Giustizia: detenuti in calo, ma iter in salita per la conversione del decreto svuota-celle Silvia Barocci Il Messaggero, 29 dicembre 2013 È in vigore da cinque giorni il decreto legge sulle carceri che dovrebbe portare ad alleggerire le sovraffollate celle di circa 3mila detenuti nel giro di un paio di anni. È troppo presto per misurarne gli effetti, fanno notare al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ma il 2013 si sta per chiudere con un dato che lascia ben sperare: i detenuti sono calati sotto quota 63mila. Per la precisione, la scorsa notte erano 62.756. Senz’altro ben oltre la capienza regolamentare di circa 47mila posti, ma comunque un livello di molto inferiore a quello di novembre 2011, quando i detenuti erano 69mila, esattamente tanti quanti affollavano gli istituti penitenziari prima dell’indulto del 2007. Grazie ai tre decreti Alfano-Severino-Cancellieri sull’esecuzione presso il domicilio degli ultimi 12-18 mesi di pena sono infatti usciti 12.109 detenuti. Un’ulteriore spinta dovrebbe arrivare dall’ultimo decreto Cancellieri, varato prima di Natale, che introduce la liberazione anticipata speciale (uno sconto per buona condotta che passa da 45 a 75 giorni ogni sei mesi). Ma sulla strada della sua conversione in legge il provvedimento rischia di trovare diverse incognite. Il decreto comincia il suo iter in Commissione Giustizia alla Camera il 7 gennaio. Il giorno dopo, in aula, sempre alla Camera, si voteranno gli emendamenti al disegno di legge sulla custodia cautelare, approvato in Commissione da tutte le forze politiche, ad eccezione della Lega. L’ipotesi che sta prendendo piede è che al vagone veloce del decreto si possano agganciare anche le nuove norme sulla custodia cautelare. Ci aveva già provato il vicepremier Alfano, poi stoppato dal Guardasigilli Cancellieri e dallo stesso presidente del Consiglio Letta. Ora i giochi potrebbero riaprirsi, anche perché, da un lato, l’Associazione nazionale magistrati non condivide alcuni paletti posti nel testo per far scattare la custodia cautelare in carcere, e dall’altro aumenta la tentazione di alcuni parlamentari vicini a Berlusconi di presentare un emendamento che vieti il carcere agli ultrasettantacinquenni. Quando si tratta di carcere e di norme penali gli equilibri politici sono sempre instabili. Lo sa bene la presidente Donatella Ferranti (Pd) presidente della Commissione giustizia della Camera. "Per ora il decreto e il ddl viaggiano su due binari paralleli e ben distinti. Sarebbe grave se venisse saccheggiata e snaturata parte di una proposta di legge condivisa a livello parlamentare. Quanto ai dubbi espressi dall’Anm, ricordo che il testo non cambia nulla sulle esigenze cautelari per fini probatori, mentre negli altri casi introduce una motivazione più rigorosa e articolata sulla reiterazione del reato". Ma al decreto carceri, specialmente nella parte in cui è prevista una procedura accelerata di identificazione degli extracomunitari in cella, il governo potrebbe agganciare anche un altro emendamento per far scendere da 18 mesi a due mesi la permanenza nei Centri di identificazione ed espulsione. Resta infine da vedere cosa entrerà e cosa sarà espunto dalla bozza del ddl di riforma del processo penale che il ministro Cancellieri dovrebbe portare in uno dei prossimi consigli dei ministri. Oltre a una serie di misure sulle impugnazioni per velocizzare il processo, infatti, i 13 articoli della bozza attribuiscono al governo una delega affinché introduca una serie di misure su cui in passato l’Anm e la politica di sono divise, come ad esempio la previsione di un collegio di giudici per decidere le misure cautelari in carcere. Giustizia: le alternative al carcere sono giuste, non per buonismo ma per i risultati di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 29 dicembre 2013 Nel 1999 a Milano ci furono 9 omicidi nei primi 9 giorni di gennaio: ma gli incendiari aedi del presunto Far West sotto il Duomo dovettero andare a nascondersi a fine dicembre quando l’annata statistica mostrò una diminuzione del numero di delitti. Ora siccome in due giorni si sono concentrate due evasioni da permessi premio, ecco i lucratori di disgrazie speculare di nuovo sull’amnesia della realtà. La quale da un lato vede la sicurezza dei cittadini incontestabilmente incrementata dal fatto che la recidiva di chi è progressivamente ammesso a misure alternative al carcere sia tre volte più bassa di chi torna in libertà dopo aver scontato l’intera pena in carcere; e dall’altro ricorda anche ai finti sordi che negli ultimi 3 anni le evasioni da permessi premio sono state 133 su 66.859. Una percentuale da prefisso telefonico. Di questo “zero virgola” mantengono il diritto di dolersi le vittime dei reati vecchi o nuovi, non certo gli avvoltoi politici che oggi irridono gli esiti delle valutazioni psicologiche e comportamentali dei detenuti evasi dal permesso, ma che mai risultano aver presentato in Parlamento un qualche emendamento volto a destinare maggiore spesa pubblica (bestemmia!) ad esempio agli organici spaventosamente vuoti di psicologi, educatori, assistenti sociali e agenti penitenziari. Vale però anche per l’ultimo decreto legge del governo. Alzare a 75 giorni la liberazione anticipata per ogni 6 mesi di pena ha ad esempio senso solo se il beneficio è dato a chi in cella davvero partecipa a un percorso di rieducazione, ma per capirlo occorre appunto una adeguata (per numeri e per qualità) struttura di valutazione nel carcere. Se invece la liberazione anticipata continuerà a essere concessa come oggi in maniera sostanzialmente automatica per il solo fatto che un detenuto non abbia creato problemi, al punto che le informative ai magistrati si limitano ad attestare l’assenza di contestazioni disciplinari al detenuto, allora lo sconto di 75 giorni ogni semestre produrrà solo l’assurda trasformazione di 1 anno teorico di pena in 7 mesi reali. E anche le norme sul maggiore accesso per i tossicodipendenti piccoli spacciatori alle comunità di recupero, quale pena alternativa, restano carta straccia se, come accade oggi in molte sedi, il budget disponibile per le comunità terapeutiche accreditate lascia scoperti fino al 60% dei posti letto. Giustizia: i detenuti genitori e quel giorno di ordinaria famiglia, in carcere di Gianluca Foglia Il Fatto Quotidiano, 29 dicembre 2013 Sono le 8,00, sto portando mio figlio a scuola. Lo saluto, un bacio, ci vediamo dopo. Squilla il cellulare. “Sono qui davanti, ci sono già i bambini che aspettano… con ‘sto freddo… a tra poco”. Siamo sotto lo zero, davanti al carcere di Parma i figli dei detenuti attendono di vivere la normalità di una famiglia. Accompagno l’altro mio figlio alla materna. Ancora un bacio, ci vediamo dopo. Arrivo in carcere alle 10,00. Ho paura, non sono mai entrato in un carcere, non so cos’è. Mi attende Layla Cervi, presidente di Crescere Con Noi, che nel 2005 realizza il progetto “uno spazio d’azzurro in via Burla”, portato avanti negli anni e tuttora in corso: sono momenti senza sbarre all’interno del carcere, dove i detenuti possono giocare con i figli. Progetto pioniere, primo realizzato in Italia, che solo il coraggio di una donna, e madre, è capace di realizzare. Come Layla. Tutto nasce quando, una decina d’anni fa, un bambino è triste nonostante abbia ricevuto tutti i regali tranne uno: stare con papà nel giorno di Natale, impedito anche quell’anno dalla detenzione. Fondamentale la collaborazione del Reggente degli Istituti Penitenziari Dott.ssa Anna Albano. Varco l’ingresso, a fianco la sala d’attesa dei famigliari, borse di vita domestica a pezzi, un maglione, un paio di mutande, tutto al setaccio dei controlli. Cammino, passi scanditi da cancelli e porte, clangore di serrature, il mondo sempre più altrove. Ovunque la cortesia dei secondini, chissà che mi aspettavo. Arrivo in palestra, è allestita con addobbi, disegni dei bambini, festoni, tavoli apparecchiati, tavolone imbandito. I finestroni sono schermati da carta colorata, non si vede il cielo ma le sbarre sfumano. Alle pareti vecchi convettori sparano un caldo che non scaccia il freddo, ma in compenso hai nelle orecchie un sottofondo di centrifuga. Sono le 10,30, i miei Jacopo e Nicolò staranno facendo ricreazione. Cominciano ad arrivare i primi famigliari, molti bambini dai 3 anni in su. Ogni nucleo prende posto a un tavolo. Poi arrivano, poco alla volta, i padri, mariti, uomini. Storie. Si abbracciano, ignorano le divise, noi. Ho con me taccuino e matita, tutto ciò che mi è stato consentito. Faccio bozzetti, una guardia chiede cosa sto facendo, sono solo disegni. Il primo bambino si avvicina, ci mettiamo sul pavimento, freddissimo. E’ un attimo, sono circondato da bambini. Uno mi abbraccia, siamo amici. Poi rinuncio a disegnare, col timore di sottrarre i figli al prezioso tempo dei padri. Ma i bambini continuano a giocare, come in un cortile di palazzo, corrono, assediano Babbo Natale che distribuisce giochi, si mescolano ai clown V.I.P. anch’essi qui come volontari del sorriso. Cosa staranno facendo i miei figli? Tengo lo sguardo basso, sono un ladro che arraffa con gli occhi, uno spione d’intimità fra i tavoli, coppie che si tengono le mani, giovani padri che abbracciano per affondare e respirare l’odore dei figli neonati. Ogni volta che vedo queste mani strette mi viene il magone, ma ho imparato a controllarmi, che presunzione sarebbe lasciarmi alla commozione quando sono l’ultimo qui dentro ad averne diritto. Arrivano le autorità, satelliti, solo i bambini sanno infrangere tutto, parlo delle barriere degli adulti. Mi portano nella stanza dove i bambini in visita settimanale possono giocare, mentre mamma e papà sono al colloquio: un universo di disegni, guidato dai volontari di “Per ricominciare”, presenti tutto l’anno, e due educatori giovanissimi e in gamba come Samantha e Antonino. Nella palestra rintocca l’ora, la guardia fa i primi cenni, segnale convenuto che il tempo sta per scadere. Una bambina di sei anni si avvicina, non ha smesso un attimo di sorridere, abbraccia tutti i palloncini e giochi che ha ricevuto e mi dice “Questo posto è bellissimo, voglio tornarci anche l’anno prossimo!” Provaci a dirle che no, ovunque ma non qui. I famigliari escono, come dita annodate alle dita si sciolgono le ultime strette, slacciano gli ultimi abbracci. I detenuti si avvicinano all’uscita, in attesa del loro momento e per guardare la famiglia gli ultimi venti metri prima che giri in fondo al corridoio. Inizia una specie di minuto durante il quale nessuno parla, cerco gli occhi di questi ragazzi. Non ho mai pensato cos’hanno commesso. Non ci sono