Giustizia: psichiatri all’attacco, proroga per chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari di Manuela Perrone Il Sole 24 Ore, 16 febbraio 2013 I riflettori sono puntati sul 26 febbraio, data della prossima riunione del tavolo tecnico sugli ospedali psichiatrici giudiziari. È in quella sede che dovrebbe essere decisa la proroga dell’esistenza in vita dei sei Opg, la cui chiusura è fissata al 31 marzo dalla legge 9/2012. Il tempo non è sufficiente: nonostante una lettera di sollecito inviata a fine gennaio dal ministro Paola Severino ai presidenti delle Regioni, la tabella di marcia non è stata rispettata. Lo hanno ricordato oggi a Roma anche gli psichiatri della Sip: “Nessuna Regione, alla data del 1° aprile 2013, avrà pronte le strutture sanitarie che nelle intenzioni della legge 9/2012 devono ospitare gli autori di reato malati di mente al posto degli attuali sei ospedali psichiatrici giudiziari. Serve una proroga”. Non solo per avere il tempo di approntare le strutture, usufruendo delle risorse appena ripartite, ma anche per potenziare adeguatamente l’assistenza psichiatrica nelle carceri e sul territorio. Il monito del ministero della Giustizia. L’allarme degli psichiatri, sostenuto da un’indagine condotta nelle sezioni regionali della Società, arriva dopo due sollecitazioni del ministero della Giustizia alle Regioni. L’ultima, il 28 gennaio, è arrivata con una lettera firmata dal ministro Paola Severino e indirizzata a ciascun governatore. “Desidero sottoporre alla Sua attenzione - si legge - la delicata situazione delle persone ospitate presso gli Opg, che - a partire dal prossimo 1° aprile - dovranno trovare ricovero in strutture sanitarie regionali”. E ancora: “Voglia valutare l’opportunità di assumere ogni iniziativa utile affinché la Regione che presiede si adoperi per poter accogliere e prestare le cure necessarie ai cittadini della Regione oggi ospitati presso gli ospedali psichiatrici Giudiziari”. Pochi giorni prima, il 10 gennaio, da Largo Arenula era partita un’altra lettera: come siamo in grado di documentare, il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Tamburino e il direttore della Direzione generale detenuti e trattamento, Calogero Piscitello, avevano scritto alla segreteria della Conferenza Stato - Regioni e al ministero della Salute per chiarire che “l’avvio presso le strutture residenziali sanitarie riguarda tutti quei soggetti che in virtù di un provvedimento emesso dalle autorità giudiziarie competenti siano destinatari di una misura di sicurezza detentiva, compresi quindi anche i soggetti in misura di sicurezza provvisoria”. I funzionari del ministero della Giustizia precisano che in carico al dicastero e dunque “in apposite sezioni” presso le carceri rimarranno soltanto “i soggetti che rivestono lo stato giuridico di detenuto in base al titolo privativo della libertà personale emesso da un’autorità giudiziaria diverso da quello della misura di sicurezza detentiva”. Di qui la pressione sulle amministrazioni locali, considerato l’approssimarsi della scadenza fissata dalla legge: “Si reputa oltremodo necessario e non più procrastinabile che le Regioni si facciano parte diligente per individuare le nuove strutture sanitarie residenziali per l’esecuzione delle misure di sicurezza”. E si chiede di sensibilizzare i presidenti delle Regioni per informare il ministero “circa lo stato di individuazione e realizzazione delle strutture”. Le scadenze mancate. Ma sarebbe ingiusto attribuire soltanto alle Regioni la responsabilità del mancato rispetto della tabella di marcia. Il decreto ministeriale sui requisiti dei centri è stato firmato soltanto a ottobre (leggi il testo pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale), con sette mesi di ritardo. Quello sul riparto dei 173,8 milioni disponibili per realizzare i nuovi centri addirittura il 7 febbraio, con l’obbligo per le amministrazioni locali di inviare i programmi di utilizzo delle risorse entro 60 giorni per l’approvazione e lo sblocco dei fondi da parte del ministero della Salute. Si andrebbe al 7 aprile soltanto per poter cominciare la realizzazione pratica delle strutture. Il destino degli internati. Il problema è di tutto rilievo. Per la Società italiana di psichiatria, sono 800 gli internati attuali dai destini incerti. Una parte, con disturbi meno gravi, potrebbe effettivamente passare in carico ai Dipartimenti di salute mentale, come prevede la legge. Ma a una condizione: che nell’anno appena trascorso la Regione di residenza abbia effettivamente lavorato al piano terapeutico personalizzato prescritto anch’esso dalla legge. Cosa che - hanno ammesso gli psichiatri - non è avvenuta dappertutto. Un caso eclatante: la Sicilia soltanto la settimana scorsa ha ratificato il passaggio della medicina penitenziaria dalla Giustizia al Ssn, deciso nel 2009. E sta lavorando in tutta fretta a trovare una sistemazione agli internati nell’Opg di Barcellona Pozza di Gotto (Messina), chiuso dopo i rilievi della commissione d’inchiesta del Senato. Proprio durante una visita a Barcellona, il 19 gennaio scorso, il ministro della Giustizia aveva affermato che “le Regioni devono accelerare le procedure affinché queste persone vengano trasferite in strutture in cui siano prima curate e poi custodite”. Più grave ancora l’incognita che riguarda sia quel numero di internati (non più del 10% del totale) giudicati non dimissibili sia i nuovi destinatari di misura di sicurezza. Che fine faranno? “Potrebbero andare nelle carceri”, hanno ipotizzato gli psichiatri, sottolineando che i Dsm non possono assolutamente farsi carico di persone che necessitano di un’adeguata custodia e vigilanza. Ma la lettera del capo del Dap sembra escludere anche questa possibilità. Psichiatri in trincea. “La verità è che la legge e lo sviluppo di questo piano - ha spiegato il presidente della Sip, Claudio Mencacci che dirige anche il Dipartimento di Neuroscienze dell’azienda ospedaliera Fatebenefratelli di Milano - sono stati portati avanti senza sentire ragioni. Questo non è accettabile, così come non è accettabile che agli psichiatri venga richiesta una funzione di vigilanza e custodia di questi malati. Noi siamo medici, non ci compete altro che non sia la cura. Non ci stiamo”. “Non possiamo permetterci di dimettere in modo selvaggio”, ha precisato Emilio Sacchetti, prossimo presidente Sip e ordinario di psichiatria a Brescia. “Altrimenti al primo che reitera il reato che succede? Annulliamo tutto? Serve una rete che sostenga il passaggio. Non si può immaginare che i Dsm, da soli, possano farcela”. Massimo Di Giannantonio, docente a Chieti, ha rincarato la dose: “Siamo davanti a un’aggressione drammatica alla nostra capacità di erogare prestazioni a livello minimale. Al tempo stesso ci vengono chieste prestazioni di altissimo livello specialistico senza risorse. Pretendiamo che la politica agisca”. Anche perché le situazioni degli internati e dei detenuti in generale sono delicatissime. “Occorre una formazione ad hoc”, ha detto Enrico Zanalda, direttore del Dipartimento di salute mentale di Rivoli (Asl Torino 3). “E bisogna potenziare gli organici, perché nelle condizioni in cui siamo rischiamo di non riuscire ad assistere adeguatamente nemmeno i cittadini liberi”. La delusione di Ignazio Marino. Al momento, la strada della proroga prende sempre più corpo. È deluso Ignazio Marino, presidente della commissione d’inchiesta del Senato sul Ssn e grande fautore della legge, che parla di “ritardo vergognoso e disarmante”. “Già da molti mesi - dice Marino - la commissione d’inchiesta ha formulato una proposta per l’attuazione della riforma sugli Opg. Il 15 ottobre 2012 mi sono recato dal presidente del Consiglio Mario Monti per esprimere grande preoccupazione e suggerire al Governo una soluzione: si nomini una figura che abbia pieni poteri per applicare la legge votata dal Parlamento e che possa gestire il percorso di chiusura e le risorse economiche messe a disposizione. Ci è stato detto che non era possibile, ma questa rimane la nostra proposta anche per il prossimo Governo”. Anche Marino richiama le Regioni a “un impegno vero” per consentire “ai folli autori di reato privati della libertà di poter avere accesso alle cure di cui hanno diritto e al rispetto della loro dignità umana”. “StopOpg” all’attacco. Il Comitato che si batte per la chiusura degli Opg ha convocato una riunione straordinaria il 5 marzo. “È evidente - dice Stefano Cecconi della Cgil - che si rischia di giocare oggi a un pericoloso “scaricabarile” tra Governo e Regioni”. Che rinnova il rammarico perché “tutta l’attenzione è rivolta alle nuove strutture speciali (i mini Opg regionali destinati a sostituire gli attuali Opg), anziché alle persone e ai percorsi di dimissione”. Secondo StopOPG diverse Regioni hanno presentato (o stanno presentando) programmi per strutture pluri - modulari (es. accorpando due o tre moduli da 20 posti letto: 40/60 posti letto), una soluzione che permetterebbe anche di “salvare” l’Opg di Castiglione delle Stiviere, l’unico già interamente gestito da un’azienda ospedaliera senza agenti di custodia: “Altro che piccole strutture di transito verso le dimissioni. Così riaprono i manicomi! Mentre non sono avvenute le dimissioni “senza indugio” delle persone per le quali è cessata la pericolosità sociale, che erano previste solennemente dalla legge 9”. Giustizia: Comitato Stop Opg; in Abruzzo la prima mini-struttura per detenuti psichiatrici Vita, 16 febbraio 2013 Convocazione straordinaria del Comitato Stop Opg sulla confusione e l’improvvisazione che caratterizza