Quei permessi non sono un premio, sono un passo verso il recupero della propria umanità Il Mattino di Padova, 30 dicembre 2013 A evadere da un permesso premio è un numero di detenuti davvero minimo, meno dell’uno per cento, ma si potrebbe dire che sono sempre troppi, e pensare che comunque, se c’è anche un piccolo rischio "mettendo fuori" prima i detenuti, è meglio non correrlo. Se… se… ma forse le cose non stanno esattamente così. Cominciamo allora con una questione che riguarda le parole: non chiamiamoli, per favore, permessi premio, perché quelle prime ore di uscita dal carcere, dopo anni di pena, per tornare di solito nella propria famiglia, sono un momento importante di un percorso graduale per rientrare nella società, senza il quale quella stessa società rischierebbe molto di più. Le statistiche sembrano fredde e lontane, ma noi le vogliamo riempire di umanità, e spiegare che chi sta in galera fino all’ultimo giorno, quando esce è molto più pericoloso di chi viene accompagnato gradualmente alla libertà attraverso quei permessi, che sono la tappa fondamentale di una svolta verso una nuova vita. Ora ci chiuderanno di nuovo... ci toglieranno ancora la speranza Il Consiglio dei ministri vara un pacchetto di misure come risposta iniziale al sovraffollamento delle carceri... e neppure a farlo apposta nel giro di 48 ore si verificano due evasioni "eccellenti"… un serial killer psicotico (così si dice) e un collaboratore di giustizia... la storia si chiude in pochi giorni con l’arresto dei due fuggiaschi. Questi sono i fatti... poi ci sono le ripercussioni che potrebbe avere tutto questo sul sentimento di chi deve decidere se e come applicare misure alternative al carcere e concedere permessi. Ovviamente a nessuno piace l’idea di sentirsi "sotto tiro" come è accaduto al direttore del carcere di Marassi e, probabilmente, accadrà ai magistrati di queste vicende, ma il punto è che sarebbe davvero un delitto capitale fare passi indietro sulla strada della umanizzazione delle carceri, faticosamente intrapresa anche da una buona parte della classe politica con in testa il Capo dello Stato. Perché dico questo? più di qualcuno penserà che, essendo io "di parte", sia giocoforza questo mio pensiero, ma mi permetto, proprio perché so cosa vuol dire "vivere" dentro, di scrivere così in quanto ho vissuto di persona la differenza enorme che fa su un detenuto l’essere immesso anche gradualmente in un percorso che porti a misure alternative, e l’essere invece tenuto dentro a "marcire" fino all’ultimo giorno della pena. Sento spesso dire che un percorso rieducativo si può fare anche tutto all’interno di una struttura penitenziaria... la ritengo una delle idee più deleterie che possano esserci per la società. Sì parlo proprio della società come primo soggetto e non dei detenuti, perché il vero grande vantaggio di una misura alternativa va a ricadere da subito proprio sulla società. A questo proposito di dati ne sono stati snocciolati tanti a favore di questa tesi e, ultimamente, anche il ministro e i vari telegiornali hanno fatto sapere che sono pochissimi i mancati rientri dai permessi. A parte qualche caso estremo (come quelli appena verificatisi) chi può pensare che un detenuto, dopo anni di carcere e venti e più ore al giorno passate in una cella di pochi metri quadrati sia così folle da giocarsi quel poco di libertà (controllata) che ha faticosamente guadagnato con anni di ravvedimento e di sacrifici? Alle voci solite delle persone che hanno cercato di "cavalcare" subito queste vicende per alzare scudi e barriere contro quella, che è l’unica via possibile del reinserimento nella società, vorrei chiedere se sono così sicure che far pagare l’errore di pochi a tutti sia la strada corretta. Il primo pensiero che c’è stato nella testa di tutti quelli dentro che aspettano con ansia il primo permesso è stato, ne sono certo: Oddio!... tutto inutile... ora ci chiuderanno di nuovo... ci toglieranno ancora la speranza... Ma questo non deve accadere, perché la stragrande maggioranza delle persone che sono in carcere è diversa, è cambiata e non vede l’ora di poter ripartire da zero nella propria nuova vita, ha già vissuto abbastanza da braccato e da rinchiuso per colpe proprie, che ha pagato e sta pagando cercando di ricostruire pazientemente la propria vita. Le misure alternative sono la vera preparazione al rientro nella società, perché dopo anni di galera non serve a niente l’accanimento fine a se stesso su chi sta cercando in tutti i modi di dimostrare che è consapevole di aver sbagliato e vuole dare una svolta al proprio futuro: non si deve togliere questa speranza, non la si può cancellare solo perché è di moda dirlo o farlo... Penso che, in questo periodo in special modo, ci sia la necessità da parte di tutti di creare solidarietà ed unione, la crisi che c’è fuori si sta ripercuotendo dentro in galera in modo drammatico, a volte oltre la sopportazione umana, è difficile anche cercare di spiegare la povertà e il disagio che ci sono in carcere, non lo si augura a nessuno. Togliere la speranza è come uccidere, forse addirittura peggio, anche perché "dentro" questa flebile speranza te la sudi ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Ed è così che arrivi a capire quanto male hai fatto agli altri e a te stesso, e aspetti con ansia il momento della prima uscita per abbracciare in modo normale i tuoi cari, per vedere come preparare una nuova vita senza più zone oscure e ricominciare a camminare alla luce del sole senza più avere e provocare paura: questo è ciò che c’è dentro un permesso o una misura alternativa, questo è il vero tesoro che la società non può e non deve gettare alle ortiche, altrimenti la pena sarà sempre inutile e insensata. Marco L. "Evasi da un permesso premio" Evasi da un permesso premio: questo era il titolo che per due giorni campeggiava sui giornali, l’argomento centrale dei talk show di prima serata, si voleva punire i colpevoli, cioè quei giudici che avevano concesso i permessi. Anche io che sono in carcere, al primo impatto mi sono preoccupato, ho dimenticato dove mi trovo e pensavo ai miei parenti che vivono in Italia, e speravo che NON dovessero incontrare queste persone, questi erano i miei primi pensieri. Ma dopo qualche giorno gli evasi sono stati arrestati e per tutte le persone per bene la paura è passata. Invece i problemi per chi è in carcere sono appena iniziati. Anche prima di queste evasioni, poter accedere ad un permesso premio era difficile, oggi, dopo tutta quella propaganda che si è fatta contro chi aveva solo applicato la legge, è certo che per un bel po’ di tempo pochissimi usufruiranno di questo beneficio, e alcuni di quelli che in permesso uscivano e speravano di festeggiare il Natale a casa, il Natale l’hanno "festeggiato" in carcere aspettando il benedetto permesso che non è arrivato. Anche io, se fossi il magistrato di Sorveglianza, non vorrei mai subire quello che hanno subito i magistrati che hanno concesso il permesso ai due evasi, anche se hanno fatto il proprio lavoro. Poi, mi ha impressionato vedere che tutti i mass media hanno descritto solo il serial killer del 1981. Vorrei chiedervi: non avete il dubbio che una persona dopo più di 30 anni, di cui molti di manicomio criminale, non è quello che era 30 anni fa? L’istinto di evadere dalle situazioni difficili esiste in tutte le persone, anche in quelle che gridavano allo scandalo, mi riferisco a tutte quelle persone che chiedevano ai marò italiani di non tornare in India, anche quella si poteva chiamare incitazione ad evadere o no? Evadono meno dell’uno per cento dei detenuti che usufruiscono di permessi premio, più del 99% torna in carcere rispettando le regole, anche se molti vivono in condizioni disumane non si danno alla fuga, ma cercano di rafforzare gli affetti familiari e reinserirsi nella società. Con questi dati presentati dal ministro Cancellieri al Parlamento, mi chiedo: perché si è fatta tutta quella propaganda? In Albania, all’entrata di un istituto di pena è scritto: "Nel trattamento dei detenuti bisogna accentuare non la loro esclusione dalla società, ma il loro essere parte di essa". Mi chiedo se non è arrivato il tempo anche in Italia di cambiare punto di vista: di non vedere i detenuti come persone da reinserire nella società, ma di persone della società che hanno commesso dei reati, e che sono parte di Essa anche mentre scontano la pena. Clirim B. Non vale la pena scappare tutta la vita Il permesso è importante per tanti motivi, perché ti dà la possibilità di ricominciare da zero, di rialzarti, soprattutto se ti è stata data qualche opportunità durante la detenzione. Quando sono stato condannato, undici anni fa, il mio primo pensiero è stato: "Mi comporto bene per dieci anni e poi al primo permesso che mi danno scappo in Albania". Dico questo, con sincerità, perché all’inizio la pensavo così, però è passato del tempo e io ho imparato tante cose, e la prima è che non potevo fare una cosa del genere. Prima di tutto per la fiducia che mi hanno dato tante persone qui in carcere, che magari hanno creduto in me. Poi uno nella vita deve anche decidere se se la sente di cambiare o vuole rimanere sempre quello che era prima, la sfida è proprio questa. Io ogni volta che esco in permesso l’ultima telefonata la faccio a mia madre, prima di rientrare, ed è lei che mi dice ogni volta: "Torna dentro, non fare sciocchezze". Io non ho una famiglia in Italia, i miei genitori vivono in Albania e sono anziani. È anche per loro che io penso che