Giustizia: le mie soluzioni al sovraffollamento delle carceri di Cosimo Maria Ferri (Segretario Generale di Magistratura Indipendente) Specchio Economico, 12 febbraio 2013 La questione del sovraffollamento carcerario, per le dimensioni drammatiche che ha assunto, esige soluzioni rapide. In questa prospettiva riformatrice è opportuno, anzi necessario, aprirsi a un confronto con tutti gli interlocutori: la politica, il mondo delle associazioni e del volontariato, i rappresentanti dell’Amministrazione penitenziaria e delle Forze dell’ordine, le rappresentanze dell’Avvocatura. La questione carceraria e la sua funzione in un ordinamento moderno non possono essere affrontate concependo il carcere come una “discarica sociale”, espressione risalente agli anni 70, né con strumenti ispirati da considerazioni di tipo sociologico. Le “vecchie” impostazioni non possono che condurre alle “vecchie” soluzioni, che hanno contribuito ad aggravare il degrado della situazione carceraria. Il problema del sovraffollamento ha molteplici cause e non può essere affrontato se non intervenendo nella convergente direzione di ampliare la ricettività degli istituti di pena, ma soprattutto di elevare gli standard detentivi a livello delle raccomandazioni europee, e di limitare il flusso in entrata, sottolineando il ruolo di extrema ratio dello strumento detentivo. È utile riproporre una seria riflessione sui seguenti temi. Il piano delle misure cautelari Occorre ripensare il sistema delle misure cautelari, assegnando alla custodia cautelare in carcere la funzione di neutralizzare una pericolosità non altrimenti fronteggiabile, affiancando all’attuale ventaglio di misure forme di cautela ulteriori, quali la cauzione o misure interdittive. Il piano della sanzione penale Occorre recuperare il concetto che la pena detentiva, e soprattutto la pena scontata in carcere deve costituire l’extrema ratio in un sistema che avrà sempre meno risorse per gestire e concludere un processo penale (giudici, cancellieri, ecc.); e per assicurare condizioni di detenzione conformi al senso di umanità. Ciò non comporta il depotenziamento del deterrente costituito dalla pena, perché in tal caso lo Stato abdicherebbe ad una funzione essenziale che è quella di garantire la sicurezza e la tranquillità dei cittadini. Ciò si traduce concretamente nell’esigenza che la pena detentiva sia riservata ai casi più gravi, ai delitti di allarme sociale. Ma occorre sviluppare, oltre a un massiccio sfoltimento delle fattispecie di rilievo penale come i reati di ingiuria o minaccia di natura bagatellare il ricorso ampio a pene pecuniarie per i reati di scarso allarme sociale come avviene in Germania, affidando agli enti locali la competenza ai fini dell’esazione delle pene e assegnando loro il ricavato. È necessario sviluppare anche lo strumento dell’espulsione: il problema del sovraffollamento è legato soprattutto all’alta percentuale di detenuti stranieri che non hanno risorse e quindi non possono fruire di misure alternative; non ha senso intervenire con la pena detentiva su soggetti per i quali non è facile ipotizzare un reinserimento sociale. Il ricorso alla detenzione domiciliare o agli arresti domiciliari è anch’esso utopistico se guardato come la soluzione al sovraffollamento: presuppone infatti assenza di pericolosità e prima di tutto la disponibilità di un domicilio effettivo e idoneo. Quanti detenuti stranieri, quanti tossicodipendenti possono contare su una soluzione abitativa esterna? In tale prospettiva dovrebbe essere rafforzato l’istituto dell’espulsione a titolo di sanzione alternativa al carcere, rafforzando altresì i meccanismi di raccordo tra le Direzioni penitenziarie e gli organi di Pubblica sicurezza incaricati degli accertamenti e dell’esecuzione della misura. Il piano dell’esecuzione penale e delle misure alternative L’obiettivo della riduzione della popolazione carceraria può essere perseguito attraverso la de-burocratizzazione della fase dell’esecuzione penale e penitenziaria. In tale prospettiva è opportuno ripensare il sistema di preclusioni normative, che limita la possibilità del giudice di valutare nel merito la possibilità di ammettere il detenuto a forme di espiazione della pena esterne al carcere, coniugando esigenze di sicurezza dei cittadini e finalità deflattive. È altresì utile rafforzare le possibilità di applicazione delle misure alternative da parte del giudice monocratico, sia all’esito del procedimento di merito sia in sede di esecuzione penale, in relazione a condanne di limitata entità; e ripensare il ruolo della magistratura di sorveglianza, liberandola da tutti i residui compiti amministrativi che la impegnano, per rafforzarne il ruolo di giudice dei diritti in posizione di terzietà nei confronti dei detenuti e dell’Amministrazione penitenziaria, ed accrescerne l’efficacia sui tempi delle decisioni sulle misure alternative alla detenzione. È inoltre necessario intervenire per il rafforzamento dello status professionale della magistratura di sorveglianza. L’attività di questa, a differenza della giurisdizione di cognizione che si incentra in primo luogo sulla ricostruzione del fatto, è caratterizzata principalmente dalla valutazione prognostica della futura condotta del condannato. Del resto, in un sistema in cui poco più di 150 giudici, su oltre 9 mila in organico, debbono occuparsi dell’esecuzione (in corso o sospesa) del cento per cento delle infinitamente numerose sentenze penali, oltreché di numerosissime altre competenze, è auspicabile un miglioramento dell’organizzazione strutturale (ferma nel tempo) che permetta alla magistratura di sorveglianza di meglio fare fronte ai propri, esponenzialmente aumentati impegni anche attraverso un rafforzamento degli organici e la copertura delle attuali vacanze nelle piante organiche. Il piano delle condizioni detentive e di esecuzione di pena È necessario che il Consiglio Superiore della Magistratura promuova, anche attraverso circolari, la diffusione di “buone prassi” organizzative per asseverare la legittimità di alcune soluzioni già adottate in alcuni Uffici di sorveglianza (ad esempio in materia di rateizzazione della pena pecuniaria o di remissione del debito); come l’attivazione di prassi organizzative e processuali volte all’aggancio dell’imputato, condannato tossicodipendente, da parte del Ser.T., così da favorire l’eventuale applicazione di una misura cautelare domiciliare presso comunità terapeutiche o strutture sanitarie, propiziando l’esecuzione dell’eventuale pena nelle forme dell’affidamento terapeutico (art. 94 del Dpr n. 309/90). Occorre promuovere lo sviluppo del volontariato da parte dei detenuti (ad esempio in occasione di calamità naturali ma anche per lo svolgimento di progetti di tutela ambientale o dei beni culturali), quale forma privilegiata di sistema rieducativo e agevolativo dell’accesso alle misure alternative alla detenzione;?e assicurare la pronta ottemperanza delle decisioni della magistratura di sorveglianza da parte dell’Amministrazione penitenziaria; è quindi necessario assicurare l’adeguatezza degli organici del personale di quest’ultima (Corpo di Polizia penitenziaria e personale dell’area educativa) e delle loro condizioni di impiego. Giustizia: se nelle carceri manca l’ossigeno della dignità dell’uomo di Terenzio Davino www.supermoney.eu, 12 febbraio 2013 Popolazione carceraria in crescita, sovraffollamento, dignità stipata in spazi angusti, rancida aria quotidiana. Incrociando i dati del Ministero della Giustizia e quelli della Polizia Penitenziaria all’inizio di gennaio 2013 nel Paese si contano 206 Istituti penitenziari e all’interno ci sono oltre 66.000 detenuti, in misura superiore alla normale capienza prevista di un massimo di 46.795 unità (oltre 28.000 è alla prima carcerazione). Il 40% dei detenuti sono indagati in attesa di sentenza definitiva e oltre il 37% dei carcerati è dentro per i reati in materia di stupefacenti. Il 60% della popolazione delle carceri è recidiva, gli stranieri detenuti sono attorno alle 24.000 unità e gli ergastolani sono più di 1.500 e supera il 40% chi sta in carcere ed è celibe o nubile. Alcune iniziative di denuncia riscontrano problemi negli istituti penitenziari italiani riguardo all’igiene, al sistema idrico, docce, celle, sistema fognario, dignità mortificata delle persone, assistenti sociali in numero inferiore, educatori e psicologi sotto-dimensionati nell’organico, pochi medici. Le prestazioni sanitarie concesse ai detenuti sono inferiori rispetto ai cittadini “fuori” e gli stessi carcerati non compartecipano ai servizi loro erogati dallo SSN. È da rilevare un’insufficiente assistenza sanitaria ai tossicodipendenti in carcere rispetto all’accoglienza, permanenza e uscita dal carcere. In buona sostanza, vi è un generale azzeramento della dignità e del rispetto dei diritti umani e civili che lede l’integrità psico-fisica delle persone detenute in Italia. Tutto questo ha trovato conferma nella recente condanna che la Corte Europea ha inflitto all’Italia per il trattamento inumano riscontrato in alcune specifiche carceri del Paese a danno dei detenuti ricorrenti e con la constatazione generale che lo spazio a disposizione in carcere per ogni carcerato