Lettera alla redazione di Ristretti Orizzonti di un giovanissimo lettore Il Mattino di Padova, 23 dicembre 2013 Proprio grazie alla nostra rubrica sul Mattino di Padova, arrivano a volte alle persone detenute lettere che aiutano a riflettere, a ripensare alla propria vita, a mettere in discussione tante scelte del loro passato. Quella che segue è la lettera di un lettore giovanissimo, che si trova in una comunità perché qualcosa non ha funzionato nella sua vita, e già deve fare i conti con la lontananza della famiglia, e con il rimpianto per aver perso la fiducia delle persone che gli vogliono bene. A lui hanno risposto due detenuti, spinti dal desiderio di raccontare la loro storia per far capire a quel ragazzo che certe scelte non pagano, e che è meglio fermarsi in tempo e imparare ad apprezzare la vita senza cercare sempre di alzare il tiro con l’illusione di essere invincibili. "Se potessi tornerei indietro anche in un sogno" Salve a tutti sono un ragazzino di 14 anni ho letto le lettere pubblicate sul Mattino di Padova che parlano delle famiglie dei detenuti. Io vorrei dire che queste lettere mi hanno colpito molto, perché io sono in una comunità per l’atto di rubare o essere messo in mezzo in casini che non c’entravo. Scrivo questa lettera perché posso capire quanto vi manchi la vostra famiglia. Io penso che se non avessi fatto tutte quelle cose che ho fatto venivo apprezzato per quello che ero da tutti, ora per esempio vorrei tornare indietro oppure se potessi tornerei indietro anche in un sogno, così le brutte cose che ho fatto le evito e lì almeno verrò apprezzato per quello che sono. Però mi consolo dicendo che io vedo la mia famiglia ogni quindici giorni e voi magari non la vedete mai, e per questo mi dispiace perché anche io soffro molto. Infatti ogni volta che passo per il carcere faccio una preghiera a chi sta lì dentro, perché infine sono un ragazzo sensibile. Ora le miei aspirazione non sono più quelle di rubare scippare e innervosirmi per tutto, ma sono di diventare un attore. Quella sarebbe la cosa che sogno fin da piccolo. Ecco queste cose le sto dicendo col cuore. E spero con tutto il cuore che le vite di queste persone vadano meglio. E siano felici e si facciano aiutare dalla fede negli uomini e in Dio. Vi saluto e spero che questa lettera sia piaciuta a voi della redazione. D. C. Vorrei dirti cosa mi ha comportato questa vita sbagliatissima Caro amico, sono Paolo, un componente di Ristretti Orizzonti. Oggi la nostra direttrice Ornella Favero ci ha letto la tua lettera. Mi ha colpito la tua sensibilità e il fatto che hai rivisto il tuo passato, e così, per questa tua forma piena di umanità con cui ti poni, io mi sono proposto per risponderti. Devo dire che questo tuo modo di mettere in discussione te stesso mi ha coinvolto. Io nelle carceri, ai giovani che ci finiscono dentro ho sempre cercato di far capire che la strada che ho scelto era sbagliata, di pensarci su, di guardare quello che è stato il mio passato e collegarlo al mio presente, e capire quanto e cosa ho perso nei tantissimi anni passati nelle nostre patrie galere. I ragazzi che ho incontrato qui ho sempre cercato di farli riflettere. Qualche volta qualcuno mi ha preso come un idolo, lì mi sono sentito colpevole anche nel loro confronti. In questi ultimi anni di detenzione mi sento colpevole anche nei confronti della società, perché troppo tardi mi sono reso conto che pure io ho le mie vittime, cosa di cui prima ero totalmente inconsapevole. Questo perché, avendo fatto delle rapine, ho sempre pensato di non avere vittime, ma solo nemici, "le istituzioni". Ora grazie agli incontri con gli studenti e i professori, qui in carcere, dove entrano tante scuole, ho sentito la testimonianza di una professoressa, cliente di una banca, che era stata presa in ostaggio durante una rapina. Ecco, è stato il racconto di questa sua particolare paura e angoscia, che si sta trascinando da vari anni, come un incubo che si risveglia a ogni piccolo rumore o gesto inusuale, che mi ha fatto capire il significato della sofferenza che i nostri gesti portano agli altri. Vorrei anche dirti cosa mi ha comportato questa vita sbagliatissima. Sono nonno: ho perso gli affetti più cari, e mia nipotina ho potuto vederla solo in un fotogramma della sua prima ecografia, dopo non ho più visto nemmeno mia figlia e tantomeno mia moglie. Poi, in seguito a un conflitto a fuoco, mi sono