riuscito. E in questa specie di minuto accade solo la lenta attesa di altre attese. Il secondino fa un cenno, rompiamo le righe, i detenuti ci salutano, posso guardarli, sorridere, dare loro la mano, vulnerabile come chi non ha più paura. Tutti ci dicono grazie. Penso ai loro figli, a questi padri dei quali ignoro le colpe e ai loro figli che sono innocenti e scontano i padri. Non posso giudicare gli adulti, ma i figli sì: hanno sorriso e giocato a lungo, oggi, in un giorno di galera speciale. In pochi minuti la sala torna palestra, si sparecchiano gli addobbi, esco. Se mi sbrigo faccio in tempo a prendere mio figlio che esce da scuola. Se riesco… gli racconto di un’evasione di massa dalla diversità: quella di bambini che sono riusciti a scappare dentro per passare il Natale con il proprio Babbo. Giustizia: riforma della custodia cautelare salva i criminali al loro primo reato di Valeria Pacelli e Nello Trocchia Il Fatto Quotidiano, 29 dicembre 2013 La maggioranza e il governo lavorano per riformare la giustizia, con un grave rischio: compromettere la sicurezza pubblica, allargando le garanzie per gli indagati, ancor di più se incensurati, e ostacolando le inchieste. Da una parte il prossimo 8 gennaio torna in aula il provvedimento, già licenziato dalla commissione Giustizia alla Camera, di cui è presidente Donatella Ferranti (Pd), sulla carcerazione preventiva. Dall’altra parte, la commissione ministeriale, guidata dal magistrato Giovanni Canzio, ha elaborato una bozza di riforma che potrebbe approdare ben presto in Consiglio dei ministri. Ma come cambierà il sistema giustizia nel nostro Paese? Fanno discutere in particolare le modifiche al Codice di procedura penale inserite nella bozza governativa che riguardano la carcerazione preventiva. La prima attiene la collegialità del giudice per l’applicazione della misura cautelare. Mentre adesso a decidere se mandare in galera qualcuno è un solo gip, con la riforma saranno necessari addirittura tre giudici con conseguente soppressione del Tribunale del Riesame. E immaginiamo le difficoltà di personale e di incompatibilità dei tribunali più piccoli. Ma non è tutto. In futuro, come prevedrebbe la bozza della commissione ministeriale guidata da Canzio, l’indagato avrà anche diritto all’ascolto preventivo. Insomma, si ha il diritto a essere avvertiti nel momento in cui qualche pm chiede l’arresto prima che il collegio valuti la richiesta. Elemento questo su cui si mostra scettica la presidente della commissione Giustizia alla Camera, Donatella Ferranti: "Non ho letto il testo, stando alle notizie di stampa, con questa modifica si svuoterebbe di senso e di efficacia la misura cautelare". Anche in tema di colloqui le cose potrebbero cambiare: non ci saranno più limiti alle conversazioni tra l’arrestato e il difensore, salvo per chi è indagato per reati di mafia e terrorismo. Se ad oggi il divieto dei colloqui degli arrestati può protrarsi fino a cinque giorni, con la riforma tutto ciò non sarà più necessario. Di conseguenza i legali, potranno istruire bene i propri clienti sulla versione da fornire al magistrato. Ci sono anche altre novità, come quella che esclude dal giudizio abbreviato le parti civili, che potranno rappresentare le proprie posizioni al di fuori della sede penale. Ossia in quella civile, che di solito è molto dispendiosa. Inoltre, verrebbe depennato il diritto dell’imputato di presentare personalmente il ricorso in Cassazione e introdotta la possibilità di archiviare i reati meno gravi. Fin qui la bozza del governo. Ma l’8 gennaio sarà in aula anche un altro provvedimento, pesantemente osteggiato dall’Associazione nazionale delle toghe. È il disegno di legge che riforma la custodia cautelare. Uno il punto contestato: un giudice non potrà più applicare la misura cautelare, coercitiva o interdittiva, ricavando il pericolo di reiterazione del reato e pericolo di fuga esclusivamente dall’efferatezza del reato contestato. Quindi, carcere o domiciliari più difficili e il magistrato dovrà valutare oltre al fatto anche la personalità del soggetto, i trascorsi, i comportamenti passati e presenti. Se incensurati, per i funzionari pubblici che accettano la loro prima mazzetta, e addirittura per i killer al loro primo colpo, la vita sarà molto più semplice. "Paradossalmente - spiega il presidente dell’Anm, Rodolfo Maria Sabelli - sarà più facile mandare in galera un borseggiatore recidivo che un omicida al primo reato o anche un funzionario che si fa corrompere per la prima volta. Rischiamo di non riuscire ad applicare a un’omicida neanche un divieto di espatrio". Alle critiche dell’Anm, Donatella Ferranti risponde: "Su questa modifica c’è stata la convergenza di forze politiche (tranne la Lega) e anche delle commissioni ministeriali. Comunque in aula valuteremo eventuali emendamenti correttivi". Ferranti non individua alcun rischio per la sicurezza collettiva: "Ci sarà bisogno di un rigore motivazionale maggiore, ma anche di uno sforzo investigativo che sostanzi l’applicazione della misura cautelare". E conclude: "Spesso, leggendo le misure cautelari, emergono motivazioni stereotipate in merito alla reiterazione del reato". Mentre l’Anm sul punto denuncia il rischio per la sicurezza, il governo prepara la controriforma che azzoppa le inchieste. Giustizia: con lo svuota-carceri, la galera non fa più paura ai delinquenti di Bruno Tinti Il Fatto Quotidiano, 29 dicembre 2013 "Non c’è nessun motivo di preoccupazione per i cittadini". Così Letta, presentando lo svuota carceri di Cancellieri. Della serie: palle d’acciaio (soi-disant) e coda di paglia. Preoccupatevi invece, e fatevi sentire: questi non solo rimettono in circolazione i delinquenti; vi prendono anche per i fondelli. Abbiamo un assassino che è stato condannato a 14 anni di galera. Gli sarebbe toccato l’ergastolo, ma i giudici gli hanno concesso le attenuanti generiche e l’attenuante del risarcimento del danno; così sono partiti da 30 anni: meno un terzo - 20; meno un altro terzo - 14, 4. Facciamo 14 per comodità di calcoli. Bè, sempre 14 anni si deve fare, gli sta bene. Ma non è vero, ne farà 5 circa. Prima di tutto ha diritto alla liberazione anticipata (art. 54 Ordinamento penitenziario); che vuol dire che, per ogni 6 mesi di galera, gli vengono abbonati 1 mese e 15 giorni (finora; adesso Cancellieri ha stabilito che gli sia regalato un altro mese). Sicché 6 mesi sono in realtà 3 mesi e 15 giorni; un anno di prigione sono in realtà 7 mesi. Calcolati sui 14 anni che dovrebbe fare, si arriva a 8 anni effettivi. Ma non è tutto qui. C’è l’art. 30 ter che prevede la concessione di permessi-premio (quelli di cui ha usufruito Gagliano, il serial killer evaso). Possono essere concessi (1 mese e mezzo all’anno) dopo aver scontato un quarto di pena. Teoricamente il nostro assassino (condannato a 14 anni) dovrebbe stare almeno 3 anni e mezzo in galera senza permessi. Ma un anno di prigione equivale a 7 mesi; quindi i 3 anni e mezzo si riducono a 2 anni; dopodiché ai 5 mesi previsti dall’art. 54 si aggiungerà il mese e mezzo di permessi premio. A questo punto un anno di prigione varrà 5 mesi e mezzo effettivi. L’assassino dovrebbe scontare ancora 10 anni e mezzo che, a questo punto, sono - in concreto - 4 anni e 8 mesi. E non è ancora tutto qui perché, agli effetti del computo della pena, ogni 5 mesi e mezzo è come se fosse passato un anno. E siccome gli ultimi 4 anni di pena sono trasformati in affidamento in prova al servizio sociale (erano 3, ma ci ha pensato Cancellieri), dopo 6 anni e mezzo finti (10 e mezzo che dovrebbe fare meno 4 di servizi sociali) che sono però 3 anni e veri, l’assassino è "affidato". In totale ha passato in carcere circa 5 anni. Rifatevi questi calcoli per ogni delinquente condannato e vedrete che di galera vera anche i peggiori ne fanno un terzo di quello che i giudici gli ficcano al processo. Ma, dice Cancellieri, non c’è nulla di automatico, i giudici valuteranno se concedere permessi premio e semi libertà. E se sbagliano, come è successo - secondo lei - per Gagliano, Dio li protegga. Presa per i fondelli, pura e semplice. La liberazione anticipata si "deve" concedere quando "il detenuto partecipa all’opera di rieducazione". Che, in concreto, significa che basta che non faccia casino. Niente atti di generosità, lavoro, studio, pentimenti operosi: rispetti gli orari, non picchi nessuno e non dia fastidio. Ma c’è di più: la valutazione sulla "partecipazione all’opera di rieducazione" deve essere effettuata ogni 6 mesi e solo sul periodo di 6 mesi appena trascorso; quello che è successo nei periodi precedenti non può essere valutato. Sicché può capitare che il nostro detenuto abbia partecipato a una rivolta carceraria, incendiato i materassi e picchiato le guardie: bene, per quel periodo niente liberazione anticipata. Solo che, per via delle botte che anche lui avrà ricevuto, nei 6 mesi successivi se ne sta ricoverato in infermeria e, anche volendo, di casino non ne può fare: allora la liberazione anticipata - per questi 6 mesi di ospedale - gli spetta, 45 giorni di abbuono non glieli leva nessuno. Quanto ai permessi, i criteri di valutazione sono gli stessi: non faccia casino e non disturbi. Ma l’anno scorso… Fa niente, adesso sono 6 mesi che sta buono e partecipa all’opera di rieducazione. Fino a qui si tratta di pura e semplice irragionevolezza. Ma ci si deve aggiungere incompetenza giuridica e mala fede. L’aumento di 2 mesi annui per liberazione anticipata non si applicherà più dal 31.12.2015. Perché? I detenuti successivi sono più cattivi, immeritevoli, cosa? E poi: un detenuto modello si merita la liberazione anticipata di 5 mesi fino al 2015; poi, lui resta ancora più modello di prima ma gliela riduciamo a 3? Ma questi l’art. 3 della Costituzione l’hanno mai letto? Infine: Cancellieri lo sa benissimo (di sicuro glielo hanno detto appena arrivata) che la metà abbondante dei detenuti è costituita da immigrati clandestini e piccoli spacciatori. Sono circa 30.000, che non usciranno per via del mirabolante decreto svuota carceri: escono già quasi subito con scarcerazione decisa dal giudice. Per questa gente il carcere è come un fast food: dentro una settimana e poi fuori. Nel frattempo però altri entrano al posto loro. La popolazione complessiva resta la stessa, i posti occupati pure. Cambiano solo i detenuti ma questo, ai fini del sovraffollamento carcerario, è irrilevante. Ciò che si doveva fare era una depenalizzazione concreta almeno per questi 2 reati; così sì che si recuperavano posti in carcere. Altro che riduzioni di pena generalizzate per ogni tipo di delinquenti, anche per quelli