la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari. La Regione Abruzzo è la prima a destinare le risorse per il superamento degli Opg, ripartite solo lo scorso 7 febbraio, in grave ritardo sulla tempistica prevista dalla legge, secondo cui i sei Opg d’Italia dovevano chiudere entro il 1 febbraio 2013 che dal 1 aprile 2013 le misure di sicurezza non si eseguiranno più dentro gli Opg. Già l’11 febbraio la giunta Chiodi ha deliberato per utilizzare i 3,6 milioni di euro dell’Abruzzo per costruire una nuova struttura da 20 posti letto a Lanciano, che ospiterà i 18 attuali internati dell’Abruzzo. Per il Comitato Stop Opg regionale di tratta di “un internato” e del “primo manicomio che riapre”: nessuna attenzione da parte della Giunta alle proposte del Comitato, che pensava a una casa, con il supporto di personale psicosociale e sanitario. Quel che è successo in Abruzzo, secondo Stop Opg è lo spettro di quel che sta per succedere in tutta Italia. “Chiudono gli Opg o riaprono i manicomi?” era lo slogan scelto e “ahi noi avevamo visto giusto”. Il rischio che vedono è una proroga di fatto degli Opg o pericolose soluzioni improvvisate, con una attenzione più alla nuove strutture che alla persone. Di fatto, per esempio, nessuna dimissione è avvenuta per le persone senza pericolosità sociale, che invece la legge imponeva “senza indugio”. Proprio ieri la Società italiana di psichiatria ha chiesto una proroga per la chiusura degli Opg (la decisione ha rappresentato una svolta epocale ma “è stata gestita come un salto nel vuoto senza paracadute - ha esordito Claudio Mencacci, presidente della Sip - Bisognava procedere con gradualità e invece non c’è stata alcuna progettualità) e lo stesso Ignazio Marino ha ribadito la richiesta al Governo di un commissario che abbia pieni poteri e gestisca l’iter di chiusura. La richiesta di Stop Opg invece è quella di organizzare tramite i Dsm “l’assistenza alternativa all’internamento, con le dimissioni e - dove servisse - in piccole strutture, non in quelle che si stanno progettando e che riproducono la logica manicomiale. Quel che sta accadendo conferma la nostra richiesta di costituire una Autorità Stato Regioni ad hoc sugli Opg, dotata di poteri sostitutivi, come accadde per chiudere i manicomi”. Per questo Stop Opg ha convocato una riunione straordinaria di Stop Opg a Roma per il 5 marzo. Giustizia: carcere Fuorni, lo Stato Italiano si auto-condanna per l’affollamento carcerario di Giuseppe Parente Rinascita, 16 febbraio 2013 Lo Stato Italiano condannato per danni esistenziali causati dall’affollamento delle carceri. Una sentenza davvero storica quella ottenuta dai legali di Massimo Fattoruso, attualmente detenuto al regime del 41 bis per associazione a delinquere di stampo camorristico e traffico di stupefacenti. È la prima volta in Italia che un giudice di pace, quello di Salerno, condanna lo Stato Italiano, attraverso il ministero dell’Interno, al pagamento di 1.000 euro ad un detenuto. La motivazione della condanna sta nel sovraffollamento del carcere di Fuorni, in quanto il tribunale ha ritenuto esistenti e fondate le pessime condizioni evidenziate del detenuto. “Si tratta di un traguardo importante dal punto di vista etico e morale per l’intera società italiana”, commentano entusiasticamente i legali del detenuto. Questa clamorosa sentenza, emessa dal giudice di pace di Salerno potrebbe aprire la strada a numerosi ricorsi che potrebbero trovare fondamento nella situazione vergognosa delle carceri italiane, schiaffi di cemento alla dignità di una persona, pur se colpevole di qualsiasi tipo di reato. La cella in cui è detenuto Massimo Fattoruso dovrebbe contenere al massimo 3 persone ed invece ve ne sono 8. Non vi è possibilità di lavarsi in maniera adeguata nel bagno, costituito da un water e da un lavandino contenuti forse in un metro quadro di cella. I detenuti nel carcere salernitano possono fare la doccia una volta a settimana e nella struttura non esistono corsi idonei che possano garantire una possibilità di reinserimento nel mondo del lavoro per i detenuti. A questo quadro della situazione, davvero drammatico, si aggiunge la considerazione che nel carcere di Fuorni, nella stessa cella, ci sono detenuti sani e detenuti affetti da patologie mediche gravi quali epatite ed Aids, che vivono insieme per oltre 20 ore al giorno. “L’idea che la restrizione della libertà personale possa comportare come conseguenza il disconoscimento delle posizioni soggettive attraverso un generalizzato assoggettamento all’organizzazione penitenziaria - è scritto nella sentenza - è estranea al vigente ordinamento costituzionale, il quale si basa sul primato della persona e dei suoi diritti”. Parole che non possiamo non condividere nel pieno del loro significato. Giustizia: lavoro ai detenuti, tornano le risorse. Severino: le imprese non si pentiranno… di Francesco Dal Mas Avvenire, 16 febbraio 2013 I primi ad applaudire sono proprio loro, i detenuti che lavorano e che non vogliono mancare all’appuntamento col ministro della Giustizia, Paola Severino. Ma un fragoroso battimani arriva anche dai cooperanti di “Alice” che nel carcere di San Vittore di Milano confezionano le toghe dei magistrati. E, insieme a loro, dai colleghi delle cooperative dei penitenziari di Rebibbia, Rimini, Torino, Massa Carrara, Milano, che riempiono di festa l’ampio salone del centro “Papa Luciani” del carcere di Padova. “È stato firmato in Consiglio dei ministri il decreto che dispone che 16 milioni di euro vengano destinati al lavoro carcerario. Mi sembra una notizia straordinaria”, aveva appena confermato il ministro Severino, raggiante di soddisfazione. Ringrazia, commosso, il presidente del Consorzio Rebus, Nicola Boscoletto, una vita dedicata all’occupazione dei detenuti. E, in particolare, alla legge Smuraglia e alle sue possibili innovazioni. “Dopo 30 anni siamo di fronte ad una svolta”, chiosa. Sì, ma quanta fatica. Lo ammette anche il ministro. “Abbiamo lottato con le unghie e con i denti per ottenere questa somma proprio perché tutti crediamo che il lavoro carcerario rappresenti una delle strade maestre per arrivare alla risocializzazione del condannato”. Risocializzazione? È vero, anzi verissimo, ammette il sindaco di Padova, Flavio Zanonato, ricordando i mugugni in città di chi faceva paragoni tra gli impoveriti dalla crisi e i fondi per l’integrazione dei detenuti. “È bastato impiegare nella pulizia dei marciapiedi 15 lavoratori del “Due Palazzi”, solitamente addetti ad attività socialmente utili, perché i nostri concittadini si ricredessero”. “I nostri studi dimostrano che la recidiva si abbatte a circa il 2% - insiste il ministro Severino - per i detenuti che lavorano e allora se vogliamo trovare un sistema di deflazione carceraria che sia definitivo, stabile e che consenta alla società di avvicinarsi al detenuto e al detenuto di avvicinarsi alla società, questo è il lavoro carcerario”. Arrivano anche gli imprenditori, al “Papa Luciani” per testimoniare che il lavoro dentro e fuori le carceri ripaga. Certo non tutti la pensano come i rappresentanti di Confindustria Padova. Ed ecco, allora, l’incoraggiamento della Severino. “Il lavoro carcerario costa quindi bisogna incoraggiare le imprese ad intraprenderlo. Noi dobbiamo affrontare questa fase di costi iniziali sapendo che poi le imprese non si pentiranno di aver fatto qualcosa che è a fin di bene ma potrà anche diventare a fine di profitto”, puntualizza la titolare della Giustizia. Che si rende perfino disponibile a considerare la prospettiva della defiscalizzazione per le imprese che assumono carcerati. Si sa, le richieste delle cooperative sono per un aumento dello sgravio Inps e del credito d’imposta. “Credo che questo sia un tesoretto da custodire con molta cura - rassicura Severino - e quindi la decisione su come e a chi distribuirlo e in che modo creare questo tipo di vantaggi, sia estremamente importante”. Sale sul palco, anche lei commossa, Giovanna di Rosa, componente del Consiglio superiore della magistratura. “Questo è un bellissimo risultato”, sottolinea. E spiega: “Noi magistrati vogliamo essere accanto ai detenuti. Ma abbiamo bisogno del lavoro perché è una risorsa indispensabile per il cambiamento della loro condizione”. Severino: imprese non si pentiranno di dare lavoro “Il lavoro carcerario costa, quindi bisogna incoraggiare le imprese ad intraprenderlo. Noi dobbiamo affrontare questa fase di costi iniziali sapendo che poi le imprese non si pentiranno di aver fatto qualcosa che è a fin di bene ma potrà anche diventare a fine di profitto”. Così, il ministro della giustizia, Paola Severino, a margine di un incontro sul tema del lavoro carcerario, a Padova. “Sulla defiscalizzazione delle imprese che assumono carcerati ci confronteremo proprio oggi perchè credo sia un tesoretto da custodire con molta cura e quindi la decisione su come e a chi distribuirlo e in che modo creare questo tipo di vantaggi sia estremamente importante”, ha aggiunto Severino. “Mi voglio confrontare con coloro che già lavorano in questo settore e che già sanno quali possono essere gli elementi di vantaggio e di svantaggio nel lavoro carcerario”, ha concluso Severino. Giustizia: Berlusconi (Pdl); le carceri fanno schifo, servono amnistia e condono tombale Agi, 16 febbraio 2013 “Le carceri fanno schifo. Sono indegne. Ecco perchè servono l’amnistia e il condono: per liberare le carceri e renderle meno disumane”. Lo ha detto Silvio Berlusconi a Palermo. Berlusconi ha poi aggiunto “I moralisti della sinistra e della domenica quando sentono parlare di amnistia e condono tombale