fatto curare clandestinamente, così ho compromesso per sempre anche la mia salute. Vorrei raccontarti ancora quanto di brutto mi è capitato. Ma non vorrei si pensasse che mi sto piangendo addosso. Caro amico, sappi che a passare da questa parte, ci vuole veramente poco. Ma ho visto come tu ti sei messo in discussione con te stesso, e sono convinto che sei riuscito a pensarci e a fermarti nel tempo giusto. Cerca di volere sempre bene a te stesso, solo così vorrai bene agli altri e alla vita. Io non mi ero mai voluto bene, guarda che disastro, oltre 30 anni di vita buttata in queste sporche galere. Ti auguro ogni cosa bella dalla vita. Un saluto da tutti i "ragazzi" della Redazione Paolo C. Fra un mese avrò trent’anni, molti dei quali li ho trascorsi in carcere Ciao D., vorrei dirti prima di tutto che mi dispiace per la tua situazione, ma ne verrai fuori sicuramente. Ho letto la tua lettera e mentre la leggevo ho provato un misto di emozioni, ci sono stati momenti che mi si spezzava il cuore e altri che non potevo fare a meno di sorridere, ora cerco di spiegarti il perché. Il cuore mi si è spezzato quando scrivi della tua famiglia, che non la puoi vedere quando ne hai voglia, una cosa del genere faccio fatica a comprenderla, alla tua età bisognerebbe poter avere sempre vicini i propri cari, ma non sta a me giudicare dunque fatti forza e vai avanti. Mentre ti fai forza cerca di pensare che la vita è lunga, anzi lunghissima quando si vive pienamente con sogni e desideri nel rispetto di chi ci sta attorno, ma in egual modo ti può sembrare che ti sia volata dalle mani in un batter d’occhio. Io ti porto il mio esempio, fra un mese avrò trent’anni e da quando sono diventato maggiorenne la maggior parte del mio tempo l’ho trascorsa in carcere. Quando avevo i tuoi anni, ho avuto l’opportunità di ritornare sui miei passi ma ho perseverato negli errori, e oggi eccomi qui ancora in galera ed uscirò a quasi quarant’anni, certamente non avrò più la freschezza che si ha alla tua età ma anche a me i sogni non mancano. Il sorriso mi è spuntato fuori quando ho letto dei tuoi sogni e di ciò che vorresti diventare, hai gusto ragazzo mio, cerca di coltivare con convinzione il sogno di diventare attore e non dimenticare però di essere pratico nella vita, non tutti i sogni possono essere raggiungibili ma se sono sogni sani, ci possono indirizzare verso la giusta via. Pensa alla tua vita e cerca di essere un attore che fa il ruolo buono e non quello cattivo, perché nei film sono sempre i buoni a vincere e forse è proprio cosi. Ma tu oltre a svolgere il ruolo del buono pensa anche che potresti essere migliore per te stesso, per la tua famiglia e per i tuoi amici, però occhio gli amici spero che siano veri e sinceri e che ti apprezzino totalmente senza giudicarti. Sperò di vederti magari in TV fra qualche anno, ma se questo non avviene non ti preoccupare, ci sono altre cose belle nella vita, confido invece che quattro righe da parte di un ragazzo che la propria vita l’ha maltrattata ti servano almeno un po’ per non ripetere gli errori commessi finora e ti diano uno spunto per riemergere migliore di prima. Erion C. Giustizia: sfide perdenti su carceri e Cie di Liana Milella La Repubblica, 23 dicembre 2013 Dobbiamo dirlo. Quella sulle carceri, ma soprattutto quella sui famigerati Cie - i Centri di identificazione ed espulsione per gli immigrati - sono due battaglie perse. Per una semplice ragione. Non c’è un sufficiente sdegno, e conseguente pressione popolare, per rendere le une e gli altri effettivi luoghi di civiltà. Anzi, diciamola tutta, più sono terrificanti, più la gente comune è contenta. Dei penitenziari si sa, sono una vergogna, per giunta incomprensibile, viste le strutture vuote e inutilizzate. I Cie fanno storia a sé, storia d’illegalità manifesta, visto che è del tutto assurdo chiudere in cella - le avete viste le sbarre no? - chi non ha commesso un reato, ma ha solo la colpa di aver lasciato il suo Paese per trovare altrove una vita migliore. Spiace che i magistrati, per i Cie, non abbiano fatto sentire, con la dovuta forza e il dovuto peso, il loro giudizio negativo. Basta vedere le immagini per far scattare subito una denuncia, nessuno ha diritto di far vivere uomini alla stregua bestie. Ma tant’è, forse le toghe sono state prese da altri problemi in questi anni, magari quelli delle loro liti con Berlusconi. Eppure chi, se non la magistratura, dovrebbe