I detenuti aiutano a salvare la memoria dei processi del terrorismo degli Anni 70 Il Mattino di Padova, 11 febbraio 2013 Giornata intensa, quella della recente inaugurazione del laboratorio di digitalizzazione nella Casa di reclusione di Padova, perché ha portato a un momento di riflessione corale su un progetto che mette insieme valori culturali e sociali. La composita presenza degli ospiti è stata lo specchio del significato dell’iniziativa: il capo dell’Amministrazione Penitenziaria, Giovanni Tamburino, tre presidenti del Tribunale di Padova (Bellavitis, Fabiani e Aliprandi), il rettore dell’Università Giuseppe Zaccaria, la soprintendente archivistica del Quirinale, Paola Carucci, i detenuti del Centro di documentazione Due Palazzi, ma anche i familiari delle vittime del terrorismo: Benedetta Tobagi, Manlio Milani, Giovanni Bachelet, Silvia Giralucci, la famiglia Sabbadin, la famiglia Niedda, la famiglia Albanese… Il laboratorio di digitalizzazione Il laboratorio di digitalizzazione, presentato dalla Casa di Reclusione con partner operativi Ristretti Orizzonti e la cooperativa AltraCittà, ha come obiettivo il lavoro per i detenuti, per offrire servizi di digitalizzazione di qualità. Ma il progetto prevede anche che il laboratorio digitalizzi i documenti dei processi relativi alle vittime del terrorismo e su queste arte oggi si sta lavorando, copiando il bellissimo progetto che ha permesso nel carcere di Cremona di digitalizzare i documenti delle stragi di piazza Fontana e di piazza della Loggia a Brescia. Rossella Favero, cooperativa AltraCittà La Casa della Memoria dopo quella di Brescia Sembra un pò un miracolo come tante cose che sono nate negli anni in contesti diversi si riuniscano in questo progetto. Per chi non mi conosce, io ho perso il papà ucciso dalle Brigate Rosse nel 1974 qui a Padova. Voglio partire da due persone che nella mia vita sono molto importanti, Benedetta Tobagi e Manlio Milani, che ha perso la moglie nella strage di Piazza della Loggia e, dando vita alla Casa della memoria di Brescia, ha fatto del suo lutto qualche cosa di positivo, ha dato un senso civile a un dolore. Così è nata alcuni anni fa la “Rete degli archivi per non dimenticare”, che si è preoccupata di censire i fondi che erano dislocati nei vari archivi pubblici e privati, a Milano, a Bologna, a Roma. Anche qui è nata l’idea di fondare la Casa della memoria e me ne sono fatta promotrice a Padova, anche per il desiderio di trovare altre persone che avessero vissuto la mia stessa esperienza. Tutte le persone che ho contattato hanno risposto, e oggi ce ne sono qui molte: c’è la famiglia Sabbadin, la famiglia Niedda, la famiglia Albanese… Per il desiderio d’incontrarsi, di conoscersi, di scambiare delle esperienze e di riconoscere negli occhi di qualcun altro la propria sofferenza. Silvia Giralucci, presidente Casa Memoria del Veneto Autori e vittime di reati si incontrano Io credo che la prima sollecitazione ad occuparci del confronto tra autori e vittime di reati ci sia venuta dalle scuole, quando i ragazzi con le loro domande “cattive” hanno cominciato a far riflettere le persone detenute che si confrontavano con loro anche sul tema della responsabilità e delle vittime. Il male del sovraffollamento oggi non è semplicemente che la gente sta stretta in cella. Il male vero è che la carcerazione passata cosi significa non riflettere sulla propria responsabilità. Nel 2008 abbiamo deciso di fare qui in carcere una giornata di studi, “Sto imparando a non odiare”, che è stata per tutti emozionante; c’è stato un silenzio religioso, e nessun altro ha parlato se non le vittime di reato, non hanno parlato i detenuti, solo le vittime. E da lì è nato questo confronto, è nato questo incontro con molte vittime di reato: con Silvia, con Manlio Milani, con Benedetta Tobagi… Io ho visto persone detenute piangere di fronte alla sofferenza, perché la sofferenza vista in faccia aiuta a capire. Ornella Favero, direttore Ristretti Orizzonti Le vittime hanno un volto Non nascondo l’emozione che ho per le persone presenti… Io come detenuto non mi sento in grado di fare un gran discorso, perché comunque chi ha commesso un reato e ha di fronte delle vittime sente sempre la difficoltà di esprimersi. Il confronto con le vittime di reato in redazione è stato importante. In particolare quello con Olga D’Antona. Perché se una persona il cui marito è stato ucciso dai terroristi ti viene a dire che non sa odiare, anche di fronte a persone che hanno commesso omicidi, ti fa pensare in modo diverso, non più pensare solo a te stesso. Questo confronto con le vittime penso che abbia fatto bene a entrambi, a entrambe le parti, perché ci si è riconosciuti. Io credo che anche le vittime vedendo noi come uomini che “hanno un volto”, così come noi abbiamo visto un volto, ci abbiano riconosciuti come persone. Sandro C., redazione di Ristretti Orizzonti Le procedure della digitalizzazione Il lavoro di digitalizzazione dei processi non è sostituire la carta ma valorizzare la documentazione, che verrà conservata presso l’archivio del Tribunale e poi nell’Archivio di Stato, mentre l’utente si relazionerà solamente con il digitale. Per la documentazione abbiamo seguito le linee guida condivise visitando il carcere di Cremona; la documentazione viene digitalizzata ripristinando esattamente lo stesso ordine e lo stesso stato in cui ci viene consegnata. Poi i documenti vengono individuati attraverso dei “segnalibri” e viene fatto un procedimento denominato £OCR”, in pratica il file viene trattato in modo che si possa fare una ricerca per parola. Dal punto di vista pratico di chi si trova a consultare la documentazione questo è molto utile. Ma questo è un laboratorio che non ha una funzione teorica, noi vogliamo che si inserisca attivamente anche nelle realtà economiche e culturali della città, e quindi di volta in volta calibreremo le tecniche in base all’utilizzo del committente. Mirko Romanato, archivista Lavorare nel laboratorio Quando sono stato coinvolto nel progetto mi sono immerso nell’iniziativa. Tutte le settimane ci siamo confrontati con le persone “di fuori” Mirco, Nicola, Marianita, Valentina, Silvia, Rossella. Abbiamo iniziato a digitalizzare utilizzando parte della documentazione già prodotta dal gruppo di rassegna stampa degli anni scorsi. Un archivio di oltre 4.200 raccolte, cartacee: ne sono state digitalizzate con OCR circa 2.200, cioè circa 17.000 fogli. Poco dopo è iniziata la digitalizzazione di documenti dei processi, trasmessici dal Tribunale. Ne abbiamo già digitalizzato migliaia. Ora riteniamo di essere collaudati. Finalmente possiamo progettare e assumere iniziative di digitalizzazione per altri enti. Gian Paolo F., detenuto lavoratore Salvare la memoria salvare i documenti Io mi occupo degli Archivi dello Stato legati alle stragi del terrorismo. Questa giornata evidenzia la collaborazione tra diversi soggetti istituzionali. È nota la sensibilità del Presidente della Repubblica per le vittime delle stragi del terrorismo. Ma lo stesso Presidente è particolarmente sensibile alla storia e alla conservazione delle fonti: è storia italiana, della nostra democrazia. Paola Carucci, Sopr. Archivio storico Quirinale Giustizia: il Regolamento Penitenziario inapplicato spersonalizza e umilia detenuti e famiglie di Fabrizio Ferrante www.epressonline.net, 11 febbraio 2013 Dal 2 febbraio del 2001 è in vigore nell’ordinamento penitenziario un Decreto del Presidente della Repubblica - il 230/2000, emesso da Carlo Azeglio Ciampi - che è forse fra i primi responsabili di tutta una serie di situazioni ambigue e talvolta penalizzanti per detenuti e famiglie. In questo numero segnaliamo alcune situazioni di disagio che negli anni si sono verificate nelle nostre carceri e che sono al centro di numerose rivendicazioni da parte di molti familiari di detenuti, in coda per accedere al carcere di Poggioreale. Le cause dei disagi che andremo ad esaminare - ben inteso, si tratta solo di alcune situazioni fra tantissime criticità - dipendono non solo da un testo che, forse, non tiene presenti le reali condizioni che si vivono nei penitenziari ma anche da alcune applicazioni che lasciano spazio a più di una perplessità. Punto primo: la rappresentanza dei detenuti e degli internati, composta da tre persone. La legge, dunque, prescrive all’interno dei penitenziari una sorta di relazione di tipo “sindacale” fra i dirigenti degli istituti e i suoi “ospiti”. Questo genere di rappresentanza dovrebbe presenziare a tutte le fasi di preparazione del vitto, ad esempio, garantendone una salubrità e una qualità che, a sentire quanto riferito dai familiari dei detenuti, sarebbe ben lungi dall’esserci così come una qualunque forma di interlocuzione coi dirigenti. Sempre in tema di vitto, la legge stabilisce che i prezzi dei beni in vendita presso gli spacci, debbano tenere conto dei prezzi di mercato applicati all’esterno per beni di uguale natura. Anche in questo caso, nonostante la norma parli chiaro, esistono incredibili forbici di prezzo fra i costi applicati nello spaccio di Poggioreale - ma non solo, evidentemente - e quelli praticati negli esercizi commerciali esterni. Questo, sempre denunciato dai parenti, rappresenta uno spread ulteriore che pesa sui bilanci di famiglie in taluni casi ai limiti dell’indigenza. La domanda è, dunque, che fine faranno i proventi extra che - forse indebitamente - vengono ricavati dalla vendita dei beni all’interno del carcere? Di certo questi non vengono impiegati - sempre ammesso che ci siano, specifichiamo - nel miglioramento delle condizioni di vita dei carcerati, nel tempo privati di lavoro, socialità, pulizia e dignità. Situazioni ambigue, che tendono a rendere i penitenziari dei posti avulsi dalle città e rese ancora più irte dall’estrema difficoltà nell’ottenere riscontri da dirigenti che, spesso, rifiutano ogni forma di interlocuzione. A Napoli, l’associazione Radicale “Per la grande Napoli” ha chiesto invano un incontro coi direttori dei penitenziari cittadini, con lo scopo di sollecitare la necessità di garantire l’esercizio di voto per i detenuti. Incontri che non si verificheranno, dato che le strutture sostengono di essere già all’opera in materia, dopo la circolare che ha reso operativa la risoluzione Bernardini, approvata alcune settimane fa in Parlamento. Meglio così, sperando che il dato di affluenza superi quel 10% medio a livello nazionale, che negli anni ha contraddistinto la misera soglia di detenuti votanti nel nostro paese. Altra questione regolamentata dal DpR di cui ci stiamo occupando, è quella dell’accesso di beni in carcere dall’esterno. Questi possono essere solo vestiario, alimentari e generi di prima necessità per un totale di quattro pacchi al mese. Ogni pacco non può pesare oltre cinque chili e non si può riceverne più di uno alla settimana. Inoltre, il detenuto non può accumulare scorte di cibo che superino il proprio fabbisogno di una settimana. Norme che cozzano col buon senso. Ad esempio, come pensare di equiparare il peso dei pacchi per dodici mesi all’anno, senza tenere conto del peso differente che ogni indumento invernale ha, rispetto a uno estivo? Dunque, per ogni maglione che entra, resta fuori un genere alimentare o uno di prima necessità. Di conseguenza, se resta fuori un genere alimentare pagato un euro all’esterno è verosimile che lo stesso bene costi al detenuto presso lo spaccio, una cifra maggiorata rispetto a quella vigente all’esterno. Allo stesso modo, fatte salve le ovvie ragioni di spazio e di deperibilità degli alimenti, risulta bizzarro prevedere un peso standard per tutti stabilendo addirittura un fabbisogno che non tiene presente neanche il fatto che tutti gli individui sono diversi l’uno dall’altro. Ennesima prova di un carcere che spersonalizza, prima ancora di umiliare e degradare cittadini che, una volta usciti, potranno dirsi “laureati” in delinquenza. Non può essere altrimenti, in un luogo che cela verità spesso irraggiungibili se non attraverso qualche lamento che fuoriesce dalle catacombe, da quelle celle buie e sotterranee, impermeabili finanche alle visite ispettive. Poggioreale come paradigma della mala giustizia, anche ascoltando la storia di una signora in coda per la visita settimanale al congiunto. “Sono in coda dalle 7 - ha detto la donna a un militante radicale presente sul posto, intorno alle 8 di venerdì mattina - ma non dalle 7 di stamattina, ma da quelle di ieri sera. Ho passato la notte qui, la mattina devo andare a lavorare presto e non posso fare diversamente per evitare di fare tardi”. Questa donna, questa lavoratrice, non ha commesso alcun reato ma sta ugualmente scontando una pena contraria alla dignità umana. È in buona e nutrita compagnia questa donna, a giudicare dalle scene di ordinaria inciviltà che, ancora ieri, i radicali napoletani hanno avuto modo di verificare coi propri occhi, in una Poggioreale sempre meno umana e sempre più “non luogo”. A proposito del penitenziario napoletano, Rita Bernardini sarà presente martedì, 12 febbraio, in visita ispettiva a Poggioreale. Al termine, intorno alle 13.30, la deputata radicale uscente risponderà alle domande dei giornalisti. Sarà l’occasione per aggiornare l’opinione pubblica sia sulle condizioni generali del carcere che, verosimilmente, sullo stato di avanzamento delle procedure a garanzia dell’esercizio di voto in capo ai detenuti che ne detengono tuttora la facoltà nonostante la carcerazione. Giustizia: tre disegni di legge di iniziativa popolare per rendere le carceri più umane di Laura Coci Il Cittadino, 11 febbraio 2013 “Il Volontariato Penitenziario è pronto a depositare tre Disegni di Legge di iniziativa popolare per rendere le carceri conformi al dettato costituzionale. L’ennesima condanna dell’Italia per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione dei Diritti dell’Uomo conferma quanto affermato da anni dalla Conferenza Nazionale, che ha incessantemente continuato ad attivarsi nella promozione di percorsi di giustizia”. Inizia così il documento deliberato dal Consiglio Nazionale della Cnvg - Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia, che si è riunito a Roma il 18 e 19 gennaio scorso, in rappresentanza di 15.000 volontarie e volontari attivi nel settore della giustizia, delle carceri, dell’esecuzione penale esterna (alla Conferenza Nazionale aderiscono, tra gli altri, Antigone, Libera, Caritas Italiana). E così prosegue. “Sessant’anni fa, chi scrisse la nostra Costituzione aveva indicato la linea da tenere per chi commetteva reati, ma questa linea si è smarrita. Chi è responsabile? Perché ci sono 65.000 persone tenute in spazi dove ce ne possono stare 45.000 con tutte le conseguenze che ne derivano? Chi è responsabile? Perché sono caduti nel vuoto gli appelli del Presidente Napolitano che hanno indicato la situazione delle nostre carceri e Opg come indegna e inaccettabile per una società che si ritiene civile? Perché vengono spesi circa 135 euro al giorno per ogni detenuto per avere una risposta quasi nulla in termini di riabilitazione? Di chi è la responsabilità? Afferma Martin Luther King “Il grande problema non è la malvagità dei disonesti ma l’indifferenza degli onesti”. L’incontro si è svolto a pochi giorni dalla sentenza della Corte Europea di Strasburgo, di condanna all’Italia per le condizioni di sovraffollamento delle carceri, equiparate a “trattamenti inumani e degradanti”. Una condanna (la seconda) che conferma quanto le associazioni attive nella difesa dei diritti delle persone detenute denunciano da tempo: la cancellazione dell’articolo 27 della Costituzione Repubblicana, che al comma 3 recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. 