insorgono, dicendo che si diseducano gli italiani - ha aggiunto. Ma il condono ha degli aspetti positivi perchè consente di recuperare risorse e di individuare gli evasori”. Giustizia: Gonnella (Antigone); no riorganizzazione carceri in sola ottica spending review Ansa, 16 febbraio 2013 “È pronto un provvedimento, un Dpcm, per il prossimo consiglio dei ministri, che intende riorganizzare, in pura ottica spending review, l’amministrazione penitenziaria a cinque giorni dalle elezioni”. A dichiaralo è Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone che si batte per i diritti nelle carceri, secondo cui “tutto ciò va in direzione opposta e contraria alle parole di Napolitano perchè non aiuta un progetto che punti sulla funzione rieducativa della pena e sull’ampliamento delle misure alternative. Il provvedimento del governo prevede l’accorpamento di alcuni istituti, con uno stesso direttore responsabile per più carceri - spiega Gonnella - ma anche la chiusura di alcuni uffici per l’esecuzione penale esterna e di alcuni provveditorati dell’amministrazione penitenziaria. Tutto ciò oltre al fatto che si ha notizia - aggiunge - della possibile chiusura di alcuni istituti di pena, in un momento drammatico per il sovraffollamento, e dell’ipotesi di affidare all’amministrazione penitenziaria un ruolo nella gestione delle misure alternative. In questo modo - conclude Gonnella - si predica bene e si razzola molto male”. Giustizia: Sappe; rivedere norme su espulsioni stranieri, governo e parlamento riflettano Adnkronos, 16 febbraio 2013 “Il grave episodio avvenuto a Milano ci induce a sollecitare il Governo e il Parlamento a riflettere sulla sostanziale inefficacia dei trattati bilaterali in materia di trasferimento dei detenuti stranieri nelle carceri dei Paesi di provenienza”. Lo sostiene Donato Capece, segretario generale del sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe), commentando quanto avvenuto a Milano: un ex detenuto tunisino avrebbe molestato un’assistente sociale e picchiato un agente di polizia penitenziaria. Secondo il sindacato, “si dovrebbero rivedere certe norme eccessivamente garantiste, che alla fine non consentono di risolvere criticità importanti, come quella legata alla eccessiva presenza di stranieri nelle carceri italiane”. Per Capece, “non è possibile che chi si è reso responsabile di reati in Italia, più o meno gravi, abbia la facoltà di decidere come e dove scontare la propria pena”. Il Sappe ricorda poi come in Italia ci siano 66mila detenuti. Di questi, ben 23.797 (il 34,5% del totale) sono stranieri. I più numerosi sono i marocchini (4.515), seguiti da rumeni (3.559), tunisini (2.970) e albanesi (2.918). “Questa tipologia di detenuti - sostiene - determina un’accentuazione delle criticità con cui devono confrontarsi gli agenti. Situazioni di disagio - aggiunge - accentuate per gli immigrati, che per diversi problemi legati alla lingua e all’adattamento possono sfociare in gesti dimostrativi”. Giustizia: Cassazione; “chiudere un occhio” in cambio di tangenti non è più concussione di Dario Ferrara Italia Oggi, 16 febbraio 2013 Scatta solo l’induzione e non la concussione per il pubblico ufficiale che chiude un occhio in cambio della tangente. È quanto emerge dalla sentenza 7495/13, pubblicata dalla sesta sezione penale della Cassazione, una delle prime dopo la cosiddetta “riforma Severino”. Arrivano nuove certezze sul restyling del reato di concussione introdotto dalla legge 190/12. La fattispecie di cui all’art. 319 quater Cp, vale a dire l’induzione a dare o promettere utilità, deve ritenersi configurabile quando le conseguenze sfavorevoli che il pubblico ufficiale minaccia, se non otterrà il pagamento della mazzetta, non possono essere considerate un male ingiusto perché scaturiscono direttamente dalla legge. Come ad esempio la promessa di chiudere un occhio sulla multa con l’automobilista. Nella specie, in ossequio al principio del favor rei sono annullate le pesanti condanne inflitte a due agenti della Polstrada (denunciati probabilmente da un camionista): si rende infatti necessario un nuovo esame per il principio ex art. 2 comma 4 Cp per verificare se le condotte contestate ai poliziotti rientrino nella “costrizione” o nella “induzione”, laddove nel primo caso continua a configurarsi la concussione “tradizionale” e nel secondo, invece, la più nuova e più lieve fattispecie di cui all’art. 319 quater Cp. Anche l’induzione presuppone un’intimidazione psicologica. La norma di cui all’art. 319 quater Cp ha carattere residuale: è induzione tutta quello che non è costrizione. Ne consegue che rientra nell’induzione la condotta del pubblico ufficiale che prospetta conseguenze sfavorevoli che scaturiscono dall’applicazione della legge per ricevere in cambio il pagamento o la promessa indebita di denaro o altra utilità. L’evento - conseguenza prospettato dal pubblico ufficiale è sempre un male, ma non è ingiusto perché è previsto in quanto tale dall’ordinamento. Insomma: la differenza fra la vecchia concussione e la nuova induzione non sta nell’intensità psicologica della pressione esercitata dal pubblico ufficiale, ma nella qualità del “pressing”: minaccia o meno in senso giuridico. Toscana: chiudono carceri di Empoli e Grosseto, mentre Opg Montelupo resta in funzione Il Tirreno, 16 febbraio 2013 L’Opg doveva chiudere a giorni. Era stato stabilito dal ministro il mese di marzo per chiudere quella che lo stesso presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aveva definito una vergogna. Invece è stato tutto rimandato. Ma ieri è partito un altro tentativo. Per chiudere l’Opg e cercare di risolvere altre situazioni giunte ormai al punto di emergenza. Questo nuovo tentativo si chiama patto per la riforma del sistema carcerario in Toscana e per fare fronte alle vari emergenze come quella del sovraffollamento. È quanto stipulato in questi giorni dal provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria della Toscana Carmelo Cantone e dal garante dei detenuti della Toscana Alessandro Margara, insieme ai garanti di Firenze, di Livorno, Pisa, Pistoia, San Gimignano e della provincia di Massa Carrara. Il documento, si spiega, nasce da una scommessa di fondo: realizzare in Toscana un’alleanza fra tutte le parti in causa per tutelare i diritti dei detenuti, migliorare le loro condizioni di vita all’interno delle carceri e potenziare i percorsi di trattamento e reinserimento. L’obiettivo, come si spiega in un comunicato della Regione, è quello di dar vita a un’esperienza pilota a livello italiano. Tra gli impegni previsti, un monitoraggio con le Asl per rendere effettivo il passaggio della sanità penitenziaria al sistema sanitario nazionale, la promozione di percorsi di inserimento esterno. E appunto si prevede poi la chiusura effettiva dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino, la nascita di case per le semilibertà in vari comuni toscani, case per madri detenute con figli, il potenziamento dei programmi per tossicodipendenti con affidamenti terapeutici e detenzioni domiciliari in caso di pene sotto i 18 mesi, e l’incremento dell’offerta culturale, formativa, lavorativa e sportiva all’interno del carcere. “Migliorare poi le condizioni di vita all’interno degli istituti penitenziari - conclude la Regione - rappresenta una priorità assoluta. Le parti si sono infine impegnate ad ampliare le possibilità di lavoro all’interno, a migliorare le aree destinate all’incontro con i familiari, soprattutto se minori, e a incrementare le misure alternative alla detenzione”. In ogni caso, però, a Montelupo la realtà è che da dicembre è stato eseguito un altro sequestro, quello del reparto Pesa. Chiude il carcere di Empoli, ma solo dopo l’Opg di Montelupo Il carcere di Empoli chiude. E la Villa dell’Ambrogiana a Montelupo prenderà il suo posto, non appena andrà in archivio l’esperienza dell’Ospedale psichiatrico giudiziario. Il disegno è contenuto nella circolare del 29 gennaio scorso, firmata dal Capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria “a conclusione degli incontri tenuti con i provveditori in cui sono stati discussi i progetti da loro presentati per la creazione/revisione dei circuiti penitenziari regionali”. Allegato alla circolare c’è la descrizione dei circuiti con l’indicazione della destinazione di ogni istituto, dove si legge che “è prevista la soppressione del carcere di Empoli, ma solo quando sarà disponibile Montelupo Fiorentino”. Questo significa che la casa circondariale del Pozzale, che al momento ospita una ventina di detenute, chiuderà definitivamente i battenti. E la Villa montelupina ospiterà il carcere. Nessun riferimento però alla tempistica dell’operazione. L’Opg doveva chiudere entro il mese di marzo, ma proprio in questi giorni è stato sottoscritto un patto tra il provveditore regionale dell’amministrazione penitenziaria e il garante dei detenuti della Toscana Alessandro Margara che prevede anche la chiusura dell’Ospedale psichiatrico giudiziario (dove gli internati sono un centinaio), oggetto del sequestro di un reparto anche nello scorso mese di dicembre per carenze strutturali e sanitarie. Il Ministero ha sbloccato i fondi (173 milioni) affidando alle Regioni il ricollocamento dei pazienti. Ma sui tempi non c’è certezza. Il carcere di Grosseto chiuderà: al suo posto abitazioni di lusso? Il carcere di Grosseto è destinato a chiudere i battenti, al suo posto potrebbero spuntare appartamenti di pregio. È del 29 gennaio scorso la circolare del ministero di Giustizia che indica l’addio alla prigione nel capoluogo. Lì, tra le righe del documento