vedere le manifeste storture, il trattamento disumano, in una parola, la tortura? Sarà che il reato, in Italia, ancora non c’è. Ma un governo con il Pd non può consentire ancora un solo minuto che storie come quelle di Ponte Galeria si ripetano. Quanto alle carceri, ormai bisogna arrendersi alla dilagante vulgata manettara del "tutti in galera". Basta vedere come sia caduto nel vuoto - spazio minimo sui giornali - l’ennesimo appello di Napolitano per l’amnistia. Pannella è in sciopero della fame e della sete, una sfida grave viste le sue condizioni fisiche, proprio per il silenzio sulla marcia di Natale per l’amnistia organizzata dai Radicali a Roma la mattina di Natale. Napolitano la sottoscrive e diventa una piccola notizia. Se neppure il primo inquilino del Colle riesce ad accendere i riflettori, siamo messi proprio male. Giustizia: Per Beccaria vittoria a metà su tortura e pena di morte di Paolo Mieli Corriere della Sera, 23 dicembre 2013 Violenze ed esecuzioni capitali restano pratiche diffuse, Esce in libreria il prossimo 9 gennaio il saggio Beccaria (Il Mulino, pagine 120, € 11) dello studioso svizzero Michel Porret. Sono già disponibili invece il libro di Massimo La Torre e Marina Lalatta Costerbosa Legalizzare la tortura? Ascesa e declino dello Stato di diritto (Il Mulino, pagine 208, € 19) e il volume Dei diritti e delle garanzie (Il Mulino, pagine 192, € 15), una conversazione di Luigi Ferrajoli con Mauro Barberis. Tra breve cadranno i 250 anni del 1764, allorché Cesare Beccaria diede alle stampe Dei delitti e delle pene. Beccaria aveva 26 anni (era nato nel 1738) quando pubblicò - senza firmarlo - quel libro e, ai tempi, era un giovane funzionario dell’amministrazione austriaca in Lombardia. Il saggio è uno straordinario atto d’accusa contro la pena di morte e contro la tortura (quest’ultima già abolita in Svezia nel 1734, a Ginevra nel 1738, in Prussia nel 1740, in Austria nel 1752: però in Francia lo sarà solo nel 1780). Ma, a metà Settecento, l’abolizione della pena capitale è ancora un tabù. Beccaria, per privilegiare il carcere al patibolo, scrive: "Non è il terribile ma passeggiero spettacolo della morte di uno scellerato, bensì il lungo e stentato esempio di un uomo privo di libertà, che, divenuto bestia di servigio, ricompensa colle sue fatiche quella società che ha offesa, che è il freno più forte contro i delitti". Il condannato che espia sul patibolo suscita una "compassione mescolata al disprezzo", piuttosto che "il salutare terrore che la legge pretende ispirare". Dopodiché si pone un problema che molti (ad esempio qui da noi i Radicali) affrontano ancora oggi: non è da considerarsi la schiavitù perpetua, vale a dire l’ergastolo, contraria quanto la morte a ogni principio di civiltà e ugualmente crudele? Beccaria risponde che sommando tutti i momenti infelici della schiavitù, lo sarà, crudele, anche di più, ma questi "sono stesi sopra tutta la vita e quella esercita tutta la sua forza in un momento… ed è questo il vantaggio della pena di schiavitù, che spaventa più chi la vede che chi la soffre". Laddove più che l’argomento usato per ribattere ai fautori del patibolo, va considerata la sensibilità che lo porta ad individuare, già a metà Settecento, il labile confine tra capestro e prigione a vita. Beccaria si batte con decisione per la secolarizzazione della giustizia. I crimini, secondo lui, non devono più essere concepiti come peccati, ma soltanto come infrazioni sociali: "Io non parlo che dei delitti che emanano dalla natura umana e dal patto sociale, non dei peccati, dei quali le pene, anche temporali, debbono regolarsi con altri principii che quelli di una limitata filosofia". Spingendosi a chiedere una riformulazione di tutte le pene, ivi compresa quella per i suicidi, che all’epoca si traduceva nella pratica dei "processi ai cadaveri" (una sentenza del Parlamento di Parigi del 1749 disponeva che - a offesa dei parenti - i corpi di coloro che si erano dati la morte fossero messi pubblicamente su una graticola, "testa in giù, faccia rivolta contro la terra"). La repressione del suicidio, scriveva Beccaria, è socialmente inutile: punisce una famiglia innocente, agisce senza effetto "sul corpo freddo e insensibile" del morto. Inoltre la pena "non farà alcuna impressione sui viventi, come non lo farebbe lo sferzare una statua". Il "processo ai cadaveri" è per lui un’usanza "ingiusta e tirannica