65.752 (più che mai) ristretti in 45.584 posti regolamentari: non c’è limite di tollerabilità che tenga, tant’è che lo stato di emergenza degli istituti di pena italiani, dichiarato dal Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria nel gennaio 2010, non è stato revocato, e non può esserlo. Inascoltato il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, più volte intervenuto in materia con parole forti e necessarie: il degrado strutturale dei penitenziari è “una realtà che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana - fino all’impulso a togliersi la vita - di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo” (29 luglio 2011). E ancora (31 dicembre 2012): “Più che mai dato persistente di inciviltà da sradicare in Italia rimane la realtà angosciosa delle carceri, essendo persino mancata l’adozione finale di una legge che avrebbe potuto almeno alleviarla”. Fino alla dichiarazione sulla sentenza della Corte Europea: “una mortificante conferma della perdurante incapacità del nostro Stato a garantire i diritti elementari dei reclusi in attesa di giudizio e in esecuzione di pena” (8 gennaio 2013). Le carceri italiane rappresentano un orrore anche sotto il profilo economico: costi altissimi (per strutture e personale, non per le persone detenute) a fronte di una recidiva pure altissima (circa il 70%) per chi sconta interamente la pena da internato senza usufruire di misure alternative. “Per questo - prosegue il documento del Consiglio Nazionale della Cngv - il 30 gennaio presenteremo, insieme ad altre organizzazioni, tre disegni di legge ad iniziativa popolare “Tre leggi per la giustizia e i diritti”: Legge 1: Contro la tortura. Legge 2: Per la legalità e il rispetto della Costituzione nelle carceri. Legge 3: Per la modifica alla legge sulle droghe”. Pur avendo aderito alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, l’Italia non ha una legge organica in materia: la tortura - procurare intenzionalmente sofferenza e dolore, fisico e psichico - offende la dignità umana, umilia e degrada l’altro in condizione di debolezza. I “trattamenti inumani e degradanti” inflitti agli internati (nelle carceri, ultima istituzione totale in essere nel mondo civile) non sono altro che tortura. Convivere in sei in una cella di undici metri quadrati, a prescindere dalle buone intenzioni e delle dichiarazioni rassicuranti dello staff cui le persone ristrette sono affidate, è tortura. Lo ha stabilito (ormai due volte, a vergogna dell’Italia) la Corte Europea di Strasburgo: ciascun detenuto ha diritto a non meno di tre metri quadrati di spazio nella propria cella, pur condivisa con altri (le bovine da latte ne hanno il doppio). Condizione che è inusuale in Italia: nella Casa circondariale di Lodi - come mostra un recente documentario girato all’interno delle mura di via Cagnola - i metri quadrati pro capite sono anche meno di due! Per questo le carceri italiane sono un luogo di illegalità: è illegale, infatti, da parte dello Stato, permettere che cittadini privati della facoltà di disporre di sé siano sottoposti a “trattamenti inumani e degradanti” e risultino privi delle condizioni minime per una vita dignitosa. Al sovraffollamento si può ragionevolmente ovviare anche attraverso la revisione di leggi “criminogene”, che hanno trasformato in reati comportamenti sanzionabili ma non necessariamente punibili con il carcere: la tossicodipendenza per prima. Sono infatti oltre un terzo del totale le persone detenute per reati connessi all’uso di sostanze stupefacenti: giovani uomini e donne che avrebbero bisogno di cure e terapie, non di celle e prigioni. Nel documento, infine, il Consiglio Nazionale della Cnvg assume l’impegno di promuovere l’esercizio del voto per le persone ristrette: detenuti sì, ma prima di tutto cittadini, non solo responsabili di doveri ma anche titolari di diritti. Giustizia: e se lo Stato dovesse pagare 1,12 miliardi di euro ai detenuti? di Daniele Biella Vita, 11 febbraio 2013 La Corte europea dei diritti dell'uomo condanna l'Italia a risarcire in media 17mila euro a sette ristretti che hanno denunciato le conseguenze del sovraffollamento. "Se entro un anno lo Stato non trova alternative, tutte le 66mila persone recluse potrebbero fare causa e vincerla", avverte l'avvocato Osti, specialista in materia. Un cataclisma potrebbe abbattersi sulle casse della giustizia italiana ma nessuno sembra preoccuparsene, almeno non pubblicamente. Stiamo parlando di possibili risarcimenti di migliaia di euro a testa che lo Stato dovrebbe concedere a chi, dei 66mila detenuti italiani, facesse causa contro la massima istituzione italiana per le condizioni inadeguate di trattamento detentivo. Ovvero, per il sovraffollamento (la capienza regolamentare è di 46mila posti). Attenzione: non è una lontana possibilità. I primi sette che ci hanno già provato hanno già vinto, perlomeno a livello europeo: “ciascuno dovrebbe ricevere in media 17mila euro, così ha sentenziato la corte europea dei diritti dell’uomo lo scorso 8 gennaio 2013 nel caso Torreggiani e altri contro Italia”, spiega Alessandra Osti, avvocato e ricercatrice presso l’Università degli studi di Milano, specializzata in giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Lo scenario è da brividi: “ci sono altre centinaia di casi pendenti, ma se tutti facessero causa si parla di cifre abnormi”. Il conto è presto fatto: 1,12 miliardi di euro. Un miliardo, proprio così. Perché la Corte europea ha condannato lo Stato italiano? Per violazione strutturale dell’articolo 3 della Convenzione europea in termini di trattamento dei detenuti. È una sentenza pilota, quindi non su un singolo caso ma che segue una causa del 2009, quando l’Italia era stata condannata per un simile motivo a trovare misure per fermare il fenomeno del sovraffollamento. Allora era arrivata dal governo la proposta di nuove carceri. Ma alla luce di questa nuova sentenza, tali intenzioni sono risultate insufficienti così come i rimedi ‘interni’, ovvero le norme che potrebbero mettere in atto i giudici di sorveglianza. A questo punto la Corte chiede allo Stato italiano di provvedere entro un anno a trovare strade alternative per eliminare tale violazione strutturale. Quali scenari se l’Italia non trova soluzioni? A livello teorico si potrebbe arrivare all’esclusione dal Consiglio europeo, considerando che c’è un precedente di qualche decennio fa riguardante Grecia e Cipro. È più probabile invece che le sanzioni pecuniarie vengano estese a tutta la popolazione carceraria che denunci le proprie condizioni, e di sicuro lo Stato sarebbe condannato in tutti i casi pendenti oltre ai sette della causa Torreggiani, che già sono qualche centinaio. Che vie d’uscita potrebbero esserci? La strada della costruzione di nuove strutture è ancora percorribile, così come la riparazione di situazioni collegate al sovraffollamento e che potrebbero ridurlo. Un’altra possibilità che la Corte apprezzerebbe è la concessione di misure diverse alla detenzione, alternative alla pena dietro le sbarre. La sentenza europea ha come effetto l’aumento della pressione a livello politico italiano, per risolvere finalmente il problema strutturale del sovraffollamento. Giustizia: murare vivi gli “innocenti” negli Opg… un paradosso per i giudici di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 11 febbraio 2013 C’è soltanto una decisione che, più di dover infliggere l’ergastolo a un colpevole, schiaccia di responsabilità un giudice: ed è dover mandare un processato all’Ospedale Psichiatrico Giudiziario (Opg). Perché “è una misura di sicurezza che esce dai binari coscienza - responsabilità - sanzione”, ragiona il procuratore aggiunto di Messina, Sebastiano Ardita, fino all’anno scorso direttore generale dei detenuti al Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) con competenza proprio su questo settore; e perché potenzialmente può non aver mai fine, sebbene per definizione il destinatario non sia imputabile per ciò che ha commesso. In Opg, infatti, finisce la persona che il giudice ritenga abbia commesso un delitto doloso con pena superiore nel massimo a due anni, ma che una perizia psichiatrica dichiari “totalmente incapace di intendere e di volere” (cioè patologicamente non in grado di percepire il senso delle proprie azioni e di controllare i propri impulsi) e che contemporaneamente sia valutato “socialmente pericoloso”, concetto non medico - legale ma giuridico, che attiene alla probabilità che il soggetto commetta nuovi reati. Quando si trova di fronte a queste condizioni, il giudice è costretto da un lato ad assolvere, tecnicamente per difetto di imputabilità, e dall’altro lato a disporre per due anni la misura di sicurezza dell’Ospedale psichiatrico giudiziario o anche (solo dal 2004 dopo una sentenza della Consulta) della meno pesante “libertà vigilata” accompagnata dalla prescrizione di un rapporto continuativo con il servizio psichiatrico territoriale. La misura è soggetta a essere periodicamente rivista ma, finché lo psichiatra ravvisa che permanga la “pericolosità sociale”, di rinnovo in rinnovo il termine può non avere mai fine. È l’ibrido alla base di quello che per Ardita è “un ricorrente equivoco: l’Ospedale psichiatrico giudiziario è “ospedale” nel senso di “ospizio”, cioè non di struttura sanitaria ma di luogo di accoglienza, dove, nel contenere una pericolosità sociale, con la riforma penitenziaria si è rafforzato il trattamento psichiatrico. Un posto dove si è ristretti per il fatto di essere pericolosi, non per il fatto che si è malati bisognosi di cure”. Un posto, si spinge a provocare Ardita, “che a volte non può avere alternative. In base alla mia esperienza, mi sento di dire che ci sono casi nei quali, per un malato di mente socialmente pericoloso, la vita in famiglia non è di miglior qualità rispetto a quella possibile in alcuni reparti di Opg nei quali è poco nota l’abnegazione del personale”. E si intuisce che Ardita, “nel bilanciamento tra il valore della dignità umana del soggetto ristretto e il valore della vita altrui che egli può mettere in pericolo”, sia ora pessimista nei confronti di “una riforma che non disegna il contenuto delle nuove strutture” destinate a superare gli Opg, e “non indica quale debba essere lo standard (anche in termini di risorse economiche) dei servizi di assistenza”. Giustizia: la “Banca del Dna” dentro Rebibbia, ancora inattiva per mancanza di personale Il Tirreno, 11 febbraio 2013 In teoria i Carabinieri (ma anche le altre forze di polizia) potrebbero arrestare centinaia di criminali. In pratica non possono: hanno il loro Dna, ma non hanno un volto, un’identità alla quale associarlo. In Italia, infatti, dal 2009, a fini investigativi, esiste (per legge) la banca del Dna, ma in concreto non è mai stato creato l’archivio dove mettere i campioni prelevati a condannati e arrestati. E così, spesso, è impossibile effettuare i riscontri con reperti individuati sulle scene dei crimini, ammette il maggiore Andrea Berti che dal 2010 guida il laboratorio di biologia dei Ris di Roma. E che fa parte dei comitati chiamati a dare attuazione alla legge del 2009. Maggiore Berti, perché ancora non esiste la banca del Dna in Italia? “Perché non è ancora stato attivato il laboratorio per l’esame dei campioni tampone di saliva) da prelevare ai soggetti previsti dalla legge”. Perché non c’è il laboratorio? “Il laboratorio è stato consegnato materialmente a dicembre. Si trova all’interno del complesso di Rebibbia, a Roma e a gestirlo, per legge, dovrà essere il Dipartimento della polizia penitenziaria. Ora, però, deve essere assunto il personale per farlo funzionare: credo che debbano essere ancora banditi i concorsi. Perciò penso che prima di un anno non saremo pronti”. Come dovrebbe funzionare questa banca dati? “La Polizia Penitenziaria effettuerà i test sui campioni di Dna prelevati da arrestati, persone in carcere e così via. Poi inserirà i risultati in un archivio accessibile alle forze di polizia. Così noi potremo comparare i risultati dei test effettuati sul Dna reperito sulle scene dei crimini e che, per ora, non risultano risolti anche se hanno dato riscontri positivi”. Che cosa vuol dire, scusi? “Che abbiamo un risultato, ma niente con cui confrontarlo. Quando ci sarà la banca dati è probabile che migliaia di casi si risolvano in fretta (anche se a seconda del reato rischiano la prescrizione, ndr)”. Perché? “Perché per alcuni reati come i furti e le rapine è frequente la recidiva. E spesso chi li commette prima o poi in carcere finisce. Con la banca dati, quindi, il Dna verrà codificato e in caso di reato potremo avere un riscontro”. Soprattutto considerando che in carcere oggi ci sono circa 65mila persone e che gli arresti in media in Italia sono 155mila l’anno. Giustizia: Tribunale Militare di Sorveglianza; 15 addetti e 3 magistrati per 1 solo detenuto Corriere della Sera, 11 febbraio 2013 Sulla soglia dell’ultimo carcere militare d’Italia, venerdì c’era un uomo distinto con una valigia in mano. Era un condannato e stava varcando quella soglia ignorando forse il primato che andava a stabilire: unico detenuto nella Penisola per reati militari. Il primo recluso dopo che dall’autunno scorso fra le mura del penitenziario campano di Santa Maria Capua Vetere non se n’è visto nemmeno uno. Proprio così, per mesi l’Italia non ha avuto un solo carcerato da codice penale militare (ce ne sono altri 70 ma per reati ordinari). Il che, se da una parte viene indicato come un record di civiltà oltre che storico, dall’altra pone un serio problema di costi. Su questi rari detenuti, infatti, lavora da anni un’intera struttura pubblica: il Tribunale Militare di Sorveglianza, composto da tre magistrati e quindici dipendenti fra civili e militari. Per l’ufficio stipendi del ministero il conteggio è presto fatto: circa un milione di euro l’anno di sole retribuzioni. Magistrati, cancellieri e addetti alle segreterie non fanno solo quello ma la funzione prioritaria, va da sé, è la sorveglianza dei detenuti. “Ne abbiamo anche 2 ai domiciliari e su altre 5 persone stiamo decidendo su eventuali misure alternative alla detenzione. Nel 2012 e 2013 abbiamo seguito 50 posizioni”, precisano da palazzo Cesi, la cinquecentesca sede capitolina del Tribunale militare. Insomma, il