è di meno di 3 mq. e, le condizioni di vita, nel complesso, sono lesive della dignità umana. Nel primo Rapporto Nazionale di Antigone 2002 sono evidenziati diversi tipi di penitenziari. Carceri Metropolitane, con un sovraffollamento dovuto soprattutto ai detenuti extra-comunitari. Carceri antiche, con mancanze strutturali e di spazi sociali e aree sportive. Carceri del Novecento, con la necessità di continue ristrutturazioni e locali fatiscenti. “Carceri d’oro”, costruite negli anni ‘80, costate molto, tempi lunghi di costruzione e materiali scadenti usati, con scarsa vivibilità, lontane dai centri urbani, hanno problemi di umidità e di funzionamento delle strutture idriche ed elettriche. La situazione di vita nelle carceri ha una chiara ricaduta sulla qualità nei rapporti fra detenuti e personale penitenziario, sul rispetto dei diritti umani fondamentali, sul livello di tensione, frustrazione, violenza, vissuti dall’intera popolazione carceraria, con ripercussioni anche sulla qualità del lavoro svolto dal personale professionale operativo nelle carceri. Per questi ultimi, ciò si traduce in situazioni di stress emotivo, diffusa sensazione e di poca garanzia nel ruolo svolto, difetti di comunicazione e coordinamento tra operatori psico-sociali e agenti, disagio generale per il lavoro compiuto all’interno dei penitenziari, demotivazione a vari livelli. Gli strumenti psicologici utili per gestire meglio il rapporto con i detenuti non sono sufficientemente promossi tra il personale lavorativo e si possono riscontrare possibili difficoltà nella gestione del “potere” verso i carcerati. La gestione dei pasti nelle mense delle carceri, inoltre, di sicuro non sarà ottimale e presenterà sprechi da riconvertire in migliore distribuzione degli avanzi del giorno per evitare clamorosi sprechi. Carceri e lavoro È in evidenza che i programmi di lavoro per detenuti sono insufficienti e le attività rieducative non tirano fuori il potenziale umano capace di produrre a sistema un’evoluzione socio-individuale in grado di spingere l’intera popolazione carceraria a tornare a sentirsi parte dell’Italia, che avanza e lavora bene per tutti. Sono in tanti che non lavorano, con una gestione del tempo che non è impiegato per attrezzare l’individuo nell’intraprendere percorsi formativi che rendano la sua permanenza in carcere più un’opportunità impiegata utilmente, piuttosto che un costo sociale che offende la dignità umana e indispone la collettività che paga attraverso i soldi pubblici. Costruire attorno al detenuto programmi efficaci di permanenza, lavoro, salute (fisica e mentale) e un luogo di detenzione migliore migliorerà direttamente e indirettamente la qualità dell’impegno del personale penitenziario, aumentando l’efficacia dei livelli operativi e comunicativi tra le persone che vi lavorano e contribuirà a ridurre i costi di almeno 100 euro per ciascun detenuto, con la possibilità di attuare forme di risarcimento sociale alla collettività. Giustizia: i nove comandamenti del garantismo di Giuseppe Di Lello Il Manifesto, 12 febbraio 2013 Sappiamo quanto il populismo politico sia una minaccia per la democrazia rappresentativa. Ma ancor di più lo è la miscela di populismo politico e giudiziario Il recente congresso nazionale di Magistratura democratica ha attraversato fortunosamente la fase finale della campagna elettorale e, proprio per alcune comuni tematiche legate ai conflitti tra politica e giustizia e all’ingresso dei magistrati nella competizione elettorale, ha avuto grande risonanza mediatica. Nello specifico, si è dato anche un buon risalto all’intervento di Luigi Ferrajoli che ha riproposto il tema del garantismo “spiegato” con esempi concreti tratti da vicende che quelle tematiche suggerivano. Per i poco informati bisogna ricordare che Ferrajoli, Vincenzo Accattatis e Salvatore Senese, al congresso del lontano 1971 con la relazione “Per una strategia politica di Magistratura democratica” dettarono la linea di sinistra per un uso alternativo del diritto, un classico di teoria e prassi dalla quale gran parte della corrente non si è mai discostata, anche perché altro non propugnava se non il rispetto della Costituzione e dei suoi principi emancipatori, anche da parte dei magistrati. Dell’intervento di Ferrajoli, che meriterebbe di essere pubblicato nella sua interezza se non confliggesse con i limitati spazi di un quotidiano, va comunque data una sintesi più ampia dato che attualizza la necessità di una riflessione sul garantismo nella fase storica attuale in cui la giurisdizione sembra avere troppe certezze sul suo ruolo salvifico e poche regole che la orientino nei difficili rapporti con la politica e con i cittadini. A fronte di una crescente espansione della giurisdizione, ben al di là delle classiche funzioni ad essa assegnate dallo stato liberale, per ritrovare il suo ruolo di garanzia e autonomia e non invadere spazi altrui, che non le competono, la magistratura dovrebbe legittimarsi attenendosi ad alcune massime deontologiche (Ferrajoli ne suggerisce nove) e sintetizzarle non è difficile, posto che i titoli delle stesse ne evidenziano il significato e la sostanza. 1) La consapevolezza del carattere “terribile” e “odioso” del potere giudiziario. Un potere che decide della libertà delle persone ed è in grado di rovinare loro la vita e che solo le garanzie possono limitare: un potere, perciò, tanto più legittimo quanto più è limitato dalle garanzie. 2) La consapevolezza del carattere relativo e incerto della verità processuale e perciò di un margine irriducibile di illegittimità dell’esercizio della giurisdizione. La verità processuale è sempre relativa e approssimativa, opinabile in diritto e probabilistica in fatto e quindi anche la legittimazione del potere giudiziario è sempre, a sua volta, relativa e approssimativa. Soprattutto in materia penale bisogna seguire la regola che porta all’accertamento della verità giuridica: il rigoroso divieto, in omaggio al principio di stretta legalità e tassatività, dell’analogia in malam partem e dell’interpretazione estensiva. Il giudice non può, non diciamo inventare figure di reato ma neppure estendere a fenomeni vagamene analoghi o connessi le fattispecie previste dalla legge. Una tale interpretazione estensiva Ferrajoli la ritrova nel processo sulla trattativa Stato/mafia in cui, non essendoci il reato di trattativa, è difficile capire come si possa accomunare nel reato di minaccia a corpo politico sia gli autori della minaccia, sia quanti ne furono i destinatari o tramiti o le vittime designate. Ovviamente quella trattativa fu un fatto gravissimo di deviazione politica, ma si tratta pur sempre di responsabilità politica e la separazione dei poteri va difesa non solo dalle indebite interferenze della politica nell’attività giudiziaria, ma anche dalle indebite interferenze della giurisdizione nella sfera di competenza della politica. 3) Il valore del dubbio e la consapevolezza della permanente possibilità dell’errore in fatto e in diritto. In quella ricerca della verità probabilistica si annida sempre la possibilità dell’errore. Pertanto il valore del dubbio dovrebbe portare al rifiuto di ogni arroganza cognitiva ed alla prudenza del giudizio, da cui “giuris- prudenza” come stile morale e intellettuale della pratica giudiziaria: per questo è inammissibile che un pubblico ministero scriva un libro intitolato “Io so” a proposito (anche) di un processo in corso da lui stesso istruito. 4) La disponibilità all’ascolto delle opposte ragioni e l’indifferente ricerca del vero: da qui il dovere della rigorosa verifica anche delle ragioni dell’imputato. 5) La comprensione e la valutazione equitativa della singolarità di ciascun caso. Dovere della comprensione e della valutazione delle circostanze singolari e irripetibili che fanno ciascun caso irriducibilmente diverso da qualunque altro. Una indulgenza equitativa soprattutto a favore dei soggetti più deboli, che deve influire sulla decisione della misura della pena e che non può ignorare il carattere disumano delle condizioni di vita dei detenuti in contrasto con il dettato costituzionale del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità. 6) Il rispetto di tutte le parti in causa. Per il principio costituzionale di uguaglianza e di pari dignità sociale, ma anche per il principio di legalità in forza del quale si è puniti per quello che si è fatto e non per quello che si è, bisogna giudicare il fatto e non la persona, il reato e non il suo autore, la cui identità e interiorità sono sottratte al giudizio penale. 7) La capacità di suscitare la fiducia delle parti, anche degli imputati. Nel rapporto con l’opinione pubblica e con le parti in causa il magistrato non deve cercare il consenso ma, sulla base del corretto esercizio dei suoi poteri, deve essere capace di assolvere anche quando tutti chiedono la condanna o di condannare quando tutti chiedono l’assoluzione. Deve cioè convincere della fiducia nella sua imparzialità anche perché solo così le parti ricorderanno se ha violato i loro diritti o li ha garantiti e, in questo secondo caso, difenderanno la giurisdizione e la sua indipendenza come una loro garanzia. 