che getta le basi di una riorganizzazione dei complessi penitenziari, la struttura di via Saffi figura, ma ancora per poco. È così che, dopo anni di chiacchiere, la “questione carcere” si avvia a conclusione nel modo più traumatico. L’addio alla casa di detenzione, ritenuta da chiunque fuori norma e inadeguata all’uso, l’avevano promesso in tanti. E in tanti - almeno sui giornali - si erano impegnati a rimettere le cose a posto. Il rischio ora è di chiudere il penitenziario senza l’alternativa di una prospettiva concreta sul territorio. C’è poi l’interrogativo sul futuro dello storico palazzo fronte mura: cosa diventerà? “Penso - dice il sindaco Bonifazi - che il palazzo possa essere valorizzato con edilizia privata di pregio. Siamo pronti a discuterne”. Lombardia: Lucia Castellano (Patto Civico Ambrosoli); situazione delle carceri disastrosa www.mi-lorenteggio.com, 16 febbraio 2013 Tra le soluzioni abolire le leggi “carcerogene” responsabili in buona parte del sovraffollamento delle prigioni, come la Bossi-Fini, la Fini-Giovanardi e la ex-Cirielli. Una misura immediata “dare aria” ai detenuti. Oggi, Lucia Castellano è capolista del Patto Civico con Ambrosoli Presidente, in vista delle prossime elezioni per la Regione Lombardia del 24 - 25 febbraio. Dimissionaria da Assessore alla Casa, Demanio e Lavori Pubblici del Comune di Milano, per 20 anni ha diretto le carceri in tutta Italia, con risultati eccellenti. Il suo ultimo giorno al carcere di Bollate salutata da Valerio Onida, costituzionalista e presidente emerito della Corte Costituzionale, Luigi Pagano, già provveditore delle carceri lombarde, attuale vicepresidente del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione Penitenziaria, Silvia Polleri, responsabile Cooperativa Abc di catering, carcere di bollate e l’attuale direttore del carcere di bollate Massimo Parisi. Marassi, Eboli, Secondigliano e tanti altri, infine Bollate, considerato un modello in Italia e in Europa. Come c’è riuscita in un Paese famoso, al contrario, per una situazione carceraria disastrosa? Le sembrerà paradossale ma ho semplicemente applicato leggi che già esistevano. Ad esempio lo Stato già stabilisce che la legge deve mantenere, migliorare e ristabilire le relazioni dei detenuti con la propria famiglia e prevede permessi premio per consentire interessi affettivi, culturali e lavorativi. È la stessa pretesa dell’Amministrazione penitenziaria a voler migliorare i rapporti sociali dei detenuti. Purtroppo questo, nella maggior parte degli istituti, non viene applicato, per paura e per arretratezza culturale. Quali sono, per Bollate, i risultati prodotti, non solo per i detenuti, ma anche per la società civile che deve accoglierli, una volta fuori dal carcere? Un solo dato aiuta a comprendere: la percentuale di recidiva, cioè la probabilità che ha un detenuto uscito dal carcere di commettere altri reati, a Bollate è del 12%, contro il 76% della media nazionale. Questo semplicemente applicando le leggi che già lo Stato italiano mette a disposizione delle case di detenzione. L’Italia è stata recentemente multata dall’Unione Europea per le condizioni di vita in carcere dei detenuti, spesso costretti a condividere celle da 3 persone in 8. Come dovrebbe porsi l’Italia per risolvere questo problema? È un problema complesso, innanzitutto dovremmo abolire le leggi “carcerogene” responsabili in buona parte del sovraffollamento delle prigioni. Sto parlando della Bossi-Fini, la Fini-Giovanardi e la ex-Cirielli. Per far questo, però, occorre del tempo, una volontà e un’attenzione politica ben precisa. Una misura immediata invece, per “dare aria” ai detenuti in situazioni di grave affollamento sarebbe aprire le celle, permettere alle persone che abitano il carcere di passare meno tempo possibile in cella, questo è nei pieni poteri di qualsiasi Direttore. Cosa pensa della recente visita del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al Carcere di San Vittore? La visita del Presidente Napolitano è stata l’unico segno tangibile di vicinanza dello Stato alla situazione delle carceri. In un periodo in cui la politica e l’attenzione mediatica si mobilitano sul tema del carcere soltanto per parlare di “detenuti vip”, vedi il caso Corona. Spero che l’esempio di Giorgio Napolitano dia coraggio ad amministratori e legislatori, per dare forza alle pene alternative al carcere ed eliminino inutili sofferenze per i detenuti. Insomma, che facciano diventare il muro di cinta l’ultima delle risposte punitive possibili. Bologna: la Garante Laganà; l’Ue impone modifiche… e alla Dozza ne servono tantissime Dire, 16 febbraio 2013 “È indispensabile aumentare il numero degli psicologi al carcere della Dozza”, considerando che “un detenuto ha a disposizione una media di 12 minuti di assistenza psicologica al mese, per cui o uno partecipa a un gruppo d’aiuto o niente”. A sollevare il problema è Elisabetta Laganà, garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna, l’altro ieri ospite di una commissione a Palazzo d’Accursio sul tema del carcere. “È necessario mettere in atto tutto ciò che si può per migliorare la salute psichica dei detenuti, anche alla luce dei protocollo dell’Organizzazione mondiale della sanità”, incalza Laganà. Il problema di un numero adeguato di psicologi è stato sollevato anche dal consigliere Francesco Errani (Pd), che aveva chiesto l’udienza conoscitiva. “Ogni psicologo segue 120 detenuti e, in base ai fondi passati dal ministero della giustizia, può svolgere solo 100 ore al mese. È troppo poco”. Nelle lamentele della Garante, poi, trova posto anche altro. “La Ue ci ha condannato e noi abbiamo un anno di tempo per adeguare le nostre carceri e creare condizioni umane e vivibili per i detenuti”, premette Laganà. E la Dozza di cose da sistemare ne ha tante, come dimostrano le “tante segnalazioni che ci arrivano dai detenuti”. Il 29 agosto, ad esempio, dai detenuti è arrivata una lettera in cui segnalavano “condizioni disumane, servizi sanitari carenti, scarafaggi, topi, materassi non cambiati”, spiega Laganà. “Noi abbiamo subito scritto al dipartimento di Sanità pubblica dell’Ausl, trasmettendo la lettera e chiedendo di verificare e farsi carico della situazione, ma non abbiamo avuto risposta. Il 22 novembre abbiamo mandato un sollecito. Non abbiamo mai avuto risposta”, dice con rammarico la Garante. Altri problemi si sono poi registrati alla Dozza, in dicembre, per via dei malfunzionamenti del riscaldamento. “Ci sono andata il 9 dicembre e si moriva di freddo, era un gelo allucinante, in particolare nella sezione femminile dove c’era anche un bambino di tre mesi. Le donne erano costrette a dormire col piumino”, racconta Laganà. “Lo abbiamo fatto presente alla direzione e alla magistratura di sorveglianza e la Dozza ha disposto la sostituzione della caldaia”. Disagi e disservizi, poi, riguardano anche la sanità in carcere. “Ci sono problemi per chi ha patologie deambulatorie, per chi è in carrozzella. Ci sono difficoltà per chi è in lista d’attesa, non si riesce ad accompagnarli alla fisioterapia e le terapie dentro il carcere non si possono fare. Conclusione: i detenuti restano senza terapie”, denuncia Laganà, che racconta anche il caso di un detenuto che “ha un’infezione a un occhio e che aspetta di essere visitato dal luglio del 2010”. Stefano Pazzaglia, direttore Cure primarie dell’Ausl (che supervisiona la sanità in carcere dopo il passaggio della Dozza sotto la competenza della sanità territoriale), invitato anche lui in Comune, spiega che ai detenuti si “cerca di fornire la stessa assistenza che si fornisce ai cittadini comuni” e che “se per i malati acuti le liste d’attesa garantiscono al massimo un mese di attesa, per i malati cronici i tempi da aspettare vanno da sei mesi a un anno, per i cittadini fuori come per chi è in carcere. Non ci sono corsie preferenziali”, dice Pazzaglia, spiegando che “si sta cercando di fare tutto il possibile, aumentando la presenza del personale medico e l’attività specialistica”. Laganà replica: “Però chi sta fuori può andare al Cup a riprenotare o scegliere di pagarsela, la visita”. Bologna: il direttore; l’Ipm del Pratello sta cambiando, la situazione è molto migliorata Dire, 16 febbraio 2013 “Purtroppo la struttura esterna rimane deficitaria e la situazione è incresciosa, ma se guardiamo alla struttura interna noi la stiamo migliorando tantissimo: il Pratello è cambiato, il carcere rimane residuale per i ragazzi”. Sono parole ottimiste quelle che arrivano da Alfonso Paggiarino, direttore del carcere minorile del Pratello dalla scorsa estate. I ragazzi reclusi al momento “sono 21 e tre di loro lavorano all’esterno”, spiega Paggiarino che l’altro ieri ne ha parlato a Palazzo d’Accursio durante una commissione sul tema carcere. Numeri “bassissimi”, rispetto a quelli delle case circondariali, dice Paggiarino, che racconta così il cambiamento: “La situazione è stata migliorata tantissimo dal punto di vista strutturale, qualitativo e sanitario”. In attesa che arrivi la firma del protocollo sull’assistenza sanitaria per la giustizia minorile, al Pratello sono stati messi in atto “modelli operativi” sia sul fronte sanitario che su quello psicologico. “Ci sono attività molteplici e anche il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ci è vicino e ha cominciato a darci molti contributi. È arrivato anche quello per i mediatori, fino ad oggi sostenuti solo con i fondi che ci dava il Comune, e ha finanziato un educatore a 36 ore settimanali per tutto l’anno”, dice soddisfatto Paggiarino, che annuncia anche un’altra buona notizia: “Il