pericolosissimi. Ma qui interviene l’ultima presa per i fondelli: se succede qualcosa, la colpa è del giudice. Giustizia: troppi detenuti-studenti bocciati, flop dello studio in carcere di Alessia Campione Il Messaggero, 29 dicembre 2013 In carcere è prigioniera anche la scuola. Le lunghe giornate in cella che diventano l’occasione per un riscatto con lo studio non sono ancora una realtà. Gli studenti dietro le sbarre che riescono a diplomarsi sono un fenomeno marginale, con piccoli numeri costanti nel tempo. Nel 2012 solo dieci detenuti in tutta Italia si sono laureati, e in 13 anni sono stati appena cento. Ai corsi di formazione scolastica in carcere più della metà degli iscritti è stata bocciata. È il ministero della Giustizia a fornire la fotografia di come l’istruzione diventa un’alternativa inadeguata per un recupero sociale. La funzione rieducativa della pena in queste cifre fallisce. Sono pochi quelli che decidono di dedicarsi agli studi universitari: il numero complessivo dei detenuti in Italia è 62.756, tra questi gli iscritti a un corso universitario sono 316. Tutti maschi, quasi tutti italiani: gli stranieri sono appena 51, meno di uno su sei, nonostante nel totale della popolazione carceraria rappresentino circa un terzo. Numeri alti invece tra chi frequenta i corsi che vanno dall’alfabetizzazione alla scuola secondaria: 15.900 iscritti, divisi in 953 corsi diversi. Ma quando si arriva al dunque i detenuti promossi sono una minoranza, appena il 42,4%. In questo caso la maggioranza degli studenti è originaria di altri Paesi: 8.959, dei quali 3.450 hanno superato l’anno di scuola. Le comunità più rappresentate in prigione sono quella marocchina, la rumena, l’albanese, quella tunisina. Il drammatico affollamento - più volte denunciato anche dal presidente Giorgio Napolitano - è il primo ostacolo: come si può studiare se in prigione se per ogni cento posti devono viverci 135 persone? Eppure secondo il sottosegretario all’Istruzione Gabriele Toccafondi, la chance che offre lo studio è preziosa: "L’istruzione nei penitenziari contribuisce ad abbattere la recidiva fino all’80% e aiuta il reinserimento". Scuola e lavoro. "Chi impara un mestiere durante la detenzione - sottolinea ancora Toccafondi - raramente torna a delinquere una volta tornato libero". L’università, invece, è la scelta di chi non solo ha naturalmente già un diploma di scuola secondaria, ma che ha anche un sostegno familiare, o una posizione sociale più elevata della maggioranza dei detenuti. I corsi di laurea preferiti sono quelli umanistici: lettere, le facoltà politico- sociali, giurisprudenza. Le iniziative però per incoraggiare lo studio, soprattutto universitario, sono sporadiche. A Parma l’Università ha offerto dieci borse di studio da mille euro ciascuno, e per finanziare questa cifra non troppo impegnativa si sono mobilitati cinque enti: Provincia, Comune, Opera Pia SS. Trinità, Fondazione Mario Tommasini e Caritas diocesana del capoluogo emiliano. "Questa iniziativa offre una cornice istituzionale a un rapporto individuale che esiste tra studente detenuto e università", fa notare Gino Ferretti, rettore dell’ateneo di Parma. Nella provincia emiliana sono una ventina gli studenti universitari. L’università di Padova ha invece promosso un progetto di tutorato con un protocollo d’intesa con il ministero della Giustizia: il penitenziario offre spazi e strutture, l’ateneo orientamento, didattica, anche libri gratuiti, e rinuncia alle tasse d’iscrizione. Mentre per imparare un mestiere, quello gettonatissimo di addetto alla cucina che piace molto anche ai ragazzi liberi, è di questi giorni l’accordo tra il carcere di San Nicola di Avezzano e il comune abruzzese. Coinvolge sette detenuti con la collaborazione dell’istituto professionale alberghiero dell’Aquila. Si può fare, se si vuole. Eraldo Affinati: la scuola può aiutare proprio i ragazzi più difficili "Anche se viviamo nel Paese di Cesare Beccaria, dobbiamo ancora imparare quello che lui scrisse nel 1764 e cioè che la pena non dovrebbe tendere alla punizione, ma alla rieducazione del condannato". Così Eraldo Affinati, scrittore di successo, insegnante di italiano presso la Città dei ragazzi, a Roma, e da sempre impegnato nel recupero dei ragazzi difficili. "Per come è costruito l’impianto penitenziario italiano - spiega Affinati, lo studio in carcere resta ancora oggi problematico. Se l’ambiente carcerario non sostiene il sistema didattico posto al suo interno, prendere il diploma dietro alla sbarre resterà quello che è oggi: una sfida, bella ma difficile". Perché un insegnante, che ha già un lavoro impegnativo, sceglie di salire in cattedra in condizioni di così forte disagio? "I ragazzi complicati, bocciati, indisciplinati e ribelli, sono paradossalmente quelli che ti possono regalare le maggiori soddisfazioni. Il peggiore dei miei studenti compie sempre un passo in avanti rispetto al contesto sociale da cui proviene". Cosa insegnare? Come insegnare? "Bisogna riuscire a conquistare la fiducia degli adolescenti. Per farlo è necessario esporsi, prendere posizione, farsi accettare, non limitarsi a spiegare e mettere il voto. Sarebbe impossibile insegnare a leggere e a scrivere senza conoscere le storie di chi abbiamo di fronte. La lingua è la casa del pensiero. Se non usi bene le parole, non potrai mai sapere chi sei". Come vive uno studente problematico l’approccio con lo studio? "Per lui soltanto leggere un testo può essere un ostacolo insormontabile, figuriamoci studiare! Eppure dentro di sé cova passioni segrete, bellezze inesplorate, energie preziose con le quali potrebbe ottenere tutte le coccarde che vuole. Avrebbe bisogno di adulti credibili in grado di scuoterlo dal torpore". Nel suo ultimo libro, "Elogio del ripetente", lei rivela la differenza e l’utilità di conoscere il punto di vista di chi fallisce per capire cosa non ha funzionato. "Attraverso gli occhi smarriti di Romoletto, noi decifriamo non solo e non tanto ciò che non funziona a scuola, ma la crisi etica che stiamo vivendo in Italia, a mio avviso ben più grave di quella economica. Prima o poi lo spread si abbasserà e i nostri risparmi verranno tutelati meglio di quanto non siano oggi, ma questo non basterà per ridare entusiasmo ai nostri ripetenti". L’Italia è indietro nelle esperienze di insegnamento come la sua "Penny Wirton", la scuola per giovani stranieri che ha aperto a Roma. Perché? "Insegnare gratis la lingua italiana uno a uno, come facciamo da molti anni nei locali della Chiesa di San Saba, all’Aventino, vuol dire niente voti, niente classi, niente registri. Solo competenze e sorrisi. È difficile realizzare tutto questo nella scuola pubblica. Ma io non dispero perché conosco tanti insegnanti che, fuori dalla luce dei riflettori, lo stanno già facendo". Lettere: morti di carcere, ipotesi di reato… omicidio colposo di Marcello Dell 'Anna (Carcere di Badu e Carros - Nuoro) Ristretti Orizzonti, 29 dicembre 2013 Federico Perna: un tragico decesso nel carcere di Poggioreale che si poteva e si doveva evitare. Il conseguente ed ennesimo intervento ipocrita quirinalizio e senatoriale sul tema dell'indulto. Basta!!! Non se ne può più!!! Oggi in Italia questi dibattiti sulla detenzione, sulle sofferenze dovute alla carenza e all'inadeguatezza delle strutture sono controversi per le differenti opinioni che frequentemente si confrontano in maniera aspra e troppo spesso drammatica con sospetta parzialità o indifferente miopia non conoscendo bene il problema nella sua realtà sistemica. Molte sono le voci che nel dibattito pubblico si avvicendano nelle valutazioni, nelle ipotesi di soluzione, nelle proposte alternative alla detenzione, a fronte della (talora) giusta protesta e denuncia. Molte sono le luci che di volta a volta si accendono su questo mondo separato. Ma altrettanto sono le ombre che nascondono un'ignota realtà, colpevolmente occultando percorsi di sofferenza, di pena, di malattia che con tragica puntualità spesso col suicidio trovano l'inevitabile conclusione. La sottrazione della libertà è già di per sé una grande pena che si impone a qualsiasi essere umano. Non c'è alcun bisogno di dovere aggiungere a questa pesante sofferenza un'altra ancora più insostenibile: vivere in una surrettizia forma di tortura in condizioni sub umane, in carceri affollate e malsane, impacchettati e sbattuti lontani dai propri affetti, costretti in ambienti insufficienti, privati di opportunità di recupero, sospingendo individui disperati e senza Speranza al suicidio in carcere. Purtroppo in Italia ci stiamo ormai abituando ad ascoltare dai notiziari dell'ennesimo suicidio tra le sbarre o di detenuti che sono deceduti per cause da accertare e se accertate non sempre corrispondo a quelle reali. Questi decessi non possono più essere definiti come suicidi o per cause da accertare. Quindi domando: in questi casi, può ipotizzarsi il reato di "omicidio colposo"? Il magistrato del pubblico ministero deve procedere contro ignoti o contro un autore oramai ben noto a noi tutti? A discolparsi è chiamato, dunque, il nostro Stato. Consapevole e corresponsabile. Consapevole di detenere una persona in condizioni disumane e degradanti; condizioni queste, accertate e condannate dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (che con sentenza dell'8 01 2013 caso Torreggiani e altrï c/ Italia, ha dichiarato incompatibile l'attuale situazione carceraria italiana con l'art. 3 della Cedu), consapevole che da tali condizioni possono derivare suicidi o decessi per assenza di adeguate strutture, di spazio e di adeguati interventi posti a tutela della vita della persona umana, soprattutto quando è privata della libertà. Di conseguenza, corresponsabile di questi delitti, perché delitti vanno definiti e non decessi. E se poi dietro queste atroci morti in carcere si celasse invece un pensiero contorto e consapevole di istigare al suicidio il detenuto, ammalato, annullato della sua dignità, annientato nei suoi affetti e nella sua anima? Infondo, se muore un carcerato a chi importa? "Loro" - i buoni - dicono sempre: … uno in meno. Ecco, questa è, ancora oggi, la vita nel carcere: totalmente distruttiva nel corpo e nello spirito umano. Nella stragrande maggioranza dei casi poi, l'obiettivo della riabilitazione, del recupero sociale e della reintegrazione, in Italia è stato ed è ancora del tutto vanificato. In un paese ove la pena di morte è stata sulla carta abolita, come un convitato di pietra, essa di fatto rientra puntuale nell’inferno delle nostre carceri. Non v'è dubbio che il senso della civiltà (e di umanità) muova da queste semplici ma fondamentali