8) Il valore della riservatezza del magistrato riguardo ai processi di cui è titolare. La figura del “giudice star” è la negazione del modello garantista della giurisdizione ed è inammissibile che i magistrati parlino in pubblico o in televisione dei processi loro affidati, sostenendo le loro accuse, lamentando gli ostacoli o il mancato sostegno politico alle loro indagini o addirittura polemizzando con un loro imputato e formulando pesanti insinuazioni senza contraddittorio. Sappiamo quanto il populismo politico sia una minaccia per la democrazia rappresentativa, ma ancor più minaccioso è la miscela di populismo politico e di populismo giudiziario. Quanto meno il populismo politico punta al rafforzamento, sia pur demagogico, del consenso, cioè della fonte di legittimazione che è propria dei poteri politici. Ben più grave è il populismo giudiziario, che diventa intollerabile allorquando serve da trampolino per carriere politiche. 9) Il rifiuto anche solo del sospetto di una strumentalizzazione politica della giurisdizione. I magistrati, come tutti i cittadini (art. 51 della Cost.), hanno il diritto di partecipare alle competizioni politiche, ma serve una più rigorosa disciplina per questa partecipazione, che magari ne escluda la candidabilità nel luogo in cui ha esercitato le funzioni e il rientro in tale luogo alla fine del mandato elettorale. Forse sarebbero opportune le dimissioni di chi si candida a funzioni pubbliche elettive: un onere che, se anche non stabilito dalla legge, dovrebbe oggi essere avvertito da qualunque magistrato come un dovere di deontologia professionale. Non aggiungo niente di mio, se non la piena adesione a queste riflessioni trasposte in massime deontologiche. Spero solo che Ferrajoli perdoni ogni eventuale incongruità della sintesi con il suo magistrale intervento. Giustizia: Delle Cave (Mir); garantire maggiore dignità ai detenuti e vero utilizzo di pene alternative www.julienews.it, 12 febbraio 2013 “Nessuna forza politica ha discusso seriamente dello status del detenuto: qualcuno ha parlato di amnistia, ma si tratta di una misura inutile. Vogliamo che le condizioni di vita dei detenuti siano degne e che i rispettivi diritti vengano tutelati, anche attraverso il miglioramento delle strutture carcerarie, ormai obsolete e fatiscenti”. È questa la proposta che il Mir (Moderati in Rivoluzione) lancia, attraverso il suo capolista al Senato in Campania, il consigliere provinciale Angelo Delle Cave, sul tema della detenzione e della qualità, quasi ovunque scadente, delle case circondariali nel nostro Paese. “L’Italia spesso si è rivelata un paese a basso utilizzo di misure alternative al carcere” - aggiunge Delle Cave. Intendiamo innanzitutto incentivare il lavoro per una più agevole integrazione del detenuto e aumentare il ricorso alla carcerazione domiciliare, in modo da ridurre l’affollamento delle carceri; pensiamo a chi si ammala gravemente o soffre di patologie croniche”. Sulla liberazione anticipata, grazie alla quale ogni sei mesi di detenzione è possibile ottenere una riduzione di 45 giorni sulla pena che rimane da scontare, il capolista al Senato per il Mir, Delle Cave, chiede sia di almeno 60 giorni. “Tutto ciò andrebbe incontro a due importanti esigenze. Da un lato, si creerebbero le condizioni affinché il sistema giudiziario assolva pienamente alla sua funzione costituzionalmente definita, che non è certo quella repressiva ma di prevenzione e reinserimento dei soggetti a rischio; dall’altro si potrebbero produrre risparmi assolutamente non trascurabili, in questa fase di crisi. Non è infatti oltremodo ammissibile che ciascun detenuto costi, ancora oggi, seimila euro al mese alle casse dello Stato”, conclude Delle Cave. Giustizia: il Sappe ai partiti politici; porre al centro dei programmi riforma e criticità penitenziarie Comunicato stampa, 12 febbraio 2013 “I partiti e le coalizioni che si propongono di guidare il Paese non posso esimersi dal porre al centro dei loro programmi l’inderogabile impegno ad una nuova politica della pena in Italia, necessaria e non più differibile, che ripensi organicamente il carcere e l’Istituzione penitenziaria, anche alla luce della sostanziale inefficacia degli effetti dell’indulto. Auspichiamo soprattutto che gli impegni elettorali non restino tali solo sulla carta ma si sappiano concretizzare in provvedimenti, con il contributo costruttivo della maggioranza e dell’opposizione politica che l’esito delle urne determinerà”. È l’auspicio che lancia alle forze politiche del Paese Donato Capece, segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la prima e più rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri. “Mi aspetto impegni concreti ed un Governo ed un Parlamento che seriamente si impegnano a cambiare l’insostenibilità delle cose. Il Sappe, primo Sindacato della Polizia Penitenziaria, è aperto al confronto con tutti ed è pronto a collaborare con tutti per il bene del Paese. Oggi ci sono in carcere ben 66mila detenuti a fronte di una circa 45mila posti letto. Noi proponiamo soluzioni concrete. Come la necessità che i circa 25mila detenuti stranieri presenti nelle carceri italiane debbano scontare la pena nelle carceri del proprio Paese d’origine e di introdurre il lavoro per tutti i detenuti. Non solo. Diciamo ai vari Presidenti del Consiglio dei Ministri, ai Ministri della Giustizia ed ai parlamentari di tutti i partiti di percorrere la strada di una riforma del sistema penale - sostanziale e processuale - che renda stabili le detenzioni dei soggetti pericolosi affidando a misure alternative al carcere la punibilità dei fatti che non manifestano pericolosità sociale, prevedendo che i compiti di controllo sull’esecuzione penale e sulle misure alternative alla detenzione siano affidati alla Polizia Penitenziaria. Questo ci piacerebbe leggere come impegno concreto che i partiti si assumeranno Oggi circa 20mila degli attuali detenuti sono condannati a pene inferiori a 3 anni. Esclusi gli stranieri, da espellere per far loro scontare la pena nel Paese d’origine, gli italiani detenuti con pena inferiore ai tre anni potrebbero essere affidati ai servizi sociali e impiegati in lavori socialmente utili, quindi fuori dal carcere.” Giustizia: Amnesty International; processo Abu Omar, sui diritti umani mai invocare segreto di Stato Tm News, 12 febbraio 2013 “Il segreto di stato non dovrebbe mai essere invocato per evitare che funzionari dello stato, compresi i dirigenti dei servizi segreti, siano chiamati a rispondere di gravi violazioni dei diritti umani”: è quanto ha detto oggi Julia Hall, esperta di Amnesty International su antiterrorismo e diritti umani, commentando la notizia della condanna di cinque ex funzionari dei servizi segreti italiani, tra cui l’ex direttore Niccolò Pollari e il suo vice Marco Mancini. Oggi la Corte d’appello di Milano ha condannato due Pollari, Mancini e tre ex agenti dell’intelligence italiana per il sequestro di Usama Mostafa Hassan Nasr (noto come Abu Omar), avvenuto nel febbraio 2003 a Milano. L’uomo venne trasferito in Egitto, trattenuto in detenzione segreta per oltre un anno e, secondo quanto da lui denunciato, sottoposto a torture. Nicolò Pollari, ex direttore del Sismi, e il vice Marco Mancini, sono stati condannati rispettivamente a 10 e nove anni di carcere, i tre agenti a tre anni. Tutti gli imputati sono stati inoltre condannati a un risarcimento di un milione di euro nei confronti di Abu Omar e di 500.000 euro nei confronti della moglie. “Auspichiamo che in Cassazione le autorità giudiziarie italiane dicano a chiare lettere che quando una persona, che appartenga o meno ai servizi segreti, compie violazioni dei diritti umani, non può essere protetta da un governo secondo il quale rendere note informazioni minaccerebbe la sicurezza nazionale”, ha spiegato l’esperta di Amnesty International. “Nel caso del sequestro, della rendition e della sparizione forzata di Abu Omar, si è trattato di crimini e non di segreti di stato relativi alla sicurezza nazionale, reati di cui rendere conto di fronte alla giustizia”, ha concluso Hall. Lettere: emergenza carceri… la pena non deve essere una vendetta di Luigi Cancrini (psichiatra e psicoterapeuta) L’Unità, 12 febbraio 2013 Lo ha messo nero su bianco perfino il Corsera: secondo Napolitano lo Stato coi detenuti viola la Costituzione, come se non fossero loro, a parte quelli caduti in pasto alla mala giustizia, che hanno infranto palesemente le regole del vivere civile che la nostra “mamma” ci ha imposto. Enzo Bernasconi Napolitano da San Vittore rilancia l’emergenza carceri. Un ascoltatore propone a Gian Antonio Stella che presenta la rassegna stampa su Raitre, il problema dei reati minori, citando il caso del senegalese che, avendo più volte tentato di vendere dei cd pirata, dovrà restare in carcere per 12 anni. “Non ci si potrebbe occupare di lui fuori da un carcere?”, chiede il lettore e risponde Stella di no, che i reati vanno puniti citando, per dare più forza alle sue argomentazioni, il caso del bidello che aveva dei precedenti per pedofilia e che è stato riassunto in una scuola. Il buonismo sui carcerati fa male, dice Stella, dimenticando che gli autori di reati sessuali contro i minori sono persone malate che non possono essere sbattute in carcere