrows, permettendogli di viaggiare indisturbato, dal 2000 al 2010, soprattutto in nazioni ostili a Israele, come il Libano, l’Iran, la Siria. Ma forse anche in Paesi amici, come l’Italia, se è vero che aveva chiesto un visto di lavoro al consolato italiano di Melbourne. Sul suo impiego, in una società di copertura, con sede in Europa, per la vendita di componenti elettronici, aveva investigato nel 2009 un altro giornalista australiano a Gerusalemme, Jason Katsoukis, sempre respinto da “Mister X” quando lo cercò per chiarimenti. Forse a quel punto l’agente trasformista era già “bruciato”. Forse aveva già parlato troppo, forse era sotto scacco dei servizi australiani, insospettiti dalla clonazione di documenti. Di fatto il 24 febbraio 2010 l’intelligence australiana riceve comunicazione dell’arresto di Ben Zygier, ma la notizia non viene trasmessa al ministero degli Esteri di Melbourne e tantomeno i motivi della sua cattura. “Accuse gravi”, ammette uno dei suoi avvocati, Avigdor Feldman, che lo incontrò 24 ore prima del suicidio per valutare un patteggiamento con i giudici. Ma “il prigioniero X” voleva un processo. Pretesa insensata, per un fantasma. Sud Africa: in carcere senza gambe, l’inferno di Pistorius Corriere della Sera, 18 febbraio 2013 Nella maggioranza degli istituti l’uso delle protesi è proibito: “Potrebbero essere usate come arma”. Le protesi come simbolo di lotta, di rinascita, di successo. Le protesi come simbolo di riscatto. Senza le sue gambe in carbonio, vitali dopo l’amputazione resasi necessaria a causa di una grave malattia quando ancora era piccolissimo, forse Oscar Pistorius non avrebbe mai fatto parlare di sé. Non avrebbe avuto lussi ed eccessi ma nemmeno il buio di un tunnel che non pare avere una fine. La forza di volontà, la costanza, la rabbia forse - per una condizione sfavorevole - hanno fatto volare un altro un ragazzo che molti avevano preso come esempio. Le rudezze di un carattere che solo in questi giorni si è scoperto essere combattivo nel bene come nel male, duro nel bene come nel male, sanguigno nel bene come nel male, lo hanno riportato sulla terra. Anzi, ancora più in basso. Già perché ora, a meno di ribaltoni incredibili - e imprevisti - l’atleta che fu dovrà passare molti anni della propria vita dietro le sbarre. E lì, beffa tra le beffe, sarà forse costretto a espiare la propria colpa senza le “ali” che gli hanno permesso di diventare un simbolo mondiale. In molti Paesi del mondo le protesi non possono infatti essere utilizzate nelle carceri. “Potrebbero essere usate come arma”, recitano i regolamenti. Poi è vero, ne siamo convinti, che per Pistorius sarà fatta un’eccezione: la sua condizione non gli permetterebbe infatti una detenzione dignitosa. Per conservare la propria mobilità, l’atleta sudafricano sarà tuttavia costretto a scontare la propria condanna in una cella singola. Solo in questo caso - così è nelle carceri di stampo anglosassone - le protesi (e non quelle in carbonio) potranno essere consentite. Da oggetti da beatificare, trampolini verso una vita più che normale, Pistorius potrebbe quindi trovarsi a breve a maledire le sue gambe di scorta: è forse a causa di esse, che lo hanno spinto tanto in alto, dove l’aria è fresca e rarefatta, che il suo tonfo è stato tanto rumoroso e doloroso. Russia: un difensore d’ufficio per rappresentare Magnitski, imputato morto in carcere Ansa, 18 febbraio 2013 Un avvocato d’ufficio per rappresentare un morto: cade nel grottesco il processo postumo a Serghiei Magnitksi, il legale del fondo d’investimento britannico Hermitage Capital deceduto in carcere nel 2009 in circostanze sospette, dopo aver denunciato una truffa da 230 milioni di dollari da parte di funzionari pubblici ed essere stato arrestato per frode fiscale. Oggi la corte moscovita di Tverskoi, dopo il rifiuto della madre di Magnitski di nominare un avvocato di fiducia, ha deciso di procedere nominando un legale d’ufficio per l’imputato scomparso. Idem per il co - imputato William Browder, direttore dello stesso fondo e processato in contumacia. Il processo è stato quindi aggiornato al 4 marzo dopo che i nuovi difensori hanno chiesto del tempo per studiare gli atti. La madre di Magnitski aveva chiesto all’associazione degli avvocati di boicottare qualsiasi richiesta da parte della corte in questo processo che ritiene “illegittimo, diffamante e politicamente motivato”.