perché la libertà politica degli uomini suppone necessariamente che le pene sieno meramente personali". Parole di fuoco spendeva poi contro la lentezza dei processi: "La prontezza delle pene è più utile, perché quanto è minore la distanza del tempo che passa tra la pena ed il misfatto, tanto è più forte e più durevole nell’animo umano l’associazione di queste due idee, delitto e pena, talché insensibilmente si considerano uno come cagione e l’altra come effetto necessario immancabile". Va ricordato che quando Beccaria scrive non sono ancora stati del tutto aboliti i roghi delle streghe ed è ancora vivo il ricordo dell’atroce morte inflitta nel 1757 (dopo il "supplizio delle tenaglie") a Robert Damiens, "squartato da quattro cavalli" per aver ferito con un colpo di temperino il "corpo reale" di Luigi XV. In Francia, l’abate André Morellet lesse Dei delitti e delle pene e lo tradusse nella sua lingua, impegnandosi a diffonderlo. A operazione compiuta, il 3 gennaio del 1766 scrisse a Beccaria i sensi della propria ammirazione. Beccaria gli rispose raccontandogli quanto fosse stato importante per lui la lettura delle Lettere persiane di Montesquieu, del rilievo che avevano avuto per la sua formazione autori come Helvétius, Diderot e d’Alembert, di quanto avesse contato, più in generale, la cultura francese per aprirgli gli occhi dopo "otto anni di istruzione fanatica e servile" ricevuta dai gesuiti. Sembravano le premesse per un asse illuminista che avrebbe presto congiunto Milano a Parigi. E invece… Anno fatidico il 1766. In febbraio, Dei delitti e delle pene viene messo all’Indice dalla Chiesa di Roma e alcuni mesi dopo (in settembre) Voltaire proclama Beccaria "fratello in filosofia". Nel 1767 il libro sarà tradotto in inglese da John Almon. Quello stesso anno ne comparirà una vibrante confutazione ad opera di Pierre-François Muyart de Vouglans (definito da Voltaire "l’avvocato della barbarie"). Il monaco Ferdinando Facchinei accuserà Beccaria di essere il "Rousseau degli italiani". Definizione che lui accoglierà come un encomio. Nel 1770, Gustavo III di Svezia esprime il suo apprezzamento per l’opera. Lo stesso faranno in Spagna Carlo III e negli Stati Uniti Thomas Jefferson. Nel 1786, il granduca di Toscana Leopoldo II, in omaggio alle sue tesi, abolirà la pena di morte. Ma torniamo al 1766. Quell’anno, scrive Michel Porret, nel libro Beccaria. Il diritto di punire (di imminente pubblicazione per i tipi del Mulino), il nostro autore sarà amareggiato da alcune circostanze. In particolare da un viaggio a Parigi che compirà in autunno. I suoi due più cari amici Alessandro e Pietro Verri, fondatori dell’Accademia dei Pugni e della rivista "Il Caffè", lo convincono ad andare in ottobre, a Parigi, dove per merito, come si è detto, dell’abate Morellet il suo libro è già molto famoso. Lì in Francia, però, "l’intellettualismo gelido e il clima libertario dei salotti letterari parigini", racconta Porret, "infastidiscono il milanese; la sua timidezza invece delude i francesi… Malinconico, geloso della moglie corteggiata da Pietro Verri, Beccaria, in dicembre, lascia prematuramente Parigi e ritorna a Milano… Progettato per sei mesi il suo "tour filosofico" è un fallimento". Da quel momento si fa sempre più schivo e sospettoso. È invitato in Russia per entrare in una commissione legislativa voluta da Caterina II, così come Diderot che viene chiamato a fare da istruttore al futuro zar Paolo I. D’Alembert sconsiglia a Beccaria quel passo: "Perderete molto al cambio, un bel clima per un Paese molto sgradevole, la libertà per la schiavitù, e i vostri amici per una principessa di gran merito, ma che tuttavia è meglio avere come amante che come moglie". Risultato: Diderot accetta, mentre Beccaria rifiuta. Poi una nuova delusione. Nell’Enciclopedia, che viene pubblicata dal 1751 al 1772 (quindi per ben otto anni ancora dopo l’uscita di Dei delitti e delle pene) di lui non si fa menzione. Nel 1769 Beccaria accetta di essere nominato professore in "Scienze camerali" presso le Scuole palatine di Milano. Nel 1791 accoglierà l’invito a far parte della commissione per la revisione del sistema giudiziario civile e criminale della Lombardia austriaca. Nel 1794, all’età di 56 anni, morirà per un colpo apoplettico. Nove anni dopo che sua figlia Giulia aveva dato alla luce Alessandro Manzoni. Quella Giulia che, per uno strano intreccio della storia, a