problema c’è, soprattutto ai tempi della spending review. Ed è per questa ragione che anche un magistrato di lungo corso come Antonino Intelisano, procuratore generale militare alla Corte di Cassazione, lo dice chiaro: “Quel tribunale io lo taglierei per insignificanza statistica dei dati. Della questione si era occupato anche il nostro Csm che aveva anche sollecitato in tal senso la politica. D’altra parte se si dovessero applicare i nuovi parametri del ministero della Giustizia i conti saltano”. Per forza: l’indicatore di efficienza è 382.191 abitanti per tribunale. Ebbene, la giustizia militare di tribunali ne ha tre (Verona, Roma e Napoli) e giudica su circa 310 mila militari. Se il criterio fosse dunque quello del bacino servito, il legislatore dovrebbe eliminarli in blocco. Anche l’ex magistrato di Sorveglianza Isacco Giorgio Giustiniani, oggi gip, allarga le braccia: “I numeri sono ridotti, bisogna però trovare una soluzione che difenda le professionalità”. E pure Maurizio Block del Csm militare: “In queste condizioni siamo inutili e dispendiosi: o ci razionalizzano o prendiamo atto che non serviamo più a nulla e aboliamo tutto con una riforma costituzionale”. Domande: perché la giustizia militare si è così svuotata? Per quale ragione la politica non fa nulla? La ragione fondamentale del crollo dell’attività (dalle oltre 1.500 sentenze annuali del periodo 2000 - 2004 si è passati alle 206 del 2011) viene indicata nel venir meno dal 2005 della leva obbligatoria nelle Forze Armate, che ha portato a un drastico ridimensionamento dei reati militari più diffusi come la diserzione e la mancanza alla chiamata. Non hanno contribuito a migliorare le cose il trasferimento di competenze alle altre autorità giudiziarie e l’anacronismo del codice, datato 1941, che prevede illeciti tipo “rivolta o ammutinamento”, insubordinazione, disobbedienza. “Anacronismo che si combina all’effetto deterrente sulle denunce dovuto alla distanza dei tribunali dalle caserme, dopo che in Italia sono rimaste solo tre procure”, spiega Block. Nel 2008 la giustizia “a stellette” ha infatti subito un primo taglio che ha portato le sedi giudiziarie da 9 a 3 e i magistrati da 103 a 60. “Ma il calo del lavoro è andato oltre le previsioni”. Fiori all’occhiello di questa giustizia sono i processi nati dal ritrovamento a palazzo Cesi, nel 1994, del cosiddetto “armadio della vergogna” contenente i fascicoli sulle stragi nazifasciste. Fascicoli che hanno portato a condanne eccellenti di ex Ss, come Erich Priebke e Michael Seifert. Priebke a luglio compie cent’anni, è stato condannato all’ergastolo nel marzo 1998 per l’eccidio delle Fosse Ardeatine e da 14 anni si trova agli arresti domiciliari “dove rimarrà fin che vive - prevede l’avvocato Paolo Giacchini, che difende e ospita Priebke nella sua casa romana. Direi che la sorveglianza per molti anni ha lavorato solo per lui”. Seifert è invece il caporale nazista passato alle cronache giudiziarie come “il boia di Bolzano” per le atrocità commesse nel 1944 in un campo di transito altoatesino. Condannato al carcere a vita nel 2000, è stato estradato e trasferito in una cella di Santa Maria Capua Vetere nel 2008. Detenzione breve, la sua: il 6 novembre successivo, a 86 anni, è morto. Quali soluzioni, dunque, per la giustizia militare rimasta senza detenuti? “Io farei una riforma alla francese, con la creazione di sezioni specializzate nell’ambito della giustizia ordinaria”, propone Intelisano. “Estendiamo le competenze ai reati comuni commessi da militari”, preferisce Giustiniani. Nel frattempo, a vigilare sullo sfortunatissimo condannato di Santa Maria Capua a Vetere, un sottufficiale dell’aeronautica che deve scontare dieci mesi per forzata consegna aggravata, cioè per essere entrato in caserma in modo non proprio ortodosso, c’è un intero tribunale. Giustizia: Pannella; Napolitano primo responsabile situazione carceri, Costituzione violata Adnkronos, 11 febbraio 2013 “Della situazione delle carceri, il Presidente Napolitano è il primo responsabile, perché lui è il massimo magistrato della Repubblica italiana, e lui in 7 anni ha, per missione, violato la Costituzione”. Lo ha detto Marco Pannella, parlando con i giornalisti a Firenze, a margine del congresso dell’associazione radicale Andrea Tamburi. “Noi, come Italia, siamo stati condannati dal mondo sui diritti umani - ha proseguito Pannella - e lui (Napolitano, ndr) non ha fatto un solo messaggio, che la Costituzione lo obbliga a fare come tutore del diritto, non come arbitro, alle Camere, al Parlamento, offendendo il Parlamento molto più dei fascistucoli che lo fanno così, ogni giorno. Da 7 anni, come negli anni 30, tutti i giorni parla direttamente al popolo bue - ha concluso il leader radicale - che non è più il popolo sovrano”. Giustizia: Ilaria Cucchi (Rc); caro Giovanardi… in Italia di carcere si può anche morire di Marcello Radighieri Gazzetta di Modena, 11 febbraio 2013 Non si placa la polemica fra il senatore modenese Carlo Giovanardi e Ilaria Cucchi, candidata alla Camera in Emilia Romagna per Rivoluzione Civile, inerente alla morte del fratello di quest’ultima, Stefano, avvenuta in circostanze ancora non chiarite dalla giustizia mentre il geometra 31enne era in custodia cautelare per detenzione di stupefacenti. L’esponente Pdl, dopo aver accusato Ilaria di “sfruttare la tragedia del fratello, deceduto perché anoressico, drogato e sieropositivo, per interessi personali” è tornato sull’argomento ieri mattina, in occasione del convegno Pdl dedicato al terremoto. “Considero inaccettabili i suoi attacchi alla magistratura, alla Corte D’Assise e ai periti che stanno cercando la verità, sulla base di una realtà che lei ha assunto come assoluta”. Ma il senatore modenese non ha mancato di rimarcare il suo giudizio su Stefano, considerato “una vittima, ma non un eroe. In realtà sono molto più comprensivo io nei confronti di Cucchi che la sorella, che sulla morte del fratello vuole costruire una battaglia politica”. Nessun passo indietro, insomma. Anzi; nuove accuse alla Cucchi che ieri pomeriggio, trovandosi anch’ella a Modena per un incontro elettorale, non ha potuto fare a meno di tornare sull’argomento: “Giovanardi è stato presente nella nostra vicenda personale fin dal primo minuto, fornendo la sua verità e indicando la direzione del processo. Mi chiedo ora per quale motivo il senatore, che sembra avere così tanto a cuore i magistrati, non li difenda anche quando essi vengono attaccati dal suo datore di lavoro”, chiaro riferimento alle ripetute polemiche giudiziarie di Silvio Berlusconi. Ma nell’ultima frase di Giovanardi, anche se letta in chiave opposta, la Cucchi sembra ritrovarsi: “In effetti la mia è proprio una battaglia. Una battaglia che porto avanti da tre anni per il riconoscimento dei diritti dei più deboli, che in Italia spesso vengono calpestati”. Specie nelle carceri, vere e proprie “realtà terribili”. “In questo tempo ho capito che di carcere si poteva morire”. Una campagna, quella della Cucchi, che punta all’approvazione di una legge sulla tortura, di cui il Diritto italiano è tutt’ora sprovvisto, nonostante le ammonizioni recentemente arrivate dall’Onu. Ma nel campionario di Rivoluzione Civile è previste anche una lotta serrata alla corruzione e al malaffare. Tematica di cui si fa promotore Arcangelo Ferri, giornalista, anch’egli candidato alla Camera, attraverso una proposta di legge per il recupero dei beni confiscati all’impero mafioso e alla grossa evasione fiscale. Un meccanismo che, attraverso l’istituzione di un Alto commissariato, dovrebbe portare all’impiego dei capitali così ottenuto per finalità pubbliche e sociali. Obiettivi ambiziosi, quelli della lista di Rivoluzione Civile. Lista che non sembra aver paura della soglia del 4% e che non ne vuole sapere del pressing da parte di Italia Bene Comune sul cosiddetto “voto utile”. L’ultima uscita, in questo senso, è stata quella del sindaco di Firenze, Matteo Renzi, che accusa Ingroia di “essere interessato a far perdere il Pd”. La risposta dei diretti interessati è però perentoria: “Pensiamo che il voto utile sia quello dato a chi ci rappresenta davvero - spiegano in coro la Cucchi e Ferri. In ogni caso il nostro candidato, Ingroia, ha provato per settimane a contattare Bersani in vista di una collaborazione, senza ricevere risposta. Se poi aggiungiamo che l’accordo fra Italia Bene Comune e Scelta Civica, espressione della destra dei grandi interessi e della finanza, è fatto ormai da mesi, certe accuse diventano imbarazzanti”. Giustizia: Iacolino (Partito Popolare Europeo); carceri nell’agenda del nuovo parlamento Italpress, 11 febbraio 2013 “I dati drammatici sul sovraffollamento delle carceri - dovuto alla presenza di molti detenuti provenienti da Paesi terzi ed altri in attesa di giudizio (28 mila pari al 42% della popolazione carceraria) - danno la misura di una vera emergenza nazionale che riguarda una giustizia, quella italiana, lenta ed inefficace che andrebbe radicalmente riformata per garantire interventi urgenti a tutela della dignità della persona ed il principio di non colpevolezza delle persone private della libertà, prima della sentenza definitiva di condanna”. Lo afferma in una nota Salvatore Iacolino (Grande Sud - Ppe), relatore permanente della Commissione Crim (criminalità organizzata, corruzione e riciclaggio) del Parlamento Europeo e candidato al Senato in Sicilia con la lista Grande Sud. “Vi è un’anomalia tutta italiana di magistrati candidati alle politiche, dopo aver ricoperto incarichi di rilievo, che per altro non favorisce una categoria che deve assicurare indipendenza e terzietà nell’esercizio delle proprie funzioni. La riforma della Giustizia - continua Iacolino - viene avvertita dai cittadini come una indifferibile necessità a fronte di un quadro generale che desta forti preoccupazioni in riferimento ai 9 milioni di cause arretrate (7 anni per un processo civile, cinque per uno penale) che rallentano l’economia e penalizzano i cittadini e gli imprenditori onesti. L’intasamento del sistema giudiziario - conclude Iacolino - impone una Riforma complessiva della giustizia prevedendo, altresì, regole precise e rigorose sulla possibilità per i magistrati di candidarsi alle elezioni politiche o di ricoprire incarichi di governo”. Saravalle (Fare): depenalizzare i micro reati “Non ha senso che il 40% dei detenuti sia in carcerazione preventiva”. Lo dice all’Adnkronos Alberto Saravalle, candidato di Fare per fermare il declino alla Camera lombarda, a margine del convegno “Anti Meeting” tenuto oggi a Milano. “Si può ricorrere al braccialetto elettronico, mandare le persone a lavorare, depenalizzare alcuni micro reati”. Per quanto riguarda la condizione dei penitenziari, Saravalle propone di “costruire nuove carceri, anche tramite project - financing privato, ed investire in quelle già esistenti per renderle più umane, ad esempio inserendovi scuole ed università”. Saravalle sottolinea poi che “l’Unione Europea ci ha condannati per l’ennesima volta poche settimane fa proprio per l’inadeguatezza delle nostre carceri”. Borghezio (Lega): Napolitano si commuova per vittime reati “Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano si è commosso per la condizione dei detenuti nelle carceri italiane, ma farebbe bene a commuoversi anche per le vittime dei reati”. Lo ha detto l’europarlamentare leghista Mario Borghezio durante un comizio oggi a Pisa davanti a un gruppo di simpatizzanti della Lega Nord. Borghezio ha anche ringraziato le forze dell’ordine, presenti con un massiccio schieramento, “che ci consentono di svolgere iniziative elettorali come questa che diversamente non sarebbero state possibili per colpa dei facinorosi di sinistra che, come accadde a Livorno, farebbero di tutto per impedirmi di parlare”. Il comizio è durato pochi minuti durante i quali l’europarlamentare leghista è stato pesantemente contestato da alcune decine di manifestanti della sinistra radicale e dei gruppi antagonisti. Marazziti (Sant’Egidio): la situazione carceraria è esplosiva “La situazione carceraria, nel Lazio è esplosiva per via del gravissimo sovraffollamento: 66 mila detenuti per 48 mila posti”. Lo ha detto il portavoce della Comunità di Sant’Egidio Mario Marazziti, capolista a Roma per Scelta Civica alla Camera, a margine di una visita al carcere di Civitavecchia. “I fondi sono al lumicino, basti pensare che oggi per dare il vitto ai detenuti ci sono solo 3,5 euro al giorno pro capite. Il prossimo Parlamento - ha detto ancora Marazziti - dovrà affrontare con decisione il nodo dell’amnistia: vedo che anche Berlusconi è d’accordo. Ma bisognerà anche cambiare tre leggi: la Bossi-Fini sull’immigrazione, la Fini-Giovanardi sulla tossicodipendenza e la Cirielli sulla recidività”. Giustizia: Papa (Pdl); continuerò a occuparmi dei detenuti, domani visita carcere Brindisi 9Colonne, 11 febbraio 2013 Martedì 12 febbraio il deputato del Pdl Alfonso Papa e il radicale Sergio D’Elia, segretario dell’associazione “Nessuno tocchi Caino”, si recheranno in visita presso la Casa circondariale di Brindisi. È prevista una conferenza stampa alle ore 12 all’uscita dal carcere. “Mi hanno chiesto se, una volta concluso il mandato parlamentare, continuerò a occuparmi di giustizia e carceri - afferma Papa. La risposta è sì, continuerò con ancora maggiore determinazione. Il Parlamento, che si profila all’orizzonte, sarà il ricettacolo di istinti giustizialisti e di moralismi senza morale. I Radicali rimarranno probabilmente fuori, e con loro resteranno fuori le battaglie per i diritti degli ultimi, di cui è costantemente violata la dignità in celle immonde deplorate dalle giurisdizioni sovranazionali. Io non intendo gettare la spugna”. Sardegna: intervista a Maria Grazia Caligaris (Sdr)... su vita e miserie dell’isola-prigione di Giorgio Pisano L’Unione Sarda, 11 febbraio 2013 Nelle prigioni della Sardegna sono rinchiuse circa duemila persone. Sulla carta c’è posto per almeno un altro centinaio. Ma allora che senso ha parlare di sovraffollamento, di carceri che scoppiano?, che senso ha farci vedere centinaia di mani sventolare fazzoletti bianchi oltre le sbarre? Il Dipartimento di amministrazione penitenziaria (Dap, braccio operativo del ministero di Giustizia) conteggia ancora sezioni carcerarie chiuse da anni. Ammuffite. Per ragioni burocratiche (e inconsapevolmente ciniche) sono in teoria spazi considerati liberi, pronti ad accogliere nuovi detenuti. A questa filosofia si ispira sicuramente il fatto che i nuovi penitenziari in costruzione hanno una sterminata disponibilità dei posti. Significa che il nostro governo è pessimista sul futuro, che piccoli italiani crescono sempre peggiori e malandrini? Negli anni 70, davanti all’ennesimo invio di super malavitosi dalla penisola, il procuratore della Repubblica Peppino Villa Santa tuonò sui giornali di tutta Italia: “Siamo un’isola pattumiera”. Per quella e altre ragioni non si sbagliava. Maria Grazia Caligaris, 55 anni, unica