considerazioni. Lo Stato nell'esercitare la giustizia e nell'interpretare con la necessaria equità questi valori, deve porsi in condizioni d'essere a sua volta credibile, perciò accettabile, quale primo assertore e attuatore di questi principi. Lettere: liberi tutti di Marco Travaglio Il Fatto Quotidiano, 29 dicembre 2013 Provate a indovinare: qual è per il governo la prima emergenza della giustizia dopo i troppi condannati che finiscono in carcere? Non ci arriverete mai, ci vuole un aiutino: la prima emergenza della giustizia in Italia dopo i troppi condannati che finiscono in carcere sono i troppi arrestati che finiscono in carcere. Quindi, dopo il decreto svuota-carceri, ci vuole una bella legge anti-arresti. Vi sta provvedendo la ministra Cancellieri, coadiuvata da un’apposita commissione presieduta da Giovanni Canzio, il presidente della Corte d’appello di Milano che nel febbraio 2012 impiegò un mese per respingere la ricusazione dei giudici del processo Mills, regalando così a B. la sua ottava prescrizione. Insomma l’uomo giusto al posto giusto per una giustizia più rapida ed efficiente. Il disegno di legge infatti è comicamente dedicato alla "velocizzazione del processo penale" e prevede alcune novità strepitose. La prima è l’obbligo per il giudice di interrogare l’indagato prima di arrestarlo: oggi infatti capita che alcuni candidati all’arresto, non sapendo di essere nel mirino dei magistrati, si facciano trovare in casa al momento del blitz e dunque finiscano sventuratamente in manette. Il governo ritiene che ciò non sia sportivo: l’arrestando dovrà essere preavvertito col dovuto anticipo della prava intenzione dei giudici, convocato per l’interrogatorio e ivi informato dettagliatamente dei sospetti che gravano sul suo capo: così, ove ritenesse ingiusto il proprio arresto, avrà modo di dileguarsi per tempo. La seconda ideona è quella di affidare la decisione sulle richieste di cattura dei pm a un collegio di tre giudici. Oggi se ne occupa uno solo, il gip, anche perché poi l’arrestato può ricorrere al Tribunale del Riesame (tre giudici) e, se gli va buca, alla Cassazione (5 giudici). Ma, per il governo, un pm e 9 giudici non bastano ancora. Dunque ciò che oggi fa uno solo domani lo faranno in tre, così si spera che litighino fra loro e lascino perdere. L’effetto accelerante di una simile norma non può sfuggire. Naturalmente nei tribunali più piccoli sarà difficile trovare tre giudici liberi, o non incompatibili per essersi già occupati di vicende affini: così molte catture non si faranno più o andranno alle calende greche. Il ddl governativo parla di sopprimere i tribunali del Riesame, che però oggi intervengono in seconda battuta ed esaminano un numero molto inferiore di casi (e quando il sospettato è già stato assicurato alla giustizia). In ogni caso si fa presto ad aggiungere un ente, mentre è molto complicato sopprimerne uno (vedi l’accrocco fra regioni e province). Terza novità: niente più limiti al colloquio nei primi cinque giorni fra l’arrestato e il difensore (salvo per mafia e terrorismo). È una norma di elementare buonsenso per evitare che l’arrestato, prima dell’interrogatorio, venga istruito a tacere o a mentire secondo un copione prestabilito. Ora invece sarà un gioco da ragazzi per l’avvocato "formattare" l’arrestato per dettargli le cose da dire e quelle da non dire, i complici da inguaiare e i mandanti da salvare, specie nei processi di corruzione e criminalità finanziaria, dove spesso il difensore rappresenta non solo il singolo, ma l’intera organizzazione criminale. L’ultima genialata è l’idea di escludere dal giudizio abbreviato le parti civili, che per il risarcimento dei danni dovranno avviare una separata causa civile, costosissima e lunghissima. Così le vittime di delitti gravissimi (l’abbreviato è previsto persino per l’omicidio) saranno escluse da molti processi: un capolavoro. Ma non basta ancora, perché il ddl governativo verrà integrato con la legge anti-manette Ferranti & C. appena varata in commissione Giustizia. Questa fra l’altro - come spiega Valeria Pacelli a pagina 8 - rende praticamente impossibile arrestare gli incensurati. Che non sono soltanto i delinquenti alla prima impresa, ma anche quelli rimasti impuniti e beccati per la prima volta. A questo punto manca soltanto un codicillo: l’arresto obbligatorio, per manifesta pericolosità sociale, del pm che chiede un arresto. In galera. Lettere: indulto e amnistia… realtà o illusione? di Stefano Mazza www.supermoney.eu, 29 dicembre 2013 Le carceri italiane scoppiano, è caduto nel vuoto il monito del Presidente della Repubblica, che aveva chiesto di trovare un accordo per un atto di clemenza, volto a risolvere, almeno temporaneamente, il problema del sovraffollamento, ed evitare anche eventuali sanzioni della Corte Europea, che ci ha più volte bacchettato invitandoci a rispettare le più elementari regole per una detenzione a misura di uomo. Nell’era in cui si viene imposto perfino di tenere gli animali da allevamento in spazi minimi previsti dalla legge (2 per 2 metri per ogni capo ovino), non si riesce a garantire agli uomini, che commettono un errore, di pagare per l’errore lasciando intatta la dignità. Di rieducazione e reinserimento nemmeno a parlarne: è risaputo che i migliori criminali sono nati e si sono formati in carcere. La vera difficoltà nell’approvare indulto e/o amnistia sta nella modifica della legge del 92 che prevede che un eventuale atto di clemenza deve essere votato dai 2 terzi delle due camere. Circostanza davvero difficile da verificarsi. Prima dell’entrata in vigore della legge costituzionale 1/92 che ha modificato l’articolo 79 della Costituzione sia l’indulto che l’amnistia erano concessi dal Presidente della Repubblica previa legge delega del Parlamento. Da qui si capisce l’alto numero di provvedimenti dal 1948 al 1992. Mentre dal 1992 ad oggi c’è stato un solo indulto nel 2006 e una amnistia nel 1992. Le carceri non sono riserve di voti: la maggior parte dei detenuti non ha diritto al voto a causa delle sanzioni amministrative ,che spesso o sempre accompagnano condanne penali. Un’azione di clemenza è antipopolare ad opera dei falsi perbenisti e finti moralisti, che vanno con le minorenni, lucrano su caporalato, usura, corruzione ed altro, (tutti reati che in Italia vengono considerati "da furbi" e chi li commette viene apostrofato con il "Don" in segno di rispetto). Il carcere non è nemmeno per i mafiosi che hanno la possibilità di comprare giudici, avvocati, testimoni, scadenze termini. Il carcere è solo per i poveri. L’amnistia non interessa a nessuno, escluso i detenuti e le loro povere famiglie; molto meglio abbonare i miliardi di evasione alle società delle slot, che rovinano tantissime famiglie riducendole sul lastrico e/o allo sfascio totale, che possono restituire i favori magari permettendo a qualche politico di partecipare all’utile delle spa con tanti zeri. Lettere: Presidente Napolitano, aiuti mio padre ammalato detenuto a Poggioreale La Città di Salerno, 29 dicembre 2013 Carmela Rosciano, figlia di Angelo, sessantenne di Sala Consilina detenuto a Poggioreale dopo una condanna per ricettazione per un processo che risale a circa 15 anni fa, ha inviato una lettera al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ed al ministro della giustizia, Annamaria Cancellieri, per chiedere che il padre, gravemente ammalato, possa scontare la sua pena agli arresti domiciliari. Angelo Rosciano è costretto a vivere in una cella con altri quattro detenuti, e su una sedia a rotelle a causa dell’amputazione di una gamba a causa del diabete. La malattia lo ha anche reso parzialmente cieco. "Stimato presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e stimata ministra della giustizia Annamaria Cancellieri - si legge nella lettera - mi chiamo Carmela Rosciano e sono di Polla, vi scrivo per denunciare la drammatica situazione di mio padre Angelo Rosciano attualmente detenuto nel carcere di Poggioreale presso il padiglione San Paolo". Carmela nella lettera ripercorre tutta l’odissea del padre. "A causa di una sentenza per ricettazione - continua Carmela - scaturita da un processo il cui inizio risale a ben 15 anni fa, nel lungo periodo a nostra insaputa senza difesa, nell’aprile del 2012 mio padre viene arrestato. Lui soffre di una forte forma di diabete mellito alimentare, è arteriopatico, a causa di tali patologie ha sofferto l’amputazione dell’arto inferiore sinistro, soffre di parziale cecità, rischia la perdita anche dell’arto inferiore destro la cui circolazione è ostruita in vari punti". Angelo Rosciano a causa delle precarie condizioni di salute non può essere detenuto a Sala Consilina, suo paese di origine, e per questo motivo si trova a Poggioreale dove il carcere è fornito di un’area clinica. Paradossalmente però a causa del sovraffollamento del carcere vive in condizioni disumane. Le cose sembrano volgere per il meglio nel 2012 quando l’avocato Pierluigi Spadafora riesce ad ottenere per il suo assistito gli arresti domiciliari, ma al momento del rinnovo annuale della misura alternativa, il medico incaricato della perizia lo dichiara compatibile alla detenzione e scatta di nuovo l’arresto, mentre tra l’altro Angelo è ricoverato all’ospedale di Polla. Carmela chiude la sua lettera con un appello disperato a Napolitano e al ministro: "Vi supplico affinché possa avere il vostro aiuto e un intervento urgente per mio padre e per tutti i malati che nelle strutture carcerarie non incontrano cure ma solo sofferenza". Calabria: Assessore Salerno; attenzione a problematiche sistema carcerario www.lametino.it, 29 dicembre 2013 "Nelle scorse settimane alcune iniziative assunte dal Governo nazionale hanno riportato al centro della discussione, al netto delle polemiche che sempre vengono alimentate quando si parla delle carceri, il tema della condizione attuale del sistema carcerario italiano e la necessità di radicali interventi". Lo afferma l’assessore regionale alle Politiche sociali, Nazzareno Salerno che preannuncia per il 30 dicembre e il 3 gennaio una serie di visite nelle carceri di Catanzaro, Palmi e Vibo Valentia. "Intanto mi riferisco al decreto legge con misure urgenti in tema di ordinamento penitenziario e di sovraffollamento carcerario e poi al disegno di legge con disposizioni sulla giustizia civile collegato alla Legge di stabilità 2014. Il primo decreto rappresenta la diretta conseguenza di un intollerabile stato di fatto evidenziato, peraltro, dai numerosi richiami indirizzati al nostro Paese dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e dai recenti moniti rivolti al Governo, al