finché morte non li separi da una malattia che in carcere, dove nessuno si occupa seriamente di loro, peggiora e che fuori potrebbe essere curata se avessimo a disposizione leggi più civili. Ma riproponendo, soprattutto, quel luogo comune sulla detenzione come unica pena possibile che è l’ostacolo maggiore al superamento dell’emergenza carcere. In Italia e altrove, la democrazia farà un grande passo in avanti solo quando si capirà che ad avere ragione era Cesare Beccaria. La pena deve mirare alla riabilitazione, non alla vendetta. Emilia Romagna: con “accoglienza” e “lavoro”, al via progetto “Acero” per l’inserimento dei detenuti www.modena2000.it, 12 febbraio 2013 Anziché scontare la pena in carcere, quarantacinque persone all’anno potranno essere ospitate in comunità e case d’accoglienza, in grado di garantire un accompagnamento al reinserimento sociale. Inoltre è prevista l’attivazione di circa novanta percorsi di inserimento lavorativo per persone in esecuzione penale esterna e ai domiciliari. È quanto contenuto, in sintesi, nel protocollo “Acero”, siglato ieri dall’assessore regionale alle politiche sociali Teresa Marzocchi, dal Provveditore dell’amministrazione penitenziaria per l’Emilia-Romagna (Prap) Pietro Buffa e dal Presidente del Tribunale di sorveglianza di Bologna Francesco Maisto. “Il progetto - ha spiegato Teresa Marzocchi - si rivolge a detenuti comuni che non avrebbero altra possibilità di detenzione alternativa se non in una comunità, perché senza casa o famiglia. A loro vogliamo offrire un’occasione di reinserimento sociale attraverso lo strumento fondamentale della formazione e del lavoro”. In Emilia-Romagna esistono già iniziative per la detenzione alternativa di persone con problemi di tossicodipendenza e psichiatrici. Ora - ha aggiunto Marzocchi - “completiamo questo percorso reso possibile dalla preziosa collaborazione con le Istituzioni dell’Amministrazione penitenziaria, le Associazioni del terzo settore, gli Enti locali”. “Acero” nasce dalla fusione di due parole, “accoglienza” e “lavoro”. L’obiettivo del progetto - finanziato dalla Cassa delle Ammende (ente del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) e dalla Regione (Assessorati alle politiche sociali e al lavoro) - è proprio quello di rafforzare competenze e abilità per l’acquisizione e il consolidamento del livello di autonomia di persone condannate ammesse a misure alternative alla detenzione, in modo da ridurre o contenere il rischio della recidiva (legge regionale 3/08 “Disposizioni per la tutela delle persone ristrette negli istituti penitenziari della Regione Emilia-Romagna”). “Acero” avrà durata biennale e si articolerà quindi in due “azioni”: accoglienza in strutture individuate sul territorio dell’Emilia-Romagna e percorsi di inclusione lavorativa, da Piacenza a Rimini. Tramite “Acero” circa quarantacinque persone, in esecuzione penale esterna, potranno quindi essere accolte - in base delle specifiche necessità dell’individuo - in tre diverse realtà (L’Ovile a Reggio Emilia, la Casa Madre del Perdono a Rimini e Viale K a Ferrara) per sei mesi, rinnovabili. La copertura delle rette giornaliere ha un costo biennale di 911mila euro circa, ed è interamente coperta dalla Cassa delle Ammende. Sono già partiti intanto i primi dei 90 percorsi di inclusione lavorativa realizzati con risorse del Fondo sociale europeo (Fse) e della Regione, per un costo anche questo biennale di circa 655mila euro. Percorsi che vedono il coinvolgimento di più soggetti: dagli Assessorati regionale e provinciali alla formazione e lavoro ai comitati locali dei nove Comuni sede di carcere, dalla Conferenza regionale Emilia-Romagna Volontariato e Giustizia a Confcooperative, Legacoop, Cna, Confartigianato, Agc italiane (Federazione regionale Emilia-Romagna). Emilia Romagna: la Garante; accesso carcere senza autorizzazioni anche presidenti province e sindaci Ristretti Orizzonti, 12 febbraio 2013 È “assolutamente auspicabile” che il prossimo Parlamento riprenda in considerazione il progetto di legge presentato nel 2010 e che “mirava ad estendere anche a presidenti delle Province e sindaci la possibilità di accedere in visita agli istituti penitenziari senza dover chiedere alcuna preventiva autorizzazione”. Ad affermarlo è Desi Bruno, Garante regionale delle persone private della libertà personale, che ricorda come al momento “ci troviamo di fronte ad una lacuna che deve essere necessariamente colmata”. Il Testo unico sugli enti locali, infatti, “attribuisce a Province e Comuni competenze importantissime in materia sanitaria, urbanistica ed edilizia” e in particolare stabilisce che “in caso di emergenze sanitarie o di igiene pubblica a carattere esclusivamente locale le ordinanze contingibili e urgenti sono adottate dal Sindaco, quale rappresentante della comunità locale”, ma la normativa nazionale sull’ordinamento penitenziario del 1975 “fornisce un elenco tassativo dei soggetti che possono recarsi in visita negli istituti penitenziari senza autorizzazione” e, nonostante questa possibilità sia stata concessa dal 2009 anche ai Garanti dei detenuti, “analoga previsione non è stata introdotta per i presidenti delle Province e per i sindaci”. Considerando anche come “le molteplici iniziative finalizzate alla formazione e all’inserimento lavorativo dei detenuti sono promosse dagli enti locali”, una revisione normativa sui criteri di accesso alle strutture “appare quanto mai necessario e urgente”, conclude Bruno. Sardegna: Dap; nessuna chiusura per Macomer e Iglesias, su ipotesi avanzate da stampa Tm News, 12 febbraio 2013 "In merito alla recenti notizie di stampa sull'ipotizzata chiusura delle carceri di Macomer e di Iglesias in Sardegna, il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria precisa che non esiste alcuna decisione in tal senso e neppure una proposta di dismissione per entrambi gli istituti". Lo precisa in una nota il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria. Asti: detenuto di 65 anni muore in ospedale, condannato per associazione a delinquere, voto di scambio Ansa, 12 febbraio 2013 È morto stamattina all’ospedale di Asti, dove era piantonato da alcuni giorni per problemi cardiaci, Giovanni Iaria, 65 anni. Era in carcere, ad Asti, dallo scorso ottobre, dopo la condanna con rito abbreviato a 7 anni e 4 mesi per associazione a delinquere e voto di scambio nell’ambito del processo Minotauro. Di origini calabresi, Iaria era stato mandato al confino a Courgnè, dove negli anni 80 era stato consigliere comunale e assessore. Sulmona (Aq): detenuto ancora in sciopero della fame contro ergastolo ostativo, è in gravi condizioni www.primadanoi.it, 12 febbraio 2013 Antonio Cacici, detenuto nel carcere di Sulmona, versa in gravi condizioni, per un prolungato sciopero della fame e della sete. La sua protesta è contro il cosiddetto ergastolo ostativo, che impedisce a chi è stato condannato a l’ergastolo per reati connessi alla mafia di usufruire di qualsiasi beneficio, dai permessi premio, al lavoro esterno dopo tanti anni di carcere o alla semilibertà. Nulla, non può usufruire di nulla, deve per intero scontare la sua pena e praticamente morire in carcere. “Tanti sono i detenuti in queste condizioni e ce ne sono molti che pur avendo scontato 30 anni di carcere”, commenta Giulio Petrilli, “non possono accedere ai benedici della legge Gozzini, che fu introdotta per favorire il reinserimento dei detenuti”. Petrilli nei mesi scorsi ha chiesto il risarcimento danni per l’ingiusta detenzione da lui subita ma la Corte d’Appello di Milano ha detto no. Oggi Petrilli ha un ruolo attivo nel Partito democratico aquilano, con delega alla giustizia e si batte anche seguito di quello che ha vissuto sulla propria pelle. Arrestato quando aveva 22 anni con l’accusa di partecipazione a banda armata con funzioni organizzative in “Prima Linea. Poi, però, la giustizia lo ha assolto. Dopo sei lunghi anni di carcere. Oggi chiede giustizia per il detenuto: “sta morendo, facciamo in modo che questo non accada, invitiamolo a desistere promettendogli l’impegno affinché la legge, che attualmente vieta a lui e tanti altri di usufruire di qualsiasi beneficio venga abrogata. La legge Gozzini, è stata una grande legge perché ha consentito anche a chi era condannato all’ergastolo, di poter un giorno usufruire di misure alternative al carcere, facciamo in modo che questo avvenga per tutti, non creiamo una discriminante in base ai reati”. La sua protesta è contro il cosiddetto ergastolo ostativo, che impedisce a chi è stato condannato a l’ergastolo per reati connessi alla mafia di usufruire di qualsiasi beneficio, dai permessi premio, al lavoro esterno dopo tanti anni di carcere o alla semilibertà. Nulla, non può usufruire di nulla, deve per intero scontare la sua pena e praticamente morire in carcere. “Tanti sono i detenuti in queste condizioni e ce ne sono molti che pur avendo scontato 30 anni di carcere”, commenta Giulio Petrilli, “non possono accedere ai benedici della legge Gozzini, che fu introdotta per favorire il reinserimento dei detenuti”. Petrilli nei mesi scorsi ha chiesto il risarcimento danni per l’ingiusta detenzione da lui subita ma la Corte d’Appello di Milano ha detto no. Oggi Petrilli