non vale la pena scappare tutta la vita, a parte che non conviene proprio a noi stessi fare una cosa del genere. Guardando il telegiornale che parlava di due che sono scappati da un permesso e poi li hanno presi subito dopo, ho pensato che a quei due il "tradimento" del permesso premio gli costerà caro. Ma anche se fossi sicuro di "farla franca", è comunque sbagliato, dico io. A me è stata data la possibilità di lavorare durante la carcerazione e questo mi ha permesso di aiutare la mia famiglia economicamente, e ho imparato un mestiere che può essere che mi servirà un domani, ma il più importante è quello che ho imparato partecipando alla redazione di Ristretti Orizzonti e sto imparando negli incontri che noi facciamo con gli studenti, sia dentro, che fuori dal carcere per quelli che possono usufruire dei permessi. Confrontandomi con tanti ragazzi ho imparato una cosa che sembra elementare, ma è importantissima per noi che spesso abbiamo commesso reati proprio per non aver pensato alle conseguenze: prima di agire contare fino a dieci, perché è troppo importante sia nella vita di detenzione sia nella vita una volta fuori, e ti aiuta a cercare di non buttare all’aria quello che hai costruito in tutti questi anni. Pierjn K. Giustizia: il messaggio di Napolitano sulle carceri attende risposta di Rocco Cangelosi L’Unità, 30 dicembre 2013 Non è escluso che il Capo dello Stato richiami la questione nel suo discorso di fine anno data la gravità della situazione. Il Parlamento sembra aver dimenticato il messaggio dell’8 ottobre scorso, con il quale il Capo dello Stato invitava le Camere a adottare le misure appropriate per risolvere il problema del sovraffollamento carcerario e ad agire per corrispondere alla sentenza della Corte di Strasburgo dell’8 gennaio 2013. Quest’ultima, nel condannare l’Italia per il caso Torreggiani e di altri sei detenuti, ha affermato tra l’altro che "la violazione del diritto dei ricorrenti di beneficiare di condizioni detentive adeguate non è la conseguenza di episodi isolati, ma trae origine da un problema sistemico risultante da un malfunzionamento cronico proprio del sistema penitenziario italiano, che ha interessato e può interessare ancora in futuro numerose persone" e che "la situazione constatata nel caso di specie è costitutiva di una prassi incompatibile con la Convenzione". La Corte ha infatti emesso "una sentenza pilota", che non si limita a pronunciare la violazione della Convenzione nel caso specifico, ma identifica un problema strutturale e di sistema, fornendo precise indicazioni al legislatore nazionale sui rimedi necessari, nel rispetto del principio di sussidiarietà. Lo Stato contraente è chiamato dunque a prescegliere rimedi effettivi e adottare un pacchetto di misure efficaci, tali da poter risolvere entro un periodo ristretto di tempo (nel caso di specie per l’Italia entro un anno) il problema del sovraffollamento negli istituti penitenziari, in conformità con la Convenzione dei diritti fondamentali dell’uomo. Il messaggio del Capo dello Stato rivolto alle Camere indicava una serie di misure alternative o complementari, tra le quali l’indulto e l’amnistia - per alcuni reati minori (bagatellari) - nonché la depenalizzazione di alcuni tipi di reati punibili con modalità diverse dalla carcerazione, lasciando tuttavia il Parlamento libero di decidere sulle misure più appropriate da adottare, purché congrue a soddisfare il dettato della sentenza della Corte di giustizia. Non è escluso pertanto che il presidente Napolitano richiami la questione nel suo messaggio di fine anno, data la gravità della situazione in cui è venuta a trovarsi l’Italia non solo nei confronti della Corte, ma anche sul piano del rispetto dei diritti fondamentali, politicamente sensibile sul piano internazionale. La sentenza della Corte non rappresenta infatti solamente una pesante condanna nei confronti dell’Italia e del suo sistema penitenziario, ma pone il problema dello status giuridico dei reclusi e quindi dei loro diritti, il cui riconoscimento rimane tuttora nel limbo, affievolendo in tal modo la protezione giuridica di una categoria di individui estremamente debole, sottoposta a un controllo pervasivo e illimitato della loro vita. La normativa internazionale I diritti riconosciuti ai detenuti dalla normativa internazionale sono innanzi tutto quelli proclamati come universali e che rappresentano una proiezione della dignità umana e dei diritti riconosciuti alla persona. Basti ricordare al riguardo le "Minimum standard rules for the treatment of prisoners" adottate nel 1955 dal primo congresso delle Nazioni Unite sulla prevenzione del crimine e il trattamento dei criminali, le "European standard rules e le European prisoner rules" adottate dal Consiglio di Europa, la Convenzione europea per la prevenzione dei trattamenti disumani e degradanti, o ancora la Convenzione dei diritti dell’uomo, sulla base della quale la Corte europea dei diritti dell’uomo si è dichiarata competente in materia, in virtù di una serie di norme che tutelano i diritti degli individui "uti persona" che possono essere violati nel corso della detenzione in carcere. D’altra parte anche la Corte costituzionale ha affermato che la detenzione in carcere non deve rappresentare in alcun modo la morte civile del detenuto, il quale continua a essere titolare dei diritti "uti persona". Tale principio trova il suo fondamento nel combinato disposto degli articoli 2, 13 e 27 della Costituzione, che riguardano sostanzialmente l’inviolabilità delle libertà individuali, potenzialmente illimitate salvo le restrizioni espressamente previste dalla Costituzione o da tassative previsioni legislative. In linea di principio dunque un individuo sarebbe titolare di un residuo di libertà incomprimibile dall’amministrazione penitenziaria e dovrebbe pertanto subire la limitazione della sola libertà personale: eventuali ulteriori restrizioni sono legittime solo se strettamente necessarie ad assicurare l’esecuzione della pena detentiva. Esiste comunque un limite invalicabile del potere pubblico, "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità" (art. 27 della Costituzione) e di conseguenza "deve essere punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà". La carenza di riflessione nella dottrina, nella giurisprudenza e nella politica, nel Paese di Verri e Beccaria, su un problema che riguarda migliaia di persone, può avere effetti devastanti, se la lacuna non viene al più presto colmata. In effetti il protrarsi della situazione avrebbe come effetto quello di relegare, come lentamente sta avvenendo, l’Italia agli ultimi posti nella classifica degli Stati in relazione al rispetto dei diritti umani (nel rapporto della Corte di giustizia l’Italia figura al terzultimo posto seguita solo da Turchia e Russia), ma anche di mettere a repentaglio le basi stesse dello Stato di diritto, in quanto dal disconoscimento dei diritti della persona nei riguardi dei detenuti, il passo è breve per arrivare ad affermare che tali diritti sono riservati solo agli individui "rispettabili", concetto kantiano labile e sfuggente e aperto a ogni interpretazione e arbitrio. Giustizia: ecco perché la Marcia di Natale per l’amnistia e la libertà… di Valter Vecellio Notizie Radicali, 30 dicembre 2013 L’Associazione Nazionale dei Magistrati non fiata; le varie correnti che la compongono, neppure. Chissà, forse non si tratta di uno sfregio alla Costituzione, al diritto, alla legge, alla giustizia. Chissà, forse perché ne scrive Luca Fazzo, su quel giornalaccio che dirige Alessandro Sallusti, la cosa non merita attenzione. Dicono che l’amnistia e l’indulto non sono le "ricette" adatte, che non è così che si risolvono i problemi che quotidianamente sono posti da una Giustizia allo stato comatoso. Ti guardano con una certa sufficienza, quando proponi di marciare da San Pietro a palazzo Chigi il giorno di Natale, perché lo Stato italiano, "Cesare" imiti quel "Pietro" venuto da quasi la fine del mondo che subito ha abolito l’ergastolo e introdotto negli ordinamenti del suo Stato - Città del Vaticano - il reato di tortura. Dicono tante cose, le rare volte che si riesce a parlare e a far parlare di giustizia, ma su questo tacciono. E si capisce. Racconta Fazzo di una ditta, l’Alba Italia" di Verbania. Ditta fallita nel maggio del 1979. E comincia la via crucis. Perché per chiudere il fascicolo ci hanno impiegato ben trentatré anni. I creditori, com’è loro diritto, hanno chiesto di essere risarciti, per l’irragionevole durata del processo. Undicimila euro, che neppure vengono pagati. I creditori sono stati costretti a ricorrere al Tribunale Amministrativo Regionale della Lombardia, per costringere lo Stato a pagare il dovuto. Ne volete sapere un’altra? Siamo a Milano. La Costruzioni Edili Speciali è un’azienda creata dall’ingegner Dario Pater; sono gli anni del fascismo, e la Ces deve realizzare edifici a base di Populit, un materiale per quel tempo innovativo. La Ces viene dichiarata fallita nel 1971, ma già negli anni ‘50 è in amministrazione straordinaria. La sentenza di fallimento è del 1971 e da allora la procedura si trascina tra errori surreali, curatori che vanno in esaurimento nervoso, creditori che muoiono prima di avere visto anche un solo centesimo dei loro soldi. A trentotto anni dalla sentenza di fallimento, nel 2009 i vertici del tribunale milanese decidono che è giunta l’ora di chiudere la pratica. Scendiamo in Sicilia. Terremoto che distrugge la valle del Belice, anno di grazia 1968. Un