Parlamento ed alle forze politiche dal Presidente della Repubblica. L’obiettivo indicato dal Governo è quello di diminuire, nel più breve tempo possibile, il numero dei detenuti, modificando procedure e presupposti di ingresso e di uscita dagli istituti penitenziari. Senza voler entrare nel merito di una discussione particolarmente complessa, quale quella relativa all’opportunità e alle modalità operative di una decisione nazionale in ordine ad amnistia e indulto, per discutere di emergenza carceri è bene ricordare che oggi la condizione italiana è drammaticamente difficile; a fronte di 47mila posti letto disponibili i detenuti sono più di 64mila e i reclusi alla prima carcerazione superano il 40%. Ci sono regioni nelle quali il dato sul sovraffollamento carcerario raggiunge il 174%; e in ogni caso l’Italia è quello tra i principali paesi europei ad avere il più elevato tasso di affollamento delle carceri". "È un tema che naturalmente investe direttamente la politica nazionale, il Parlamento ed il governo ma di fronte al quale ciascuno di noi, nell’ambito delle proprie funzioni, competenze e sensibilità, non può rimanere estraneo o indifferente; ed a tal proposito vorrei evidenziare come nelle ultime due riunioni della Commissione Politiche Sociali si siano assunte alcune importanti decisioni come ad esempio chiedere alla Conferenza dei presidenti di Regione di attivare un tavolo interdisciplinare tra sociale e lavoro e di costituire uno specifico gruppo di lavoro che partendo dalle esperienze regionali consenta di approfondire il tema dalla formazione e dell’avvio al lavoro di detenuti ed ex detenuti. Il problema del sovraffollamento delle carceri e quello di una pena che con difficoltà concretizza il principio costituzionale della rieducazione possono essere affrontati certamente attraverso iniziative di ordine generale che riducano complessivamente il numero dei detenuti attraverso le pene alternative ma anche e soprattutto mediante la concreta possibilità di offrire ai detenuti una speranza lavorativa e di reinserimento nella vita sociale ed economica". "Ed è con l’obiettivo di compiere una completa ricognizione della situazione calabrese, sulla base degli indirizzi espressi a livello nazionale dalla Commissione Politiche sociali, che nei prossimi giorni mi recherò in alcuni istituti penitenziari calabresi: il 30 dicembre nel Carcere di Siano, in quello minorile di Catanzaro e nel carcere di Palmi mentre il 3 gennaio effettueremo una visita all’intero della struttura carceraria di Vibo Valentia". Firenze: nell’Ipm del Pratello le tensioni del passato sembrano archiviate Ansa, 29 dicembre 2013 Nel carcere minorile bolognese del Pratello "le tensioni del passato sembrano archiviate". È quanto scrive, in una nota, la parlamentare, vicepresidente del Pd e della Commissione Bicamerale Infanzia e Adolescenza, Sandra Zampa, all’indomani di una visita nella struttura felsinea. "Sono stata ieri in visita non solo per dare corso alla normale attività che compete ai parlamentari - osserva - ma anche per dar seguito all’impegno assunto con un gruppo di deputati del Pd, e non solo, di essere il più possibile presenti in questi giorni di festa negli istituti carcerari italiani. Si tratta dell’iniziativa ‘Natale in carcerè promossa dal collega Ernesto Preziosi". Nella sortita nella struttura bolognese, prosegue Zampa nella nota, "ho avuto modo di verificare che le tensioni del passato sembrano archiviate anche grazie all’azione del direttore Paggiarino impegnato a superare i problemi sempre attuali dell’istituto. Dall’endemica carenza di personale alle inadeguatezze della struttura. I ragazzi reclusi - aggiunge - hanno la giornata scandita da attività rese possibili anche dalla presenza di associazioni di volontariato così come dalla possibilità di accedere a formazione scolastica di livello medio superiore". A giudizio della parlamentare del Pd, "si tratta di una novità importante per i giovani e giovanissimi reclusi, quasi tutti di origine straniere e spesso senza famigliari in Italia che, una volta scontata la pena, possono proseguire e concludere studi importanti per il loro futuro. Nei primi giorni dell’anno nuovo - chiosa Zampa - è mia intenzione incontrare la ministra Cancellieri alla quale sottoporrò alcuni problemi che attendono ancora soluzione per migliorare la situazione del Pratello, in testa ai quali sta la creazione di un’aerea verde per le attività all’aria aperta dei giovani". Roma: al pranzo di Natale i detenuti invocano l’amnistia Corriere della Sera, 29 dicembre 2013 In 150 a tavola a Regina Coeli grazie alla Comunità di Sant’Egidio. "Tremila reclusi in meno dello scorso anno". "Forse per voi questo sarà un Natale come tanti altri ma è il migliore che io ricordi". Parole che impressionano soprattutto se a pronunciarle è un detenuto. Ma nel carcere di Regina Coeli il pranzo di Natale organizzato giovedì dalla comunità di Sant’Egidio è stato accolto come un momento di speranza e dignità: intorno alle tavole decorate con addobbi natalizi 150 detenuti hanno mangiato e brindato insieme a un percorso rieducativo che non dimentichi mai la persona umana. Tra applausi e sorrisi nella biblioteca della struttura, il menù di lasagne al ragù, polpette, patate al forno, broccoletti ripassati, dolci natalizi e frutta di stagione è stato consumato insieme al direttore del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Giovanni Tamburino, il direttore della struttura Mauro Mariani, il vescovo di Roma Centro monsignor Matteo Zuppi. Al pranzo erano presenti anche il deputato di Scelta Civica per l’Italia, Mario Marazziti e l’attore e conduttore tv Flavio Insinna. "Oggi da festeggiare oltre al Natale c’è una cosa in più - ha spiegato il capo del Dap Tamburino. Nel sistema penitenziario corriamo verso le 62 mila presenze nelle carceri italiane contro le 65 mila dello scorso. Un calo da salutare soddisfazione". Ma i numeri del carcere romano restano ancora alti: circa 1200 detenuti per una capienza massima di 750 persone con un sovraffollamento del 150%. Centosettanta condannati in via definitiva e 490 agenti di custodia, 150 in meno rispetto ai 620 previsti. Tra le soluzioni proposte prima dell’inizio del pranzo l’ipotesi di un’amnistia, accolta tra gli applausi dei detenuti seduti a tavola. "Il carcere non può essere una risposta al disagio sociale - ha detto Marazziti - E l’amnistia non è un colpo di spugna ma un modo per permettere alla giustizia di tornare ad essere giusta: in Italia il 33% dei detenuti è recluso per reati legati alla tossicodipendenza, il 20% in più rispetto al resto d’Europa. Chi esce con l’indulto inoltre risulta recidivo nel 33% dei casi, percentuale più bassa rispetto a chi esce dopo avere scontato la pena". E a lanciare un appello alle Istituzioni sono proprio i detenuti. L’esortazione viene da Giuseppe Rampello, 64 anni, condannato per omicidio e con ancora 9 anni da reclusione da scontare: "Guardate alle carceri come luoghi in cui vivono persone. Pensate anche a noi". Voce a cui fa eco Elison Oman, 46 anni, arrestato per spaccio. "Chiediamo al Governo di trovare delle soluzioni per noi e per gli altri detenuti". Torino: i francobolli entrano nelle carceri torinesi www.vaccarinews.it, 29 dicembre 2013 L’annuncio affidato ad un annullo che sarà impiegato domani, richiesto dall’Associazione piemontese amatori cartoline. Anche a Torino il progetto. Il progetto di Poste italiane "Filatelia nelle carceri" approda a Torino. Lo documenta un annullo che verrà impiegato domani presso lo spazio filatelia del capoluogo piemontese, ubicato in via Alfieri 10. Il manuale sarà utilizzato dalle ore 9 alle 12.35. A richiederlo, l’Associazione piemontese amatori cartoline, il medesimo sodalizio che organizza il convegno commerciale; l’ultimo è stato concretizzato il 14 dicembre presso l’hotel Nh ambasciatori. L’Apac ed il Circolo filatelico torinese -spiega per gli organizzatori a "Vaccari news" Francesco Balducci- portano avanti l’iniziativa presso la casa circondariale "Lorusso e Cotugno", alle Vallette, in collaborazione con il Primo liceo artistico cittadino. Dopo un sondaggio avviato a giugno, è stata creata una classe di venticinque detenuti interessati. Essa viene seguita dagli insegnanti, che hanno il compito di condurre gli "studenti" fino alla quinta classe e quindi alla maturità. Nelle lezioni previste si inseriranno, da gennaio, spunti di filatelia, storia della posta, piccoli interventi che utilizzeranno i francobolli ed i documenti postali nello sviluppo delle altre discipline previste dal ministero ad Istruzione, università e ricerca. L’obliterazione servirà per corredare i disegni scelti e trasformati in cartoline da diffondere tra i collezionisti in cambio di vecchie riviste, cataloghi, francobolli di scarso valore, classificatori usati e materiale vario da donare ai detenuti. Domani ci si limiterà ad illustrare il progetto ai restanti circoli; verrà predisposto del materiale ricordo da donare poi al direttore, ai docenti, al personale e naturalmente ai partecipanti. Stando agli annunci, sarebbe la terza città in cui l’esperienza viene concretizzata. Quindi dopo Milano, nata sulla scorta del percorso avviato nel 2007 presso il penitenziario di Bollate con il Circolo filatelico "Intramur", che suscitò l’interesse della responsabile per la filatelia di Poste italiane, Marisa Giannini. Nell’ottobre scorso si è aggiunta la presentazione a Pescara. A suo supporto ha anche la guida "Collezionare libera… mente". Teramo: incontro in carcere a Natale tra un detenuto e il suo cane Il Centro, 29 dicembre 2013 "Vi scrivo per dirvi che mi hanno fatto il più bel regalo di Natale: per la seconda volta in quattro mesi mi hanno portato in carcere il mio cane Attilla". È così che iniziano le storie belle. O forse è così che dovrebbero essere raccontate: partendo dai pensieri privati che stanno dietro le sbarre. Come quelli di Lodovico Valentini, da un anno e sette mesi detenuto a Castrogno per truffa e ricettazione, che prende carta e penna e scrive al giornale per raccontare e ringraziare. Raccontare dell’incontro con il suo amico a quattro zampe abbracciato nel giardino di Castrogno alla vigilia di Natale, ringraziare tutti quelli che l’hanno permesso. "Volevo ringraziare dal profondo del mio cuore il direttore, tutti gli ispettori, in particolare l’ispettore Murroni, gli agenti di polizia penitenziaria e in particolare l’educatrice Cipolla", scrive Valentini, "volevo solo dire che mi hanno fatto il più bel regalo di Natale". Succede a Castrogno, in uno degli istituti penitenziari più sovraffollati della regione, succede