ha un ruolo attivo nel Partito democratico aquilano, con delega alla giustizia e si batte anche sulla scorta di quello che ha vissuto sulla propria pelle. Arrestato quando aveva 22 anni con l’accusa di partecipazione a banda armata con funzioni organizzative in “Prima Linea. Poi, però, la giustizia lo ha assolto. Dopo sei lunghi anni di carcere. Oggi chiede giustizia per il detenuto siciliano come in passato ha già fatto per altri casi: “sta morendo, facciamo in modo che questo non accada, invitiamolo a desistere promettendogli l’ impegno affinché la legge, che attualmente vieta a lui e tanti altri di usufruire di qualsiasi beneficio venga abrogata. La legge Gozzini, è stata una grande legge perché ha consentito anche a chi era condannato all’ergastolo, di poter un giorno usufruire di misure alternative al carcere, facciamo in modo che questo avvenga per tutti, non creiamo una discriminante in base ai reati”. Catania: Radicali; assicurare ai detenuti il pieno esercizio del diritto di voto, come prevede la legge Notizie Radicali, 12 febbraio 2013 Lettera a direttori di carcere e amministrazioni comunali: “Assicurare ai detenuti il pieno esercizio del diritto di voto, come prevede la legge”. I detenuti in custodia cautelare e quelli condannati in via definitiva per reati sentenziati come “non ostativi” sono cittadini aventi pieno diritto al voto e possono votare in un seggio elettorale speciale in carcere, anche se residenti in un altro Comune. La procedura per poter esercitare il diritto di voto comprende una serie di passaggi burocratici che coinvolgono, oltre al detenuto elettore (che deve essere munito di tessera elettorale), il direttore dell’istituto di pena, il sindaco del luogo di residenza e il sindaco del luogo di detenzione: si tratta di un meccanismo piuttosto complesso, con il rischio che un diritto costituzionalmente garantito quale il diritto di voto rimanga tale solo sulla carta. Per questa ragione, in vista delle prossime elezioni politiche del 24 e 25 febbraio, ho inviato una lettera ai direttori delle carceri e ai sindaci di Catania, Caltagirone e Giarre, affinché vengano predisposti per tempo tutti gli adempimenti previsti dalla legge, dalla risoluzione approvata l’11 dicembre 2012 dalle Commissioni Riunite Affari Costituzionali e Giustizia, e dalla circolare del Ministero dell’Interno del 9 gennaio 2013. Agevolare al massimo la partecipazione democratica all’interno dei penitenziari, assicurando il pieno esercizio del diritto di voto ai cittadini detenuti che non hanno perso il godimento dei diritti civili e politici, significa perseguire un obiettivo che è di primaria importanza perché si pone sul versante di una concreta attuazione dei principi sanciti dalla Costituzione, a partire dall’articolo 27. Nota di Gianmarco Ciccarelli, segretario Radicali Catania e candidato della lista Amnistia Giustizia Libertà alla Camera dei Deputati - Circoscrizione Sicilia 2. Cagliari: Sdr; chiusura Iglesias compromette recupero detenuti Ansa, 12 febbraio 2013 “La chiusura del carcere di Iglesias avrà gravi negative ripercussioni sul recupero di detenuti impegnati da anni in progetti per il reintegro sociale e culturale. Nell’Istituto sono infatti reclusi prevalentemente detenuti che stanno scontando pene per reati sessuali. Cittadini che hanno particolare necessità di cambiare la mentalità per azzerare la recidiva. La formazione e la costruzione di relazioni positive e responsabili rappresentano la chiave di volta per il recupero di persone che si sono rese responsabili di reati odiosi. Trasferirli dal contesto significa compromettere il lavoro di anni e retrocedere nell’azione ricostruttiva della personalità”. Lo ha detto Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme”, con riferimento alla decisione del Ministero della Giustizia di chiudere il carcere di “Sa Stoia” nella periferia della cittadina iglesiente e trasferire i sex offender al San Daniele di Lanusei in attesa dell’apertura di una sezione nel nuovo Istituto di Bancali (Sassari). “Alle giuste rivendicazioni degli Agenti di Polizia Penitenziaria, occorre affiancare - sottolinea Caligaris - le considerazioni di non minor rilievo come quelle del recupero di chi ha infranto il patto sociale con un reato che desta preoccupazione tra i più deboli. Grazie all’impegno dell’area educativo-trattamentale e dei volontari della Caritas, ad Iglesias, fatto non scontato, si sono spalancate le porte degli Istituti superiori della città. Qualche detenuto aspira, proprio quest’anno, a conseguire il diploma. Altri hanno intrapreso il percorso per cambiare la loro vita arricchendosi di contenuti culturali. Chiudere il carcere e trasferire queste persone in un’altra realtà significa frustrare un lavoro personale molto faticoso e annullare quanto di positivo è stato realizzato. Sarebbe insomma la conferma della negazione riabilitativa della pena”. “L’Istituto di Iglesias - afferma la presidente di SdR - non deve essere chiuso ma al contrario rafforzato. Ha necessità di disporre di migliori condizioni infrastrutturali e di ulteriori supporti professionali. Occorre garantire un servizio sanitario efficiente, disporre di un numero di educatori più consistente, nonché di assistenti sociali e operatori culturali costantemente impegnati. Il Ministero e il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria dovrebbero uscire dalla logica del risparmio, dell’accentramento dei detenuti un poche mega strutture in zone isolane lontane dai centri urbani e della semplice punizione. Dovrebbero invece promuovere corsi di aggiornamento per gli Agenti della Polizia Penitenziaria il cui compito fondamentale è quello di interloquire costantemente con il cittadino privato della libertà senza vedere conculcati i diritti di lavoratori particolarmente esposti ai rischi di logoramento psico-fisico”. “Non si può continuamente richiamare come faro la Costituzione e poi in pratica negandone il dettato. Il buon senso suggerisce che solo un serio recupero di chi ha commesso gravi errori e ha bisogno di ricostruire la propria personalità è in grado - conclude Caligaris - di garantire la sicurezza ai cittadini”. Oristano: Sdr; 30 detenuti in sciopero fame per protesta contro inadeguatezza carcere Ansa, 12 febbraio 2013 “Una trentina di detenuti del carcere di Oristano-Massama, collocati nella sezione al primo piano dell’Istituto, da ieri si astengono dal cibo. La protesta pacifica è stata attuata per denunciare le condizioni di inadeguatezza della Casa Circondariale”. Lo rende noto Maria Grazia Caligaris, presidente dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” sottolineando che nella nuova mega struttura sono attualmente presenti 200 detenuti. Gli autori della protesta lamentano carenze strutturali, l’assenza della biblioteca, delle attrezzature per rendere agibile la palestra ed il campo sportivo. Carenze che li costringono a restare chiusi dentro le celle. Giudicano ingiustificabile la chiusura dei blindi e degli spioncini durante il giorno e la impossibilità di effettuare liberamente la socialità. Tra le lamentele anche il fatto di non poter stendere i panni all’aperto e la non disponibilità di prodotti per la pulizia delle celle. L’altra carenza riguarda la fruizione dell’acqua calda per le docce riservata solo alle prime ore del mattino. “A distanza di poco più di un mese, da quando avevano lamentato condizioni di invivibilità, i detenuti della struttura penitenziaria, inaugurata a novembre, intendono - afferma Caligaris - riproporre con forza le loro ragioni. La buona volontà della Direzione che è impegnata a garantire innanzitutto il diritto alla salute, in quanto ancora l’Azienda Sanitaria Locale non è riuscita ad assegnare i medici per 24 ore, non è bastata a ridurre il disagio che da ieri è sfociato nello sciopero della fame. È auspicabile - conclude la presidente di Sdr - che, dopo il forte richiamo a migliorare le condizioni di vivibilità nella nuova struttura ancora in fase di messa a punto, la sospensione della protesta eviti un aggravamento della situazione e favorisca il ripristino della normalità”. Padova: il Comune impiega 12 detenuti per liberare i marciapiedi dalla neve Ansa, 12 febbraio 2013 Anche 12 carcerati coinvolti in un progetto di inserimento sociale saranno impiegati oggi a Padova nella liberazione dei marciapiedi dalla neve accumulata lungo i cigli delle strade. “Si tratta di un impiego nell’ambito di un progetto sociale che vede il Comune partner dell’amministrazione carceraria che dà da lavorare ai reclusi del carcere padovano di via Due Palazzi - spiega l’assessore alle manutenzioni Andrea Micalizzi. Possiamo dire che la nevicata ha messo a dura prova l’organizzazione degli interventi nell’ambito del piano neve. Ma nonostante qualche rallentamento e imbottigliamento causato da auto sprovviste di pneumatici da neve, il traffico in città non ha subito criticità particolari”. Il Comune di Padova ha impiegato nelle 24 ore della nevicata 40 vigili urbani, 30 tecnici comunali e 30 operatori dell’azienda Acegas Aps. Quasi cinquecento le chiamate ricevute dalla centrale operativa dei vigili urbani. “La viabilità principale - ha concluso Micalizzi - questa mattina ha funzionato. Oggi ci