ministero ha finanziato anche il teatro del Pratello, che dunque ci sarà anche quest’anno”, dice Paggiarino. Insomma, se “è vero che c’è ancora tanto, tantissimo, da fare, a partire dal campetto per giocare a calcio, o dall’assistenza sanitaria che andrebbe incrementata in orario serale”, spiega Paggiarino, per il direttore del Pratello al carcere minorile si respira un’altra aria. La situazione “è molto migliorata, il Pratello sta cambiando e diciamo che siamo già al 50 - 60% di questo processo di cambiamento rispetto a prima. I ragazzi stanno bene e gli insegnanti sono molto contenti, li ho incontrati oggi. Anche la magistratura minorile - prosegue Paggiarino - ci è più vicina, siamo in contatto continuo, i ragazzi vanno in permesso regolarmente e l’altro giorno siamo riusciti a risolvere in fretta il problema di un ragazzo con una patologia di diabete, spostandolo subito ai domiciliari”. Il direttore del Pratello ha solo un rammarico: le polemiche che si sono sollevate nelle scorse settimane per la notizia di un tentativo di suicidio sventato un paio di settimane fa all’interno della struttura minorile. Gli agenti, stando a quanto riferito dalla Cgil, sono arrivati nella cella mentre il ragazzo stava preparando un cappio con le lenzuola. Per Paggiarino, però, si è trattato di “un atto dimostrativo, che là rimane. Non è possibile essere attaccati da tutti, il giorno dopo, sui giornali. È una via crucis sotto questo aspetto. Capisco che fa più notizia una cosa del genere che le cose positive che stiamo facendo al Pratello”. Zampa (Pd): ripristinata serenità al Pratello Anche la deputata Pd Sandra Zampa ha notato dei miglioramenti all’interno del carcere minorile del Pratello, che ha visitato ieri insieme alla Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna, Elisabetta Laganà. È un clima di “ripristinata serenità” quello che si respira al Pratello, scrive in una nota Zampa, raccontando di aver trovato “diverse novità piccole e grandi” nella struttura dove al momento si trovano 23 minori (due quelli italiani). Tra le novità ci sono “l’apertura di una piccola chiesa interna” e “la fornitura di nuovi attrezzi per la palestra”, dice Zampa, che guarda positivamente anche alla figura del nuovo comandante, Antonello Ferrara (“grande mi è sembrato il suo impegno, anche se non è ancora entrato a far parte definitivamente dell’organico del personale”), così come alla “dedizione” dell’educatrice Frate. Quello che in tutto questo non va, spiega Zampa, e che “è ancora più triste”, è l’assenza del ministero. All’impegno del personale, infatti, non corrispondono “le risposte necessarie presso il Dipartimento della giustizia minorile”, attacca la deputata democratica. I problemi ‘strutturalì del Pratello, infatti, “restano sempre gli stessi” e sono “dipendenti in grande parte dal ministero della giustizia”, osserva Zampa. Ovvero: “I lavori di ristrutturazione sono bloccati e l’abbandono di attrezzi e materiale nell’area all’aperto che circonda il carcere impediscono di farne un giardino e di poterlo mettere a disposizione dei ragazzi”. Il cibo, poi, “continua ad essere fornito dall’esterno ed è impossibile mettere in funzione la cucina interna, anche qui per problemi strutturali”, e “l’organico è sottodimensionato, visto che mancano almeno otto operatori tra agenti e sottufficiali”, scrive Zampa. C’è ancora tanto da fare, però, osserva la candidata alla Camera, a partire dalla scarsa relazione tra ‘dentrò e ‘fuorì. “Con poco - osserva Zampa - si potrebbe dare molto di più a questi giovani. Maggiori opportunità di formazione e lavoro, più possibilità di scoprire che non è impossibile inserirsi nella società”. L’appello va alle istituzioni locali e regionale, che “dovrebbero cercare sinergie con il mondo economico e produttivo bolognese”. È dalla società civile insomma, che secondo Zampa dovrebbe arrivare più attenzione “ad una realtà particolarmente difficile che riguarda i giovani”. È tempo, conclude Zampa, “che il Pratello torni nel cuore e nella mente dei bolognesi. Anche da lì si giudica il livello di civiltà e il senso di comunità di una città”. Dei 23 ragazzi reclusi al Pratello, tre stanno lavorando all’esterno (uno come volontario). Per tutti sono in corso attività di formazione o scolarizzazione. Teramo: Pannella (Radicali); bambino di due anni vive in una cella con la madre, sta male Il Tempo, 16 febbraio 2013 Torna nella sua città a distanza di pochi giorni, il leader radicale Marco Pannella. Un giro elettorale che ancora una volta passa attraverso la visita al carcere. Una lotta che dura da anni quella di Pannella, che punta all’amnistia, che vuole evitare il sovraffollamento, che punta a combattere situazioni sicuramente di difficile comprensione come quella che ha trovato ieri, all’interno della sezione femminile di Castrogno. Nella sua visita a Castrogno Pannella è stato accompagnato da Rita Bernardini. “Ho visto gente disperata che gridava giustizia”, ha raccontato Pannella poche ore dopo nel corso di una conferenza stampa. Il suo linguaggio rude, abituale, senza mezzi termini per definire le carceri italiane “luogo di tortura dello Stato”. E Teramo non è assolutamente fuori da questa situazione, anzi la situazione trovata rafforza quella scelta di intervenire, senza lasciare tregua, sul tema del sovraffollamento. In particolare, uscendo dalla sezione femminile, ha raccontato un caso doloroso. Di “malagiustizia”. La storia è quella di una giovane madre detenuta, “che anziché beneficiare dei domiciliari racconta all’uscita del carcere Marco Pannella - vive in cella con un bimbo di due anni nato con una grave malformazione - ha un rene solo - un bimbo che da dieci mesi non riceve la visita di un pediatra”. Situazione inumana soprattutto per il piccolo. Non è solo un problema di legge, ma anche di coscienza sociale, di necessità di difendere i più deboli, chi è troppo piccolo per avere voce. “I provvedimenti sfolla carceri - ha aggiunto Pannella - non hanno risolto il problema, il provvedimento di depenalizzazione deve marciare insieme con l’amnistia”. Serve dunque una soluzione strutturale, ma anche un provvedimento che attenui la grande situazione di emergenza. I pannelliani hanno detto che in Italia il carcere uccide e non rieduca “perché esiste la morte per pena e non la pena di morte”. Pannella era stato l’ultima volta nel carcere di Teramo solo la scorsa estate. Da allora la situazione, secondo quello che ha potuto constatare, non è assolutamente migliorata. Gli duole il fatto che “si registrano troppi suicidi e tentati omicidi, e non soltanto a Teramo”. Passando dalle questioni locali a quelle nazionali Marco Pannella è arrivato anche ad attaccare il Presidente della Repubblica. “Napolitano - ha sostenuto - non ha mai esercitato l’obbligo di inviare i messaggi alle Camere”. “Il presidente della Repubblica - secondo il leader del Movimento Giustizia e Libertà - per questo motivo, può essere incriminato per attentato alla Costituzione. Per trent’anni, nelle sue varie posizioni, ha taciuto quando invece avrebbe dovuto parlare”. “Siamo uno Stato - ha aggiunto Pannella - denunciato in flagranza criminale per i diritti umani e per lo stato di diritto violato”. Il riferimento è alla condanna della Corte Europea al sistema detentivo italiano e per questo motivo Pannella ha ribadito la necessità dell’amnistia. Intanto resta da risolvere il caso del bambino teramano. Un caso questo sì, che meriterebbe più umanità e giustizia. Avelino: Uil-Pa; la direttrice del carcere di Bellizzi Irpino trasferita a Lauro Il Mattino, 16 febbraio 2013 A dicembre evasero quattro detenuti. Cristina Mallardo destinata all'istituto di custodia per tossicodipendenti di Lauro. La direttrice del carcere di Bellizzi Irpino, Cristina Mallardo, è stata trasferita presso l'istituto di custodia per tossicodipendenti di Lauro. Ne da notizia il segretario provinciale della Uil penitenziari, Eugenio Sarno. Nello scorso mese di dicembre il carcere di Avellino, diretto dalla Mallardo, fu teatro della clamorosa evasione di quattro detenuti che però furono subito catturati. “E’ con sofferta soddisfazione che prendiamo atto della decisione del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di revocare l’incarico di direttore provvisorio della casa circondariale di Avellino (durato per oltre un ventennio) all’attuale direttrice - scrive Sarno. Il provvedimento di trasferimento è dello scorso 13 febbraio, ed ho fondate ragioni per sostenere che tra le motivazioni che lo hanno generato nulla c’entrino la recente evasione di quattro detenuti e la vicenda giudiziaria che ha coinvolto la direttrice per presunte irregolarità nella definizione della graduatoria per l’assunzione di personale medico da destinare al carcere di Bellizzi. Riguardo all’evasione, sono ancora in corso i dovuti accertamenti ed è ragionevole pensare che eventuali provvedimenti non possano riguardare la sola direttrice; per quanto concerne l’inchiesta sulle graduatorie ci risulta che sia in corso una proroga delle indagini preliminari e pertanto sino alla conclusione delle stesse nulla può essere addebitato". Da tempo al carcere di Bellizzi si era innescata una forte polemica tra la direzione e alcuni sindacati della polizia penitenziaria sulla gestione del personale e sull’organizzazione del lavoro. Alessandria: detenuti al lavoro per liberare la “Cittadella” storica dalle piante infestanti La Stampa, 16 febbraio 2013 È una pianta importata dalla Cina perché diventasse cibo per bachi da seta l’avversario con il quale dovranno combattere i detenuti delle prigioni alessandrine: un