nell’Italia condannata dalla Corte di Strasburgo "per il trattamento inumano e degradante dei detenuti". La richiesta di Valentini, di quelle che non devono passare per i legali ma vengono fatte dai reclusi su appositi modelli dell’amministrazione penitenziaria, è arrivata al direttore Stefano Liberatore che già ad agosto aveva acconsentito ad un altro incontro tra l’uomo e il cane. "Il carcere deve cambiare", dice Liberatore, "e in questa direzione ci stiamo muovendo. Passo dopo passo. La richiesta di un secondo incontro con il cane è stata accolta nel segno di una continuità di recupero. Perchè è evidente che se il detenuto ha fatto questa richiesta per lui deve significare tanto". Rinascita, possibilità, nuove libertà: tutto sommato non servono altre parole. Tempio Pausania: i detenuti protagonisti nel nuovo film di Salvatores La Nuova Sardegna, 29 dicembre 2013 È una di quelle storie che a Natale si possono benissimo raccontare. Una storia in cui, in prospettiva almeno, i sogni si possono realizzare. È la storia dei detenuti del carcere di Nuchis che hanno preso parte alle riprese del "filming day" di Gabriele Salvatores, il cui prodotto finito potrà presumibilmente vedersi nel prossimo autunno, a un anno esatto dal giorno in cui pezzi diversi del Paese Italia fecero da comparse e personaggi di un racconto filmico collettivo. Un racconto in cui, grazie ad Alessandro Achenza (referente del progetto in questione) e Carlo Fenu, i detenuti del penitenziario gallurese hanno avuto la loro parte. Un social movie all’interno di un istituto di pena è un fatto di per sé eccezionale, perché, si sa, le porte di un carcere non si aprono tanto facilmente. Achenza (fresco dal successo della prima pubblica rappresentazione della sua neonata compagnia teatrale in carcere) e Fenu hanno reso materialmente possibile l’impresa, portando a termine la consegna affidatagli da Salvatores. Grazie a loro, i detenuti hanno potuto raccontare la loro quotidianità. In un certo senso, si possono considerare dei privilegiati, perché l’onore di far parte del cast di Salvatores è toccato solo ai detenuti di quattro penitenziari italiani. Nuchis ha, per così dire, rappresentato l’intera Sardegna. offrendo microfono e telecamera ai detenuti che si sono lasciati coinvolgere. Per Fenu e Achenza, che con la struttura carceraria dell’alta Gallura hanno da mesi dei rapporti di collaborazione finalizzati alla messa in pratica di specifici progetti culturali, quella di "Life in a day" è stata un’esperienza difficile da dimenticare. "Difficile, se non impossibile da raccontare - dichiara Achenza - anche per il tipo di rapporto che si è creato con i detenuti e per la sinergia con la direzione, la dottoressa Carla Ciavarella, gli educatori e il comandante di polizia penitenziaria". Il valore documentaristico dell’opera viene sottolineato da Fenu, regista e direttore del festival dei cortometraggi dedicato a De André. "Quello che ha preso corpo è stato il racconto di una quotidianità diretta, che i detenuti - afferma Fenu - hanno voluto condividere". Per rivedere il tutto non resta ora che attendere il prossimo autunno, quando, completato il montaggio, Salvatores, Rai e Indiana productions licenzieranno il prodotto e tutti, attori o semplici spettatori, potranno prendere visione di come gli italiani, chi dentro e chi fuori del carcere, vivono e raccontano la loro non sempre facile quotidianità. Immigrazione: Ginefra (Pd); identificare detenuti stranieri in carcere, non nei Cie Tm News, 29 dicembre 2013 "Per cambiare rotta in materia di tempi di permanenza nei Cie bastano anche piccoli gesti che si consumano in qualche minuto di riunione". Lo ha dichiarato in una nota il deputato del Pd Dario Ginefra. "Alcuni degli ‘ospiti’ dei Centri, quelli - ha sottolineato l’esponente democratico - provenienti a fine pena da istituti carcerari, vengono trattenuti per ulteriori lunghi periodi di tempo all’interno dei centri di identificazione ed espulsione, nonostante una direttiva interministeriale del 30 luglio 2007, degli allora ministri Amato e Mastella, stabilisse che, in linea con le indicazioni dell’allora rapporto De Mistura, l’identificazione per i detenuti dovesse avvenire in carcere, e non più negli allora centri di permanenza temporanea, da considerarsi come luoghi destinati più utilmente al riconoscimento di altri soggetti. Si chieda l’applicazione di tale direttiva". Immigrazione: Kyenge; stiamo affrontando problema Cie. Tosi (Lega): una iattura Ansa, 29 dicembre 2013 "Il ministero degli Interni e il governo nel suo complesso hanno già cominciato a studiare il problema della chiusura dei Cie". Lo ha detto il ministro dell’Integrazione, Cecile Kyenge, a margine del congresso nazionale dei giovani musulmani in corso a Lignano, precisando che "il governo ha affrontato il tema già nel decreto svuota carceri". Il decreto, secondo quanto riferito dal ministro, ha infatti già previsto l’identificazione dei detenuti, che costituiva il 70% della popolazione all’interno dei Cie. "Questo si farà, come deciso dal Consiglio dei Ministri, all’interno delle carceri piuttosto che far scontare una seconda pena all’interno dei centri", ha concluso Kyenge. Silp-Cgil: diminuire periodo permanenza nei centri "Quanto affermato oggi dal ministro dell’Integrazione, Cecile Kyenge, a margine del congresso nazionale dei giovani musulmani in corso a Lignano, relativamente all’identificazione dei detenuti all’interno delle carceri piuttosto che far scontare una seconda pena all’interno dei centri", costituisce, secondo il segretario generale del Silp-Cgil, Daniele Tissone, "una misura quanto mai necessaria e in linea con le norme e le circolari vigenti." Secondo Tissone, "le strutture dei centri hanno dato risultati del tutto inefficaci in relazione al contrasto all’immigrazione irregolare considerato che meno della metà delle persone all’interno dei Cie è stata, ad oggi, effettivamente, rimpatriata". Per Tissone, "nelle more di una radicale revisione della materia in ambito legislativo che porti alla definitiva chiusura dei Cie, si rende necessaria - da subito - una diminuzione del periodo di permanenza evitando, altresì, che, uno straniero senza documenti, dopo aver scontato la sua pena in carcere sconti un ulteriore periodo di detenzione presso il Cie in attesa di identificazione; situazioni che, se non affrontate seriamente, rendono quantomeno critiche le condizioni all’interno dei citati centri". Tosi (Lega): la chiusura del Cie è iattura "L’eventuale chiusura del Cie di Lampedusa sarebbe una iattura". A parlare è il segretario della Lega Veneta Flavio Tosi. Il sindaco di Verona dice la sua sulla questione dell’accoglienza ai migranti mentre non si sono ancora placate le polemiche sul trattamento subito dagli "ospiti" del Cie di Lampedusa testimoniato nel video choc che mostrava i profughi nudi e in fila prima di essere sottoposti a quello che i gestori del centro hanno definito un trattamento anti-scabbia. Il segretario della Lega Veneta Flavio Tosi non ha esitato a definire "iattura" la chiusura del centro di accoglienza di Lampedusa. "La riduzione del tempo massimo di permanenza nei Cie e la proposta insensata ed inutile dello Ius Soli sono una iattura per la sicurezza nazionale". Lo sostiene il sindaco di Verona secondo il quale si tratta di "idee demagogiche e attualmente insostenibili che andrebbero solo a generare ulteriore pressione migratoria, a impedire il contrasto all’ immigrazione clandestina e a impedire le espulsioni". "I Cie non sono delle galere, come qualcuno vorrebbe far credere - afferma Tosi - ma delle strutture per far sì che ogni clandestino sia accolto e la sua posizione sia valutata singolarmente. Chi definisce questi centri lager o carceri, offende la cultura e la civiltà del popolo italiano e tutti coloro che gestiscono queste strutture esponendosi a dei rischi". "Renzi - prosegue Tosi - accodandosi all’estrema sinistra nel chiedere l’abolizione della legge Bossi-Fini, assume una posizione irresponsabile. Purtroppo però alle dichiarazioni del segretario del Pd segue una campagna mediatica che, partendo dall’episodio del trattamento per la disinfezione degli immigrati fino alla protesta strumentale che ne è seguita, tendono ad associare le due cose affinchè l’opinione pubblica sposi una sola tesi. In realtà quello che è successo sull’isola è tutto da verificare". "Se il Centro di Lampedusa dovesse chiudere - indica l’esponente leghista - verrà nuovamente favorita l’immigrazione clandestina: ogni segnale di debolezza incentiva infatti chi vuole emigrare irregolarmente. Anche i Paesi europei che non si affacciano sul Mediterraneo stanno rivedendo in maniera più restrittiva le loro politiche sull’immigrazione". Per Tosi "sarebbe il caso di prendere atto che oggi il problema fondamentale, che dovrebbe campeggiare tra le prime notizie dei telegiornali e dei quotidiani, è la condizione di vita delle famiglie italiane, la devastante crisi economica che si è trasformata ormai in crisi sociale". Immediata la replica del deputato Pd e membro della commissione Esteri Khalid Chaouki:"La vera iattura è stata la vostra legge, la Bossi-Fini, peggiorata dal cosiddetto pacchetto sicurezza che ha prodotto migliaia di clandestini e ha visto reclusi nei centri di accoglienza anche i profughi. Questa pessima legge non ha risolto la questione immigrazione e rischia di rendere l’Italia fanalino di coda dei paesi europei in ambito di rispetto dei diritti umani". Droghe: Radicali; chi oggi plaude al Colle votò legge Fini-Giovanardi in dl Olimpiadi Tm News, 29 dicembre 2013 "Riteniamo molto opportuno l'intervento del presidente Napolitano contro un utilizzo dei decreti legge che ha stravolto completamente il dettato costituzionale; la denuncia di tale stravolgimento è stata una costante dell’iniziativa radicale da trent’anni a questa parte". Lo hanno affermato in una nota congiunta Rita Bernardini, segretaria di Radicali italiani e Giulio Manfredi, componente della Direzione Ri. "Non possiamo, però, non rilevare - prosegue la nota - che molti politici che ora plaudono a Napolitano, in primis l’onorevole Casini, non batterono ciglio quando, esattamente otto anni fa, l’allora governo Berlusconi - nelle persone degli onorevoli Giovanardi (allora esponente Udc) e Fini - fece passare l’aggravamento della legislazione cosiddetta antidroga (equiparazione delle pene per tutte le sostanze stupefacenti) infarcendo un decreto-legge nato per il finanziamento delle Olimpiadi invernali di Torino del febbraio 2006. E l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ratificò la legge di