siamo concentrati per risolvere la situazione sulla viabilità secondaria. Attualmente dieci spazzaneve dotati di lame sono in azione a cui si sommano una decina di spargisale sia sulle strade principali che sulle strade secondarie”. Viterbo: Uil-Pa; progetto sperimentale per la polizia penitenziaria, turni lavoro diminuiti da 8 a 6 ore www.ontuscia.it, 12 febbraio 2013 “Dopo circa 6 ore di serrato confronto tra la Direzione del carcere di Viterbo e le Organizzazioni sindacali della Polizia Penitenziaria, ieri, si è giunti ad un accordo per avviare un progetto sperimentale di articolazione dell’orario di lavoro che comporterà una diminuzione dei carichi di lavoro per chi opera in turni all’interno dei reparti detentivi”. A dichiararlo è Daniele Nicastrini, Segretario Regionale della Uil-Pa Penitenziari. “Oggi al Carcere della Tuscia sono assegnate circa 300 unità di Polizia Penitenziaria, di cui 31 assegnate da poche settimane. Ciò - prosegue Nicastrini - ci ha consentito di poter promuovere un nuovo progetto sperimentale nelle turnazioni riducendo da 8 a 6 le ore di turno di servizio giornaliero per le 141 destinate a gestire una popolazione detenuta che supera le 700 unità. “Grazie all’ integrazione dell’organico è stato possibile implementare di altre 6 unità il Nucleo Traduzioni e Piantonamenti e di 1 unità il servizio delle multivideo conferenze. “La Uil ritiene importante il raggiungimento di questo obiettivo, seppure in fase sperimentale. Occorre tener presente che tutto questo può avvenire solo se si monteranno inalterati i numeri concordati e le aliquote individuate rispetto al personale di polizia penitenziaria in forza attualmente. Dopo le manifestazioni dello scorso 5 Luglio - chiude il Segretario Regionale - la Uil in sede di confronto per le piante organiche avvenuto al Dap ha ribadito con forza l’esigenza primaria di intervenire nel merito degli organici di Viterbo e Frosinone; strutture in cui il numero della popolazione detenuta aumenta in dismisura aggravando i carichi di lavoro del personale”. Le parti hanno deciso di rivedersi entro metà aprile per una verifica sull’andamento dell’organizzazione sperimentale. Taglia (Fli): lavorare per risolvere emergenze carcere “Mammagialla, necessario fare di più per migliorare le condizioni di detenuti e agenti di polizia penitenziaria. Il mio impegno sul territorio intende anche andare in questa direzione, agendo (nelle opportune sedi) per alleggerire il numero dei detenuti e incrementare il personale di controllo e gestione della struttura carceraria viterbese”, Claudio Taglia (candidato al consiglio regionale del Lazio per Futuro e Libertà nella Lista Civita per Bongiorno Presidente) interviene così su un tema particolarmente caldo per il capoluogo della Tuscia. La struttura di massima sicurezza attualmente ospita 719 detenuti a fronte dei 444 posti disponibili. Di queste ore la notizia di un accordo, tra la direzione del carcere di Viterbo e le organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria, per avviare un progetto sperimentale di articolazione dell’orario di lavoro che comporterà una diminuzione dei carichi di lavoro per chi opera in turni all’interno dei reparti detentivi. In sostanza l’orario di servizio viene ridotto dalle attuali otto ore a sei. “Si tratta di un qualcosa di atteso da troppo tempo - dichiara Taglia. Gli agenti della polizia penitenziaria vivono una condizione lavorativa di profondo stress, in un ambiente difficile di per sé ma soprattutto inasprito dal sovrannumero della popolazione carceraria”. Mammagialla merita maggiore attenzione, anche perché sovraffollamento e sicurezza sono due temi che non vanno troppo d’accordo. Gli uomini della polizia penitenziaria affrontano da troppo tempo, e con grande coraggio, una situazione allo stremo. “La politica - chiude il candidato della Lista Civica per Bongiorno Presidente - ha più volte fatto visita alla struttura ma, nonostante la presa di coscienza di una realtà insostenibile, non ci si è battuti fino in fondo per pensare strade volte a un alleggerimento dei problemi. Il mio impegno su questo territorio vuole essere anche questo: impegno per garantirne la sicurezza. Il punto di partenza non può che essere Mammagialla, su cui va tenuta alta l’attenzione e su cui bisogna smuovere mari e monti per portare a casa risultati utili”. Genova: concluso il progetto “Terra!”, realizzato un orto all’interno del carcere di Pontedecimo di Fabio Ciconte Il Fatto Quotidiano, 12 febbraio 2013 Il carcere lo si può raccontare attraverso i numeri, indegni, del sovraffollamento. Lo si può raccontare attraverso la sentenza, sacrosanta, della Corte europea dei diritti dell’uomo, o con la lente appannata di chi crede che in fondo se sei finito in carcere un motivo c’è, e allora poco importa delle condizioni in cui ti trovi a vivere, te lo sei meritato. Con un progetto di “Terra!” abbiamo provato a raccontarlo attraverso le relazioni umane e il lavoro della terra. Rapporti nati lavorando uno a fianco all’altro, operatori di “Terra!” e detenuti, con il solo obiettivo di veder crescere i frutti dei due orti sinergici realizzati nella lingua di terra all’interno delle mura del carcere di Pontedecimo, a Genova. E così i detenuti hanno smesso di essere numeri diventando persone, con un nome e una storia, col paradosso che quando uno di loro è stato scarcerato: “Ci è dispiaciuto perché non avremmo potuto più condividere insieme quel pezzo di terra”. Questo è il racconto di Silvia e Francesca, le due coordinatrici del progetto, e dei loro ultimi incontri con i detenuti. A luglio avevamo salutato i ragazzi con la promessa di rivederci a settembre perché ci sarebbero state tante cose da fare insieme dopo l’estate. Nel frattempo si sarebbero dovuti occupare loro dei due orti sinergici carichi di frutti, cresciuti su un suolo, dentro le mura del carcere, apparentemente arido che dopo le prime cure aveva invece iniziato a produrre con sorprendente abbondanza. Quando abbiamo ripreso le attività ci sembrava davvero di essere state lontane da “casa”; un’emozione simile a quando rivedi una persona cara dopo un lungo periodo di lontananza. Eravamo curiose di individuare i piccoli grandi cambiamenti avvenuti in nostra assenza. Tese, speranzose di fare ancora parte della vita di chi avevamo lasciato mesi prima, con il timore che il tempo avesse prodotto estraneità; più di tutto eravamo stupite della familiarità di quelle sensazioni, proprio come se stessimo per incontrare la nostra famiglia. Era passato tanto tempo dall’ultima volta che avevamo oltrepassato il confine di quella città nella città che era lecito pensare qualcosa fosse cambiato. A dicembre, eravamo di nuovo davanti alla grande porta azzurra d’ingresso, avvolte da temperature gelide che intorpidivano le narici e scoraggiate all’idea di dover trascorrere qualche ora all’aria aperta con quel freddo. Abbiamo affrontato i controlli, oltrepassato le porte, e ci siamo dirette agli orti, dove avremmo aspettato i ragazzi. Il cigolio della porta, il tintinnio delle chiavi, il ticchettio dei passi e il vociare confuso, erano il segnale che aspettavamo: ecco comparire i ragazzi dai corridoi di passaggio, accompagnati da una guardia. Mario e Andrea ci venivano incontro con gli occhi che brillavano, impazienti di abbracciarci. Mancava però Giovanni. Per prima cosa ci siamo accertati reciprocamente che stessimo tutti bene e in salute, felici di esserci trovati, determinati e desiderosi di lavorare insieme. A quel punto, come una doccia fredda, ci dicono la novità: Giovanni è libero! Libero! L’emozione è stata forte, più di quanto con le parole si possa dire. Eravamo incredule; ancora oggi proviamo a immaginare quanto sia stato incredibile per Giovanni sentirsi restituire la libertà attesa, agognata, inarrivabile e poi di nuovo concreta e reale, come pane tra le mani di chi ne ha dimenticato il sapore. Libero! Mario e Andrea ci hanno raccontato quel giorno dello stupore di Giovanni nell’apprendere la notizia, di quanto avessero pianto, di quanto a distanza di giorni ancora non riuscisse a crederci e di come lui stesso sentisse che l’orto, proprio l’orto, prima che la scarcerazione stessa, lo aveva reso un uomo libero. Brindisi: Papa (Pdl); i detenuti sono più del doppio della capienza regolamentare, questa è tortura Agenparl, 12 febbraio 2013 Al termine della visita ispettiva al carcere di Brindisi il deputato del Pdl Alfonso Papa, accompagnato dal segretario dell’Ass.ne “Nessuno Tocchi Caino” Sergio d’Elia, ha dichiarato quanto segue: “La situazione dell’istituto detentivo brindisino è una miniatura del panorama carcerario nazionale: sono reclusi 208 detenuti, più del doppio della capienza regolamentare. E di questi ben 108 sono persone in attesa di giudizio, ovvero presunti non colpevoli”. “I radicali continuano a essere gli unici a denunciare l’illegalità dello Stato italiano, che ha trasformato il carcere in tortura sistematica - ha continuato l’On. Papa - Contro una tale barbarie è nato ormai un movimento di opinione spontaneo, col quale i partiti dovranno prima o poi confrontarsi”. “Il diritto di voto dei detenuti non sarà effettivamente garantito se non si fornisce adeguata informazione circa gli