contro voce istituzionale su questo terreno minato, addolcisce il concetto affermando che “siamo un’isola - prigione”. Insegnante di italiano e storia in una scuola superiore, pubblicista, è presidente di un’associazione che si chiama Socialismo diritti riforme. Spiega (con una frase illuminante) che raccoglie volontari “in cerca di cittadini che intendano ripristinare il diritto anziché il favore”. Tenuto conto del costume e delle abitudini patrie, il programma è palesemente eversivo. “I diritti sono stati immolati a vantaggio del favore e noi ci battiamo contro questa logica”. Per una legislatura (dal 2004 al 2009), Maria Grazia Caligaris è stata consigliere regionale. “Esperienza che mi ha provato: ho faticato molto per essere sempre all’altezza del ruolo”. Bella la vita da onorevole? “Per alcuni certamente sì”. Per lei sicuramente meno, visto che “qui ed ora” non tornerebbe tra i banchi del Consiglio regionale. Preferisce occuparsi degli ultimi degli ultimi dopo una folgorazione che risale a molti anni fa. Faceva la giornalista per l’agenzia Italia quando l’hanno mandata a seguire una commissione parlamentare in tour tra le sbarre. “Se sei una persona normale, sentire semplicemente il cancello automatico chiudersi alle tue spalle ti dà un brivido”. Brivido che si è convertito in orrore nel vedere poi celle minuscole e inadeguate, umidità, poca luce, bambini imprigionati assieme alle mamme nella sezione femminile. Di prigioni ha continuato a occuparsi da consigliere regionale e, chiusa la legislatura, ha mantenuto la barra sulla stessa rotta. Sostiene che quando si parla di diritti negati bisogna cominciare dai piani bassi, da quei sottani della giustizia dove si agitano migliaia di disperati. Inclusi quelli che non ce la fanno e preferiscono impiccarsi. Quanti detenuti sono in attesa di giudizio? “Circa il 40 per cento dell’intera popolazione carceraria, che supera in Italia i sessantamila nomi. Quelli che non hanno mai incrociato un giudice di Tribunale sono il 15 per cento, altri aspettano un verdetto d’Appello o di Cassazione”. Perché in carcere può entrare un prete cattolico e non uno d’un’altra fede? “In passato gran parte dei reclusi era cattolica e questo ha favorito l’accesso dei nostri cappellani rispetto ad altri religiosi. Oggi non è più così: il prete ha poche anime di cui occuparsi, adesso”. D’accordo, ma perché uno sì e gli altri no? “Questo attiene all’ambigua concezione della laicità dello Stato. Comunque da qualche tempo a questa parte sono in corso iniziative per aprirsi a tutte le fedi. Ci vorrà tempo ma siamo sulla strada giusta”. Buoncammino è considerato tra i peggiori d’Italia… “Vero, a patto che si chiarisca un concetto: uno dei peggiori dal punto di vista strutturale. È un edificio ottocentesco con tutto quello che questo comporta. Sono stati fatti negli anni ripetuti adattamenti interni ma è chiaro che può andare avanti ancora per poco”. E il nuovo penitenziario? “Quello che sta sorgendo nella landa desolata di Uta? Non è migliore. Buoncammino ha una capienza massima di 380 posti e ospita (attualmente) 530 persone. Uta, invece, è stato costruito per 500 reclusi. Capito perché?” No. “Significa che stanno facendo crescere la ricettività penitenziaria anziché ridurla. La Sardegna sta diventando pian piano un’isola-prigione. A Oristano, il vecchio carcere di piazza Mannu può ospitare al massimo 120 persone. Il nuovo, a Massama, 250. Stessa logica per l’istituto che sorgerà a Bancali, Sassari”. Il direttore di Buoncammino dice che per otto reclusi su dieci la galera è certezza di vitto e alloggio. “Non sbaglia. È una verità che di solito viene nascosta: nelle carceri sarde c’è un gravissimo disagio sociale. Dei duemila detenuti 900 sono stranieri (90 solo a Buoncammino): chi li aspetta fuori?, la famiglia che non hanno?” Quelli locali invece stanno bene? “Nient’affatto ma vivono una condizione diversa. Ho conosciuto detenuti che, appena scarcerati, si sono fatti riarrestare perché non sapevano dove andare. Altri, poverissimi, non hanno alternative alla cella”. Meglio il carcere della strada? “Non è sempre vero, ma spesso purtroppo è così. Pensate ai tossicodipendenti rifiutati dalle famiglie...”. Bambini in cella? “C’è una bimbetta di 18 mesi a Cagliari, due a Sassari. A Milano funziona un istituto a custodia attenuata (Icam), destinato proprio a situazioni come queste”. E in Sardegna? “Secondo il ministero non c’è il tanto per creare questo genere di struttura. Puntano al risparmio. Perché non utilizzare, allora, una casa protetta? Ha costi infinitamente più bassi e andrebbe benissimo”. Casi limite di sovraffollamento… “Quello di Buoncammino è spaventoso. Ho visto sei detenuti in una cella al massimo per quattro. Sa qual è la conseguenza? Devono fare i turni per stare in piedi. In quello stesso istituto c’è un centro diagnostico - terapeutico che ha venti posti - letto e quaranta ricoverati”. Come fanno? “Hanno sistemato i letti a castello. Mai visto un ospedale coi letti a castello, vero?” Violenza… “C’è, inutile far finta che non sia così. A cominciare dagli autolesionisti, gente che si martirizza con le lamette, che aspira gas per stordirsi, che ingoia cucchiai e forchette. Ovvio che la violenza covi sotto la cenere: succede che non si vada d’accordo in una famiglia dove ognuno ha la sua stanza, figuriamoci in una cella dove si vive uno addosso all’altro”. Le risultano squadracce punitive di secondini? “Beh, a Sassari c’è stato qualcosa del genere. Non ho visto coi miei occhi, e dunque parlo per sentito dire, ma ritengo possa accadere. Una cosa è certa: non tutti gli agenti di polizia penitenziaria sono preparati e aggiornati professionalmente. Il fatto stesso che ci sia la cella liscia...”. Cos’è la cella liscia? “Una stanza dove ci sono soltanto le pareti e nessun arredo. In teoria è destinata agli autolesionisti, in realtà si mormora sia un luogo di punizione”. Quali sono le regole per sopravvivere in carcere? “Primo, farsi i fatti propri. Regola ferrea: solidarizzare il più possibile ma senza invasioni di campo. Secondo: essere estremamente rispettosi verso la polizia penitenziaria e le altre figure di riferimento”. Ci sono capetti che gestiscono traffici o altro? “La questione importante è il sopravvitto. Sto parlando cioè di quelli che possono permettersi di acquistare allo spaccio interno cibo, sigarette, caffè. Ovvio che rispetto agli altri, costretti ad accontentarsi di quello che passa il convento, assumono inevitabilmente un certo peso”. Curiosità: perché in galera ci finiscono solo i poveri? “Perché non possono permettersi un bravo legale ma debbono farsi difendere da un avvocato d’ufficio. Essere poveri è già una condanna in sé perché dimezza in partenza qualunque diritto”. Mafiosi in arrivo: stiamo diventando la pattumiera d’Italia? “In Sardegna avremo in tutto circa 180 detenuti col 41 bis, divisi tra Cagliari e Sassari. Altri invece sono quelli in regime di Alta Sicurezza. Non bisogna confondere le due cose”. Siamo italiani, perché mai dovremmo rifiutare reclusi di altre regioni? “Per il principio della territorialità della pena. Lo dice la legge, non io. Stare vicino alla propria famiglia fa parte di quella che il ministero chiama rieducazione. Allora mi domando: l’arrivo in Sardegna d’un certo tipo di detenuti è l’eccezione o la regola?”. Risponda lei… “Io so che un detenuto, diciamo così, cattivo può essere sbattuto in un penitenziario da estrema periferia; uno buono invece ha più facilità di avvicinamento. Quindi: qual è la regola, qual è l’eccezione?” A proposito di eccezioni: l’Asinara tornerà prigione? “Credo e spero di no. L’isola ha una vocazione turistica che una casa di reclusione, comunque intesa e comunque collocata, finirebbe per avvilire e cancellare”. Esiste un carcere che incarni la decenza? “A Bollate, caso unico in Italia. Ospita detenuti che hanno lunghe pene da scontare, che sono sani, che non danno fastidio, che hanno i familiari nelle vicinanze. Fanno corsi professionali per maniscalchi e altro, ci sono perfino i cavalli”. Secondo lei, la mafia ha bisogno d’una galera per infiltrarsi in Sardegna? “Certo che no. Però: la Sicilia ha 27 istituti di pena, la Sardegna 12. Dov’è il rispetto del principio di territorialità? A Massama i detenuti avranno la doccia in cella: gran cosa, ma che c’entra con la rieducazione?” Qualcuno sostiene che la rieducazione non esiste, in cella si può solo peggiorare… “Questo è sicuramente probabile. Gli educatori sono ridotti all’osso, non ci sono insegnanti, non ci sono psicologi. Al detenuto invece bisogna offrire occasioni per migliorare e migliorarsi. Altrimenti sopravvivere diventa difficile”. C’è un episodio indimenticabile nella sua storia di militante? “Più d’uno e tutti riguardano il rispetto della dignità umana. Per esempio quella di un detenuto che, dovendo fare 42 sedute di radioterapia, è stato accompagnato ogni giorno in ospedale e subito dopo riportato in cella. Manco fosse stato un pacco. Comunque c’è anche di peggio”. Per esempio? “Non si può autorizzare un detenuto ad andare ai funerali del padre e poi farlo assistere alla cerimonia in manette. È umiliante, pura barbarie”. Beh, c’è qualche detenuto importante che giustificherebbe... “Se esiste un pericolo del genere, molto più corretto rifiutare il permesso che mandarlo, coi ferri ai polsi, a raccogliere condoglianze”. Quant’è reale il rischio di una rivolta? “Minimo, anche se il sovraffollamento è un pericolosissimo detonatore. Non accadrà nulla per via della legge Gozzini, quella sui benefici di pena. Aderendo a una sommossa, sia pure dettata dalla disperazione, un detenuto sa di perdere in futuro qualunque tipo di agevolazione. Meglio patire, dunque”. La legge Gozzini ha narcotizzato le carceri? “Al di là del fatto che è stata applicata soltanto in parte, ha sicuramente stabilito uno spartiacque importante: se provi a superarlo, la reclusione può diventare davvero un incubo”. Abruzzo: chiusura degli Opg; a Lanciano nasce struttura per curare detenuti psichiatrici Agenparl, 11 febbraio 2013 In Abruzzo nascerà una struttura destinata ad accogliere i residenti cui sono applicate le misure di sicurezza del ricovero in Ospedale Psichiatrico Giudiziario. La notizia è stata resa nota dall’Assessore alla Prevenzione collettiva, dopo l’esame positivo del provvedimento dell’Esecutivo regionale, riunito oggi all’Aquila. La Casa di Cura e Custodia da 20 posti letto, con i requisiti fissati dal decreto del Presidente della Repubblica, sorgerà nel territorio della Asl di Lanciano Vasto Chieti, per un importo di circa 4 milioni di euro. La Asl è anche soggetto attuatore dell’intervento. La struttura è coerente con le disposizioni normative che intendono attuare il definitivo superamento degli ospedali psichiatrico giudiziari, anche attraverso edifici per i quali, ulteriori requisiti strutturali, tecnologici ed organizzativi, anche con riguardo ai profili di sicurezza, sono definiti con decreto di natura non regolamentare del Ministro della salute, adottato di concerto con il Ministro della Giustizia, d’intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome. Inoltre, in deroga alla vigenti normative sul contenimento della spesa per il personale, le regioni che hanno sottoscritto i piani di rientro dai disavanzi sanitari, possono assumere personale qualificato da destinare ai percorsi terapeutico riabilitativi, finalizzati al recupero e reinserimento sociale dei pazienti internati, provenienti da ospedali psichiatrici giudiziari. Con la deliberazione approvata dall’Esecutivo regionale - chiariscono all’Assessorato - si dà mandato al soggetto attuatore di rimettere alla Regione Abruzzo uno studio di fattibilità contenente l’ubicazione e le caratteristiche urbanistiche ed infrastrutturali dell’area, la descrizione complessiva dei 20 posti letto, la valutazione delle risorse umane necessarie alla funzionalità dei servizi sanitari operanti dopo l’intervento. Roma: detenuto di Rebibbia, colpito da malore, muore all’Ospedale “Sandro Pertini” Iris Press, 11 febbraio 2013 Si è sentito male dopo una seduta di ginnastica. Soccorso con il defibrillatore dal personale presente, è stato immediatamente trasferito nella struttura protetta dell’Ospedale “Sandro Pertini” dove, però, è deceduto poco dopo il suo arrivo. È morto così, sabato pomeriggio, Antonio Schena, detenuto 46enne del carcere di Rebibbia N.C.. La notizia è stata diffusa dal Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni. Schena è la prima persona che muore, nelle carceri del Lazio, nel 2013. L’uomo era detenuto in una cella della sezione G 9 del carcere di Rebibbia N.C., quella riservata ai cosiddetti reclusi precauzionali, proveniente da Genova. Ex carabiniere della stazione di Genova - Sampierdarena, sospeso dall’Arma, Schena stava scontando una condanna per una serie di reati fra i quali la vendita di falsi titoli onorifici del “Sovrano Ordine di Malta e di Cilicia” e falsi attestati di onorificenza dell’Onu in cambio di denaro da destinare a suo dire a scopi benefici. “Quest’uomo non soffriva, almeno in apparenza, di patologie così gravi da metterlo a rischio di vita - ha detto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni. Il problema, però, è che gli attuali livelli di sovraffollamento, la carenza di risorse e le gravi difficoltà in cui versa la sanità penitenziaria del Lazio, fanno sì che le carceri non siano le strutture più adeguate a garantire livelli ottimali di tutela della salute alle persone che vi sono recluse”. Roma: Rita Bernardini scrive al Dap “sembra che le circostanze della morte siano diverse…” Ristretti Orizzonti, 11 febbraio 2013 La parlamentare Radicale Rita Bernardini questa mattina ha inviato ai funzionari del Dap Giovanni Tamburino, Francesco Cascini, Calogero Piscitello e Luigi Pagano, e al direttore del carcere di Rebibbia N.C., Mauro Mariani, la seguente nota: “Da fonti interne al carcere che a me si sono rivolte, la notizia così come è stata riportata dalla stampa e come mi è stata riferita ieri dal Direttore Mauro Mariani, sembra non corrispondere al vero. Sembra che non sia vero che il detenuto avesse fatto ginnastica. Sembra che non sia vero che sia stato immediatamente soccorso. Sembra che sia morto in carcere e non all’Ospedale Sandro Pertini dove è arrivato già cadavere. Vi prego di accertare la verità e le responsabilità dell’accaduto. Innanzitutto, occorre non smembrare dislocandoli altrove (come purtroppo accade spesso in questi casi) gli altri 5 detenuti che erano con lui in cella e che possono riferire sui fatti”. Sulmona (Aq): detenuto in sciopero della fame contro l’ergastolo ostativo, rischia la vita Agi, 11 febbraio 2013 Viso scarno e ossa che si contano come in una radiografia appena fatta. Sono immagini di un uomo che più che in un carcere italiano sembrano provenire da un campo di concentramento. La denuncia arriva dal segretario provinciale della Uil penitenziari dell’Aquila, Mauro Nardella. È così che oggi si