dispetto del matrimonio con l’anziano conte Pietro Manzoni, aveva perso la testa per il vivace Giovanni Verri, fratello minore di Pietro e Alessandro. Oggi, ad oltre due secoli dalla morte di Beccaria, Michel Porret ricorda che nel mondo solo 109 Stati su 192 (poco più della metà) hanno gradualmente eliminato la pena capitale, oppure rinunciano al suo impiego. Ma, come con ostinazione ci riportano alla memoria i seguaci di Marco Pannella e di Emma Bonino, accanto a regimi autoritari (Cina, Iran, Iraq, Pakistan) e teocratici, nei quali la sfera religiosa contamina sempre quella penale (Afghanistan, Arabia Saudita, Nigeria), gli Stati Uniti restano l’unica potenza democratica che si sottrae all’abolizione totale della pena di morte. Anche se la Corte suprema ne limita ora l’applicazione (esclusa per i malati di mente), essa rimane in vigore in 38 Stati. E tutte, ma proprio tutte, le rivoluzioni del secolo scorso si sono distinte per il ricorso al capestro. A 250 anni dalla pubblicazione del suo libro, siamo dunque ben lontani dall’aver assistito al trionfo di Beccaria. Anzi in alcuni campi, come quello delle sevizie sui prigionieri, si sono fatti addirittura dei passi indietro. Per fortuna, però, il solco da lui tracciato è ancora assai fecondo. E un bel libro di Massimo La Torre e Marina Lalatta Costerbosa, Legalizzare la tortura? Ascesa e declino dello Stato di diritto (Il Mulino), ne è la riprova. Il libro è interamente dedicato al mondo del dopo 11 settembre 2001, dove "tutto pare rimesso di colpo in discussione". Vengono ricordate la dure parole di Beccaria contro le crudeltà nei confronti dei sospettati: "Un altro ridicolo motivo contro la tortura è la purgazione dell’infamia, cioè un uomo giudicato infame dalle leggi deve confermare la sua deposizione collo slogamento delle sue ossa. Quest’abuso non dovrebbe essere tollerato nel decimottavo secolo". "Noi scriviamo nel XXI", si limitano ad aggiungere i due autori. I quali ricordano come Josef von Sonnenfels, consigliere della corona asburgica, nel 1775 scrisse, nel saggio Sul- l’abolizione della tortura (pubblicato a Zurigo), che quello poggiato sulle afflizioni non era potere legittimo, bensì tirannia. Tirannia che si regge su un intreccio di violenza e paura, intreccio che dà l’illusione a colui che vi fa ricorso di aumentare la propria stabilità, proprio nel momento in cui sta imboccando il cammino del suo declino. Quel che avrebbe ripetuto con forza anche Gaetano Filangieri. E che avrebbe ribadito nel Novecento Hannah Arendt: "Il dominio per mezzo della pura violenza entra in gioco quando si sta perdendo il potere". In Sulla violenza (Guanda) la Arendt scrive: "Sostituendo la violenza al potere si può ottenere la vittoria, il prezzo però è molto alto; in quanto viene pagato non solo dal vinto ma anche dal vincitore… In nessun caso il fattore di autodistruzione nella vittoria della violenza sul potere è più evidente che nell’uso del terrore per mantenere la dominazione. Il terrore non è la stessa cosa della violenza; è piuttosto la forma di governo che viene in essere quando la violenza, avendo distrutto tutto il potere, non abdica, ma al contrario rimane in una posizione di controllo assoluto". Va ricordato però che il citato Sonnenfels, a differenza di Beccaria, concesse una deroga all’abolizionismo: definì la tortura "lecita" laddove si tratta di scoprire i complici del reo. È possibile che l’"eccezione di Sonnenfels" sia stata pensata, concedono La Torre e Lalatta Costerbosa, "al fine di rendere la sua proposta abolizionista meno radicale e dunque capace di ottenere l’approvazione della corona". Resta il fatto che il suo abolizionismo non è "assoluto" e "lascia aperto un varco all’uso della tortura nelle situazioni di emergenza che sono oggi - come sappiamo - quelle che si invocano per giustificare la revisione del consolidato e assoluto divieto di torturare". Proprio quelle che Friedrich von Spee già all’inizio del Seicento aveva riconosciuto come "insidiose e infondate". A rendere più evidenti i tratti della sua grandezza, La Torre e Lalatta Costerbosa fanno notare quante resistenze incontrò Beccaria. Per ironia della sorte nel Ducato di Milano fu Gabriele Verri, padre di Pietro, Alessandro e Giovanni a formulare un parere del Senato contrario all’abolizione della tortura. Gabriele Verri suggerisce un "uso temperato della tortura" (cioè non esteso a tutti i reati, escludendo "i casi senza prova alcuna e coloro che già sono stati condannati a morte"); tortura che, però, Verri padre conferma valida tanto nell’interrogatorio come mezzo per l’accertamento della verità, quanto come pena prevista per taluni reati. Per mettere meglio in risalto la novità rappresentata da Beccaria, molte pagine di questi libri sono dedicate a importanti pensatori che in un modo o nell’altro hanno giustificato la tortura. È il caso di Jeremy Bentham, che "sorprendentemente" accetta, nel 1843, questo genere di vessazioni. Colpisce un passaggio in cui Bentham sostiene che la tortura è una specie di pena, la quale, però, ha uno scopo ben più, e meglio, circoscritto, o determinato, e dunque si presta meno all’abuso. Quale sia lo scopo della detenzione del reo per Bentham "è poco chiaro"; il rapporto tra fatto (pena detentiva) ed effetto (comunque vago) è in tal caso ipotetico e indeterminato. Nella tortura al contrario la "catena causale" tra fatto ed effetto o risultato è assai più definita e precisa (meglio, proporzionale) di quanto non accada in ogni altra forma di pena. Infatti torturando si infliggerà solo ed esclusivamente quella misura di coazione e di sofferenza che sia necessaria ad indurre il reo a una certa azione o ammissione. Nella detenzione invece, osserva Bentham, la proporzionalità è violata, poiché lo scopo della punizione non risulta affatto chiaro. A Bentham si sarebbe potuto obiettare che "la detenzione è predeterminabile nella sua durata, e dunque non si presta sotto questo profilo all’abuso di colui che la commina, mentre la tortura è necessariamente indeterminata tanto per la durata quanto per l’intensità delle sofferenze inflitte". Ma Bentham risponde preventivamente che tale indeterminatezza è prodotta dalla condotta del reo, il quale continua a non rispondere alle domande che gli vengono rivolte o a non cedere alle richieste che gli vengono indirizzate. Restando alla tortura, importantissimo è poi, secondo La Torre e Lalatta Costerbosa, il discorso di Beccaria sulla presunzione di innocenza. "Un uomo", scrive Beccaria, "non può chiamarsi reo prima della sentenza del giudice, né la società può togliergli la pubblica protezione, se non quando sia deciso ch’egli abbia violato i patti coi quali gli fu accordata. Quale è dunque quel diritto, se non quello della forza, che dà la podestà ad un giudice di dare una pena ad un cittadino, mentre si dubita se sia reo o innocente?". Discorso qui fatto per la tortura, ma che può tranquillamente essere esteso a forme particolarmente afflittive della carcerazione preventiva. Come è quella di far calare una cappa di infamia sul "detenuto in attesa di giudizio". "Parlò invano e ancora per molti anni Cesare Beccaria", ha scritto Francesco Calasso nella voce "Tortura" della En- ciclopedia italiana (1937), "ma la Rivoluzione francese spazzò via per sempre" la tortura, "chiudendo così una delle pagine più dolorose e lugubri della storia dell’umanità". "E colpisce, anzi scoraggia", affermano nel 2013 La Torre e Lalatta Costerbosa, che quell’analisi che doveva "apparire ovvia" alla fine degli anni Trenta, oggi risulti invece "ottimistica e ingenua". Pur tuttavia Beccaria ebbe molti riconoscimenti dopo la morte. Ma all’epoca in cui visse fu un incompreso. Anche negli ambienti che avrebbero dovuto essergli non ostili. A favore della pena capitale, sia pure in casi limite, era stato Montesquieu per il quale "un cittadino merita la morte, quando ha violato la sicurezza al punto da togliere la vita, o da cercare di toglierla… Tale pena di morte è come il rimedio della società malata". Lo sarà Rousseau, secondo cui la forca è legittima contro il "nemico pubblico" che si manifesti in contrasto allo Stato: in questo caso è "un atto contro un nemico piuttosto che un’azione contro un cittadino" (quel "nemico pubblico", gli risponderà Beccaria, non è altro che un "uomo vinto"). E contro l’abolizione della pena di morte saranno sia Kant che Hegel. Kant - ricorda Michel Porret - intorno al 1796 rimprovera a Beccaria "il sentimento di falsa umanità" che lo ha ispirato e stabilisce che "il diritto di punire è il diritto del sovrano nei confronti dei suoi sudditi di infliggere loro una pena dolorosa in ragione del crimine commesso". Senza questo diritto, afferma il filosofo, "il diritto cede, l’ordine crolla, il legame sociale si sfalda, lo Stato vacilla". E Hegel la pensa più o meno