agricoltore del luogo, Antonio Marchese, si vede la casa distrutta. Il risarcimento arriva, ma "solo" 45 anni dal terremoto. Nel frattempo Marchese è morto. La Corte di Cassazione ha riconosciuto le sue ragioni disponendo un risarcimento di 167mila euro. Alla memoria. Di storie come queste se ne possono raccontare tante da farne un’enciclopedia dell’orrore giudiziario. È per questo che la Cedu ci ha imposto, entro il maggio prossimo, di trovare il modo di risolvere la piaga dell’intollerabile durata dei processi. Sono talmente tanti che non c’è denaro sufficiente per risarcire tutti coloro che ne hanno diritto. Leggete un po’ cosa scrive Fazzo: "A dodici anni da quando è entrata in vigore la cosiddetta "legge Pinto", lo Stato ha accumulato un debito di oltre 340 milioni di euro verso le vittime della giustizia-lumaca. Soldi che verranno pagati chissà quando: nel bilancio del ministero della Giustizia esiste un apposito capitolo di spesa, il 1264, per fare fronte ai risarcimenti. Quest’anno, come gran cosa, sono stati stanziati 50 milioni per smaltire una parte dei debiti. Ma nel frattempo si accumulano altre condanne, anche se nel 2012 il governo Monti ha cercato di ridurre i risarcimenti. E il ciclo non si chiude mai. Così si è innescato un altro piccolo universo di contenzioso giudiziario, come se non ce ne fosse abbastanza". Un meccanismo diabolico. Le lentezze dei processi celebrati in una città, sono sanzionate - per evitare eccessi di colleganza - da un’altra Corte d’appello: ecco che Torino decide su Genova, Milano su Torino, Brescia su Milano, e via così. E accade qualcosa che non sai bene se ridere, piangere, ridere e piangere insieme, il fai da te del risarcimento: Torino risarcisce i ritardi di Genova al minimo della cifra (la legge stabilisce una somma tra i 500 e i 1.500 euro all’anno); Milano risarcisce i ritardi di Torino con 500 euro per i primi tre anni, e con 750 dal quarto anno…Ma si può? E vi lamentate poi se nessuno viene a investire in Italia? E vi lamentate se chi può se ne scappa in Croazia o in Svizzera? Perché poi neppure i tempi di pagamento sono certi. "Alla Corte d’appello di Milano", dice Massimo Tribolo, l’avvocato che ha seguito la richiesta dei creditori della Alba, "va dato atto di avere imboccato la strada dell’efficienza. Ma non dappertutto è così, anzi. Torino è ferma ai risarcimenti del 2009, e non credo che sia la situazione peggiore d’Italia". Così i creditori si rivolgono al Tar della regione in cui si trova la Corte d’appello che ha emesso la sentenza; ottengono la nomina di un cosiddetto commissario ad acta, che si impadronisce della cassa della Corte e provvede al pagamento. I soldi in quei casi saltano fuori, anticipati dalla Banca d’Italia. di fatto sottratti a qualche altra voce di bilancio. Ecco, questa è la giustizia che dovrebbe arrivare al massimo in sei anni e invece ne impiega sei volte tanto. Ecco perché la Marcia di Natale. Ecco perché l’amnistia e l’indulto. Ecco perché non si parla di questa emergenza che riguarda tutti, e tutti paghiamo. Giustizia: storie di lettori rovinati da un sistema malato di Luca Fazzo Il Giornale, 30 dicembre 2013 Ci sono quattrocento vigili che dal 1988 aspettano di vedersi restituito il grado che gli avevano tolto: e intanto molti di loro sono andati in pensione, e qualcuno è morto. C’è l’imprenditore che nel 1988 è stato dichiarato fallito, e da allora attende invano che il giudice tiri le somme. C’è chi dopo diciassette anni di cause si è visto dare ragione, e ha ottenuto poi di essere risarcito per la lunare durata del processo, ma ora dice: "Avrei preferito avere una sentenza vera e definitiva e non un risarcimento a spese della comunità. Perché non pagano quei magistrati che hanno sbagliato?". Uno sconsolante racconto corale sta prendendo forma in questi giorni nella casella di posta elettronica che il Giornale ha aperto per raccontare le storie degli italiani alle prese con i tempi incredibili della giustizia. Sono vicende al limite dell’assurdo, e anche oltre, che verranno pubblicate ogni giorno sul sito del Giornale, e che alla fine verranno raccolte e consegnate al ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri, se accetterà di riceverle. Drammi individuali ma anche tasselli di un dramma collettivo. Sono vicende come queste che hanno portato l’Italia dapprima a finire nel mirino della Corte europea dei diritti dell’Uomo, e poi ad accumulare un debito di 340 milioni di euro nei confronti dei cittadini vittime della giustizia lumaca: un debito che, alla tariffa minima prevista dalla legge, equivale a un ritardo complessivo di 680mila anni. Ecco alcune di queste storie. Morto da 25 anni "Per avere fatto per un mese l’amministratore dell’azienda di famiglia sono entrato, dal 1988, in un girone infernale che non mi ha permesso di essere un cittadino normale e mi ha costretto, da quel momento, ad espatriare per fare l’imprenditore. Comunque dall’88 ad oggi il fallimento non è ancora chiuso perché non hanno ancora finito, i vari personaggi nominati dal tribunale di mangiare i soldi. Quando finiranno allora penso che chiuderanno ed io qui, da quell’88, sono stato un uomo morto per le banche e qualunque forma di credito. Perciò è da 25 anni che attendo la chiusura del procedimento". Luciano Tiramani 27 anni senza passaporto "Io credo di essere l’unico fallito nell’aprile 1986, dico 1986, un solo processo, appello e poi più nulla. I legali dicono ormai tutto prescritto ma io voglio essere sentito dai giudici per la prima sentenza e a distanza di 27 anni devo sempre chiedere al curatore per avere un passaporto. Preciso: ho 73 anni". Annamaria Revai 6 anni e il muro è sempre lì "Il 4.7.2007 mia madre avviò una causa contro il proprietario della casa confinante, in quanto questi, in sfregio alle norme edilizie, si elevava di un piano. L’abuso era (ed è) evidentissimo, manca la distanza, una causa che doveva essere conclusa in un’udienza, massimo due, demolizione dell’abuso o compensazione e invece, tra ricorsi al Tar, commissioni di studio, rinvii, udienze senza capo ne coda sono passati 5 anni e mezzo e ancora non si vede fine; gli avvocati godono le loro parcelle, la parte offesa ha tempo di aspettare". Fabio Baessato Un record: 44 anni "Sono subentrato, dopo il 1990, quale erede in una causa promossa dalla sorella di mio padre contro lo stesso nel dicembre 1969. Dopo circa 35 anni c’è stata la sentenza di primo grado del tribunale di Livorno; la causa è stata gestita da un giudice onorario perché il titolare non aveva tempo, era in altre faccende affaccendato. Ha firmato comunque la sentenza che aveva inconsistenti motivazioni; in appello a Firenze, infatti, la sentenza è stata annullata nella sua parte essenziale. Ho dovuto fare appello in Cassazione per una questione secondaria. È tuttora pendente ricorso in Cassazione dopo 44 anni. Ho ottenuto la condanna dello Stato al pagamento a mio favore di circa 17mila euro per l’eccessiva durata del processo. Io ora ho 73 anni e non credo che mi verranno versati finché sarò in vita anche se per prendermi in giro hanno voluto l’Iban del mio conto corrente; non so se spetteranno ai miei eredi". Mario Guadagnini 11 anni per una sentenza "Ho iniziato una causa civile contro il mio socio nel 2002, a gennaio 2014 dovrebbe uscire la sentenza di primo grado, 11 anni senza poter entrare nella società e senza vedere un bilancio e un utile. Stiamo parlando di un Punto Snai di 440 metri quadrati, 13 vetrine ad Ostia". Flavio Angelotti Senza parole "Inizio processo 1968 fine processo 29 novembre 2013: credo si commenti da solo". Marco Alfonzi Cinque anni senza alimenti "Nonostante una sentenza di separazione e poi di divorzio menzionasse un assegno di mantenimento da parte del mio ex al figlio, dal 2009 io mantengo da sola il ragazzo a tuttora minore (16 anni). La denuncia ha solo originato una serie di udienze che ancora non trovano giudizio definitivo". Simonetta Serra Giustizia: la famiglia Ligresti, dalle manette alla Cancellieri di Giorgio Meletti Il Fatto Quotidiano, 30 dicembre 2013 Il giorno dopo Il Fatto parlò di "retata", perché mai prima era stata arrestata un’intera famiglia d’oro del capitalismo italiano. All’alba del 17 luglio 2013, infatti, su iniziativa della procura di Torino, sono stati arrestati il patron di Fonsai, Salvatore Ligresti, e le figlie Jonella e Giulia. Il primo va ai domiciliari, la seconda nel carcere di Cagliari, la terza in quello di Vercelli. Solo Paolo Ligresti, trovandosi in Svizzera dove ha ottenuto poche settimane prima la cittadinanza, sfugge alle manette. La caduta dei Ligresti resterà come simbolo della fine del capitalismo di relazione, una perversione responsabile di una buona parte della crisi economica italiana. Ligresti diventa ricco e potente nella Milano da bere del grande amico e protettore Bettino Craxi, e raggiunge lo zenit come strumento docile delle manovre di potere di Mediobanca e dintorni. Alla sua compagnia di assicurazione Sai i salotti buoni affidano la Fondiaria, seconda compagnia italiana dopo Assicurazioni Generali, controllata da Mediobanca. Per decenni nessuno ha fatto concorrenza a nessuno, e di questa desertificazione del mercato Ligresti è stato uno dei garanti, con le sue preziose quote azionarie in Mediobanca, Pirelli, Rcs, Capitalia (poi Unicredit) eccetera. Il metodo Ligresti è esemplare. L’accusa di falso in bilancio riassume l’abitudine di sottostimare la necessità di riserve assicurative per produrre più utili, dare dividendi agli