presenta, agli occhi degli operatori penitenziari, “ai quali offre spunti di enorme preoccupazione”, Antonino Cacici, detenuto ergastolano di origine siciliana di 42 anni, il quale, da diversi giorni, sta attuando al carcere di Sulmona lo sciopero della fame, della terapia e da oggi anche quello della sete per protestare conto l’ergastolo ostativo”. Il cosiddetto ergastolo ostativo è quella pena a vita che impedisce qualsiasi possibilità di abbreviazione della condanna, essendo stato inflitto per gravissimi delitti. In Italia sono circa ottocento gli ergastolani ostativi, molti dei quali in carcere da oltre trent’anni, puniti da un irrigidimento della normativa sull’ergastolo che fu introdotta negli anni 90, a seguito delle famose stragi di mafia. Si tratta - ricorda la Uil - molto spesso di soggetti che hanno commesso efferati delitti in età giovanile ed ora non vedono alcuna speranza perché finiscano la pena prima del termine della loro esistenza terrena. Le condizioni di salute di Cacici, che ha rifiutato anche il ricovero presso l’ospedale, cominciano a destare serie preoccupazioni fra i sanitari del carcere. Questi ultimi hanno registrato nel corso dell’ultimo mese un calo ponderale di oltre 20 kg. Il che unito anche all’aumentato rischio derivante dall’associazione dello sciopero della terapia e della sete porterà al rischio di un rapido peggioramento delle sue condizioni. La preoccupazione della Uil Penitenziari - osserva Nardella - oltre che di tutti gli operatori penitenziari, ognuno dei quali armati di umana pietà, è che il detenuto, malgrado i ripetuti e sistematici tentativi di dissuasione fatti da tutti, direttori, medici, infermieri, poliziotti penitenziari, educatori ed assistenti sociali, possa non arrivare all’appuntamento col Tso ancora in vita. Le condizioni di Cacici rappresentano una sorta di spada di Damocle per tutti gli operatori penitenziari i quali quotidianamente, da diversi giorni oramai, sono chiamati a svolgere un lavoro di vigilanza che non poco stress produce e che si ripercuote inevitabilmente sulle loro condizioni psicofisiche. Rifiuta le cure in carcere, rischia la morte (Il Centro) La sua vita è appesa un filo. Viso scarno e ossa che spingono sulla pelle, da diversi giorni sta effettuando lo sciopero della fame contro l’ergastolo ostativo. Antonino Cacici 42 anni di origine siciliana, detenuto ergastolano del carcere di Sulmona, rifiuta, insieme al cibo, la terapia medica e da ieri ha iniziato anche lo sciopero della sete. A lanciare l’allarme sulla gravissime condizioni di salute in cui versa il detenuto, che ha rifiutato anche il ricovero in ospedale e che cominciano a destare serie preoccupazioni fra i sanitari del carcere, è la Uil Penitenziari. “Più che da un carcere italiano l’uomo sembra provenire da un campo di concentramento”, dice fi segretario provinciale di questo sindacato, Mauro Nardella, “i medici hanno registrato nel corso dell’ultimo mese un calo ponderale di oltre 20 chili. Il che, unito anche all’aumentato rischio derivante dal rifiuto della terapia medica e dell’acqua, porterà al rischio di un rapido peggioramento delle sue condizioni”. L’ergastolo ostativo è quella pena a vita che impedisce qualsiasi possibilità di abbreviazione della condanna, essendo stata inflitta per gravissimi delitti In Italia sono circa 800 gli ergastolani ostativi, molti dei quali in carcere da oltre trent’anni, puniti da un irrigidimento della normativa sull’ergastolo che fu introdotta negli anni ‘90, in seguito alle stragi di mafia Si tratta molto spesso di soggetti che hanno commesso efferati delitti in età giovanile e ora, uomini di mezz’età e oltre, non vedono alcuna speranza di finir di scontare la pena prima di morire “Lo visitiamo tre volte al giorno proprio per la gravità della situazione”, sottolinea il responsabile dell’area medica del carcere di Sulmona, Fabio Federico. “Ho perfino chiesto il trasferimento del detenuto nella cella dell’ospedale per un intervento più tempestivo in caso di emergenza. Ma lui ha sempre rifiutato. Purtroppo abbiamo le mani legate perché fino a quando l’uomo è in grado di intendere e di volere non possiamo intervenire con il trattamento sanitario obbligatorio”. Anche Paola Concia, candidata al Parlamento per il Pd in Abruzzo, è intervenuta sulla situazione del carcere di Sulmona chiedendo l’apertura di un “tavolo permanente” che si occupi dei problemi più urgenti detta struttura carceraria come fi sovraffollamento e la carenza di personale. Un intervento apprezzato dai sindacati ancor più perché arriva alla vigilia della trasformazione del più grande carcere d’Abruzzo in penitenziario di massima sicurezza Secondo il piano carceri, sarà chiusa la casa lavoro che ospita quasi 200 internati. Al loro posto arriveranno altrettanti detenuti che appartengono atte tre categorie dell’AS, l’Alta sicurezza: AS1, i più pericolosi perché ex 41 bis, come boss mafiosi e simili, AS2, terroristi islamici e ex Brigate Rosse; AS3, soggetti al 416 bis, cioè reclusi per associazioni criminali e a delinquere, già presenti nella struttura sulmonese. Radicali Abruzzo: ergastolo ostativo, una barbarie da cancellare Un’ennesima, drammatica vicenda rischia di consumarsi all’interno di uno degli istituti penitenziari abruzzesi. Un detenuto di origine siciliana, Antonio Cacici, da diversi giorni sta effettuando lo sciopero della fame contro l’ergastolo ostativo, vale a dire quella forma di pena che esclude qualsiasi possibilità di abbreviazione della condanna. Il caso ha suscitato la reazione di Rosa Quasibene, segretario regionale di Radicali Abruzzo e di Alessio Di Carlo, responsabile di Giustizia Giusta, secondo i quali oltre a riproporsi drammaticamente e con forza la questione di legittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo, occorre chiedersi come possa essere compatibile un regime del genere con un sistema sanzionatorio che sempre più, nel mondo cosiddetto civilizzato, propende per la decarcerizzazione delle pene”. Gli esponenti radicali hanno rammentato che proprio la battaglia sulla affermazione del principio di legalità all’interno del sistema giudiziario e carcerario nel Paese è al centro della campagna elettorale in corso da parte della lista “Amnistia Giustizia Libertà”. Comunicato stampa di Giulio Petrilli Antonio Cacici, detenuto nel carcere di Sulmona, versa in gravi condizioni, per un prolungato sciopero della fame e della sete. L a sua protesta è contro il cosiddetto ergastolo ostativo, che impedisce a chi è stato condannato a l’ergastolo per reati connessi alla mafia di usufruire di qualsiasi beneficio, dai permessi premio, al lavoro esterno dopo tanti anni di carcere o alla semilibertà. Nulla, non può usufruire di nulla, deve per intero scontare la sua pena e praticamente morire in carcere. Tanti sono i detenuti in queste condizioni e ce ne sono molti che pur avendo scontato 30 anni di carcere, non possono accedere ai benedici della legge Gozzini, che fu introdotta per favorire il reinserimento dei detenuti. Antonio Cacici sta morendo, facciamo in modo che questo non accada, invitiamolo a desistere promettendogli l’impegno affinché la legge, che attualmente vieta a lui e tanti altri di usufruire di qualsiasi beneficio venga abrogata. La legge Gozzini, è stata una grande legge perché ha consentito anche a chi era condannato all’ergastolo, di poter un giorno usufruire di misure alternative al carcere, facciamo in modo che questo avvenga per tutti, non creiamo una discriminante in base ai reati. Reggio Calabria: decisione del Dap; il carcere di Laureana di Borrello riaprirà ad aprile Ristretti Orizzonti, 11 febbraio 2013 L’istituto di Laureana di Borrello - si legge in una nota di Mario Nasone (Presidente Centro Comunitario Agape) - riaprirà nel mese di aprile. La notizia va accolta con soddisfazione e bisogna dare atto ai vertici dell’amministrazione Penitenziaria di avere positivamente recepito le istanze di tutto quel movimento di istituzioni e di società civile che in questi mesi si è mobilitato a difesa dell’esperienza. La decisione del Dap rappresenta un concreto riconoscimento della validità del modello Laureana che in questi anni si è imposto a livello nazionale come vincente riuscendo ad acquisire un consenso unanime e trasversale tra le forze politiche e sociali. La scelta della riapertura dell’istituto però è solo un primo passo, perché vi sono almeno due questioni importanti che vanno affrontate contestualmente per non vanificare la portata dell’iniziativa. La prima riguarda la natura stessa del Daga, di una struttura particolare con un regime penitenziario a custodia attenuata e dove l’adesione del giovane detenuto al patto tratta mentale rappresenta un requisito essenziale che è’ alla base del progetto dell’istituto. Nella nuova riorganizzazione dei circuiti penitenziari si prevede per Laureana un aumento della capienza fino ad 80 detenuti. Una scelta che va incontro anche alle esigenze del sovraffollamento delle carceri, così come è giusto ipotizzare l’inserimento di giovani provenienti anche da altre regioni ed un meccanismo più snello di invio dei detenuti da parte del provveditorato regionale. Tutte scelte sostenibili a condizione che il progetto però non venga snaturato facendogli perdere quelle caratteristiche fondanti della sua identità’; criteri che hanno permesso che Laureana si ritagliasse un posto speciale nel panorama dei circuiti penitenziari italiani. La seconda questione riguarda i percorsi indispensabili da garantire in termini di formazione professionale e di reinserimento lavorativo e sociale dei giovani detenuti. Se gli stessi non trovassero al momento delle dimissione dal carcere concrete opportunità’ di inserimento nel mondo del lavoro di fatto si rischierebbero di annullare tutto il percorso tratta mentale e riabilitativo compiuto durante la detenzione. Già oggi sono diversi i giovani detenuti che erano ristretti a Laureana sarebbero pronti ad accedere alle misure alternative alla detenzione ma non lo possono fare perché’ non hanno prospettive di inserimento lavorativo. Su questi aspetti devono entrare in gioco, assumendosi precise responsabilità’, Regione, Provincia ed Enti Locali. In sintonia con le imprese e con la cooperazione sociale sono chiamati a mettere su un sistema in grado di favorire una reale transizione al lavoro di questi soggetti, prevedendo l’attivazione di finanziamenti mirati, di promozione di micro - imprenditorialità, di cooperative di tipo B, di assegnazione di commesse di lavoro. Attività’ che negli anni in cui il Provveditorato era retto da Paolo Quattrone erano state avviate con successo e che ora possono quindi essere riprese. La riapertura del carcere è quindi un punto di arrivo di una battaglia di civiltà’ che in tanti hanno combattuto, ma deve essere anche un punto di ripartenza verso una politica di recupero sociale dei giovani che si vogliono riscattare, dove alla volontà del Dap di ridare fiducia a questo modello deve corrispondere anche la volontà’ della nostre istituzioni locali di fare la propria parte affinché questa esperienza che ha reso onore alla Calabria possa concretamente essere rilanciata. Pordenone: le celle sovraffollate del carcere, un’emergenza dimenticata da politici e media di Stefano Polzot Messaggero Veneto, 11 febbraio 2013 I numeri certificano ancora una volta un’emergenza dimenticata: le celle sovraffollate del carcere di Pordenone sono scomparse dalle priorità di una città e di una provincia da trent’anni incapaci di fornire una soluzione decorosa alla detenzione penitenziaria. Anzi, a conclusione dell’ennesima legislatura, siamo al punto di partenza: non ci sono né soldi, né prospettive. I dati. Sono contenuti nell’ultima relazione del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia. A fronte di una capienza massima di 53 detenuti, al 31 dicembre scorso erano presenti nel castello di piazza della Motta 81 persone. Se anche - e non lo è - la detenzione in celle sovraffollate, con importanti problemi di sicurezza, fosse ammissibile, appare ancora più inaccettabile se si pensa che 44 detenuti sono imputati di reato e quindi in attesa di una sentenza definitiva che potrebbe assolverli rendendo ancora più ingiusta una detenzione al limite della sopportabilità. Il 46,91 per cento dei detenuti è di nazionalità straniera, di cui 20 imputati e 18 condannati in via definitiva. Il nuovo carcere. Nonostante promesse e accordi di programma, il penitenziario da 450 posti in via Castelfranco Veneto è ancora più lontano di alcuni anni fa. L’accordo di programma tra Stato, Regione, Comune e Provincia che prevedeva un cofinanziamento dell’opera (costo 45 milioni) di fatto non è attuato. La Regione, a fronte della disponibilità di una cordata di aziende guidata dalla Presotto di Sacile di intervenire in project financing sulla caserma Dall’Armi di San Vito, ha espresso una valutazione positiva su tale opportunità non stanziando a bilancio i 20 milioni necessari per Pordenone. Finanza di progetto sulla quale, però, non c’è ancora alcuna intesa con Roma, nonostante l’ultimo decreto Salva Italia suggerisca il project financing per la realizzazione di nuove carceri. I finanziamenti. Ma anche a Roma i contributi sono bloccati. Dei 4 nuovi carceri previsti dal piano del commissario (Torino, Camerino, Pordenone e Catania) l’unico partito, con un bando di gara da 26 milioni di euro in scadenza a febbraio, è quello siciliano. Gli altri fondi rispetto allo stanziamento complessivo di 122 milioni, comunque insufficiente, sono congelati in relazione al patto di stabilità. La partita, ormai, è nelle mani del prossimo Governo. Lite politica. Un contributo determinante allo stallo, secondo il deputato del Pdl, Manlio Contento, l’ha dato il sindaco di San Vito ed ex parlamentare del Pds, Antonio Di Bisceglie, perorando al ministero la causa della Dall’Armi “fino a bloccare tutto”. Quest’ultimo, peraltro, ricorda come la soluzione della finanza di progetto sia l’unica alternativa a fronte della carenza di risorse ministeriali e del mancato stanziamento di 20 milioni da parte della Regione. La Lega, da parte sua, dopo aver osteggiato il carcere a Pordenone, non sembra preoccuparsi particolarmente: “In questo momento di crisi economica - hanno detto il deputato Fulvio Follegot e il capogruppo in Regione Danilo Narduzzi - la priorità è la salvaguardia delle famiglie non gli istituti penitenziari”. Napoli: Radicali; domani manifestazione al carcere di Poggioreale, con Rita Bernardini Notizie Radicali, 11 febbraio 2013 Prosegue, nel totale silenzio da parte degli organi di stampa, l’iniziativa dei militanti e dirigenti dell’Associazione Radicale Per La Grande Napoli per la riforma della giustizia, le carceri e l’amnistia. Martedì 12 febbraio 2013 a Napoli presso la Casa Circondariale di Poggioreale insieme alla deputata radicale Rita Bernardini sin dalle ore 7.00 del mattino una delegazione dell’associazione si unirà alla fila dei cittadini in attesa di accedere