arbusto con radici capaci di raggiungere una profondità di 30 metri e di stritolare muri e fondamenta della Cittadella. Elena Lombardi Vallauri, direttrice del carcere di Alessandria: com’è nata l’idea di coinvolgere i reclusi nel recupero del bene architettonico? “Tutto è partito da una proposta della capodelegazione del Fai di Alessandria, Ileana Gatti Spriano, che ha sottoposto all’ufficio del giudice di sorveglianza e al Comune, proprietario dell’immobile, la proposta di dare a chi sconta una pena la possibilità di contribuire volontariamente. Le due carceri della città ospitano complessivamente 800 persone”. L’iniziativa “Cittadella senza sbarre” è già partita? “Sì, senza annunci ufficiali. Ai detenuti ne ho parlato lo scorso autunno e, a dicembre, cinque erano già all’opera in collaborazione con alcuni esperti del Fai”. Quanto durerà l’impegno? “Almeno un anno e prevedere anche altri interventi connessi alla manutenzione dell’edificio”. Saranno impiegati anche altri reclusi? “Non so ancora rispondere, anche perché è la prima volta che i detenuti sono chiamati a lavorare su un bene storico”. Cagliari: il Cappellano di Buoncammino; la Chiesa tra i detenuti per ascoltare e sostenere La Nuova Sardegna, 16 febbraio 2013 Dalla trincea di Buocammino il mondo si vede con occhi diversi. Almeno sei ore trascorse quotidianamente dentro i problemi di ogni detenuto per poi tuffarsi nella gestione del centro di accoglienza che l’anno scorso, in viale fra Ignazio, ha accolto per uno o più giorni carcerati in permesso premio, di necessità e in licenza, anticamere della speranza per far pregustare ogni momento il dolce sapore della libertà. Padre Massimiliano Sira, cappuccino, da sei anni risale quotidianamente il colle di Buoncammino. “Se i più poveri del popolo dei reclusi” - dice il frate - hanno anche bisogno di prodotti di prima necessità per l’igiene personale, distribuiti da un magazzino supplementare Caritas - tutti gli oltre 500 ospiti del carcere sentono l’esigenza di parlare, di confrontarsi sulle loro crisi esistenziali. A volte per chiedere a un frate di tenere aperti i contatti con la famiglia, di risolvere problemi contingenti, di non chiudere mai il pronto soccorso della solidarietà individuale”. Non solo messe, canti liturgici, catechesi, ma soprattutto ascolto e condivisione. “Siamo stati inviati dalla Chiesa - dice padre Massimiliano - come segni di speranza, annunciatori della liberante parola di Dio. Ben presto diventiamo amici, confidenti, servi della misericordia. Se un detenuto ha bisogno di sigarette e non ha i soldi per acquistarle intervengo io, se viene rilasciato e non dispone del biglietto aereo tocca al cappellano attivarsi”. Con quali risorse? “La Curia dall’otto per mille mi ha concesso l’anno scorso un contributo di 15 mila euro”. Quando il fondo diocesano si estingue, padre Massimiliano attinge dal “ricco” stipendio ministeriale, 500 euro mensili circa. “Il cappellano aggiunge il suo lavoro all’opera encomiabile di 4 educatori professionisti che nel carcere non possono accudire a tutti gli oltre 500 detenuti - il sovrannumero si fa sentire - che hanno singolarmente bisogno di un sostegno psicologico quotidiano”. “Di certo - aggiunge il frate - l’aiuto non arriva dall’esterno. Le comunità di recupero dei carcerati sono inesistenti. Il mondo del lavoro è diffidente. Confidiamo molto nell’opera dei 28 gruppi di volontariato che a turno lavorano dentro il carcere, possibilmente con maggiore sinergia”. Della squadra direttamente gestita da padre Massimiliano fanno parte, oltre il diacono Mario Marini da 15 anni animatore carcerario, alcune suore mercedarie che supportano il lavoro di suor Angela Nicoli, “angelo custode” di qualche generazione di reclusi. Da 8 mesi 24 giovani del movimento focolarino collaborano col cappellano alla preparazione delle messe frequentate da 150 reclusi e alla catechesi partecipata da 110 detenuti. Speranze puntate sul mega carcere di Uta. “Sicuramente la sistemazione logistica sarà più a misura di uomo, ma gli ampi spazi - dice il cappellano - necessiteranno di più personale con la stessa generosità encomiabile che contraddistingue quello attualmente impegnato a Buoncammino. Sale multifunzionali, teatro, palestre, campo sportivo richiederanno una più consistente opera dei volontari e sicuramente maggiori risorse. Arriveranno dal ministero? Verona: le detenute “spezzano le catene”… contro la violenza di Vittorio Zambaldo L’Arena, 16 febbraio 2013 Flash mob contro gli abusi sulle donne con MicroCosmo e “Se non ora quando?”. “Basta, ribelliamoci alla violenza degli uomini”. Liberati in cielo palloncini rossi e neri: “Così se ne vanno anche le nostre paure”. Il posto, il cortile dell’ora d’aria della sezione femminile del carcere di Montorio, è forse quanto di meno adatto si possa immaginare per una scenografia di liberazione. Eppure tra quelle mura di cemento armato, solo provvisoriamente ingentilite dai manifesti colorati dell’One billion rising, il flash mob (raduno lampo) contro la violenza sulle donne, organizzato in tutto il mondo il 14 febbraio, giorno di San Valentino, si è celebrata la liberazione più vera su corpi che hanno patito la violenza e ancora ne portano i segni. L’associazione MicroCosmo che opera da anni con i suoi volontari nel carcere veronese, entrata in contatto con il comitato “Se non ora, quando?”, ha deciso di aderire all’evento dell’azione mondiale nonviolenta proponendola alla cinquantina di detenute di Montorio. Grazie alla sensibilità del direttore dell’istituto di pena Maria Grazia Bregoli è stato possibile organizzare in pochissimo tempo tutto l’evento, coinvolgere il maestro di ballo e coreografo Alberto Munarin, istruire le donne detenute che hanno aderito tutte con entusiasmo, partecipando alle lezioni di ballo per tre pomeriggi di seguito e al lavoro di riflessione sul significato della manifestazione. “Non soffriamo solo violenza fisica ma anche psicologica, che è ancora più forte”, ha scritto una detenuta. “Voglio rompere le catene della paura e dire no alle persone che mi vogliono male”, ha aggiunto un’altra. “Ho vissuto come un oggetto: vorrei spezzare queste catene”, è stato il desiderio di una terza. E ancora: “Voglio smettere di essere sottomessa. Non voglio più essere debole, voglio riuscire a dire di no”; “Ho vissuto nel terrore. Ho vissuto negli abusi. Adesso basta!”; “Voglio spezzare il ricordo delle violenze subite da mio zio e quelle del mio ex marito”; “Voglio rompere con il mio passato e con un uomo che mi ha rovinato la vita”; “Ho patito tanta violenza, dai fratelli e ai fidanzati. Ora basta!”; “Voglio che gli uomini smettano di farmi del male e usare violenza, così anch’io cambierò. Mi voglio ribellare”. Questi pensieri usciti nel segreto delle proprie riflessioni sono esplosi nella danza liberatoria sulla musica e sulle parole di “Break the chain” (Spezza la catena) canzone di Tena Clark, diventata inno ufficiale del flash mob internazionale, e sono stati scritti su fogli legati a palloncini rossi e neri, i colori in codice della festa, rossi come l’amore e il sangue, neri come la sofferenza e la violenza, e sono volati in cielo, liberati alla fine dell’evento. “Con quel palloncino nero che usciva dalle mura del carcere si è liberata anche la mia paura di un passato che non voglio più ripetere con un uomo che mi ha rovinata”, ha confidato con gli occhi rossi una detenuta a una volontaria. La danza nei gesti di spezzare le catene e di allontanare con le braccia la violenza è stata coinvolgente anche per la polizia penitenziaria: le agenti in servizio si sono unite alle detenute ballando insieme nel cortile del carcere. Si è capito chiaramente che dietro le sbarre, il bisogno di rispetto e di dignità accomuna le donne da una parte o dall’altra dell’inferriata. “Momenti così sono occasione di riflessione per tutti”, ha commentato il direttore Maria Grazia Bregoli, “perché è vero che noi donne siamo ancora troppo discriminate, anche se fra uomo e donna non ci sono differenze, ma è solo più difficile per le donne perché abbiamo tanti doveri in più verso la famiglia, il marito e i figli: li accettiamo volentieri ma rivendichiamo anche tanti nostri diritti”, ha detto rivolta alla detenute dalle quali ha ricevuto un caloroso applauso. Comunicato della Redazione MicroCosmo Giovedì 14 febbraio la festa degli innamorati è passata in secondo piano. Le donne sono scese nelle piazze del mondo. A Verona, in piazza Bra, si sono date appuntamento e la famosa piazza dell’Arena, davanti al municipio è risuonata di musica e di gioia. Ritrovarsi, donne per le donne, non è cosa consueta. Ancor meno lo è trasformare in agora lo spazio cementato dell’ora d’aria del carcere. Così è stato che anche circa 50 donne detenute nell’istituto veronese hanno fatto vibrare la grigia pavimentazione che le ospita sotto il cielo, al ritmo della danza delle donne nel mondo. Corpi fluidi e carichi di una risvegliata energia, un recupero di libertà inaspettato, hanno disegnato nell’aria fredda di questo inverno armonie sopite. Quanta sorpresa vivere l’esperienza della collettività, superando gli individualismi che abitano anche il carcere; sentirsi un corpo insieme che si muove sui passi decisi dell’affrontare le avversità, per scoprire la risolutezza, sostenuta dalla condivisione, di non accettare più soprusi, denigrazioni, e tutte le gradazioni distruttive della prepotenza e della violenza. La conoscono purtroppo in molte, provenienti da diversi Paesi, accomunate nella condizione taciuta, sottomessa e sommessa, di prevaricazioni subite. Palloncini rossi