conversione senza fiatare". "A febbraio la Consulta - hanno sottolineato Bernardini e Manfredi - vaglierà i requisiti costituzionali delle legge Fini-Giovanardi. Speriamo che il dibattito di questi giorni possa servire a evidenziare ancora di più la non rispondenza di tale legge (frutto della conversione del decreto-legge citato) a quanto disposto dall’art. 77 della costituzione (necessità, urgenza ed omogeneità delle materie trattate)". Stati Uniti: la ruota della storia gira all’indietro... tornano le carceri per i debitori di Federico Rucco www.contropiano.org, 29 dicembre 2013 Dopo 150 anni dalle denunce del romanzo sociale di scrittori come Charles Dickens, le autorità nel mondo anglosassone tornano a punire con la prigionia quello che ritengono il peccato più grave che si possa commettere: non rimettere i propri debiti. Lo rende noto il sito Wallstreetitalia.com riprendendo un articolo di Michael Krieger. Gli Stati Uniti che già possono contare sul triste record del 25% della popolazione detenuta a livello mondiale, stanno creando delle vere e proprie prigioni per i debitori. Una misura che era sopravvissuta solo in alcuni stati americani e in Grecia. Chi fa o non riesce a pagare multe scadute o tasse legate a spese giudiziarie, sostenute anche solo per semplici infrazioni stradali, rischia dunque di essere sbattuto in carcere negli Stati Uniti. Si ritorna così alle prigioni che fiorirono negli Stati Uniti e in Europa occidentale oltre 150 anni fa. Quando la povera gente e i titolari di aziende in rovina venivano rinchiusi in prigione, finché non venivano saldati i loro debiti. Secondo il Centro Brennan per la giustizia e l’American Civil Liberties Union (Aclu) queste misure stanno rinascendo e vengono attuate in alcuni tribunali locali degli Stati Uniti. Hanno infatti scoperto che ben sette sulle undici contee prese in esame hanno creato, de facto, "prigioni dei debitori", nonostante i chiari "divieti costituzionali e legislativi". Nella seconda metà del 2012, ad esempio, nella Contea di Huron, il 20% degli arresti sono stati dovuti a mancati pagamenti delle ammende; mentre la Corte municipale Sandusky della Contea di Erie ha incarcerato 75 persone in poco più di un mese durante l’estate del 2012. I piccoli debitori finiscono così in carcere, i banchieri invece vengono salvati dallo Stato. Too big to fail. Stati Uniti: lettere che "spezzano" le sbarre di Stefano Pasta Famiglia Cristiana, 29 dicembre 2013 Le associazioni che si battono contro la pena di morte invitano a mandare lettere e cartoline di auguri a Anthony Farina, da 20 anni nel braccio della morte. Per lui, come per tanti condannati capitali, scrivere e ricevere posta è come rompere le sbarre per far passare le parole e l’affetto che vengono da fuori. Mandare una cartolina a Anthony Farina con gli auguri di buon anno nel braccio della morte della Florida. È questo che chiedono la Comunità di Sant’Egidio, Nessuno tocchi Caino e altre organizzazioni che stanno lottando per salvargli la vita. Anthony, nato in una famiglia povera e vittima di ripetuti abusi sessuali durante l’infanzia, è un cittadino italo-americano da 20 detenuto nel braccio della morte nonostante non abbia ucciso nessuno. Fu arrestato durante una rapina in un fast food a Daytona Beach, in Florida, quando suo fratello, allora sedicenne, sparò e uccise una dipendente. Come riportano gli stessi documenti e testimonianze processuali, Anthony non era neanche armato, eppure, vista l’impossibilità di condannare a morte il fratello per la giovane età, il pubblico ministero chiese, e ottenne, una sentenza di morte per Anthony. Da allora, "vive" sospeso, in attesa che gli venga comunicata la data dell’esecuzione. Una buona notizia è quella del rigetto da parte della Corte federale del ricorso presentato dal procuratore della Florida contro la decisione di revisione della condanna a morte. Lo scorso 30 settembre, infatti, la Corte aveva decretato l’incostituzionalità del modo in cui era stata chiesta la condanna a morte, poiché la pubblica accusa, rivolgendosi ai giurati popolari per invocare il massimo della pena, manipolò le parole della Bibbia, definendosi "agente di Dio" e "strumento di punizione divina", condizionando illegittimamente la giuria e violando quindi l’VIII Emendamento della Costituzione. Tuttavia, queste buone notizie non assicurano che Anthony avrà salva la vita, perché la Corte Suprema degli Stati Uniti potrebbe ancora ribaltare la decisione. Per questo, le associazioni che lottano contro "l’omicidio di Stato" si stanno mobilitando per far conoscere il suo caso. Anche dall’Italia, che gli ha concesso la cittadinanza nel novembre 2012, arrivano delle voci in suo sostegno: il parroco e il sindaco di Santo Stefano di Camastra, il paese della provincia di Messina da cui sono originari i genitori di Anthony, hanno annunciato la volontà di accogliere i due fratelli con prospettive di reinserimento sociale e lavorativo. Commenta il sindaco: "Si tratta di un ragazzo che potrebbe morire per l’errore più grande della sua vita, commesso a soli 18 anni. Ha preso parte a un fatto di sangue, ma che lui non abbia commesso l’omicidio è una verità sacrosanta". Per Anthony, la vita nel braccio della morte non è semplice. Per questo, in occasione del nuovo anno, Sant’Egidio e le altre associazioni propongono di mandargli una cartolina di auguri. Nei bracci della morte, infatti, scrivere e ricevere posta è come spezzare le sbarre per far passare le parole e l’affetto che vengono da fuori, anche da molto lontano. "Non posso più fare niente per la mia vita. Anche se non potete aiutarmi a uscire di qui, potete scrivermi, essermi amici" L’amicizia di penna della Comunità di Sant’Egidio con centinaia di condannati a morte in tanti Paesi del mondo (Usa, Trinidad e Tobago, Camerun, Zambia) è una storia di vari anni, nata da una lettera di Dominique Green, un afroamericano giustiziato in Texas nel 2004 per un omicidio di cui si era sempre proclamato innocente. Cresciuto in una famiglia povera, durante il processo gli fu assegnato un avvocato d’ufficio inesperto e poco competente: fu condannato alla pena capitale senza che fosse presentata alcuna prova certa della sua responsabilità. Sant’Egidio iniziò a corrispondere con lui dopo la pubblicazione di una lettera in cui scriveva: "Ho bisogno di qualcuno che voglia aiutarmi. Ho pensato che voi siete in grado di aiutarmi a trovare qualcuno che abbia tempo di scrivermi o di aiutarmi, perché io negli ultimi tempi non sapevo proprio come chiedere aiuto o amicizia... La solitudine di questo luogo comincia ad avere effetto su di me, anche perché ho realizzato che posso finire per morire qui per qualcosa che non ho commesso. Sono chiuso in un braccio della morte da 5 lunghissimi anni, sono entrato qui dentro che ero un ragazzo, ora sono uomo e capisco molte cose, ma non posso più fare niente per la mia vita. Anche se non potete aiutarmi a uscire di qui, potete scrivermi, essermi amici". Negli anni, tante corrispondenze hanno mostrato che avere qualcuno a cui scrivere scandisce il tempo, apre uno spazio di affetto, aiuta a non perdere la fiducia. Vladimir dalla Siberia scrive: "I giorni passano tutti uguali e niente li distingue l’uno dall’altro, si differenziano solo per il nome del giorno e del mese e passano come se fosse un unico, banale e infinito giorno". E Aleksej aggiunge: "La sua lettera mi ha colto di sorpresa. Si era rafforzata in me l’opinione che con uno come me nessuno potesse voler corrispondere, per parlare di cose pulite, sincere, amichevoli". Quando ci si sente considerati spazzatura, infatti, si stenta a credere che ci sia veramente qualcuno disposto a fare amicizia: "La ringrazio enormemente per la sua lettera e per il suo buon cuore. C’è infatti l’abitudine a vederci solo come delinquenti e nessuno sa o vuole gettare uno sguardo anche sulla nostra anima" (Sasha, Siberia). Negli ultimi momenti di vita, poi, il contatto epistolare è una consolazione e una forza per quelli che si avvicinano al momento dell’esecuzione, è la certezza di non essere dimenticati. Joe Mario Trevino, giustiziato in Texas nel 1999, scriveva al suo amico di penna: "Mio carissimo amico, quando riceverai questa lettera non sarò più tra i viventi, ma mi va bene lo stesso, perché andrò in un posto migliore, dove dolore e sofferenza non esistono più, per cui, per favore non essere triste. Sono stato estremamente fortunato a essere benedetto da tanta amicizia". Per mandare una cartolina di auguri a Anthony Farina l’indirizzo è: Anthony J. Farina, Jr. #684135 UCI P6224, 7819 N. W. 228th Street Raiford, FL 32026, USA. Stati Uniti: la storia di Joaquìn, ex "dead man walking" di Stefano Pasta Famiglia Cristiana, 29 dicembre 2013 Accusato ingiustamente di aver ucciso una giovane coppia, Joaquìn Josè Martinez è stato cinque anni in carcere, tre nel braccio della morte. Ecco la sua storia. Quello che ha visto e vissuto lo ha trasformato da convinto assertore della pena capitale in testimone del fatto che nessuno la merita. "Di fronte a un crimine efferato e alla condanna a morte, dicevo: "Perché aspettare? Sparategli subito!". Quando poi vedevo i manifestanti con i cartelli contro la pena di morte il giorno dell’esecuzione, pensavo: "Perché sprecare tempo". Se mi avessero ascoltato, oggi non sarei qui". Così Joaquín José Martinez racconta come da acceso sostenitore della pena capitale è diventato un testimone che gira le città europee per difendere il diritto alla vita. È un ex dead man walking, un ex "uomo morto che cammina", dopo che per tre anni è stato ingiustamente recluso nel braccio della morte. Ha raccontato di recente la sua esperienza in Italia, agli studenti dell’Università Cattolica di Milano, dove è stato invitato dalla Comunità di Sant’Egidio. Nato in Ecuador, cittadino spagnolo, con una buona famiglia e un’infanzia felice alle spalle, a 24 anni era un esempio riuscito dell’American dream, il sogno americano. Viveva a Tampa in Florida, dove aveva due figlie e una separazione in corso. Proprio per alcune accuse infondate della ex moglie, viene arrestato, sotto gli occhi delle figlie, per l’assassinio di una giovane coppia. Il ragazzo ucciso è un trafficante di droga, nonché il figlio di un ufficiale di polizia. Serve subito un colpevole: Joaquín, che nel giorno dell’omicidio si trovava a Disneyland con la nuova fidanzata, viene incredibilmente condannato alla pena capitale. "Era il 1997", racconta, "e a quell’epoca l’esecuzione era solo con la sedia elettrica. Si stava iniziando a discutere se fosse il metodo "migliore" dopo che in alcuni casi un voltaggio eccessivo delle