ai colloqui con i familiari detenuti. I radicali denunziano il disastro della sanità penitenziaria e la situazione di totale illegalità che porta la Corte Europea dei Diritti dell’uomo a dire che nelle nostre carceri i detenuti sono sottoposti a trattamenti inumani e degradanti. Dopo la sentenza della Corte di Strasburgo che ha condannato l’Italia a pagare a sette detenuti, un ammontare totale di 100 mila euro per danni morali perché rinchiusi in celle dove hanno a disposizione meno di 3 metri quadrati, nessun provvedimento è stato adottato per risolvere il problema del sovraffollamento della popolazione detenuta e la sistematica violazione dei loro diritti umani. In vista delle elezioni politiche del 24 e 25 febbraio i radicali, affinché si assicuri in modo tempestivo l’esercizio del diritto di voto dei detenuti che non hanno perso il godimento dei diritti civili e politici, sollecitano i direttori degli istituti penitenziari perché informino tempestivamente i detenuti sugli adempimenti da compiere per essere ammessi al voto in carcere. Alle ore 13.30 all’esterno del carcere sarà organizzata una conferenza stampa. Rodolfo Viviani, Roberto Gaudioso e Giuseppe Alterio dell’Associazione Radicale Per La Grande Napoli Foggia: Radicali; presentazione della Lista AGV e appello per una bimba 2 mesi in carcere www.statoquotidiano.it, 11 febbraio 2013 “Siamo usciti poche ore fa dalla visita carcere di Foggia con l’onorevole Turco. Christian è ancora lì con la sua mamma in attesa di giudizio. Tra pochi giorni compirà due mesi, della vita non sa ancora niente. Da quando aveva quattro giorni si trova nel carcere di Foggia. “Le prime tre notti avevo una paura, faceva freddo, lo tenevo sul mio petto e cercavo di scaldarlo con il mio fiato”. Quando lo trovammo lì, nella visita al carcere che facemmo il giorno di Natale lo paragonammo a un piccolo Gesù bambino. In quel caso c’erano il bue e l’asinello, Christian invece aveva solo l’alito della sua mamma. Poi sì è arrivata una stufetta. Ma farà sempre troppo freddo in un Paese che permette che piccoli innocenti stiano dietro le sbarre, lontano da tutti, abbandonati come se non esistessero, e come se le loro piccole vite non fossero una meraviglia. Domani presentiamo la nostra lista a Foggia, alle 11 a Palazzo Dogana. Vi chiediamo di venire per capire che nelle carceri italiane non ci sono solo pericolosi criminali ma anche piccoli innocenti che stanno subendo un’ingiustizia che nessuno potrà più ripagare loro”. Reduci dalle visite ispettive alle carceri di Lucera e Foggia i radicali dell’associazione “Mariateresa Di Lascia” questa mattina a Palazzo Dogana a Foggia, in piazza XX settembre hanno tenuto una conferenza stampa per presentare i candidati foggiani nella lista “Amnistia giustizia e libertà”. Oltre all’onorevole Maurizio Turco, capolista al Senato, hanno illustrato il programma i candidati foggiani alla Camera e al Senato Elisabetta Tomaiuolo, Antonella Soldo, Anna Rinaldi, Maria Rosaria Lo Muzio, Giuseppe Tomaiuolo e Paolo Calvo. Una lista che, insomma, si differenzia anche per l’altissimo numero di donne e giovani. “Non è una scelta strategica la nostra - commenta la composizione della lista la presidente dell’associazione “Di Lascia”, Antonella Soldo - è semplicemente una fotografia della situazione effettiva: le candidate sono tutte militanti impegnate sul territorio. Il fatto è forse che in casa radicale si riesce automaticamente e senza quote di nessun tipo ad ottenere ciò che in altri partiti non ottengono nemmeno con delle leggi ad hoc”. Nel corso della presentazione presentata anche la campagna fotografica “Anche tu sei una vittima di questa giustizia” ideata dall’associazione Mariateresa Di Lascia. Una serie di foto segnaletiche dei militanti e candidati foggiani che spiega in numeri il peso della giustizia sulla vita dei cittadini comuni. La campagna sarà poi portata in giro per la Provincia come mostra itinerante durante i tavoli della lista fino alla fine della campagna elettorale. Iglesias (Ca); appello Cisl-Fns; non chiudete un carcere in buone condizioni e che funziona L’Unione Sarda, 11 febbraio 2013 Un nuovo appello a non chiudere il carcere di Iglesias arriva alla Cisl-Fns, una delegazione della quale ha visitato la Casa circondariale di Sa Stoia venerdì scorso, dopo il sit-in di protesta cui hanno preso parte, oltre agli agenti, anche diversi sindaci del territorio. Poiché il direttore, Marco Porcu era assente (dirige anche l’istituto di Lanusei e la scuola di formazione e aggiornamento del personale a Monastir), il segretario generale aggiunto regionale del sindacato Giovanni Villa e quello provinciale Marco Bernardini, sono stati ricevuti dal comandante di reparto, il vicecommissario Marcella Varone. Villa e Bernardini sottolineano le carenze nell’organico (48 poliziotti penitenziari in servizio a fronte di una pianta organica che ne prevede 52), le buone condizioni della struttura e la presenza positiva “dei nuovi capannoni dove alcuni detenuti lavoravano per conto di una ditta esterna per rigenerare toner”. La Cisl Fns ribadisce il no alla chiusura e chiede “un’assegnazione di risorse finanziarie adeguate, proponendo l’ampliamento della struttura e l’incremento di qualche altra unità di polizia penitenziaria”. Il territorio dell’Iglesiente “è già abbastanza martoriato”, rimarca infine Giovanni Villa: “La chiusura del carcere significherebbe un altro duro colpo, che porterebbe perdita di posti di lavoro a tutto l’indotto che gira intorno al carcere stesso”. Alghero: Diocesi; chiusura carcere Macomer? aumenterebbe l’affollamento altre strutture La Nuova Sardegna, 11 febbraio 2013 All’interno del territorio della chiesa locale di Alghero Bosa, sono presenti due realtà che quotidianamente sollecitano le comunità civili e cristiane a mettere a disposizione il tempo, ad elaborare idee e suscitare iniziative per rendere più umana la vita di quanti vivono la detenzione nelle strutture di Macomer e di Alghero. Da una parte, i due carceri offrono ai detenuti la possibilità di trascorrere il tempo della pena entro spazi vivibili con attività culturali ed educative, dall’altro canto sono stimoli per la promozione di una cultura dei diritti umani ed un rispetto della dignità di ogni persona. Il legittimo ricorso a strategie di risparmio in questo tempo di crisi conclamata, non dovrebbe promuovere la chiusura dei servizi alla persona, ma privilegiare la creazione di seminari di verifica storica sulle scelte gestionali, politiche e amministrative e ridisegnare nuovi percorsi di speranza e di superamento della difficile congiuntura economica. All’orizzonte, sembrano delinearsi due opposti orientamenti. Sicuramente per alcuni, la chiusura del carcere potrebbe sembrare la soluzione vincente per contenere la spesa pubblica. Per molti altri invece, sembrerebbe riduttivo e sbrigativo ricorrere alla chiusura definitiva del carcere, dando avvio all’esodo di uno stuolo di persone che aggiungendo pena su pena, riceverebbe un ulteriore condanna di una vita spersonalizzata. Per la società civile e per lo Stato sarebbe una sorta di analfabetismo di ritorno su ambiti culturali ormai superati grazie alla Costituzione Italiana, a progetti ministeriali, al volontariato che vedono nella reclusione un ambito privilegiato dove convertire il proprio cuore e porre le basi per un successivo inserimento equilibrato nella società. La chiusura del carcere di Macomer potrebbe dare l’illusione di un effettivo contenimento delle spese, ma in realtà metterebbe in evidenza una regressione culturale che non intende affermare la dignità umana dei detenuti e dei loro diritti fondamentali. Davanti ad un’umanità dolente desiderosa di riscatto e di perdono e destinata ad incrementare la già sovraffollata popolazione carceraria, la chiesa locale non può tacere. La chiesa locale sente il gemito di chi subisce il trasferimento non per rispondere ad un principio costituzionale di riabilitazione ma solo per rendere ancora più difficile il cammino di recupero alla vita sociale. Sassari: Tavolo congiunto su carcere mercoledì prima riunione voluta da Garante detenuti La Nuova Sardegna, 11 febbraio 2013 Tavolo congiunto per affrontare le tematiche penitenziarie. È solo la prima riunione di una serie, quella convocata mercoledì a Palazzo Ducale da Cecilia Sechi, Garante dei detenuti Del Comune di Sassari. Saranno presenti la direzione e i funzionari della casa circondariale San Sebastiano, la presidente e i magistrati del Tribunale di sorveglianza, la direzione e gli operatori dell’Ufficio esecuzione penale esterna di Sassari, il presidente della Camera penale di Sassari “Enzo Tortora” e il vice presidente dell’Unione camere penali italiana. “Ringrazio vivamente le istituzioni coinvolte - ha detto Cecilia Sechi - per la sensibilità dimostrata nell’accettare l’invito, nato dall’esigenza comune di un confronto condiviso che possa portare non solo ad un lavoro di rete più efficace per i detenuti, ma anche a promuovere una riflessione culturale sul concetto di pena, sui diritti e la sicurezza nell’interesse della comunità”. La necessità di insediare un tavolo di confronto nasce anche in previsione del trasferimento della casa circondariale a Bancali. Livorno: il pane sfornato dai detenuti di Porto Azzurro nei supermercati Unicoop Tirreno Il Tirreno, 11 febbraio 2013 Il pane e i dolci dei detenuti del carcere di Porto Azzurro in vendita in esclusiva in tutti i supermercati elbani di Unicoop Tirreno. Finalmente una bella notizia per l’istituto penitenziario che, negli ultimi mesi, ha fatto parlare di sé solo per i problemi, legati principalmente al sovraffollamento e alle criticità che, ogni giorno, si trovano a dover gestire gli agenti della polizia penitenziaria. Tra le note negative, più volte rimarcate anche sulle pagine di questo giornale, anche la riduzione graduale delle attività lavorative svolte all’interno del penitenziario di Porto Azzurro, fino a pochi anni fa fiore all’occhiello tra gli istituti italiani. La novità targata Unicoop Tirreno è estremamente positiva, specialmente in questo tipo di contesto. Per mesi i prodotti realizzati dai detenuti del carcere sono passati al vaglio di Unicoop Tirreno che ne ha analizzato scrupolosamente le caratteristiche, prima di immetterli sul mercato. Il via libera definitivo è arrivato, così il pane e i dolci prodotti dalla cooperativa sociale Nesos, che impiega alcuni detenuti del carcere di Porto Azzurro, sarà già nei prossimi giorni sugli scaffali dei punti vendita dell’isola d’Elba. Un’esperienza simile, per intendersi, è stata già portata avanti con successo da Unicoop Tirreno con le orate di Gorgona, allevate in mare aperto dai detenuti della colonia penitenziaria dell’isola in provincia di Livorno. L’iniziativa elbana sarà presentata martedì prossimo nel supermercato di Portoferraio in via Teseo Tesei, nel reparto di forneria. L’appuntamento è per le 10. Saranno presenti Loris Moroni, presidente della cooperativa sociale Nesos, il responsabile dei prodotti freschi e freschissimi Unicoop Tirreno Stefano Maggirelli, Sabrina Ballone, responsabile supermercato Coop di Portoferraio, Fabrizio Vergari (responsabile del panificio della cooperativa Nesos. Sono invitati i soci e i dipendenti della cooperativa Nesos e di Unicoop Tirreno. Rimini: la "Casa madre del perdono" nel progetto regionale Acero per misure alternative Asca, 11 febbraio 2013 Per 45 detenuti si aprono le porte di tre case di accoglienza, dalla riminese Casa madre del perdono alla ferrarese Viale K fino alla reggiana L’Ovile. Il progetto è regionale e si chiama Acero. Ospitate in queste tre realtà le persone potranno scontare la pena fuori dal carcere ed essere accompagnate al reinserimento sociale. Per altri 90 detenuti (in esecuzione penale esterna e ai domiciliari), inoltre, è prevista l’attivazione di percorsi di inserimento lavorativo. “Il progetto – ha spiegato l'assessore regionale Teresa Marzocchi – si rivolge a detenuti comuni che non avrebbero altra possibilità di detenzione alternativa se non in una comunità, perché senza casa o famiglia. A loro vogliamo offrire un’occasione di reinserimento sociale attraverso lo strumento fondamentale della formazione e del lavoro”. “Acero” nasce dalla fusione di due parole, “accoglienza” e “lavoro” ed è finanziato dalla Cassa delle Ammende (ente del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria) e dalla Regione (Assessorati alle politiche sociali e al lavoro). In particolare, i percorsi di inclusione lavorativa già partiti sono realizzati con risorse del Fondo sociale europeo (Fse) e della Regione, per un costo anche questo biennale di circa 655mila euro, con il coinvolgimento di Assessorati regionale e provinciali alla formazione e lavoro, comitati locali dei nove Comuni sede di carcere, Conferenza regionale Emilia-Romagna Volontariato e Giustizia a Confcooperative, Legacoop, Cna, Confartigianato, Agc italiane (Federazione regionale Emilia-Romagna). Lucca: Perina (Fli); situazione carcere è simbolo di degrado e illegalità dello Stato italiano www.loschermo.it, 11 febbraio 2013 Flavia Perina, candidata per Fli, è andata ha visitato il carcere San Giorgio di Lucca insieme al coordinatore comunale Massimo Bulckaen. “La nuova stagione che Monti intende portare avanti con coloro che credono in una prospettiva di riforme liberali di livello europeo per l’Italia - ha detto - non potrà riguardare solo riforme in campo economico ma anche riforme della giustizia e dei diritti civili attraverso il riconoscimento delle coppie di fatto sia gay che etero”. Flavia Perina, candidata di Fli al secondo posto in lista dopo Fini, ha aperto la sua campagna elettorale a Lucca con una visita all’istituto penitenziario lucchese. “La situazione è drammatica - ha aggiunto - anche confrontandola con altre carceri italiane visitate. Un sovraffollamento estremo in celle fatiscenti e simili a gabbie in cui stare in piedi diventa possibile solo se lo si fa a turno, una situazione simbolo del degrado e della illegalità dello stato italiano più volte condannato dalla Unione Europea e simbolo del degrado della giustizia in Italia”. Perina ha poi ringraziato gli sforzi del personale carcerario che cerca “di rendere umano lo stato dei detenuti che, oggettivamente, è più facile trovare nel terzo mondo piuttosto che in Europa”. La Perina si è detta d’accordo con la proposta radicale di Amnistia. Massimo Bulckaen, coordinatore di Fli, ha invece ricordato che “il progetto Montiano è un progetto aperto e che i temi di laicità che la Perina sostiene sono i temi di una grande riforma liberale tradita negli ultimi 20 anni e di cui maggiormente soffrono i più deboli tra cui i giovani e le donne, oggettivamente esclusi dall’attuale assetto corporativo della società italiana in cui le resistenza a cambiare sono presenti a destra e a sinistra. Occorre dunque scomporre il quadro politico italiano e dividersi tra chi vuole più riforme e più Europa e chi intende mantenere questo logoro assetto di destra e sinistra, incapaci di riformare niente”. Parma: dopo evasione detenuti albanesi, sostituito Comandante della Polizia penitenziaria Gazzetta di Parma, 11 febbraio 2013 La clamorosa evasione dei due pericolosi detenuti albanesi dal carcere di via Burla ha già prodotto un primo effetto concreto sull’organizzazione interna della struttura parmigiana. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria che dipende dal ministero della Giustizia ha infatti ufficialmente nominato un nuovo comandante della Polizia penitenziaria di Parma, che prenderà servizio già da lunedì con l’incarico di ripristinare l’ordine, la disciplina e la gestione all’interno dei reparti di via Burla. La nomina, in realtà, sancisce un ritorno: a riprendere le redini degli agenti in servizio nel penitenziario della nostra città sarà infatti il commissario Augusto Zaccariello, attuale comandante del reparto scorte del ministero della Giustizia e in passato a capo anche del reparto della scuola di Polizia penitenziaria di Parma da ottobre del 2011. Zaccariello, noto per la sua autorevolezza e per la mano ferma con la quale ha sempre guidato i baschi blu in un carcere problematico come quello di via Burla, aveva ricoperto per 14 anni, fino a giugno del 2011, le funzioni di comandante del reparto degli Istituti penitenziari di Parma. In seguito era stato assegnato al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria con l’incarico di responsabile della sala situazioni. Zaccariello vanta una lunga esperienza operativa alla guida di carceri ha ricoperto diversi incarichi di comando: fra gli altri ha comandato la polizia penitenziaria a Modena, Genova, Bologna e Carinola e inoltre ha svolto diverse funzioni di responsabilità all’interno delle varie articolazioni del corpo di Polizia penitenziaria. Il suo ritorno è un segnale preciso dopo che negli ultimi mesi all’interno del carcere di via Burla si erano già registrate diverse situazioni problematiche, a partire da quelle che hanno coinvolto il bosso mafioso Bernardo Provenzano. E l’obiettivo che si pone il ministero con questo ritorno è probabilmente quello di riportare il carcere di via Burla a quella fama di penitenziario ordinato e rigoroso che lo aveva contraddistinto fino a qualche tempo fa e che è stata incrinata dalle vicende degli ultimi mesi culminate nella clamorosa evasione di alcuni giorni fa. Brescia: sabato scorso convegno sul “carcere malato”… quando la pena diviene un delitto www.ecodellevalli.tv, 11 febbraio 2013 Sabato sera, presso la Sala Buozzi della Camera del Lavoro di Brescia, si è tenuta un’assemblea pubblica volta ad affrontare una tematica di grande attualità, quella cioè delle carceri italiane e delle condizioni in cui esse versano. Il dibattito si è concentrato in modo particolare su Canton Mombello, e a parlarne sono stati Franco Corleone, garante dei detenuti nel Comune di Firenze e presidente della Società della Ragione, l’avvocato Stefania Amato, Presidente della Camera Penale di Brescia, e due portavoce dei familiari dei detenuti. L’incontro è stato organizzato dal “Comitato per la chiusura del carcere lager di Canton Mombello”, che tramite un volantino ha sollevato alcune questioni: per risolvere il problema del sovraffollamento i politici locali hanno proposto l’imminente costruzione di una nuova struttura, “Verziano 2” o “Nuovo Canton Mombello”, ma di essa non v’è alcuna traccia nel piano carceri nazionale. Non va poi trascurato il fatto che sono oltre 2mila le sentenze della Corte Europea dei Diritto dell’Uomo di Strasburgo pronunciate contro il nostro Paese e tra le più frequenti motivazioni di condanna figurano, oltre all’irragionevole durata dei processi, le condizioni disumane in cui vivono i detenuti nelle nostre carceri. Il Comitato, inoltre, ha presentato all’Asl Brescia in data 7 novembre 2012 un esposto nel quale sono state messe in rilievo le sue responsabilità e si è fatto leva sulle sue competenze, giacché con legge 244 del 2007 è stato disposto il trasferimento al Servizio Sanitario Nazionale di tutte le funzioni sanitarie svolte dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e dal dipartimento della giustizia minorile del Ministero della Giustizia. Il Comitato nell’esposto ha evidenziato un concorso di responsabilità: non solo quella dell’Asl ma anche quella del sindaco di Brescia, in qualità di responsabile della salute pubblica della città e quindi anche della popolazione carceraria di Canton Mombello. Ad aggravare la situazione, secondo il Comitato, anche le soluzioni che il Governo Monti ha adottato per porre rimedio al sovraffollamento carcerario: col decreto per le liberalizzazione soggetti privati hanno ricevuto delega per la costruzione di nuove prigioni. Il Comitato ha infatti sottolineato che in questo modo le carceri da luogo di espiazione della pena finiranno col trasformarsi in un vero e proprio business legale, che favorisce imprenditori e banche con obiettivi di profitto. A confortare le richieste dei detenuti di Canton Mombello, che per lungo tempo hanno portato avanti uno sciopero della fame, sono intervenuti gli avvocati della Camera Penale di Brescia che in segno di protesta il 22 novembre 2012 si sono astenuti da tutte le udienze per richiamare l’attenzione del legislatore, cittadini e magistrati sul dramma del sovraffollamento del carcere bresciano, sollecitando la magistratura, in attesa che qualcosa si muova a livello legislativo, ad effettuare un uso accorto e costituzionale della misura cautelare della custodia in carcere. Nel corso dell’assemblea sono stati snocciolati un po’ di dati, per meglio comprendere la drammatica situazione che coinvolge Canton Mombello: il carcere bresciano, costruito alla fine del 1800, ha una capienza tale da poter ospitare 208 detenuti, ma nel corso del tempo è arrivato a raggiungere quota 600. Attualmente sono oltre 400 i prigionieri rinchiusi in quello che il Comitato definisce ‘carcere lager’ e nella maggior parte si tratta di stranieri. Pur rappresentando questi ultimi solo l’8% della popolazione nazionale, in Italia costituiscono il 60% dei detenuti, percentuale che sale al 70% a Canton Mombello. La causa di ciò non deve essere ravvisata in una maggiore propensione dello straniero a delinquere rispetto al cittadino italiano. Infatti, dei detenuti di Canton Mombello meno del 20% sono persone condannate in via definitiva, con sentenza penale passata in giudicato. Tutti gli altri, invece, si trovano in carcere in quanto sottoposti all’applicazione della misura cautelare maggiormente afflittiva, restrittiva della libertà personale. Nel corso dell’incontro s’è parlato, seppur in modo improprio, di ‘carcere preventivò per facilitare la comprensione della situazione. Ed ecco che ben si comprende il motivo di una così alta percentuale di detenuti stranieri: una delle alternative, senz’altro più mite, alla misura cautelare della custodia in carcere è quella degli arresti domiciliari. Gli stranieri, regolari o non in Italia, spesso non possiedono un abitazione e non hanno nel nostro Paese familiari disposti ad offrire la loro ospitalità: in altre parole, non potendosi applicare la misura cautelare degli arresti domiciliari, si aprono le porte del carcere. Una soluzione al problema del sovraffollamento potrebbe essere ravvisata nella costruzione di nuovi istituti di pena, ma in un periodo economico come quello attuale, in cui debito pubblico e spread continuano vertiginosamente a salire, sorgerebbe il problema di reperire i fondi necessari per tali opere. Tuttavia, nel corso dell’assemblea, in modo provocatorio, è stato sottolineato che non seguono lo stesso trend gli stipendi dei manager e dei direttori delle carceri: nel 2012 è stata raggiunta la somma record di 543mila euro annui per un manager. Il problema del sovraffollamento affligge tutte le carceri italiane, ma Canon Mombello detiene, in termini percentuali, in primato. I detenuti, quindi, sono costretti fisicamente in celle piccolissime, nelle quali i letti distano un metro e mezzo e impediscono l’apertura delle finestre. Un odore infernale divampa a Canton Mombello. Oltre a ciò, c’è anche un’emergenza di natura sanitaria, giacché hiv, scabbia, tubercolosi ed altre malattie trovano terreno fertile. Continuano a crescere anche i suicidi: l’ultimo caso verificatosi nel carcere bresciano risale allo scorso aprile, quando un croato ha deciso di togliersi la vita. Franco Corleone ha sottolineato come le denunce sulle condizioni delle carceri in Italia abbiano avuto inizio ancora nel secolo scorso e ha manifestato il suo spirito critico nei confronti di alcune leggi vigenti nell’ordinamento giuridico italiano, leggi che ha definito criminogene esse stesse. Con tale aggettivo intendeva descrivere la Legge Fini-Giovanardi, che, mettendo tutte le sostanze stupefacenti sullo stesso piano, prevede cornici edittali di pena particolarmente severe per il reato di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. Legge che, ha ricordato Corleone, nel 2012 ha portato in carcere 28mila persone. Accusata dal garante anche la Legge Cirielli, da lui considerata come una legge ad personam finalizzata a tutelare gli interessi dell’allora Ministro della Difesa, e la Bossi-Fini, con la quale è stato introdotto il reato di clandestinità. Corleone ha quindi sottolineato l’esigenza di dotare lo stato italiano di un nuovo codice penale che si sostituisca all’ormai datato e obsoleto Codice Rocco; un codice che depenalizzi fattispecie delittuose caratterizzate da un lieve disvalore sociale e che al tempo stesso introduca l’utilizzo, in via preferenziale, di pene alternative al carcere. Il garante, a titolo esemplificativo, ha ricordato che in Germania e negli Usa è previsto per le carceri il numero chiuso e sulla scorta di tale modello ha invitato ad un ripensamento del sistema dei delitti e delle pene, riallacciandosi al pensiero di Cesare Beccaria. L’avvocato Stefania Amato, in qualità di Presidente della Camera Penale di Brescia, ha a sua volta sottolineato come l’Unione delle Camere Penali, un’associazione senza scopo di lucro che da oltre 30 anni si prefigge l’obiettivo di promuovere la conoscenza, la diffusione e la tutela dei valori fondamentali del diritto penale e del giusto processo in una società democratica, si sia attivata, attraverso i suoi associati, per portare all’attenzione del legislatore il problema delle carceri italiane. L’avvocato ha criticato il frequente abuso, da parte della magistratura, dello strumento della custodia cautelare in carcere, misura spesso disposta in modo scellerato senza indagare la possibilità di ricorrere a misure cautelari alternative e ha rimarcato l’ingiustificata possibilità in fase di esecuzione della pena di ricorrere a misure alternative in presenza della recidiva. Ha, inoltre, parlato dei ritardi della giustizia, ritardi che talvolta impediscono ai detenuti di poter godere dei benefici ai quali hanno diritto. Tuttavia, l’avvocato Amato, ha sottolineato anche che negli ultimi tempi qualche passo avanti, per tutelare i diritti dei detenuti, lo si sta facendo: infatti, alla fine del 2012, è stata introdotta la “Carta dei diritti e dei doveri del detenuto”, una sorta di vademecum dei prigionieri. Altri segnali importanti si sono visti anche a Canton Mombello: prima di Natale si è svolto un certo di musica classica ed uno di musica leggera, una palestra ha donato al carcere biciclette per lo spinning, ai detenuti è stata data la possibilità di fare yoga. In totale accordo con Corleone, anche Amato auspica un intervento legislativo in materia. Non solo: auspica anche, facendosi portavoce delle Camere Penali, il ricorso a misure quali l’amnistia e l’indulto. Volgendo uno sguardo alle istituzioni, va ricordato che, su proposta del Ministro della Giustizia Severino, il Governo Monti aveva proposto di ricorrere, in presenza di determinate fattispecie delittuose per le quali è prevista una pena detentiva inferiore a 4 anni, alla sospensione del processo per la messa alla prova: in altre parole, il processo viene sospeso, l’indagato viene affidato ai servizi sociali e se la prova si conclude con esito positivo si assiste all’estinzione del processo. Purtroppo, a causa dei tempi tecnici ai quali il Governo Monti era vincolato, tale istituto non è riuscito ad entrare in vigore. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” recita il terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione italiana. I relatori hanno perciò rivolto un invito alla società civile per rivendicare la civiltà anche negli istituti di pena. Brescia: “Palla al piede”, concorso artistico e letterario per studenti delle scuole superiori Brescia Oggi, 11 febbraio 2013 Reclusi. Rinchiusi e isolati dal resto del mondo per scontare una pena inflitta dalla Giustizia. O spesso, in attesa di un giudizio che non raramente li manderà liberi. Imprigionati, in condizioni disumane. È l’emergenza - carceri in Italia, questione che solo negli ultimi tempi pare abbia trovato attenzione, ma che si trascina da anni, senza soluzione, se non qualche rattoppo. “Reclusione” è il tema di “Palla al piede”, il concorso letterario e artistico lanciato da Act, l’Associazione Carcere e Territorio, in collaborazione con l’Ufficio scolastico provinciale e il Giornale di Brescia, e rivolto agli studenti delle scuole superiori bresciane. L’iniziativa fa parte di molti progetti che Act ha avviato all’interno delle carceri bresciane ma anche sul territorio, per abbattere il muri della diffidenza, del sospetto, dell’isolamento. Non si tratta soltanto di cogliere la contraddizione di uno Stato che si pone come obiettivo della pena la rieducazione e il recupero sociale, ma che poi sistematicamente tradisce la Costituzione, come ha detto il presidente Napolitano due giorni fa in visita a San Vittore. Non si tratta solo di sottolineare il rispetto della dignità e dei diritti umani che l’Italia calpesta con il suo sistema carcerario al punto da essere condannata dalla Corte europea. Più concretamente si tratta di far passare la realistica idea che un sistema penitenziario che sa recuperare alla vita civile e alla legalità chi ha sbagliato è “utile” alla società ed è uno strumento per favorire - e non diminuire - la sicurezza dei cittadini. Il concorso letterario e artistico “Palla al piede” fa parte delle molte azioni promosse dall’Act, l’onlus presieduta dal criminologo Carlo Alberto Romano e nata nel 1997 da un’idea del compianto dott. Giancarlo Zappa, allora Presidente del Tribunale di sorveglianza a Brescia, appena collocatosi a riposo. Il progetto statutario di Act si pone come finalità quella di intervenire rispetto ai percorsi di inserimento sociale di persone che devono scontare una pena, nella convinzione che la comunità locale possa favorire un allontanamento dalle reti di relazione legate al reato(che in carcere permangono e anzi spesso si creano e consolidano) e un inserimento in reti di