e neri si sono levati al cielo liberati con i loro messaggi, scritti da queste donne perché qualcuno li possa leggere, perché possano credere che dentro al carcere storie di donne chiedono di essere ascoltate. “Spezzare le catene per me significa spezzare un ricordo”. “Voglio rompere la catena della paura di dire No a chi mi vuole male”. “Basta con le donne portate in Italia per la prostituzione!” - “Ho vissuto nel terrore”. “Spezzo la catena che mi riempie di sfiducia in me stessa e verso il prossimo: la Paura”. Il direttore Mariagrazia Bregoli ha appoggiato prontamente la proposta dell’Associazione MicroCosmo che ha potuto così organizzare l’evento, anche con la collaborazione del personale femminile della Polizia Penitenziaria, preparando con il coreografo Alberto Munrin le donne alla danza, approntando un collegamento Skype per rendere partecipi le detenute all’evento che in contemporanea si stava svolgendo nella piazza del centro città, ma soprattutto mettendo in circolo tra le donne riflessioni, confronto, dialogo, per favorire la consapevolezza che le storie individuali, che ognuna tiene in sé nascoste, sono le storie delle donne. Ossia la Storia vissuta sulla pelle. E così, nella città degli innamorati, le donne hanno ricordato che l’amore non arriva se non con il rispetto, con la dignità riconosciuta, con uno spazio di libertà nella relazione che possa garantire lo scambio gratuito e affettuoso della condivisione. Perché la vera libertà non è solo star fuori dal carcere, ma coltivare giorno dopo giorno l’esercizio della libertà, a partire dalle pareti famigliari. Un segno dunque anche dal carcere perché le donne che lo attraversano non smettono di essere mogli, madri, sorelle e, prima ancora, persone. Questa memorabile giornata di energia liberata e ritrovata si è conclusa con un buffet preparato dai detenuti panificatori che hanno voluto esprimere solidarietà e partecipazione. Immigrazione: Rapporto Forum Refugies; l’Italia rafforzi garanzie per richiedenti asilo Ansa, 16 febbraio 2013 L’Italia deve rafforzare le garanzie per i richiedenti asilo. È quanto rileva un rapporto pubblicato in occasione del decimo anniversario del Regolamento di Dublino, che identifica lo Stato europeo competente per la decisione su una domanda di asilo. La ricerca, condotta da Forum Refugies - Cosi, Ecre, Hungarian Helsinki Committee, Consiglio italiano per i rifugiati ed altri partner nazionali, dimostra come in Europa il “sistema Dublino continui a fallire sia nei confronti degli Stati membri che dei rifugiati”, causando famiglie separate, persone lasciate senza mezzi di sostentamento o detenute, mancato accesso alla procedure d’asilo. Nel 2011 l’Italia ha ricevuto 13.715 richieste d’asilo provenienti da altri Paesi e ne ha inviate 1.275 in altre nazioni. Di queste ultime ne sono state accettate 196, ma solo in 14 casi c’è stato il trasferimento. Il rapporto sull’Italia si conclude con una serie di raccomandazioni. Viene innanzitutto suggerito di sospendere ogni trasferimento di richiedenti asilo in Grecia, Paese che presenta un generale rischio di violazione dei diritti umani. Roma, secondo gli esperti, deve assumersi la responsabilità di esaminare le richieste d’asilo presentate nel Paese. Altro punto dolente segnalato dalla ricerca è la lunghezza delle procedure di riconoscimento: questi tempi devono essere accorciati per rispettare quanto previsto dal Regolamento di Dublino. Si dovrebbe poi garantire il diritto dei richiedenti asilo ad un’accoglienza che rispetta gli standard europei e non usare sempre sistemazioni d’emergenza. Le associazioni rilevano in proposito una cronica mancanza di spazi in Italia con un sistema d’accoglienza inadeguato e frammentato che spreca risorse e fornisce ai beneficiari inefficaci processi di integrazione. Il Rapporto, inoltre, chiede che l’Italia provveda a fornire direttamente avvocati specializzati in materia di asilo in modo che i richiedenti ottengano aiuto legale gratuito. Viene, infine, affrontato il capitoli dei minori. Si raccomanda alle autorità italiane di presumere la minore età anche quando il richiedente trasferito in Italia da un altro Stato membro ha dichiarato di essere maggiorenne prima di lasciare l’Italia. Nei casi d’età incerta, dovrebbe essere garantito il beneficio del dubbio in loro favore, come minorenni. Droghe: niente carcere preventivo per il piccolo spaccio di Alessandro Nencini (Presidente di sezione di Corte d’appello) La Repubblica, 16 febbraio 2013 Le carceri italiane stanno scoppiando. Il 40% della popolazione carceraria è costituita da reclusi in carcerazione preventiva. Il Capo dello Stato è stato chiarissimo; occorrono interventi urgenti e risolutivi. Le condizioni di degrado umano in cui vivono i reclusi ci espongono al giudizio severo della comunità internazionale ed hanno già prodotto un ultimatum della Corte di Giustizia europea: porre rimedio entro un anno o saremo sommersi dalle condanne. Dobbiamo agire, ed in fretta, e l’urgenza impone una riflessione. L’intollerabile affollamento delle carceri non è questione umanitaria o l’effetto di una patologia contingente; è un problema strutturale del sistema di repressione penale italiano e quindi può essere risolto soltanto con provvedimenti legislativi strutturali e chirurgici, che incidano direttamente sul sistema sanzionatorio. Una amnistia sarebbe un rimedio inefficace proprio perché episodico ed indiscriminato. Ai cittadini non può negarsi, peraltro, il diritto di essere tutelati anche dalla criminalità da strada, dai furti in abitazione, dagli scippi, dai borseggi, dalle aggressioni; reati tutti che colpiscono la gente comune. È vero che la stragrande maggioranza di coloro che commettono reati da strada appartengono, da sempre, alla emarginazione sociale, alle categorie più derelitte, ai meno garantiti; agli ultimi, direbbe un cattolico. Ma il problema non è a quali categorie sociali appartengono i reclusi, bensì per quali reati sono reclusi in carcerazione preventiva. Vi sono reati, fonte di allarme sociale per la collettività, che non prevedono la carcerazione prima di una sentenza definitiva, e altri che invece la prevedono, pur suscitando scarso, o nessuno, allarme sociale. Consegnare al giudice il potere di decidere caso per caso se applicare la legge per come essa è, oppure adottare decisioni di politica carceraria, è una prospettiva che perpetua la anomalia di questo Paese, comunque inefficace per la sua intrinseca episodicità. Al giudice deve potersi chiedere di applicare la legge secondo coscienza e professionalità, senza eccessi di qualunque segno. Stabilire per quali reati si possa o debba andare in carcere prima della sentenza definitiva è una decisione politica, tipica assunzione di una responsabilità che è del legislatore, che ne risponde politicamente ai cittadini tutti. Mai del giudice, il quale, perché sia realmente indipendente e terzo, deve rispondere del suo operato soltanto alla legge. In materia non possono essere ammesse scorciatoie o deleghe di responsabilità, che è tutta della politica. Il nuovo Parlamento può agire tempestivamente, modificando il sistema sanzionatorio dei reati inerenti lo spaccio degli stupefacenti e superando l’anomalia della attuale legge, con la previsione di sanzionare il piccolo spaccio (di solito posto in essere da giovanissimi tossicodipendenti che di tutto hanno bisogno fuorché del carcere) con pena detentiva analoga a quella prevista per il reato di truffa, o di insolvenza fraudolenta, o di lesioni personali; tutti reati gravi, ma che prevedono una pena che non consente la carcerazione preventiva. Escludere la carcerazione preventiva per il piccolo spaccio di stupefacenti produrrebbe la diminuzione di almeno il 30% della popolazione carceraria, senza pericolo per la collettività e senza mettere in discussione la sanzione penale. È il momento di scelte chiare e responsabili; e forse questa è l’ultima chiamata. San Marino: vista Comitato europeo prevenzione tortura e proposta riforma codice penale www.giornale.sm, 16 febbraio 2013 La novità più rilevante forse sarà stata proprio quella di riuscire finalmente a incontrare e a parlare con un detenuto, infatti nelle precedenti tre visite non era mai avvenuto e questo sarà sicuramente uno degli aspetti rilevanti che andranno a caratterizzare la relazione conclusiva del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (Cpt), facente parte del Consiglio d’Europa. Una delegazione (composta dal francese e capo missione, Xavier Ronsin, dall’italiana Andreana Esposito e dalla bulgara Nadia Polnareva) è stata in visita sul titano dallo scorso 29 gennaio al primo febbraio. Una quattro giorni in cui hanno incontrato il segretario di stato agli esteri Pasquale Valentini, il segretario di stato agli interni e Giustizia Gian Carlo Venturini, e il segretario di stato alla Sanità Francesco Mussoni e anche alcuni dirigenti dello stato e rappresentanti delle autorità giudiziarie sammarinesi ad accompagnare la delegazione del Cpt anche Julien Jauser del segretariato del Comitato europeo per la prevenzione della tortura e lo psichiatra Daniel Glezer, a capo del carcere psichiatrico di Marsiglia, in Francia. Ma soprattutto, oltre agli incontri, la delegazione ha visitato il carcere dei Cappuccini, dove finalmente sono riusciti a parlare con un detenuto (che deve scontare una pena per una condanna legata a reati di violenza), cosa che non era mai avvenuta durante le precedenti tre visite avvenute in passato, tra gli altri luoghi visitati i comandi centrali di Gendarmeria, Polizia Civile e Guardia di rocca, il servizio