azionisti di minoranza e placare così la loro curiosità: nel frattempo infatti i Ligresti padre e figli stavano spolpando la Fonsai, distribuendosi stipendi da favola e consulenze milionarie, vivendo nel lusso a spese della compagnia quotata in Borsa che pagava jet privati, auto di lusso, case, servitù, anche uno scooter per Paolo quando servì: il "drenaggio" totale contestato dall’accusa ammonta a 253 milioni di euro. Capitalismo di relazione è anche il tentativo disperato dei Ligresti, quando capiscono che tutto è perduto, di uscire di scena con una ricca buonuscita e con la garanzia di mantenere stipendi, prebende, auto, uffici e personale a disposizione, nonché perpetua ospitalità al villaggio turistico Tanka Village in Sardegna. La loro forza è tale che il numero uno di Mediobanca, Alberto Nagel, non riesce a mandarli al diavolo con l’energia sufficiente a risparmiargli un avviso di garanzia per ostacolo all’attività di vigilanza. Capitalismo di relazione è anche il pagamento al ministro della Difesa Ignazio Larussa di laute parcelle legali, ma anche la promessa al presidente dell’Isvap Giancarlo Giannini di interessare l’amico premier Silvio Berlusconi alla sua nomina a presidente dell’Antitrust se la vigilanza assicurativa sarà brava a chiudere un occhio sui buchi patrimoniali di Fonsai (Giannini è indagato per corruzione). Capitalismo di relazione è anche poter contare su un ministro della Giustizia come Anna Maria Cancellieri, l’amica di famiglia, madre di quel Piergiorgio Peluso che i Ligresti prendono come direttore generale "salvatore" della Fonsai ma diventerà testimone d’accusa e, secondo gli ex amici Ligresti, traditore. La mamma ministro invece rimane fedele. Il giorno degli arresti telefona a Gabriella Fragni, compagna di Salvatore per dirle: "Qualsiasi cosa adesso serva, non fate complimenti, guarda non è giusto". In seguito telefona ai vertici del Dap per segnalare la sofferenza nel carcere di Vercelli di Giulia Ligresti. La polemica che ne segue fa vacillare il governo Letta, che si salva solo richiamando il suo partito, il Pd, alla disciplina di maggioranza e soprattutto all’obbedienza al Quirinale, che ha nel Guardasigilli una pedina decisiva per le operazioni di supplenza alla politica malata. Lettere: la detenzione preventiva causa il sovraffollamento di Raffaello Morelli (Liberali Italiani) Il Tirreno, 30 dicembre 2013 Entro cinque mesi l’Europa multerà l’Italia in mancanza di un intervento che risani le incivili condizioni delle carceri sovraffollate. Il Governo ha compiuto un timido atto con cui circa 2000 detenuti saranno liberati dalla custodia cautelare in carcere attraverso sconti di pena e l’introduzione di una nuova fattispecie di piccolo spaccio. Ma il problema del sovraffolamento ha un’altra dimensione e soprattutto non va confuso con l’esigenza di rivedere alcune leggi sulle droghe e di un nuovo approccio nel mondo dei migranti. I dati dimostrano in modo non equivoco che il sovraffollamento delle carceri non dipende da un’inclinazione a delinquere maggiore rispetto agli altri paesi, ma dall’abuso della carcerazione per chi non è condannato in via definitiva. I detenuti eccedenti la capienza delle carceri sono meno di 19.000, solo quelli in attesa di processo 17.000 e quasi altri 12.000 non ancora condannati. La linea maestra per risolvere la questione oggi ed evitare che si ripresenti a breve, è un rapido intervento legislativo ordinario che liberi subito i detenuti non condannati (salvo quelli perseguiti per reati in flagranza, delitti di sangue, associazione criminale e violenza sessuale) e insieme riduca circostanze e termini della custodia cautelare. Così si applicherebbe un principio di civiltà (no all’abuso della carcerazione preventiva), si risolverebbe un problema (il grave sovraffollamento) eliminandone la causa e si eviterebbe una multa dai 60 agli 80 milioni dall’Europa. Viceversa, ci si sta complicando la vita con problemi che esulano dalla questione sovraffollamento e si evocano mutamenti normativi controversi, se non addirittura provvedimenti di amnistia. Un conto è liberare i detenuti non condannati, un conto è introdurre benefici che riducano la pena per altri reati già sanzionati al termine del processo. E richiedere un’amnistia, vuol dire diminuire il valore della pena irrogata, non evitare il sovraffollamento sempre ripresentatosi nel giro di poco tempo e prima di tutto dimenticare che l’amnistia ha una procedura assai ardua, dato che la Costituzione richiede una maggioranza di 2/3 dei parlamentari. Insomma, buttarla sul pietismo evocando atti di clemenza apre altre questioni e innesca una procedura più difficile lasciando marcire la condizione carceraria. Dovremmo deciderci ad affrontare i problemi nella loro dimensione reale. Lettere: ministro, riconsideri il trasferimento del direttore del carcere Marassi Ristretti Orizzonti, 30 dicembre 2013 Gent.ma Sig.ra Ministro, mi chiamo Milò Bertolotto, sono stata assessora al personale, politiche della sicurezza e informatica della Provincia di Genova fino alla scadenza del mandato della Giunta di Alessandro Repetto nel 2012. In quegli anni Lei era Prefetto di Genova ed ho avuto occasione di conoscerLa ed apprezzare il Suo lavoro. Tra le mie numerose deleghe ne ho avuto una, quella alle carceri, che mi ha più delle altre appassionato e impegnato. Già nel mandato precedente (2002-2007) in qualità di consigliera provinciale mi era stata affidata la delega alle carceri. È stato così che nel 2003 ho conosciuto il Direttore di Marassi, Salvatore Mazzeo, appena insediatosi. Conoscevo il carcere di Marassi dal 1998 per avervi realizzato un progetto di educazione alimentare nella Sezione a Custodia Attenuata e la situazione molto critica dell’istituto, sia per gli operatori sia per le persone detenute, mi era ben chiara. Tutto questo per dire che parlo a ragion veduta: ho constatato personalmente come la direzione del dott. Mazzeo abbia trasformato positivamente quel carcere, pur perdurando le condizioni di sovraffollamento e le altre carenze strutturali che lo caratterizzano. Considerazioni che Lei stessa ha esplicitato pubblicamente in occasione della Sua visita a Marassi nel settembre di questo anno. Nel corso di 10 anni ho avuto molte occasioni di collaborare con il dott. Mazzeo perchè molti sono stati i progetti che la Provincia di Genova ha sostenuto e realizzato a favore delle persone detenute a Marassi (così come a Pontedecimo e a Chiavari). Ho atteso qualche giorno prima di scriverLe personalmente perchè si "sgonfiasse" la bolla mediatica che ha investito il Direttore Mazzeo a causa delle sue dichiarazioni rilasciate a caldo a seguito dell’evasione di Bartolomeo Gagliano. Mi auguro vivamente che anche Lei abbia avuto il tempo di riflettere sulla vicenda e soprattutto sull’assoluta sproporzione tra quanto dichiarato dal dott. Mazzeo e la sanzione disciplinare che sembra debba portare ad una sua rimozione dalla direzione di Marassi. Da assessora al personale prima di rimuovere un dirigente e spostarlo ad altro incarico nel caso si fossero verificate mancanze anche gravi ho sempre approfondito la questione con il diretto interessato, considerando in primo luogo il curriculum della persona ed i risultati ottenuti. Mi ha dunque molto stupito e sconcertato apprendere dalle Sue parole che un eventuale trasferimento sarebbe motivato dal discredito alle Istituzioni e dall’allarme sociale che le dichiarazioni del dott. Mazzeo avrebbero procurato. Chi si occupa di carceri come me da molti anni sa bene che il tema è quanto mai impopolare e che l’allarme sociale è costantemente in agguato, alimentato dai mass media e da una sotto cultura molto diffusa che vorrebbe i colpevoli di reato in carcere per poi … "buttar via la chiave". Lei, da Ministro, sta cercando di introdurre norme che vadano nel segno opposto, Salvatore Mazzeo lo fa da molti anni sul campo e questo gli viene riconosciuto da più parti: davvero, secondo Lei, una dichiarazione incauta rilasciata in un momento molto difficile è sufficiente per buttare a mare il grande lavoro di anni e anni? Quanto al discredito delle Istituzioni, avendone fatto parte a lungo, ritengo siano ben altre le ragioni che inducono i cittadini a non avere più fiducia nelle Istituzioni e nei loro rappresentanti. Lei ha avuto occasione di verificarlo personalmente in tempi recenti e mi stupisce davvero, perdoni la franchezza, che nel caso del Direttore Mazzeo decida di usare pesi e misure diversi. Confidando in un Suo ripensamento, La saluto cordialmente e Le auguro buon lavoro. Milò Bertolotto Veneto: istituito un Garante regionale a tutela dei deboli di Claudio Sinigaglia (Consigliere Pd della Regione Veneto) Il Mattino di Padova, 30 dicembre 2013 La Regione Veneto ha istituito il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Facendo seguito all’articolo 63 dello statuto, nella seduta del 18 dicembre il Consiglio regionale veneto ha infatti approvato la legge sul Garante dei diritti della persona che esercita la funzione di difensore civico, di tutore dei minori e di tutela dei diritti della popolazione carceraria, sottoposta a misure restrittive della libertà personale. Questo provvedimento legislativo, finalizzato ad unificare in un Garante la tutela e la promozione dei diritti di tutte le persone, è una grande innovazione ed un’importante affermazione di civiltà giuridica. La riorganizzazione consentirà di partire subito con la tutela dei diritti di chi è privato della libertà personale perché questa