relazioni legati a differenti valori in ambiti affettivi, lavorativi, ricreativi... La prima edizione del concorso si tenne nel 2011, in parallelo al celebre Premio Casalini, e coinvolse un buon numero di scolaresche, assieme a studenti delle classi attivate nelle carceri bresciane. L’anno scorso, “Palla al piede” è stata riproposto ed ha avuto un successo che è andato oltre ogni aspettativa: una sessantina le opere che hanno partecipato, inviate da sedici istituti superiori di città e provincia. I migliori sono stati pubblicati in un inserto del Giornale di Brescia, mentre tutti gli elaborati sono apparsi sul sito www.giornaledibrescia.it e sono stati letti da oltre cinquemila internauti. Da questi risultati incoraggianti, l’idea di rilanciare e allargare il raggio d’azione del premio. Così “Palla al piede” torna e raddoppia: accanto alle composizioni letterarie, quest’anno, infatti, si aggiunge una sezione artistica. Qui accanto pubblichiamo alcune indicazioni per partecipare al concorso. Quel che conta è che il tema della legalità e del recupero sociale di chi sbaglia offra occasioni di riflessione anche più ampia che non la “questione carceraria”, per dare prospettive che vadano oltre l’emergenza e l’allarme. Foggia: oggi alla Casa Circondariale incontro di calcio tra consiglieri comunali e detenuti Ristretti Orizzonti, 11 febbraio 2013 Lunedì 11 febbraio, alle ore 15.00, presso l’Istituto Penitenziario di Foggia, si svolgerà un incontro di calcio tra una rappresentanza di consiglieri e funzionari comunali e di detenuti. A dare il calcio di inizio il Sindaco di Foggia, Gianni Mongelli. L’evento rientra nel Progetto “Sportiva…mente insieme per l’integrazione” progettato dalla 4° Commissione Consiliare (Cultura, P.I. e Sport), dall’Assessorato alla Formazione e Pubblica Istruzione, dalla Casa Circondariale e dal Ctp “Giannone” di Foggia. “Devo ringraziare tutti i partner, il Presidente e i componenti della IV Commissione e tutti i Consiglieri comunali, di ogni estrazione politica - è il commento dell’assessore Maria Aida Episcopo - per la sincera disponibilità e l’impegno riservati a questa importante iniziativa. L’auspicio è che possa rappresentare un ulteriore tassello di un percorso di sensibilizzazione, promosso e sostenuto dal Comune di Foggia, che orienti sempre più la società civile verso positive pratiche di integrazione, reinserimento e promozione sociale”. Televisione: a “Tg1-Fa la cosa giusta” il lavoro delle detenute di Venezia e di Milano Redattore Sociale, 11 febbraio 2013 Maria, 40 anni ucraina, confeziona gli abiti di scena per la Fenice di Venezia alla sartoria del Carcere femminile della Giudecca. Taglia e cuce i vestiti che poi vengono venduti al Banco n. 10, un negozio molto in voga a Venezia. Maria, 40 anni ucraina, confeziona gli abiti di scena per la Fenice di Venezia alla sartoria del Carcere femminile della Giudecca. Taglia e cuce i vestiti che poi vengono venduti al Banco n.10, un negozio molto in voga a Venezia. Le mancano nove anni prima di riabbracciare la sua famiglia. Le piace lavorare con ago e filo ed è felice della grande fiducia che le hanno dato permettendole di usare le forbici, “arma bianca” fondamentale per la sua attività quotidiana. Il laboratorio di sartoria in carcere è a cura della cooperativa sociale “Il Cerchio”, che garantisce con successo il reinserimento sociale degli ex detenuti. Contestualmente, nella Casa di Reclusione di alta sicurezza di Milano Opera, Silvana Ceruti è la responsabile del Laboratorio di lettura e scrittura creativa. Con i detenuti scambi di emozioni e sentimenti rielaborati con testi, poesie e pensieri. Per i suoi 19 anni di volontariato in carcere Silvana Ceruti ha ricevuto l’Ambrogino d’oro 2012. Tra gli ospiti del laboratorio poeti, giornalisti, fotografi come Margherita Lazzati, che coinvolge i partecipanti a scrivere commenti e testi alle sue cartoline “Miraggi”. Il suo progetto di pensieri e commenti alle foto di miraggi in giro per il mondo viene ora esportato in altre carceri d’Europa: Gran Bretagna, Romania, Grecia e Malta. A “Tg1-Fa la cosa giusta”, a cura di Giovanna Rossiello, il servizio da Venezia di Daiana de Paoli tra le detenute nella sartoria del Carcere della Giudecca e gli interventi di Silvana Ceruti e Margherita Lazzati. Immigrazione: “Betwixt and Between… Turin’s Cie”, incertezza e rabbia oltre le sbarre di Maurizio Bongioanni La Repubblica, 11 febbraio 2013 Assenza di comunicazione con i familiari, isolamento, casi di autolesionismo sempre più frequenti, minori separati dalle famiglie. Sono gli aspetti dalla Ricerca “Betwixt and Between: Turin’s Cie”, sui diritti umani nel Cie di Torino e sulla detenzione amministrativa degli immigrati in Italia, a cura dell’International University College di Torino e dell’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione. Comunicazioni carenti con i familiari, ritardi nell’assistenza sanitaria, isolamento, casi di autolesionismo sempre più numerosi, separazione dai minori. Sono questi alcuni degli aspetti “misurati” dalla ricerca “Betwixt and Between: Turin’s Cie”, un’indagine sui diritti umani nel Cie di Torino e sulla detenzione amministrativa degli immigrati in Italia, curato da sei ricercatori tra cui Emanuela Roman, Carla Landri e Margherita Mini sotto la supervisione del professor Ulrich Stege dell’International University College di Torino e l’avvocato Maurizio Veglio, membro dell’Asgi (Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione). “Vorrei che questo centro scomparisse”. Attraverso interviste dirette ai trattenuti, le ricercatrici hanno potuto stilare un quadro zeppo di difficoltà in cui sono costretti a vivere i trattenuti del Centro torinese. “Vorrei che questo Centro scomparisse” è il commento di uno degli intervistati per descrivere questa struttura aperta nel 1998 per ospitare al suo interno 210 persone. Oggi ce ne sono 131 a causa di alcune zone danneggiate e perciò impraticabili. Persone divise su 7 aree senza criterio, mancanza questa che a volte crea gerarchie pericolose. Una struttura, gestita dalla Croce Rossa, che rimpatria il 52,4% dei suoi “ospiti” dopo una permanenza media di 40 giorni e con un costo pro capite medio di 45 euro al giorno. Un investimento da 11 milioni di euro nel giro di tre anni a cui vanno aggiunte le spese per le forze di sicurezza, “considerata una dei migliori Centri di Identificazione ed Espulsione d’Italia” come ha dichiarato Rosanna Lavezzaro, Dirigente dell’Ufficio Immigrazione della Questura di Torino, durante la presentazione pubblica del rapporto. Ma un Cie anche carico di contraddizioni. Nessun legame con l’esterno. L’aspetto che viene maggiormente confermato dalle parole dei reclusi è l’estrema difficoltà che si incontra nel tentativo di portare avanti i legami con l’esterno, sia con le famiglie che con i legali che li difendono. Una parte significativa dei trattenuti ha una famiglia che vive in Italia e alcuni di loro si sono stabiliti qui in via permanente. Sono finiti nel Cie per varie ragioni: per ingresso irregolare, per non aver richiesto il rinnovo del permesso di soggiorno dopo la scadenza, per la perdita del lavoro o per aver commesso un reato. Nel giorno di visita vengono tutti ammassati in una sola stanza che può ospitare fino a un massimo di 250 persone sia che si tratti di incontri privati con i propri familiari sia che si parli della propria libertà con un legale. Il parallelo con il carcere è scontato: infatti molti degli utenti intervistati hanno assicurato che il carcere è molto meglio perché ha regole più precise. Nessuna sa che fine farà. Un secondo elemento importante che condiziona la vita dei trattenuti è l’indeterminatezza dei tempi di permanenza: i trattenuti non conoscono il proprio futuro e questo non fa altro che alimentare rabbia, frustrazione e senso di isolamento. “La prima parola che si impara qui dentro è dopo” afferma in un’intervista uno dei trattenuti. Non migliori sono le relazioni con l’esterno: per ogni cosa gli immigrati possono solo rivolgersi alle forze dell’ordine (che in carcere sono di 4 tipi diversi: Esercito, Gdf, Polizia e Carabinieri). Aumentano i casi di autolesionismo. Il punto di vista sanitario è preoccupante. Aumentano i casi di autolesionismo in quanto nel trattenuto nasce sempre più spesso l’idea che violare il proprio corpo possa accelerare il trasferimento dal Cie ad altra struttura. Aumenta la richiesta di somministrazione di psicofarmaci ma parallelamente non c’è una sola figura di psichiatra all’interno della struttura. Nel caso di tentato suicidio, malori o urgenze, le testimonianze dei trattenuti confermano i ritardi nell’intervento da parte dell’assistenza sanitaria causati dalla burocrazia comunicativa tra l’interno e l’esterno della struttura. Un anno terribile per i Cie. “I Cie esistono perché la direttiva europea in materia prevede un’immigrazione condizionata” riprende Lavezzaro “nel senso che vengano garantiti gli spazi di sopravvivenza e quindi migliorare gli standard di vita, non peggiorarli. Ciò nonostante il 2011 è stato un anno terribile per il Cie: 15 rivolte e 28 arresti. Nel 2012 è andata decisamente meglio: 5 rivolte e solo 5 arresti. Da sottolineare resta la scarsa collaborazione con i consolati: talvolta le ambasciate rispondono a logiche politiche che ci sfuggono”. Cinque anni prima dell’identificazione. L’altro aspetto indagato dal rapporto di ricerca è quello della detenzione amministrativa: “In Italia - dichiara una delle ricercatrici - vi sono casi di persone che hanno passato 5 anni nelle nostre carceri senza che sia stato avviato il processo di identificazione per poi essere trasferiti nei Centri appositi e ricominciare l’intero iter da capo. Dal 2007 una proposta di legge cerca di anticipare l’identificazione in carcere ma ad oggi nessuno l’ha esaminata come si sarebbe dovuto fare”. I problemi, secondo la ricerca, nel campo giudiziario sono molti. Quelli su cui prestare maggiore attenzione sono elencati nel rapporto: “i trattenuti non partecipano alle udienze di proroga del trattenimento, nonostante le numerose pronunce della Corte di Cassazione in merito”; “la normativa italiana in materia di patrocinio a spese dello Stato non garantisce consulenze esterne di medici o psicologi dove queste sono necessarie”; “manca una piena assistenza linguistica nel corso di trattenimento, circostanza che ostacola l’accesso alla consulenza legale” e “il personale militare non riceve una formazione giuridica e socio - culturale specifica per lavorare a contatto con i trattenuti”. La gestione del flusso è fallita. “Il sistema di gestione del flusso è fallito: lo dimostra il fatto che il periodo di trattenimento è passato da 30 giorni a 60, poi è diventato sei mesi, un anno e oggi è stato prolungato un anno e mezzo” sono le parole dell’avvocato Lorenzo Trucco, Presidente dell’Asgi. “Non v’è un codice chiaro: si tratta di privare della libertà persone umane. Dal punto di vista penalistico, un anno e mezzo di detenzione significa bruciarsi la condizionale e farsi una discreta carriera delinquenziale. Perché i trattenuti dei Cie devono essere trattati peggio dei carcerati? E come se non bastasse, la loro pratica circa la convalida del trattenimento è affidata al Giudice di Pace, che nasce con funzioni completamente diverse: da sanzioni pecuniarie il Giudice si ritrova a dover decidere della libertà di un essere umano”. Israele: arrestato un italiano, attivista filo-palestinese, ha rifiutato l’espulsione dal Paese Ansa, 11 febbraio 2013 È stato visitato oggi in carcere da personale del consolato italiano Marco Di Renzo, l’attivista filo palestinese fermato l’altro ieri dalle forze di sicurezza israeliane nel corso dello sgombero di un accampamento palestinese a Yatta, vicino Hebron, in Cisgiordania. “Per ora - fanno sapere dall’ambasciata italiana - Di Renzo rifiuta l’espulsione dal paese ed è in attesa di vedere il magistrato che dovrà pronunciarsi sul caso. Pur nella difficoltà della situazione attuale, si trova in buone condizioni. Gli stiamo procurando un cellulare senza telecamera in modo che possa parlare con i suoi familiari in Italia con i quali siamo in contatto”. Francia: dna responsabile serie stupri corrisponde a quello gemelli, incarcerati entrambi 9Colonne, 11 febbraio 2013 La polizia francese, impegnata nelle indagini su una serie di crimini a sfondo sessuale avvenuti a Marsiglia, si trova di fronte ad un episodio di cronaca nera unico. Sono infatti stati arrestati due gemelli omozigoti 24enni, il Dna di uno dei quali è associato alle violenze in questione. Come riporta il canale televisivo “France 24”, entrambi gli uomini hanno negato il loro coinvolgimento nei fatti, rendendo il lavoro degli inquirenti particolarmente complesso. In una coppia di gemelli omozigoti, infatti, le differenze di Dna sono estremamente sottili, difficili da rintracciare, e i test necessari sono inoltre particolarmente dispendiosi. Il capo investigatore Emmanuel Kiehl ha ammesso la rarità del caso, spiegando inoltre che il costo dell’esame necessario per risalire al colpevole si aggirerebbe intorno a 1,3 milioni di dollari. I due sospettati, Elwin e Yohan, entrambi impiegati in una ditta di trasporti, sono per ora detenuti senza cauzione, in attesa di nuovi sviluppi. Uno dei due sarebbe responsabile di almeno sei stupri avvenuti tra il settembre 2012 e lo scorso gennaio ai danni di donne tra i 22 ed i 76 anni. Afghanistan: Human Rights Watch; tredicenne subisce violenza sessuale, messo in carcere Ansa, 11 febbraio 2013 Un ragazzino afghano di 13 anni ha subito violenze sessuali da due uomini adulti, ma è stato condannato ad un anno di galera: è la denuncia dell’organizzazione per la difesa dei diritti umani, Human Rights Watch, che ha rivolto un appello alle autorità afghane affinché lo liberino subito e puniscano i suoi aggressori. Il terribile episodio è avvenuto a settembre ma è venuto alla luce soltanto di recente. Il ragazzino, che è stato accusato di aver avuto rapporti con i due adulti in un parco, è stato condannato ad ottobre. “Quando un uomo ha un rapporto sessuale con un bambino di 13 anni, il bambino è vittima di violenza. Non è un criminale”, ha denunciato Brad Adams, direttore di Hrw per l’Asia, aggiungendo che il governo afghano non avrebbe mai dovuto “danneggiare la vittima per la seconda volta”. Secondo l’organizzazione, anche i due adulti sono stati arrestati e condannati ma le loro pene non sono note. Un procuratore afghano ha giustificato la condanna dichiarando che il ragazzino era “consenziente”. In Afghanistan la pederastia viene punita con una pena che va dai cinque ai 15 anni di galera, condanna che può essere inflitta in presenza di tutti i rapporti che avvengono fuori dal matrimonio. Lo stupro è riconosciuto come un crimine solo dal 2009 e riguarda soltanto le donne o le ragazze vittime di abusi. E spesso capita che le donne che denunciano violenze sessuali finiscano in carcere al posto dei loro aggressori.