nello stesso modo. Del resto, Voltaire - che pure di Beccaria era stato un grande estimatore - nel 1768 gli aveva scritto una lettera di encomio sì ("Voi avete spianato il cammino dell’equità, nel quale tanti uomini procedono ancora come barbari"), ma con uno spiraglio aperto nei confronti della pena di morte. Voltaire aveva paragonato la propria difesa di Jean Calas - nel Trattato sulla tolleranza (1763) - a quella che Beccaria aveva fatto del cavaliere de la Barre mandato a morte, non ancora ventenne, il 1 luglio 1766 per non essersi tolto il cappello al cospetto di una processione e per aver pronunciato frasi blasfeme. Una vicenda quest’ultima "più orribile" di quella di Calas il quale, scrive il filosofo, "avrebbe meritato il suo supplizio se l’accusa fosse stata provata". E invece no: secondo Beccaria nessuno e per nessun motivo può mai meritare quel supplizio. Ancora più dirompente è - sempre nel solco aperto da Beccaria - quel che afferma Luigi Ferrajoli in un libro conversazione con Mauro Barberis: Dei diritti e delle garanzie (Il Mulino). Ferrajoli, uno dei magistrati che alcuni decenni fa fondarono Magistratura democratica, se la prende con l’attuale "andamento circolare della logica inquisitoria, che rende le tesi accusatorie di fatto infalsificabili". Una "tentazione pericolosa soprattutto nei grandi processi, nei quali, anche a causa della loro risonanza mediatica, il magistrato inquirente è portato a vedere nella conferma in giudizio delle ipotesi accusatorie una condizione della propria reputazione professionale". D’accordo, ma che c’entra Beccaria? "È questa forza del pregiudizio", risponde Ferrajoli, "che trasforma il procedimento in quello che Cesare Beccaria chiamò il "processo offensivo", nel quale il giudice anziché essere "un indifferente ricercatore del vero… diviene nemico del reo"". E non vuole trovare la verità del fatto, "ma cerca nel prigioniero il delitto, e lo insidia, e crede di perdere se non vi riesce, e di far torto a quell’infallibilità che l’uomo si arroga in tutte le cose". A Montesquieu, Voltaire, Rousseau, Diderot e Condorcet, vale a dire ai filosofi dei Lumi è ispirata la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino decretata dall’Assemblea nazionale il 26 agosto 1789, che pure manteneva in vigore "l’ultimo supplizio". E in Francia, a dispetto delle molteplici battaglie abolizioniste (la più celebre delle quali fu quella di Victor Hugo con il libro L’ultimo giorno di un condanna- to e altri scritti sulla pena di morte pubblicato in Italia da Rizzoli), l’abrogazione della pena di morte si avrà solo nel 1981, ad opera del ministro della giustizia Robert Badinter. Dopodiché, prosegue Ferrajoli (qui in sintonia piena con i Radicali italiani), "si dovrebbe avere il coraggio di togliere al carcere la centralità che occupa negli odierni sistemi punitivi, e non solo nel nostro, approvando misure di drastica decarcerizzazione". Il carcere, "lo sappiamo, è un’invenzione moderna: una conquista dell’illuminismo penale, in alternativa alla pena capitale, ai supplizi, alle pene corporali, alla gogna e agli altri orrori del diritto premoderno; tuttavia, poiché consiste nella privazione di un diritto fondamentale come è la libertà personale, oltre che di vessazioni lesive della dignità della persona, esso si giustifica solo nella misura "minima possibile" secondo l’insegnamento di Beccaria: come extrema ratio, cioè soltanto per reati lesivi di altri diritti o beni fondamentali costituzionalmente stabiliti". Ciò che, a detta di Ferrajoli, richiede almeno tre riforme. La prima è "l’abolizione della vergogna, in Europa ormai quasi soltanto italiana, della pena dell’ergastolo, palesemente in contrasto con l’articolo 27 della Costituzione secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione e al reinserimento sociale del condannato". La Corte costituzionale ha dichiarato con due sentenze (nel 1974 e nel 1983) che questo genere di pena non è incostituzionale perché di fatto virtualmente non è perpetua, essendo riducibile a 28 anni di reclusione grazie alla sospensione condizionale e a circa vent’anni grazie ai benefici di pena introdotti dalla riforma penitenziaria del 1975 ed estesi dalla legge Gozzini del 1986. Ma, osserva Ferrajoli, "a parte che questo non è vero, essendoci ancora nelle nostre carceri molti ergastolani che hanno espiato ben più di 28 anni di reclusione, la Corte costituzionale