scariche elettriche aveva fatto soffrire molto i condannati. Nel braccio della morte, i poliziotti, mentre facevano alcuni test, passavano davanti alle celle e ridendo dicevano: "La prossima volta tocca a voi"". Joaquín inizia a conoscere i suoi compagni di detenzione, alcuni probabilmente innocenti come lui, altri colpevoli di crimini efferati. Ma tutti umani. "Fino a quel momento, non avevo più fiducia nel sistema che mi aveva incarcerato ingiustamente, ma pensavo ancora che la pena di morte fosse "giusta". L’incontro con loro mi ha cambiato, ho riscoperto la loro umanità e come lo Stato abbia il dovere di essere migliore, proprio per dire che è sbagliato, sempre, uccidere. Oggi, purtroppo, tutte le persone detenute con me sono state uccise". In particolare, Joaquín si commuove ricordando Frankie, 20 anni nel braccio della morte prima di morire per un cancro non adeguatamente curato: "Era solo, senza amici, senza parenti, senza lettere da fuori. Gli mostravo le cartoline che ricevevo da mezzo mondo e gli descrivevo le città europee. Era stato condannato per lo stupro di una ragazzina di dieci anni, chiedeva di fare il test del dna per dimostrare la sua innocenza, ma la risposta era sempre: "Perché spendere soldi per un assassino?". Frankie era un malato psichico, viveva con le catene ai polsi e ai piedi: "Quando urlava per le crisi, le guardie lo picchiavano. Sentivamo vibrare le pareti per i colpi, poi finiva in infermeria. Poi non lo abbiamo più visto, pensavamo fosse stato ucciso, finché l’ho rivisto in infermeria, scheletrico, non mi riconosceva, malcurato e agonizzante per un cancro". Una volta morto, gli avvocati ottennero di fare il test del dna: risultò innocente. "La malattia psichica", spiega Joaquín, "è molto comune nei bracci della morte. Al terzo anno, anch’io stavo iniziando a parlare da solo. Vivi in attesa che nel cuore della notte vengano a misurati il cranio o a darti il rasoio per raderti la caviglia, dove metteranno il laccio della sedia elettrica". "Ma io", aggiunge, "sono stato un privilegiato; nei tre anni nel braccio ho avuto il sostegno di molti, dal Re di Spagna al Papa, dal Parlamento Ue a tante associazioni, come Sant’Egidio, e cittadini comuni. La mia famiglia, un’eccezione rispetto a quelle di molti detenuti, ha potuto pagare un buon avvocato e dei consulenti scientifici che hanno ottenuto la revisione del processo. I soldi purtroppo contano molto". Stesso giudice, stessa aula: dopo cinque anni di detenzione e tre nel braccio della morte, Joaquín viene riconosciuto innocente. Liberato, torna in Spagna. "In carcere non esisteva uno specchio, ho scoperto allora come ero cambiato, avevo i capelli brizzolati. Il console spagnolo, venuto per accogliermi, mi ha chiesto cosa volevo mangiare. Sono scoppiato in lacrime. In carcere non avevo mai potuto scegliere nulla". Infine, "l’ex condannato a morte" racconta il suo giorno più difficile da quando è stato liberato: "Alcuni anni dopo, mio padre stava andando a vedere la partita Real Madrid-Valencia e venne ucciso in un incidente stradale da un diciassettenne. Ero arrabbiato, nel corridoio dell’ospedale dissi: "Vado e lo uccido". Mia madre mi scosse e mi rispose: "Non hai imparato niente!". Ecco, scegliere di perdonare quel ragazzo è stata la cosa più difficile degli ultimi anni, ma l’ho fatto e questo ci rende migliori". Uganda: ergastolo agli omosessuali "recidivi" Alessandro Graziadei www.internazionale.it, 29 dicembre 2013 Nel corso degli ultimi anni era cresciuta la speranza dei gay ugandesi di difendere i propri diritti in un Paese preda dell’omofobia, arrivando addirittura a sfidarla apertamente nel 2012 con il primo Gay Pride. In realtà essere gay in Uganda potrebbe ancora voler dire l’ergastolo. "Da oggi sono ufficialmente nell’illegalità" ha osservato Frank Mugisha, attivista gay ugandese e direttore dello Sexual Minorities Uganda (Smug) quando il parlamento di Kampala ha approvato lo scorso 20 novembre la legge, proposta la prima volta nel 2009 e ferma in parlamento dal 2010, che prevede l’ergastolo per "l’omosessualità aggravata" in caso di recidiva e fa rischiare la prigione anche chi non "denuncia" le persone gay alle autorità. "Ora i gay nel nostro Paese vivono nel terrore, hanno paura a uscire di casa, ma proveremo ugualmente a bloccare la legge in tribunale" ha concluso Mugisha. Di fatto l’omosessualità era già illegale in Uganda (come in altri in 38 paesi dell’Africa) per via di una legge risalente al periodo coloniale che la condannava in quanto "contraria all’ordine naturale", ma ora la nuova norma inasprisce le pene e proibisce la promozione dei diritti dei gay e il sostegno di ogni tipo agli omosessuali, decisione che ha lasciato senza parole anche Pepe Julian Onziema, transessuale e figura di spicco del movimento gay ugandese che era riuscito nel 2012 ad organizzare il primo Pride dell’Uganda. A parzialissima consolazione dal testo è stata esclusa la pena di morte, che invece figurava nelle intenzioni del legislatore quando il progetto di legge fu presentato in Parlamento nel 2010 incassando la dura condanna di molti leader mondiali. Il deputato che più ha voluto il nuovo disegno di legge, David Bahati, ne ha giustificato la presentazione dichiarando che gli "omosessuali provenienti dall’Occidente rappresentano una minaccia per le famiglie ugandesi reclutando sempre nuovi bambini africani al loro stile di vita". Una spiegazione che raccoglie grande consenso presso l’opinione pubblica ugandese, convinta che il Paese abbia tutto il diritto di approvare una legge che protegga i suoi bambini. Il riferimento agli occidentali trova in questi giorni anche un nome e un cognome: Bernard Randall, un cittadino britannico ritiratosi in Uganda e attualmente sotto processo per "traffico di pubblicazioni oscene". Anche per questo dopo l’approvazione, lo stesso Bahati ha esultato parlando di "un voto contro il male" da parte di "una nazione timorata di Dio". "È una vittoria per l’Uganda, questi sono i nostri valori, non importa cosa pensino nel resto del mondo" ha concluso Bahati. Per Amnesty International la nuova legge contro l’omosessualità "ostacolerà in modo significativo il lavoro dei difensori dei diritti umani e delle altre persone che, semplicemente eseguendo il loro lavoro, si troveranno in conflitto con il provvedimento". A detta della ong il Paese, "che aveva ridotto l’infezione di AIDS grazie all’uso massiccio di preservativi", è ritornato a aumentare il numero dei contagi, dopo che leader politici e religiosi, irretiti dalla pesante influenza dei predicatori evangelisti americani arrivati in massa durante la presidenza di George Bush jr, hanno iniziato una campagna anti Aids giocata sulla propaganda della fedeltà di coppia e sulla castità e non sull’uso del condom oltre a diffondere in tutta l’Africa la lotta all’omosessualità. Nel mirino degli attivisti gay in questi mesi c’è stato soprattutto Scott Lively, evangelista del Massachusetts, citato nel marzo 2012 per omofobia tramite l’Alien Tort Statute, che consente a chi non è cittadino americano di sporgere denuncia presso le corti a stelle e strisce nei casi in cui sia manifesta la violazione del diritto internazionale. Scott Lively si è difeso negando di voler perseguire la "severa punizione" dei gay e di non voler incitare alla violenza contro gli omosessuali, consigliando loro piuttosto di sottoporsi a una "terapia". La legge anti gayarriva dopo che nei giorni scorsi il parlamento aveva approvato nuove norme che vietano di indossare la minigonna e "abiti indecenti". "Sembra che in Uganda si sia tornali ai tempi austeri della regina Vittoria. Speriamo che papa Francesco intervenga contro questo obbrobrio - ha spiegato al telefono ad Africa Express un militante gay - Qui purtroppo anche molti cattolici sono schierati a favore di questa legge liberticida". Adesso per l’entrata in vigore resta un solo passaggio: la firma del presidente, Yoweri Museveni. Che però non è scontata. Maria Burnett, ricercatrice presso il dipartimento Africa di Human Rights Watch, ha spiegato che "Il presidente ugandese può ancora respingere la legge e mandare un chiaro messaggio: che l’Uganda non ci sta a questo genere di discriminazione e intolleranza. Il fatto che sia stata cancellata la pena di morte è già una buona cosa, ma il carcere a vita e altre allarmanti disposizioni restano, molte delle quali sono del tutto inapplicabili". Alcuni Paesi, infatti, hanno già criticato duramente la legge e se dai governi occidentali, innanzitutto dagli Usa, arrivasse una ferma condanna accompagnata da una rinnovata minaccia di chiudere il rubinetto degli aiuti, il capo di Stato ugandese avrebbe più di una ragione per pensarci. Qualcosa già si muove. L’Unione europea ha "deplorato" il via libera del parlamento dell’Uganda alla legge ed ha esortato le autorità di Kampala a "rispettare il principio della non discriminazione". "Deploro l’adozione della legge anti-omosessualità in Uganda - ha detto il capo della diplomazia Ue, Catherine Ashton - che va contro i principi della Convenzione internazionale sui diritti civili e politici e della Carta africana dei diritti umani". Ma risolutiva sarà la telefonata che Museveni prevedibilmente riceverà dal presidente americano Barak Obama, il quale durante il suo viaggio in Africa, qualche mese fa, aveva definito "odiose" le legislazioni anti gay e ammonito i leader africani ad essere tolleranti con gli omosessuali e a "non negar loro quei diritti diventati tali in tutto il mondo occidentale". Iran: eseguite 5 condanne a morte per omicidio a Kermanshah Aki, 29 dicembre 2013 Le autorità iraniane hanno eseguito negli ultimi giorni cinque condanne a morte per omicidio. Lo riferiscono alcuni siti che si battono contro la pena di morte nella Repubblica islamica, precisando che le esecuzioni sono avvenute nel carcere Dizel Abad di Kermanshah, nell’ovest dell’Iran, tra il 25 e il 26 dicembre. Nessun media ufficiale ha confermato per il momento la notizia. Israele: lunedì prossimo verranno liberati altri venti detenuti palestinesi di Andrea Radaelli Agi, 29 dicembre 2013 Lunedì prossimo, un giorno dopo il previsto, Israele rilascerà circa venti detenuti palestinesi; così ha dichiarato agli Usa. Con questo si contano tre scaglioni di detenuti contentando quelli di agosto e ottobre secondo le dichiarazioni del portavoce della Casa Bianca, Jen Psaki. Fino ad oggi sono state scarcerate 52 persone su un totale di 104. Sicuramente la concessione di Israele all’Anp (Autorità Nazionale Palestinese) è da considerare come un gesto di buona volontà per il piano di pace mediato da Washington.