funzione verrà momentaneamente affidata all’attuale tutore dei minori, già presente ed attivo nel Veneto, come il difensore civico, dal 1988. Il Garante così come istituito contribuisce a promuovere il soddisfacimento dei bisogni vitali dei cittadini, perché richiama le istituzioni ai loro fini di servizio, perché agevola i rapporti di reciproca fiducia tra cittadini e istituzioni, perché promuove la cultura della legalità, perché è un antidoto alla burocrazia e alla cattiva amministrazione. Il Garante appartiene alla cultura della democrazia e dei diritti umani e per questa cultura c’è un principio fondamentale che deve essere posto alla base di qualsiasi ordinamento: il rispetto della dignità della persona umana. Compito del Garante dunque è quello di ricordare che l’autorità e le istituzioni sono necessarie e si legittimano, proprio perché tutelano la dignità di tutte le persone, soddisfano i bisogni reali delle persone, delle famiglie e delle formazioni sociali. Ecco perché l’istituzione del Garante, indipendente ed autonomo nelle decisioni, è di estrema attualità. Sicuramente l’istituzione della figura di garanzia delle persone private della libertà personale inserirà nuovi percorsi per conoscere un tema, quello della detenzione, che può generare anche un rifiuto ideologicamente netto, oppure imporre di riconsiderare il significato della pena, dell’articolo 27 della Costituzione, della tortura, della dignità della persona. Nello svolgimento delle sue funzioni il Garante assume infatti ogni iniziativa per assicurare il diritto alla salute, all’istruzione, alla formazione professionale, al reinserimento sociale e lavorativo delle persone detenute, anche negli istituti per minori. Infine, l’aver accorpato in un unico organo monocratico regionale, di nomina consiliare, la difesa civica, la tutela dei minori e la protezione dei detenuti, significa rafforzarne l’autorevolezza ed il ruolo soprattutto e principalmente nell’interesse delle persone più fragili e più deboli della nostra società. Lettere: un po’ di sole nell’acqua gelida di Giorgio Pagano www.cittadellaspezia.com, 30 dicembre 2013 Visitare il carcere, guardare oltre le sbarre un mondo blindato e dolente, è sempre un’esperienza dura. Anche quest’anno sono stato a Villa Andreino nei giorni di Natale, insieme all’amica Alessandra Ballerini dell’associazione Antigone, prezioso strumento "per le garanzie e i diritti nel sistema penale". Ancora una volta sono stato riscaldato da "un po’ di sole nell’acqua gelida", per dirla con il titolo di un romanzo della scrittrice francese Francoise Sagan: vale a dire l’umanità e l’intelligenza di chi opera nel nostro carcere, dalla direttrice Maria Cristina Bigi alla Comandante della Polizia Penitenziaria Maria Assunta Magliocca, dai pedagogisti agli agenti, dagli operatori sanitari ai volontari. Come sempre mi hanno accompagnato i vecchi amici pedagogisti Licia Vanni e Agostino Codispoti, con i quali realizzai da assessore, a metà degli anni ‘90, il progetto, allora "pionieristico", di impegnare nella cura dei nostri giardini molti detenuti, alcuni dei quali diventarono, una volta liberi, giardinieri. Licia e Agostino non hanno perso la passione di allora: hanno appena lanciato l’idea di impegnare i detenuti, d’intesa con Provincia, Comune e dirigenti scolastici, in piccoli lavori di manutenzione nelle scuole. Altri carcerati sono impegnati in attività di pelletteria e di saldo carpenteria, altri ancora frequentano corsi di grafica pubblicitaria, e perfino di filosofia, in questo caso grazie all’impegno del professor Giorgio Di Sacco: questa è stata anche la prima, straordinaria, esperienza "da docente" di mio figlio Luca, alle "Vallette" di Torino, e mi ha fatto molto piacere vederla praticata anche nella mia città. Piccoli esempi -"raggi di sole"- della consapevolezza che un carcere violento e disumano fa male all’intera società, e che bisogna occuparsi di chi ha sbagliato garantendogli il diritto di potersi reintegrare tra noi. La detenzione, come dice la Costituzione, deve essere momento e periodo di rieducazione per il reinserimento sociale. Impegnarsi per questo non vuol dire solo investire in civiltà. Non vuol dire solo evitare le sanzioni europee, che pure vanno evitate. Significa anche investire in sicurezza, perché -ce lo dicono i dati- una pena concepita come momento di transizione verso la reintegrazione contribuisce ad evitare recidive e nuovi comportamenti illegali fuori dal carcere. E tuttavia i problemi sono enormi, anche a Spezia. Ho visto i lavori di ristrutturazione del carcere ultimati: le celle sono radicalmente migliorate, ma gli spazi comuni sono diminuiti. C’è un minuscolo campo di calcio, c’è la cappella, ma non c’è il teatro, non c’è la biblioteca, non c’è un’area verde... Insomma, sono state realizzate più celle a scapito degli spazi collettivi. Oggi i carcerati sono 243, la struttura dovrebbe ospitarne meno di 200: il sovraffollamento esiste anche da noi, anche se non è drammatico come altrove. La maggioranza dei detenuti è straniera (52%), l’età media è bassa, sotto i 35 anni, i tossicodipendenti sono la metà. Sono poverissimi, praticamente non hanno il diritto alla difesa. Ci sono 4-5 casi alla settimana di autolesionismo (tagli, lamette ingoiate…). Pochi giorni fa è deceduto un magrebino di 27 anni, un tossicodipendente che aveva sniffato gas dalla bomboletta che i detenuti usano per riscaldarsi o per bollire il caffè: bisognerebbe toglierle, ma nessuno sa come sostituirle. La verità è che, nonostante l’umanità e l’intelligenza di molti operatori, le carceri italiane sono alla deriva, retrocesse da anni nell’oblio. L’Italia è al terzo posto dopo Serbia e Grecia per il sovraffollamento, e sempre al terzo posto, dopo Ucraina e Turchia, per numero assoluto di detenuti in attesa di giudizio. L’uso di pene alternative è molto scarso: non a caso quasi un terzo (il 27%) dei detenuti si trova in carcere per una pena inferiore ai tre anni. Una situazione insostenibile. Che ha spinto il Governo Letta, nei giorni scorsi, ad approvare un decreto, che dovrà ora passare all’esame del Parlamento, per ridurre le entrate in carcere: ancora "un po’ di sole nell’acqua gelida". Dietro le sbarre ci sono troppi tossicodipendenti: la creazione, prevista nel decreto, di un autonomo reato di piccolo spaccio punito con pene più lievi delle attuali, renderà loro accessibili misure alternative come l’affidamento terapeutico. Dietro le sbarre ci sono troppi imputati: l’attesa del loro giudizio potrà avvenire fuori dal carcere mediante sorveglianza elettronica, modalità che solo in Italia poco ha funzionato e molto è costata. Dietro le sbarre ci sono troppi extracomunitari: il decreto amplia la platea di coloro che potranno essere espulsi invece che reclusi. Per la prima volta dopo molti anni il Governo, anche per gli "strattoni" del Presidente della Repubblica, va chiaramente nella direzione di una diversificazione della risposta punitiva, nella prospettiva di una concezione del carcere che per primo il cardinale Carlo Maria Martini, e molti dopo di lui, definì come "extrema ratio". Tuttavia sono solo piccoli passi. Bisogna essere prudenti nell’ottimismo: sia perché le misure alternative sono laboriose e necessitano di attenzione alla singolarità dei casi e delle situazioni; sia perché alcune soluzioni -il braccialetto elettronico, l’espulsione- in passato si sono rivelate velleitarie; sia perché secondo stime ministeriali, convertito il decreto, l’attuale sovraffollamento carcerario di 27.000 posti diminuirà di sole 3.000 unità. Servono misure strutturali che decongestionino le carceri modificando radicalmente due leggi "riempi carceri": la Bossi-Fini sull’immigrazione e la Fini-Giovanardi, che ha equiparato le droghe leggere a quelle pesanti, portando in carcere dal 2006 ad oggi 120.000 persone, che sono seguite da strutture spesso inadeguate per mezzi e personale. La riforma carceraria è oggi strettamente legata, dunque, alla riforma delle politiche dell’immigrazione e delle politiche di contrasto alla tossicodipendenza. E se, in questo quadro, per fronteggiare l’emergenza, servissero mirate misure di clemenza? Io credo che, se fossero inquadrate appunto nell’ambito di provvedimenti strutturali di riforma e se escludessero reati di particolare gravità e allarme sociale, il Parlamento dovrebbe, con serietà e responsabilità, attivarle. Perché non sarebbero atti di debolezza ma di forza, coraggio e speranza. Pistoia: trasferiti i collaboratori di giustizia, si attenua il sovraffollamento di Leonardo Soldati Il Tirreno, 30 dicembre 2013 Si attenua il sovraffollamento del carcere di Pistoia, lo segnalava il Garante dei carcerati di Pistoia, Antonio Sammartino, già nella relazione di luglio scorso. Contribuisce il trasferimento dei collaboratori di giustizia in altri istituti, lo spazio liberato ospita adesso i detenuti semiliberi ed altri reclusi lavoranti, costituendo di fatto una sezione a regime detentivo attenuato. Qui è in progetto la realizzazione della nuova biblioteca, più grande ed accessibile a tutti i detenuti, con cinque computer donati dal Comune di Pistoia. I detenuti semiliberi potrebbero poi essere trasferiti in locali del vicino convento dei Frati Cappuccini, in via degli Armeni. Il carcere di Pistoia, dice Sammartino, conferma la tendenza nazionale ad una detenzione di tipo sociale, ovvero con molti reclusi con svantaggi sociali e sanitari. Al 31 marzo scorso, infatti, su 119 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 