adempimenti da espletare - ha dichiarato il radicale Sergio d’Elia. Oggi abbiamo cercato di supplire a questo deficit con un’opera di servizio civile democratico. La maggior parte dei detenuti, per esempio, non sa che per votare è necessario entrare in possesso della propria tessera elettorale. Ad oggi l’amministrazione penitenziaria si è limitata ad affiggere alcuni avvisi nelle sezioni, che passano perlopiù inosservati”. Catania: la direttrice dell’Ipm di Acireale; un agente è stato ferito, ma non c’è nessuna emergenza La Sicilia, 12 febbraio 2013 “Non c’è una vera emergenza, nonostante le difficoltà il clima all’interno dell’istituto penale minorile è sereno”, a dichiararlo è la direttrice, Carmela Leo, che a due settimane dal ferimento di un agente di polizia penitenziaria all’interno dell’istituto è intervenuta sull’allarme lanciato da diverse sigle sindacali. Domenica la direttrice dell’Ipm acese si è recata in visita a Palazzo di Città, insieme con il Governatore del Distretto Sicilia e Malta e una delegazione del Rotary International. Il Governatore, Gaetano Lo Cicero, ha potuto ammirare i cinque mascheroni realizzati dai detenuti grazie al progetto del Rotary, che per il secondo anno ha sostenuto il laboratorio di cartapesta all’interno dell’istituto. Lo Cicero ha sottolineato il valore del progetto che incarna la componente più importante del Rotary, il service, ovvero dare un contributo concreto alla crescita della società. “I ragazzi dell’Ipm hanno avuto la possibilità di imparare un’arte che apra spiragli per il loro futuro e li leghi alla città, che rafforza il rapporto con l’istituto”, ha dichiarato il presidente del Rotary acese Alfio Grassi. A margine dell’incontro, Carmela Leo, soddisfatta per i progetti formativi che aiutano i ragazzi nella fase del reinserimento, ha voluto fare chiarezza sui fatti del 27 gennaio e sulla situazione interna all’istituto. “Non si è trattato di un’aggressione a un agente. C’è stata una lite tra tre ragazzi e l’agente intervenuto per sedarla è rimasto contuso, ma per un istituto come il nostro è normale amministrazione. Il problema della carenza di personale di polizia penitenziaria è serio. I detenuti sono 20 e gli agenti sono 17, l’organico ne prevede 27. Ma grazie agli sforzi e alla fatica del personale, si riesce a garantire la soglia minima di sicurezza, senza sacrificare il trattamento dei ragazzi ristretti. Dopo il fatto ho sentito il direttore del Centro per la Giustizia minorile di Palermo, Angelo Meli, che mi ha assicurato che tenterà di risolvere la situazione e che l’istituto non dovrebbe andare incontro a rischio chiusura”. Milano: nata l’Associazione “Articolo 21”, i detenuti di Bollate volontari per anziani e homeless Redattore Sociale, 12 febbraio 2013 Sono 25 e da una decina di giorni vanno a prendere le persone con il pulmino, si occupano del servizio docce e puliscono la struttura di via Brambilla, voluta dal cardinale Carlo Maria Martini. Sono riuniti nell’associazione “Articolo 21”. I detenuti di Bollate diventano volontari. Vanno a prendere con il pulmino gli anziani, si occupano del servizio docce per i senza dimora e di sabato e domenica puliscono i locali della Casa della carità. Da una decina di giorni 25 detenuti svolgono attività di volontariato nella struttura di via Brambilla, voluta dal cardinale Carlo Maria Martini per accogliere famiglie in difficoltà, senza tetto e anziani. Dal novembre scorso questi detenuti hanno fondato l’associazione Articolo 21: hanno partecipato a corsi di formazione, aiutato ad un banchetto per i terremotati in Emilia Romagna e a un banco alimentare di una parrocchia. “È un segno tangibile della loro adesione non meramente formale al percorso rieducativo”, sottolinea Massimo Parisi, direttore del carcere di Bollate. Per i 25 volontari la collaborazione con la Casa della carità è un salto di qualità, perché ora l’impegno è costante. A turno garantiscono una presenza nei diversi servizi della struttura. E una volta al mese l’intero gruppo vi trascorrerà una giornata, sia per svolgere attività di pulizie insieme agli ospiti della casa, che per condividere il pranzo con i volontari e con coloro che vi lavorano. Roma: a Rebibbia arriva servizio chirurgia ambulatoriale, oggi l'inaugurazione Adnkronos, 12 febbraio 2013 Inaugurato oggi il servizio di chirurgia ambulatoriale del nuovo complesso carcerario di Rebibbia a Roma. Lo comunica l’Asl Roma B. L’obiettivo - spiega l’azienda in una nota - è ottimizzare le risorse e migliorare le prestazioni sanitarie. La struttura consente infatti di fornire un’assistenza sanitaria qualificata, ad alta tecnologia, al detenuto presso l’Istituto penitenziario con conseguente riduzioni dei tempi d’attesa, semplificazione dell’accesso a tutte le prestazioni chirurgiche previste dal nomenclatore della Regione Lazio, e contestuale riduzione dei costosi trasferimenti all’esterno per ricevere le cure. Milano: Valmaggi (Pd); servono maggiori garanzie per chi fa assistenza sociosanitaria in carcere Italpress, 12 febbraio 2013 Questa la richiesta che gli operatori della salute che lavorano nelle carceri lombarde hanno presentato questa mattina, nel corso di un incontro che si è tenuto presso il polo universitario dell’ospedale San Paolo a Milano, alla vicepresidente del Consiglio regionale e candidata testa di lista del Pd Sara Valmaggi che l’ha fatta propria. “La maggior parte degli operatori socio sanitari - spiega Valmaggi - che operano nelle carceri lombarde lavorano da liberi professionisti, il che rende difficile una continuità della cura e della prevenzione e lo sviluppo di una conoscenza delle specificità dei bisogni di cura e assistenza dei detenuti, in gran parte affetti da patologie croniche. Regioni quali l’Emilia hanno già avviato la regolarizzazione di questi operatori. Io credo che anche la Lombardia, seguendo questo modello, nella prossima legislatura, debba adoperarsi per offrire loro maggiori garanzie. Questo per migliorarne le condizioni di lavoro, offrendo così una migliore assistenza ai detenuti”. Bari: in carcere una sfida sul campo di calcio, i detenuti battono la squadra del sindaco La Repubblica, 12 febbraio 2013 L’idea era quella di porre l’attenzione sul problema del sovraffollamento delle carceri (fenomeno patito anche nella struttura penitenziaria di Foggia) e promuovere le buone pratiche di integrazione, reinserimento e promozione sociale. Per questo motivo, una rappresentanza di consiglieri e funzionari comunali ha indossato casacche e scarpe da calcio per affrontare la squadra dei detenuti del carcere foggiano, sul campo della struttura al Villaggio Artigiani. Ad attendere la squadra capitanata dal sindaco Mongelli, la compagine dei “Detenuti Definitivi” designata all’esito di un quadrangolare disputato tra i membri delle rappresentative dei vari settori dell’istituto. Per i primi dieci minuti di gioco, Mongelli ha vestito i panni del portiere subendo le prime due reti degli avversari. Nonostante il successivo cambio in porta, i “Definitivi” hanno strapazzato gli uomini del primo cittadino aggiudicandosi l’incontro con il risultato di 7 a 4. L’incontro rientra nell’ambito del progetto “Sportiva… mente, insieme per l’integrazione”, promosso dalla IV commissione consiliare, dall’assessorato alla Formazione e Pubblica Istruzione, dalla Casa circondariale e dal Ctp “Giannone”. Televisione: domani su Rai premium il film "L'amore proibito", con regia di Anna Negri Tm News, 12 febbraio 2013 Mercoledì 13 febbraio, alle 21.10, va in onda su Rai Premium il film "L'amore proibito", una produzione Rai Fiction per la regia di Anna Negri. Firmano la sceneggiatura Andrea Purgatori e Sibilla Barbieri. Nel cast Adriano Giannini, Claudia Zanella, Francesco Venditti e Ivano De Matteo. Una storia avvincente che coniuga le note forti del thriller con quelle rosa e più delicate del genere melò, dove, in un susseguirsi continuo di colpi di scena, si dipana un'intensa vicenda d'amore nata in un carcere tra una giovane volontaria e un detenuto. Un giallo d'azione che, nelle pieghe del racconto, vuole affrontare anche un tema sociale: l'affettività nei penitenziari italiani. Una giovane volontaria, lavorando nel teatro di una prigione, s'innamora di un detenuto. L'uomo è un rapinatore, forse colpevole anche di omicidio. Le indagini sono ancora aperte. A dividerli, oltre alla distanza delle loro scelte, c'è il carcere, un'istituzione che non contempla la nascita di un amore. "L'amore proibito" è un film giallo d'azione, costruito intorno ad una forte storia d'amore, che tenta anche di affrontare un tema sociale: l'affettività nelle carceri italiane. La storia non ha la pretesa di dare una soluzione a un problema tanto complesso ma nutre la speranza di sollevare un dibattito. Cinema: che attori questi detenuti… di Gabriella Meroni Vita, 12 febbraio 2013 Le carceri d’Italia? Decisamente “poor” - misere - però sono piene zeppe di attori di talento. È questo l’assunto che si ricava leggendo l’ampio servizio che il Los Angeles Times ha dedicato ai tanti gruppi teatrali sorti nelle case circondariali del nostro paese. L’inviato del giornale californiano ha visitato in particolare Rebibbia, ma ha intervistato altri esponenti delle 