di salute mentale dell’ospedale di san Marino, l’appartamento terapeutico “Filo di Arianna”, la casa di riposo e il centro anziani “La Fiorina”. Gruppo di lavoro per riformare il codice penale per il reinserimento dei detenuti Verificare la fattibilità del progetto di ristrutturazione interna, ampliamento ufficio e laboratorio del carcere”, ma anche “attuare gli interventi di adeguamento e manutenzione dell’attuale struttura carceraria atti a renderla maggiormente funzionale, compatibilmente con le esistenti caratteristiche strutturali” e poi ancora “approfondire il confronto già avviato con evolute realtà limitrofe, quali la Cooperativa Giotto di Padova, individuate come esperienze avanzate e proficue nel settore del lavoro intramurario ed extra murario che già operano utilmente con programmi specifici all’interno di strutture carcerarie e che consentano di predisporre utili percorsi di riabilitazione del reo, sia esso detenuto o in regime di misura alternativa”, ma anche “istituzionalizzare e potenziare maggiormente, in termini di risorse umane e professionali, il Centro sociale per adulti in esecuzione di pena, per farlo diventare un centro strutturato e capace di fornire risposte adeguate e soddisfacenti” ed anche “avviare azioni formative nei confronti del personale militare e civile assegnato a funzioni di gestione della struttura carceraria” per terminare con “il percorso di elaborazione del nuovo Codice di Procedura Penale completando le disposizioni sul giusto processo e riformando il complesso della procedura penale con l’intento di instaurare un moderno processo di tipo pienamente accusatorio”. Sono questi i sei punti che il governo ha identificato con la delibera numero 14 del 15 gennaio scorso in cui è stato anche identificato un gruppo di lavoro per portare avanti il tutto. Una serie di iniziative quindi per venire incontro a quelle che sarebbero state sicuramente le istanze e le richieste del comitato del Consiglio d’Europa per la prevenzione della tortura e che proprio la settimana dopo l’adozione della delibera si è presentato a San Marino per la visita ispettiva. Il governo così ha dimostrato di voler adempiere a quelli che sono gli impegni a riguardo presi con le istituzioni internazionali. Per questo è stato quindi istituito il gruppo composto da Daniela Bizzocchi, Stefano Palmucci, Maria Rita Morganti e due rappresentanti, uno per la segreteria di stato per il territorio e l’altro per la segreteria di stato per la sanità che entro il 30 giugno del 2013 dovrà preparare una relazione specifica sui punti di intervento. Gran Bretagna: trovato morto in cella l’assassino di un bambino di due anni Reuters, 16 febbraio 2013 Due detenuti sono stati oggi in tribunale con l’accusa di omicidio dopo che un uomo, che ha torturato e ucciso la figlia di due anni della sua partner, è stato trovato morto nella sua cella. Subhan Anwar, 24 anni, era stato condannato ad un minimo di 23 anni nel 2009 per l’omicidio di Sanam Navsarka, è stato tenuto in ostaggio in una cella a Hmp nel Worcestershire prima di essere ucciso. La sua partner Zahbeena Navsarka, era stata riconosciuta complice dell’omicidio di sua figlia ma era stata condannata per omicidio colposo e condannata a nove anni. Durante il processo, per l’omicidio della bambina che si è tenuto alla Bradford Crown Court nel 2009, è emerso che la vittima che aveva due anni, aveva tutte le membra rotte, era stata chiusa in un armadio ed era stata messa in un’asciugatrice. Le sue piccole impronte e le macchie di sangue sono state trovate all’interno degli armadi della casa a Huddersfield e anche in una ex proprietà a Batley, West Yorkshire. La coppia dava la colpa l’un l’altro per la morte della bambina. L’autopsia ha rivelato che le sue braccia e le gambe erano rotte e c’erano 107 ferite in tutto il suo corpo, di cui 36 contusioni alla testa e al collo, 26 alle braccia e dieci sull’addome. Israele: l’Ue chiede il rispetto dei diritti dei detenuti palestinesi in sciopero della fame Ansa, 16 febbraio 2013 Israele deve permettere l’immediato ripristino dei diritti di visita delle famiglie dei 4 detenuti palestinesi in sciopero della fame. Lo chiede la rappresentante per la politica estera Ue Catherine Ashton, in una nota in cui chiama Israele al pieno rispetto dei suoi obblighi internazionali sui diritti umani nei confronti di tutti i detenuti palestinesi ed esprime preoccupazione per i rapporti sul peggioramento delle condizioni di salute di Ayman Sharawna, Samer Issawi, Jafar Ezzedin e Tareq Qaadan. Ashton inoltre ribadisce la preoccupazione di lungo termine dell’Unione Europea per il largo uso da parte di Israele di ordini amministrativi di detenzione, come quelli emessi a carico di Ezzedin e Qaadan e ricorda che in base alle leggi internazionali i detenuti hanno il diritto di essere informati sulle ragioni della loro detenzione e che hanno diritto ad un processo che dia certezza legale a tale detenzione senza ritardi. Quindi, conclude la nota della Ashton, la Ue chiede ad Israele di formalizzare le accuse contro ogni individuo detenuto, in modo che essi siano sottoposti ad equo processo senza indebiti ritardi. Decine di palestinesi feriti in scontri con esercito Decine di palestinesi sono rimasti feriti in scontri con le forze israeliane scoppiati in Cisgiordania durante delle manifestazioni di solidarietà con dei prigionieri palestinesi in sciopero della fame detenuti da Israele. Lo si è appreso da fonti mediche palestinesi. Vicino a Ramallah, circa 3.000 palestinesi hanno marciato fino alla prigione militare di Ofer, davanti alla quale sono scoppiati violenti scontri il cui bilancio è stato di due manifestanti feriti da proiettili e 20 da proiettili di gomma. Tsahal ha confermato che dei colpi d’arma da fuoco sono stati esplosi in aria da dei soldati che si sono sentiti “in pericolo”. Al posto di blocco di Jalameh, vicino a Jenin, nel nord della Cisgiordania, un migliaio di palestinesi hanno affrontato i soldati israeliani. Quattro manifestanti sono stati feriti da proiettili e 20 da inalazione di lacrimogeni. Dieci dimostranti sono stati arrestati, ha fatto sapere l’esercito. Nel quartiere di Issawiyeh, a Gerusalemme est, centinaia di palestinesi si sono scontrati con la polizia israeliana e un manifestante è stato ferito all’occhio da un proiettile di gomma. Quattro prigionieri palestinesi - Samer Issawi, Jaafar Ezeddin, Ayman Sharawneh e Tariq Qadan - sono in sciopero della fame da diversi mesi per protestare contro la politica di detenzione di Israele. Issawi e Sharawnwh hanno iniziato la protesta nell’agosto del 2012. Israele: dopo la notizia del suicidio di Ben Zygier… in carcere altri “Prigionieri X”? di Michele Giorgio Nena News Nelle carceri israeliane potrebbero esserci altri “Prigionieri X”, detenuti in segreto, nascosti al paese e al resto del mondo, come Ben Zygier, l’ebreo australiano, agente del Mossad, che si sarebbe “suicidato” in cella a fine 2010. Lo ha detto ieri una voce molto autorevole, quella di Rafi Eitan, un ex capo dell’intelligence israeliana che negli anni Ottanta gestì la spia americana Jonathan Pollard, che fece arrivare a Tel Aviv documenti di eccezionale importanza legati alla sicurezza degli Stati Uniti. “Siamo in guerra”, ha avvertito Eitan lasciando capire che lo Stato di Israele è “costretto” a percorrere strade poco legali pur di garantire la sua sicurezza. Passa al contrattacco anche il ministero della giustizia. A chi critica l’establishment politico e militare per l’uso delle detenzioni segrete, contro le leggi internazionali, il ministero ha risposto che Zygier, al quale sarebbe stato garantito pieno diritto alla difesa, aveva accettato di buon grado di tenere nell’ombra la sua vicenda. La fine del “Prigioniero X” continua a far clamore in Israele e in Australia mentre emergono altri particolari sul ruolo avuto in passato della “maschera di ferro”. Il Mossad, secondo quanto scrive la stampa, impiegò Zygier più volte in Iran dove l’agente entrava grazie al suo passaporto australiano e in qualità di rappresentante di una società europea. Poi nel 2009, durante un viaggio nel paese d’origine, fu fermato e interrogato dai servizi australiani: in quell’occasione avrebbe rivelato segreti sulle attività clandestine di Israele. Da qui l’arresto una volta rientrato a Tel Aviv. Da altre fonti invece Zygier avrebbe preso parte tre anni fa in un hotel di Dubai all’assassinio di un leader militare di Hamas, Mahmud al Mabhuh. Fermato dalla polizia degli Emirati avrebbe vuotato il sacco, facendo i nomi di altri agenti del Mossad che operano con passaporti di paesi occidentali. In quel modo si sarebbe garantito l’immunità e il servizio segreto israeliano fu costretto a rapirlo per riportarlo nello Stato ebraico. Naturalmente nessun rappresentante ufficiale israeliano confermerà mai le ipotesi fin qui emerse ma l’affare al Mabhuh appare il più concreto per ciò che riguarda i motivi della detenzione di Zygier. Poco dopo l’assassinio del leader di Hamas, la polizia di Dubai fu in grado di ricostruire, con nomi e cognomi, la rete di agenti del Mossad che avevano preso parte all’operazione. In quell’occasione diversi paesi occidentali, protestarono con forza per l’utilizzo da parte del servizio segreto israeliano di passaporti stranieri. Davvero misteriosa la morte in prigione di Ben Zygier che, il giorno prima di togliersi la vita, ha riferito il suo avvocato, era tranquillo e non sembrava sul punto di “suicidarsi”. Inoltre le celle del carcere di Ayalon in cui era recluso sono controllate in permanenza da telecamere a circuito chiuso.