74 posti, il 56% sono stranieri in gran parte senza permesso o con permesso scaduto ed impossibilitati a rinnovarlo perché privi di reti parentali di supporto, alcuni con problemi di tossicodipendenza, psichiatrici o con invalidità civile non riconosciuta. Leggendo ancora il rapporto del garante per i diritti dei carcerati, 19 reclusi hanno problemi di tossicodipendenza, di cui solo tre in terapia metadonica, ben 52 in terapia psicotropa, molti positivi al test Mantoux cioè in contatto con il bacillo tubercolare e solo due seguono la profilassi antibiotica, 18 quelli che lavorano di cui 17 alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria ed uno di una ditta esterna. Insomma una situazione sanitaria non certo invidiabile nel carcere. In questi due anni dalla sua istituzione, dunque, il Garante ha lavorato nell’ambito della promozione di attività educative interne, del lavoro esterno e di pene alternative al carcere, in collaborazione con una nuova Direzione più aperta alla città. Apportate migliorie alla palestra, utilizzata anche per l’attività teatrale, con il finanziamento dell’associazione Lions di Pistoia, ed alla cucina. Attivato un servizio settimanale di mediazione linguistica culturale, per i detenuti di nazionalità araba, rumena ed albanese, avvalendosi di operatori dell’ex Centro Stranieri. Proseguono le attività formative finanziate dalla Provincia, sospese solo d’estate, con una partecipazione dei detenuti ritenuta buona da Sammartino, solitamente presente in carcere ogni venerdì pomeriggio per le funzioni di osservanza e vigilanza previste dall’apposito regolamento comunale. I suoi colloqui con i detenuti sono passati da quattro-cinque iniziali a dieci-undici. Affisso in una bacheca accessibile a tutti un opuscolo informativo sui compiti del Garante, tradotto in arabo, rumeno ed albanese. Nelle richieste prevalgono la residenza anagrafica e la visita per l’invalidità civile (l’ambulatorio medico è sprovvisto di collegamento Internet, sebbene necessario per le richieste all’Inps). Fornita assistenza tecnica per la compilazione di ricorsi alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) ed ottenuto un volontario dell’Ufficio Esecuzione Penale Esterna (Uepe) in supporto alle attività di volontariato interne. Grazie ad una raccolta fondi della sezione Soci Coop di Pistoia, sono stati acquistati prodotti per l’igiene personale e la pulizia delle celle per i detenuti indigenti. E parlando della mensa carceraria c’è la notizia che è stato ripristinato l’assaggio delle pietanze da parte del direttore del carcere, dopo la segnalazione della scarsa qualità del cibo da parte di detenuti con presunti casi di dissenteria. Genova, tenta il suicidio a Marassi il detenuto che aveva dato fuoco alla cella Ristretti Orizzonti, 30 dicembre 2013 Ha tentato il suicidio nella sua cella del carcere di Marassi, ma è stato salvato in tempo dal tempestivo intervento del personale di Polizia Penitenziaria in servizio. È accaduto ieri, nel tardo pomeriggio, nella VI sezione del carcere di Genova ed ha visto protagonista un detenuto nordafricano con evidenti problemi psichiatrici, che il giorno della vigilia di Natale diede fuoco alla sua cella nel carcere di Marassi. "L’ uomo era in cella da solo ed ha tentato il suicidio stringendosi al collo un cappio realizzato strappando la polo che indossava", commenta Roberto Martinelli, segretario generale aggiunto del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, la rappresentativa organizzazione dei Baschi Azzurri. " Solo l’attenzione dei poliziotti in servizio ha evitato una tragedia. Ma quel che é grave è che un carcere come Marassi, sovraffollato da 800 detenuti, non ha uno psichiatra in servizio nella giornata di sabato. Assurdo! Non si può scaricare sulla Polizia Penitenziaria competenze professionali che sono di altri, come tracciare i profili psichiatrici dei detenuti". Martinelli, che esprime l’apprezzamento e la vicinanza del primo Sindacato del Corpo al Reparto di Polizia Penitenziaria di Genova Marassi, intende sottolineare una volta di più quello che quotidianamente fanno i Baschi Azzurri: "Siamo attenti e sensibili, noi poliziotti penitenziari, alle difficoltà di tutti i detenuti, indipendentemente dalle condizioni sociali o dalla gravità del reato commesso. Negli ultimi vent’anni anni, dal 1992 al 2012, abbiamo salvato in Italia la vita ad oltre 16mila detenuti che hanno tentato il suicidio ed ai quasi 113mila che hanno posto in essere atti di autolesionismo, molti deturpandosi anche violentemente il proprio corpo". Numeri su numeri che raccontano un’emergenza sottovalutata secondo Martinelli:: "Nei 206 istituti penitenziari nel primo semestre del 2013 si sono registrati 3.287 atti di autolesionismo, 545 tentati suicidi, 1.880 colluttazioni e 468 ferimenti: 3.965 sono stati i detenuti protagonisti di sciopero della fame, mentre purtroppo 18 sono i morti per suicidio e 64 per cause naturali. Il sovraffollamento ha raggiunto livelli patologici, con oltre 65mila reclusi per una capienza di 40mila posti letto regolamentari. Il nostro organico è sotto di 7mila unità. La spending review e la legge di Stabilità hanno ridotto al lumicino le assunzioni, nonostante l’età media dei poliziotti si aggira sui 37 anni. Altissima, considerato il lavoro usurante che svolgiamo, come dimostrano i gravi episodi accaduti a Genova Marassi". Rimini: assistente della polizia penitenziaria aggredisce e ferisce ispettore Ansa, 30 dicembre 2013 Un assistente della polizia penitenziaria ha aggredito un ispettore, provocandogli ferite e lesioni giudicate guaribili in 30 giorni. È accaduto a Rimini, a poca distanza di tempo dalla tragedia di Torino, dove un agente della penitenziaria ha ucciso un ispettore poi si è ucciso. Lo hanno reso noto Giovanni Battista Durante, segretario generale aggiunto Sappe, e Francesco Campobasso, segretario regionale. "Questa volta per fortuna - commentano - l’episodio non è finito in tragedia, ma dobbiamo sottolineare come certi fatti sembrano annunciati da mesi e anni di tensioni e conflitti non risolti da un’Amministrazione completamente assente e priva di iniziativa a tutela del personale di polizia penitenziaria". "Finora - aggiungono i sindacalisti - avevamo sempre denunciato episodi che riguardavano aggressioni tra detenuti e da parte dei detenuti verso gli agenti, ma ormai la situazione nelle carceri è talmente grave che può accadere di tutto. L’Istituto di Rimini è ormai da tempo senza un direttore a tempo pieno, così come Bologna, Ferrara e Forlì. Il personale è lasciato da solo ad affrontare problemi sempre più difficili, che possono anche sfociare in situazioni conflittuali che richiederebbero interventi adeguati da parte dei vertici". Ostuni (Br): le storie di detenuti escono dal carcere e arrivano in città di Anna Maria Moro Asca, 30 dicembre 2013 Una serata emozionante dedicata alle voci, che si sono propagate oltre certe mura: quelle del carcere. È andata in scena l’altro ieri (28 dicembre) presso lo store "Made in Carcere" - recentemente inaugurato nei pressi di Piazza della Libertà ad Ostuni - l’iniziativa "Voci - Pensieri, testimonianze, suoni, parole" promossa dall’associazione culturale "Folletti e Folli", dall’associazione Salviamo il Bianco e da "Made in Carcere". La serata si è articolata nella lettura di alcuni brani - lettere aperte, testimonianze, racconti romanzati - storie sconosciute vissute nei carceri di tutta Italia. Le case circondariali sono state descritte come luoghi in cui soggiornare, più che espiare una pena, luoghi che insegnano a vivere lontano dal superfluo di cui si articola il presente e che insegnano ad amare solo "il necessario". Nonostante la crescita interiore che un carcere può regalare, però, il finale non è mai dei migliori e si finisce sempre per essere giustiziati. Le letture sono state eseguite dalle voci di Antonella Colucci, Onofrio Fortunato, Dario Lacitignola, Francesca Cavallo e Piero Putignano, accompagnati dalla chitarra di Agnese Germinali. L’evento è stato organizzato "per concentrare l’attenzione su Made in Carcere, sulle detenute, sul mondo carcerario che per molti di noi è completamente sconosciuto - spiega Paolo Pecere dell’associazione Salviamo il Bianco -Noi abbiamo aperto questo negozio credendo nel progetto di Luciana Delle Donne, che è la fondatrice di Made in Carcere, sosteniamo lei in tutto quello che fa e la sua volontà di dare una possibilità alle donne carcerate, per le quali è possibile un reinserimento nella società". "Ci piaceva l’idea di sostenere l’iniziativa di Made in carcere portando delle letture di testimonianze di carcerati, per far capire e percepire la vita del carcere - spiega Dario Lacitignola dell’associazione culturale Folletti e Folli - Testimonianze, lettere, idee sono state raccolte in pochi giorni, nonostante il poco tempo a disposizione era una volontà comune quella di costruire questo lavoro". Salerno: evade dai domiciliari, la polizia lo ritrova a Trieste che cerca uscire dal Paese Adnkronos, 30 dicembre 2013 Gli agenti del commissariato di Battipaglia, Salerno, a seguito di un controllo hanno scoperto che un detenuto agli arresti domiciliari per rapina e lesioni aggravate, era evaso. L’uomo, romeno di 25 anni, è stato rintracciato nel centro di Battipaglia e denunciato per evasione è stato accompagnato nuovamente presso il proprio domicilio. Ciò nonostante l’arrestato si è reso ancora irreperibile e i poliziotti, intuendo che volesse lasciare l’Italia hanno