110 compagnie dietro le sbarre, sottolineando anche la partecipazione di “veri gangster” al film di Garrone Gomorra. “Le carceri italiane sono uno straordinario serbatoio di talenti teatrali”, scrive Tom Kington, “nonostante le condizioni del sistema carcerario, perennemente alle prese con problemi di sovraffollamento e di mancanza di fondi”. “Siamo leader in Europa nel settore teatrale”, dichiara non senza orgoglio Carmelo Cantone, ex direttore di Rebibbia e oggi provveditore regionale per le Amministrazioni Penitenziarie della Toscana. L’inviato racconta poi del grande successo di pubblico toccato alle tre compagnie teatrali presenti a Rebibbia, i cui spettacoli sono stati visti da 30mila persone negli ultimi sei anni, (cosa che ha fatto entrare il carcere nella top ten dei teatri romani) e cita la prossima uscita nei cinema statunitensi del film dei fratelli Taviani “Cesare deve morire”, vincitore dell’Orso d’oro a Berlino, ambientato proprio nel carcere romano e in cui recitano alcuni detenuti. Stati Uniti: il boia Jerry Givens si pente, ha eseguito 62 condanne e ora si batte contro la pena di morte Ansa, 12 febbraio 2013 Jerry Givens ha fatto il boia in Virginia per 17 anni e ha messo a morte 62 persone, ma il condannato che lo ha costretto a pensare è quello di cui non ha eseguito la condanna, all’ultimo momento. Perché era innocente. Ora Givens è un attivista contro la pena di morte. “Dalle 62 vite che ho preso, ho imparato molto”, ha affermato l’ormai ex boia, che ai condannati chiedeva: “Se sapevi che uscendo e andando a compiere stupri e omicidi la conseguenza era la pena di morte, perché farlo?”. Lui lo considerava “un suicidio”. Il mese scorso la Virginia ha condotto la sua esecuzione numero 110 dell’era moderna e Givens ha pregato per il condannato, ma anche per la fine della pena di morte, scrive oggi il Washington Post, che racconta la sua storia e afferma che l’evoluzione di Givens sottolinea quella della Virginia e dell’intero Paese. L’esecuzione della condanna a morte inflitta a Robert Gelason, il 16 gennaio, è stata la prima in Virginia da un anno e mezzo. In tutti gli Stati Uniti il numero delle condanne a morte nel 2011 e 2012 ha raggiunto il record più basso, in calo del 75 per cento rispetto al 1996, secondo il Centro di informazione sulla condanna a morte. Cinque stati l’hanno messa al bando, negli ultimi cinque anni. Ma quando Givens ha cominciato, nel 1984, l’atmosfera era ben diversa. Il primo uomo di cui ha eseguito la condanna a morte, Linwood Briley, era stato giudicato colpevole di una serie di omicidi, assieme a due suoi fratelli. Givens si ritrovò poche ore prima dell’esecuzione a pregare accanto a lui nella cappella del braccio della morte del carcere. Dopo di allora, ha eseguito una lunga serie di altre condanne. In quei momenti, ha raccontato, cercava di liberare la sua mente, di non pensare, per evitare ogni rammarico o paura. Poi venne il caso di Earl Washington, un ritardato mentale accusato dello stupro e assassinio di una madre di 19 anni. Pochi giorni prima dell’esecuzione nel 1985, i suoi avvocati ottennero la sospensione della condanna. Nel 1993 fu scagionato totalmente, grazie ad un test del dna. Fu il primo caso del genere in Virginia. Negli Stati Uniti ce ne sono stati 302. Givens iniziò a pensare: “Se metto a morte una persona innocente non sono meglio di coloro che sono nel braccio della morte”. In preda ai dubbi, ha continuato a fare il suo lavoro fino al 1999, quando è finito nei guai con la giustizia e a sua volta in prigione per quattro anni. Da allora, convinto di essere stato ispirato da Dio, ha iniziato a battersi contro la pena di morte. Ma ancora oggi si chiede se tra le 37 persone che ha messo a morte con la sedia elettrica e le 25 con un’iniezione letale ci siano stati degli innocenti. “L’unica cosa che posso fare, se è successo, è pregare Dio che mi perdoni”, ma “di certo so che non lo farò mai più”. Montenegro: 400 detenuti in sciopero fame, chiedono l’amnistia e protestano per condizioni in carcere Ansa, 12 febbraio 2013 Circa 400 detenuti di un carcere presso Podgorica, la capitale del Montenegro, hanno cominciato uno sciopero della fame per chiedere una legge di aministia. Ne hano dato notizia i media locali. In un documento fatto pervenire ai giornali, i detenuti si lamentano per il cronico sovraffollamento delle carceri, per l’assistenza sanitaria inadeguata, per la cattiva qualità del cibo. Dal carcere non è stato possibile ottenere una conferma della protesta. Afghanistan: dopo la denuncia dell’Onu le autorità militari ammettono torture sui detenuti di Alberto Sofia www.giornalettismo.com, 12 febbraio 2013 In una conferenza stampa a Kabul, la capitale dell’Afghanistan, è stato spiegato come l’inchiesta abbia confermato le accuse dell’Onu, così come spiega il New York Times. Quasi la metà dei 284 prigionieri - intervistati in tre province del paese - erano stati torturati durante l’arresto o interrogatorio. Grazie all’inchiesta è stato possibile scoprire anche come diversi detenuti non abbiano avuto nemmeno accesso alla difesa legale. Eppure il governo ha cercato di minimizzare il caso: Abdul Qadir Adalatkhwa ha osservato come, nonostante siano emerse verità imbarazzanti, non ci fosse alcuna prova sull’applicazione della “tortura in modo sistematico”. I risultati dell’inchiesta sono stati comunque il primo riconoscimento formale, da parte dei funzionari afgani, delle violazioni dei diritti umani, Una scolta dopo le smentite iniziali, in occasione della pubblicazione del rapporto delle Nazioni Unite, rilasciato il 20 gennaio. In un comunicato, l’ufficio del presidente Hamid Karzai si è limitato a spiegare di aver ricevuto la relazione. Ma non ci sono state dichiarazioni ufficiali. Altro che esportazione della democrazia e dei diritti umani. Nel rapporto pubblicato dalle Nazioni Uniti venivano denunciate molestie sistematiche contro chi si trovava nelle carceri afghane. Su 635 prigionieri ascoltati dai responsabili dell’Onu (in 89 centri di polizia, esercito e servizi segreti) ben 326 avevano denunciato di aver subito violenze nel corso della prigionia. Numeri impressionati se si prendono in considerazione quelle commesse sui minori: la proporzione si innalza fino al 76%, con 80 adolescenti su 105 che hanno svelato ai funzionari delle Nazioni Unite di essere stati torturati. Quattordici i tipi differenti di molestie denunciati: dalla frusta agli elettroshock, senza dimenticare quelle di natura sessuale, praticate sui genitali. Nel rapporto si parlava anche della “presunta scomparsa” di 81 individui imprigionati a Kandahar, tra settembre 2011 e ottobre 2012. Fatti inquietanti, come aveva sottolineato Jan Kubis, il rappresentante speciale dell’Onu in Afghanistan, che aveva richiesto un immediato intervento del governo afghano per fermare le violenze. Le preoccupazioni sui casi di tortura hanno scatenato non poche proteste sulla consegna dei detenuti, da parte delle forze militari della Nato, alle autorità afghane. Un punto rivendicato dal governo Karzai. Eppure la Convenzione internazionale contro la tortura, che gli Stati Uniti hanno firmato, vieta il trasferimento di un detenuto “in un altro Stato, qualora vi siano serie ragioni per credere che ci sia il pericolo che possa essere sottoposto a tortura”. Nonostante l’ammissione della commissione afghana, in pochi credono inoltre che gli abusi nelle carceri afghane diminuiranno. Heather Barr, ricercatore in Afghanistan per Human Rights Watch, ha spiegato come il problema sia alla base: “Il sistema giudiziario afghano è impostato sulle confessioni: così è per ora improbabile che avvengano dei seri cambiamenti nel modo di operare”, ha concluso. Israele: appello Abu Mazen all’Onu; detenuto palestinese da mesi in sciopero fame in gravi condizioni Aki, 12 febbraio 2013 Sono gravi le condizioni di Samer Issawi, il detenuto palestinese da 195 giorni in sciopero della fame in un carcere israeliano. Lo rivela l’avvocato Fadi Abedat, del ministero degli Affari dei prigionieri, che ha visitato Issawi nell’ospedale del carcere di Ramle. Intanto il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) Abu Mazen ha rivolto un appello al segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon affinché faccia pressione su Israele per risolvere la questione dei detenuti in sciopero della fame. Abu Mazen ha detto di aver scritto una letta a Ban informandolo delle condizioni critiche in cui versano i prigionieri, chiedendogli di intervenire “rapidamente e seriamente per risolvere la questione”. Se le richieste dei detenuti non verranno accolte, Abu Mazen ha detto che la situazione si complicherà. Sono sei i prigionieri che hanno intrapreso lo sciopero della fame. Due di loro, Ayman Al-Sharawneh e Samer Issawi, digiunano rispettivamente da luglio e da agosto. I due erano stati rilasciati nell’ottobre del 2011 nell’ambito dell’accordo di scambio tra Israele e Hamas per la liberazione di Gilad Shalit, ma poi erano stati nuovamente arrestati a luglio senza un’accusa. Arwa Muhanna, portavoce della Croce Rossa internazionale, ha detto che vengono condotti monitoraggi costanti sui prigionieri in sciopero e che stanno aumentando le loro possibilità di decesso.