effettuato una serie di accertamenti, scoprendo che l’uomo si stava recando a Trieste per oltrepassare la frontiera e tornare in Romania. La polizia di Frontiera ha quindi rintracciato il detenuto a bordo di un pullman. L’evaso è stato quindi arrestato per il reato di evasione appena sceso dal mezzo e trasferito al carcere di Trieste. Nel frattempo gli sono stati revocati i domiciliari. Roma: domani all’Ipm di Casal del Marmo attori recitano la Costituzione Adnkronos, 30 dicembre 2013 "Drammatizzare la Costituzione italiana, recitarla, musicarla e proporla ai detenuti romani; fare diventare i commi, gli articoli e le parole costituzionali elemento di spettacolo e di aggregazione": è quanto proporrà domani nel carcere minorile romano di Casal del Marmo la "Morgana Communication", con un progetto sostenuto e patrocinato dall’assessorato alla cultura di Roma Capitale. Alle 10 di domani, gli attori Andrea Rivera, Eugenia Costantini e Mara Veneziano reciteranno gli articoli della Costituzione dedicati ai temi della pace, dell’uguaglianza e dei diritti, legandoli anche a brani della tradizione cabarettistica, letteraria, poetica, filosofica. "È un modo - spiegano gli organizzatori - per intrattenere ma anche divertire, stimolare, coinvolgere un pubblico apparentemente distante e che invece già negli incontri precedenti, ha mostrato notevole interesse e attenzione". Infatti, l’evento di domani a Casal del Marmo è il secondo appuntamento della rassegna; il precedente si è svolto lo scorso 20 dicembre al carcere romano di Regina Coeli e ha visto la partecipazione degli attori Nicolas Vaporidis e Serena Autieri. I prossimi due appuntamenti sono già fissati per gennaio, con date e luoghi però ancora da definire, e vedranno protagonisti Emilio Solfrizzi e Roberto Ciufoli. Isernia: "La banda degli onesti", spettacolo per i detenuti con Compagnia teatrale Cast www.primonumero.it, 30 dicembre 2013 Sono stati ospiti della Casa circondariale di Isernia gli attori della compagnia teatrale Cast. Uno spettacolo di beneficenza alla presenza dei detenuti i quali hanno assistito divertiti alla messa in scena de "La banda degli onesti", rivisitazione di Salvatore Mincione Guarino sul testo teatrale di Mario Scarpetta. "L’obiettivo della compagnia - spiega l’attore Giovanni Gazzanni - che porta avanti anche un laboratorio teatrale all’interno della struttura penitenziaria da ormai quattro anni, è quello di valorizzare la dimensione dei sentimenti, delle emozioni che vive all’interno del carcere di cui troppo spesso si parla solo come un luogo fisco (spazi, servizi igienici, letti…) e di andare oltre l’isolamento psicologico, la solitudine dei detenuti. Per dirla con Vittorino Andreoli il carcere visto attraverso i sentimenti è un mondo ricco, esasperato, esasperatamente umano". Immigrazione: Milano; cresce il fronte contro il Cie "chiudere Corelli per sempre" di Zita Dazzi La Repubblica, 30 dicembre 2013 Il Centro di via Corelli va chiuso, come tutti gli altri Cie. Lo dirò al prefetto, ho già chiesto un incontro". Emanuele Fiano, deputato milanese Pd, aveva fissato un sopralluogo nel Centro di identificazione ed espulsione in zona Lambrate già prima dell’annuncio che la struttura resterà chiusa per quattro settimane, per consentire la ristrutturazione in vista della nuova gestione che scatterà il primo febbraio. Lavori necessari dopo l’incendio appiccato oltre un mese fa da alcuni immigrati in segno di protesta per le condizioni di detenzione nel centro. "Con altri parlamentari del Pd, in vista del superamento della legge Bossi Fini e del reato di clandestinità, abbiamo iniziato un giro di visite nei Cie italiani e la tappa di via Corelli è una delle più importanti - spiega Fiano. Noi siamo senza mezzi termini per la chiusura di questi luoghi che non si può definire in altro modo che carceri senza diritti, dove le persone restano recluse per tempi sempre troppo lunghi, senza alcuna possibilità nemmeno di frequentare progetti di recupero e reinserimento Anche la destra e la Lega dovrebbero riconoscere che i Cie sono anche inefficaci, hanno fallito la loro missione". Fiano, che negli anni scorsi ha visitato molte volte via Corelli, elogia il "lavoro svolto da volontari, agenti delle forze di polizia e operatori della Croce Rossa". A febbraio la prefettura avrà completato le procedure per l’assegnazione della gestione del Cie, per tanti anni affidato alla Cri, anche se adesso l’ente ha rinunciato all’appalto perché i rimborsi - validi per Milano e per il resto del Paese - sono stati giudicati troppo bassi nella gara bandita dal ministero degli Interni. "Il Comune spera che il centro di via Corelli venga chiuso definitivamente - insiste l’assessore alle Politiche sociali Pierfrancesco Majorino. E inutile spendere altri soldi per ristrutturarlo, la struttura va destinata all’accoglienza di profughi e senza fissa dimora". Una posizione non condivisa dall’assessore provinciale alla Sicurezza Stefano Bolognini, della Lega: "Via Corelli deve restare aperto per l’identificazione dei clandestini e le procedure di espulsione". Parole contestate dal presidente dell’associazione di volontariato Naga, Luca Cusani: "Nei Cie non vengono rispettati i diritti umani e legali dei cittadini stranieri, trattenuti e privati della libertà senza aver commesso alcun reato. Va chiuso" India: quarto Capodanno in carcere per Elisabetta e Tomaso di Angelo Fresia La Stampa, 30 dicembre 2013 Nessun brindisi, né lenticchie e neppure cotechino: nelle carceri indiane la dieta è rigorosamente vegetariana. Tomaso Bruno ed Elisabetta Boncompagni trascorreranno domani il quarto Capodanno nel penitenziario di Varanasi, dove sono rinchiusi dal 7 febbraio 2010 con l’accusa di avere ucciso l’amico Francesco Montis. "Speriamo che questo Natale sia l’ultimo senza di te", ha scritto nei giorni scorsi Marina Maurizio, madre del cameriere albenganese, ormai tristemente abituata a incasellare ricorrenze, anniversari e compleanni distante dal figlio. Col 2013, per i due detenuti italiani si chiude un anno ricco di speranze e cocenti delusioni. All’inizio di febbraio, in corrispondenza col terzo anno di detenzione, era arrivata, tra l’entusiasmo di amici e parenti, la sentenza con cui la corte Suprema di New Delhi aveva giudicato ammissibile il ricorso presentato dagli avvocati della coppia. A tanti sostenitori di Bruno e Boncompagni, il verdetto sembrava il primo spiraglio di luce, dopo trentasei mesi caratterizzati da due condanne all’ergastolo, col rischio della pena di morte scongiurato solo grazie a un’interpretazione "garantista" della legge da parte dei giudici. Purtroppo per i due turisti, la giustizia asiatica ha riservato loro una nuova raffica di rinvii. L’inizio del processo di terzo grado era stato fissato dai magistrati per martedì 3 settembre. Al momento di aprire il dibattimento, in aula manca il pubblico ministero, lasciando a bocca aperta i genitori di Tomaso Bruno, arrivati in India proprio per seguire la discussione. L’udienza successiva è in programma martedì 17 settembre. Nulla da fare, perché le cause in programma sono troppe, così come alla fine dello stesso mese. La scena si ripete martedì 22 ottobre. E anche il martedì dopo. Poi i festeggiamenti del Diwali, il Natale indiano, bloccano l’attività dei tribunali. I giudici chiamati ad affrontare il caso si riuniscono martedì 12 novembre. Discutono ventuno pratiche, ma la causa degli italiani è al ventinovesimo posto. Nuovo rinvio di qualche giorno, necessario per convocare nuovamente gli avvocati e comunicare un ulteriore slittamento a martedì 26 novembre. In questo caso, il collegio giudicante evita ai difensori della coppia il viaggio a New Delhi, informandoli il giorno prima di avere annullato l’udienza e averla spostata a martedì 10 dicembre. Quando, naturalmente, si registra un altro rinvio a martedì 17 dicembre. L’ultima udienza del 2013 si traduce col decimo rinvio consecutivo del processo. Un piccolo record negativo per Elisabetta Boncompagni e Tomaso Bruno, che il prossimo sabato 11 gennaio compirà (festeggiare è un termine un po’ eccessivo) trentuno anni. Come regalo di compleanno chiederà un’udienza regolare nella seduta di martedì 7 gennaio, la data in cui dovrebbe finalmente iniziare la discussione. Gran Bretagna: ex capo magistratura "Corte europea? Troppi poteri, lede nostra sovranità" di Luca Lampugnani www.ibtimes.com, 30 dicembre 2013 Se già i rapporti tra Londra e Bruxelles non possono certo dirsi idilliaci - nel 2017 i cittadini saranno chiamati a decidere se stare "in or out" all’Ue, un nuovo fronte di polemiche, questa volta rivolto alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, potrebbe sollevarsi nell’ambito della giustizia. A dar fuoco alla miccia di questa nuova potenziale ‘bomba’ è l’ex capo della magistratura britannica (dal 2008 al 2013), Igor Judge, intervenuto sabato durante il programma radiofonico Today dell’emittente Bbc Radio 4. L’ex giudice, classe 1941, si scaglia proprio contro la Cedu bollandola come troppo potente, affermando che alcune sue ‘imposizioni’ rischierebbero di minare la sovranità del Regno Unito. Il perno attorno a cui ruotano le critiche dell’ex capo della magistratura è una sentenza della Corte a cui, fino a questo momento (nonostante una commissione parlamentare sia al lavoro per modificare la legge), l’Inghilterra non ha mai risposto positivamente. In sostanza la Cedu, che ha sede a Strasburgo, ha stabilito nell’ambito dei diritti dell’uomo che anche i detenuti, ovviamente in determinate condizioni, possano avere il diritto al voto. Possibilità, quest’ultima, finora mai presa in considerazione da Londra. Per questo motivo il giudice della Corte Europea Dean Spielmann ha ricordato al Regno Unito, oltre a definire illegale l’assenza del diritto al voto per i detenuti, che se non si affretterà a uniformarsi alla sentenza potrebbe dover affrontare l’uscita dall’Ue. Una battuta su cui Igor Judge ha voluto intervenire, rompendo il silenzio politico ed entrando in gamba tesa sulla Cedu e su Spielmann: "secondo la sua visione (del giudice, ndr), la Corte Europea ha il diritto di dire a tutti i Paesi del Vecchio Continente come dovrebbero organizzarsi". Insomma, i giudici di Strasburgo godrebbero di troppe libertà: "non possono non essere governati da nessuno. Io sinceramente non credo che debbano avere questo tipo di potere" che, sempre secondo Judge, rischia di spazzare via la sovranità di ogni singolo stato europeo. Infatti, sostiene ancora, quello della minata sovranità "non è un problema solamente del Regno Unito, bensì colpisce tutti i Paesi in Europa", spiegando che per quanto riguarda l’Inghilterra è giunto il momento che a risolvere questa situazione, dove la Cedu interviene e annulla la sovranità del Paese, deve essere il Parlamento. Infatti, conclude l’ex capo della magistratura, "l’ultima parola dovrebbe sempre spettare ai nostri rappresentati eletti (i parlamentari, ndr), non certo a giudici non eletti sia interni al nostro sistema giuridico sia appartenenti ad ogni altra giurisdizione, compresa l’Europa. Questo - termina caustico - a meno che non abbiamo deciso di cedere loro la nostra sovranità". Siria: Amnesty denuncia torture e uccisioni nei centri di detenzione dell’Isis www.laperfettaletizia.com, 30 dicembre 2013 In un documento pubblicato il 19 dicembre 2013, Amnesty International denuncia la diffusione della tortura, delle frustate e delle uccisioni sommarie nelle prigioni segrete dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante (Isis), un gruppo armato che controlla ampie zone della Siria settentrionale. L’Isis, che afferma di applicare rigidamente la shari’a (legge islamica) nelle zone che controlla, sopprime violentemente i diritti della popolazione locale. Nel suo documento di 18 pagine, intitolato "Stato di paura: abusi commessi dall’Isis nei centri di detenzione della Siria settentrionale", Amnesty International descrive sette centri di detenzione diretti dall’Isis nel governatorato di al-Raqqa e ad Aleppo. "Tra le persone sequestrate dall’Isis Ci sono anche bambini di otto anni, detenuti in condizioni crudeli e disumane insieme agli adulti" - ha dichiarato Philip Luther, direttore del Programma Medio Oriente e Africa del Nord di Amnesty International. Dalle testimonianze di ex detenuti emerge un campionario scioccante di abusi: frustate con cavi elettrici e cinghie dei generatori, scariche elettriche e la tortura dello "scorpione" in cui il detenuto viene immobilizzato in una posizione estremamente dolorosa, con entrambi i polsi legati dietro una spalla. Le persone detenute dall’Isis sono accusate di furto o altri reati comuni, di "crimini" contro l’Islam come fumare sigarette o avere rapporti sessuali al di fuori del matrimonio. Altre sono state sequestrate per aver messo in discussione il comando dell’Isis o perché appartenevano a gruppi armati rivali nell’ambito dell’opposizione al governo siriano. L’Isis è sospettato anche di aver sequestrato e imprigionato cittadini stranieri, giornalisti inclusi. Secondo le testimonianze ottenute da Amnesty International, neanche ai bambini vengono risparmiate le frustate. Un padre ha raccontato il tormento di aver dovuto ascoltare le urla di suo figlio, torturato nella stanza accanto. Due detenuti hanno visto un ragazzo di 14 anni subire oltre 90 frustate durante un interrogatorio nella prigione di Sadd al-Ba’ath, nel governatorato di al-Raqqa. Un altro 14enne, accusato del furto di una motocicletta, è stato frustato ripetutamente per diversi giorni. "Frustare una persona, per non parlare di un bambino, è un atto crudele e disumano e una grave violazione dei diritti umani" - ha commentato Luther. "L’Isis deve cessare immediatamente di ricorrere alle frustate e ad altre pene crudeli e i suoi leader devono istruire le forze ai loro comandi al rispetto del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario". Parecchi ex detenuti hanno riferito ad Amnesty International di essere stati sequestrati da uomini a volto coperto, che li hanno portati in località sconosciute, dove sono rimasti anche per 55 giorni. Alcuni di loro non hanno mai capito dove sono stati trattenuti, ma Amnesty International ha identificato prigioni dell’Isis in sette località: Mabna al-Mohafaza, Idarat al-Markabat e al-Mer’ab nella città di al-Raqqa; Sadd al Ba’ath e al-’Akershi nel governatorato di al-Raqqa; Mashfa al-Atfal e Maqar Ahmed Qaddour ad Aleppo. La prigione di Sadd al-Baa’th è alle spalle di una diga sul fiume Eufrate, nei pressi di al-Mansura. Qui, il giudice del tribunale locale della shari’a, che si presenta invariabilmente con una cintura imbottita di esplosivo, ha istituito il regno del terrore sui detenuti. Ex detenuti lo accusano di presiedere "processi" grottescamente iniqui, della durata di pochi minuti e alla presenza di altri prigionieri, che culminano con condanne a morte eseguite di lì a poco o con sessioni impietose di frustate; in almeno un caso, egli ha direttamente preso parte. Nell’impianto petrolifero di al-Akershi, che l’Isis ha utilizzato anche come centro d’addestramento militare, viene praticata la tortura dello scorpione. Un ex detenuto ha trascorso 40 giorno in isolamento, parte dei quali incatenato in una piccola stanza piena di apparecchi elettrici e col pavimento bagnato di benzina. "Dopo anni in cui ha subito la brutalità del regime di Assad, la popolazione di al-Raqqa e di Aleppo ora è alla mercé di una nuova tirannia imposta dall’Isis, in cui le detenzioni arbitrarie, la tortura e le esecuzioni sono all’ordine del giorno" - ha sottolineato Luther. Amnesty International chiede alla comunità internazionale di adottare misure concrete per fermare il flusso di armi e di altro sostegno all’Isis e ad altri gruppi armati coinvolti in crimini di guerra e in altri gravi abusi dei diritti umani. "Il governo turco, in particolare, dovrebbe impedire che il suo territorio venga usato dall’Isis per trasferire armi e reclute in Siria. Gli stati del Golfo che hanno espresso supporto per i gruppi armati che si oppongono al governo siriano, dovrebbero a loro volta impedire il flusso di armi, equipaggiamento e altro materiale all’Isis, a causa del suo agghiacciante operato in materia di diritti umani" - ha concluso Luther. Amnesty International rinnova la sua richiesta al governo siriano affinché ponga fine alla sua parte di violazioni dei diritti umani (tra cui il ricorso alla tortura nei centri di detenzione) e consenta libero accesso sul territorio alla Commissione internazionale indipendente d’inchiesta, alle organizzazioni umanitarie e alle organizzazioni per i diritti umani. Mauritania: detenuti islamici in sciopero della fame, molti in carcere dopo il termine della pena Nova, 30 dicembre 2013 Un gruppo di detenuti politici mauritani è entrato ieri in sciopero della fame avviando una serie di proteste all’interno del carcere centrale di Nouakchott. Secondo quanto riporta l’agenzia di stampa mauritana "Ani", i detenuti protestano a causa della presenza in carcere di numerosi prigionieri islamici i quali hanno scontato la loro pena e nonostante questo non vengono scarcerati. In particolare la protesta riguarda il caso di 29 detenuti la cui permanenza in carcere bel oltre i termini della condanna è dovuto al fatto che non hanno come pagare la multa inflitta dal tribunale contestualmente ai danni da scontare in carcere. I detenuti in sciopero della fame hanno lanciato un appello alle autorità affinché facciano ciò che è necessario per risolvere questo problema. Nella lettera indirizzata al governo mauritano si chiede in particolare la liberazione per un detenuto senegalese il quale ha finito già diversi anni fa di scontare la sua pena. Israele: pubblicata lista terzo gruppo di 26 detenuti palestinesi da rilasciare Nova, 30 dicembre 2013 Una commissione ministeriale israeliana, ieri sera, ha approvato l’elenco dei 26 prigionieri palestinesi che verranno liberati durante la notte tra lunedì e martedì. Questo prima del ritorno del segretario di Stato statunitense, John Kerry, nella regione, previsto per la settimana prossima, una visita utile per far avanzare il processo di pace ancora in stallo. I nomi dei detenuti sono stati pubblicati sul sito della prigione d’Israele subito dopo la votazione. Questo è il terzo gruppo di 26 prigionieri, rilasciati nell’ambito degli accordi di pace tra Israele e Autorità nazionale palestinese, che prevedono la liberazione di un totale di 104 detenuti palestinesi dalle carceri israeliane entro aprile prossimo. Di questi, 52 prigionieri palestinesi sono stati già rilasciati in due gruppi nei mesi scorsi. Manifestazioni a Gerusalemme, davanti alla casa del primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, dove gli oppositori hanno chiesto al governo di non rilasciare i detenuti, la maggior parte dei quali hanno compiuto attacchi terroristici. I manifestanti avevano in mano le fotografie delle vittime e dei cartelli: "Dovreste vergognarvi. Solo in Israele vengono liberati degli assassini".