non deve decidere sui fatti bensì sulle norme, censurandone l’invalidità, quale che sia il numero di violazioni costituzionali da esse reso di fatto possibile". La seconda delle tre riforme, sempre secondo Ferrajoli, dovrebbe consistere in un drastico abbassamento della durata della reclusione, fino ai livelli degli altri Paesi europei: non più quindi gli attuali trent’anni, ma venti o quindici, come in Francia, in Germania, in Danimarca e nei Paesi scandinavi e come potenzialmente avviene anche in Italia qualora siano concessi, nella forma delle attuali misure alternative alla detenzione, i benefici di pena previsti, in base ai progressi nella rieducazione, dalla legge Gozzini. Ne conseguirebbe "oltre alla restaurazione della certezza delle pene, l’eliminazione di tutti quegli strani esami diagnostici oggi richiesti per la concessione dei benefici e consistenti, quando non si risolvono in giudizi puramente burocratici, in lesioni della libertà interiore della persona, cioè del suo diritto di essere e rimanere quella che è". Terza riforma che ci imporrebbe la coerenza con Beccaria e "forse la più importante" dovrebbe essere "la previsione della reclusione per i soli reati più gravi e, per tutti gli altri reati, di pene più lievi quali sono le attuali misure alternative, che occorrerebbe perciò trasformare in pene principali, irrogate direttamente dal giudice al momento della condanna: come gli arresti domiciliari, la detenzione di fine settimana, la sorveglianza speciale, la libertà vigilata e l’affidamento in prova ai servizi sociali". Ripetiamo: c’è una grande sintonia con alcune importanti battaglie dei Radicali italiani nonché di settori consistenti (e trasversali) della politica, ma anche della cultura del nostro Paese. È probabile che il prossimo anno, quando si ricorderanno i due secoli e mezzo dalla pubblicazione dell’importante libro di Cesare Beccaria, dai convegni a lui dedicati vengano fuori idee (e iniziative) destinate ad avere un’eco maggiore di quella prodotta dalle celebrazioni. È molto probabile. Giustizia: la Notizia (falsa) della carenza d’organico dovuta ai distacchi nei Ministeri www.poliziapenitenziaria.it, 23 dicembre 2013 Per anni i giornalisti non si sono voluti occupare di carcere. O meglio, per anni si sono occupati solo di casi eclatanti, ma anche per quelli, solo quel tempo in cui la notizia rimaneva di moda. Mai che nessuno abbia voluto affrontare con un’inchiesta seria i problemi delle carceri così come meriterebbero e cioè ricercando le cause, analizzando le azioni e i risultati di chi ha avuto l’incarico di dirigere il Ministero della Giustizia e il Dap. Soprattutto, andando a conoscere meglio il DAP, si sarebbero conosciuto personaggi del "calibro" di Emilio Di Somma, Luigia Mariotti Culla (tanto per citarne alcuni di ieri) ed altri come Giovanni Tamburino di oggi. Si poteva tentare di individuare le cause del malessere del "Pianeta Carcere", per esempio andando a leggere i numeri delle statistiche che anche il Dap sforna ogni tanto. Ma se poi uno non riesce nemmeno a leggere allora l’impresa è davvero dura. Accade così che pure il quotidiano (per loro stessa ammissione di stampo "Renziano") de "La Notizia", diretto da Gaetano Pedullà, sbatta il mostro in prima pagina con una "inchiesta" di Clemente Pistilli che pubblica l’intera prima pagina con una bufala che solo per caso dice una mezza verità. Mancano settemila poliziotti penitenziari? Vero! Peccato però che nell’articolo il numero esatto che viene riportato è di 6.513 unità di Polizia Penitenziaria che "sono distaccate nei vari Ministeri" così come da dati del Dap riferiti al 30 giugno 2013. Il numero però è lo stesso riportato in un documento del Dap che fornisce alcune statistiche "aggiornate" a sei mesi fa e da cui parte l’inchiesta (l’inchiesta?) del giornale. Il documento del Dap infatti riporta una tabella con i seguenti numeri: Personale dell’Amministrazione penitenziaria (30 giugno 2013): Personale comparto ministeri: 6.513. Personale di Polizia Penitenziaria: 38.534. Detenuti presenti: 66.028. In Italia, stando a questi stessi dati, ci sono almeno più di centomila persone che avrebbero potuto spiegare a Clemente Pistilli la differenza tra Comparto Ministeri e personale di Polizia Penitenziaria. Sarebbe stato sufficiente che il buon Pistilli avesse chiesto ad uno di loro e la figuraccia del "Falso Mostro" battuto in prima pagina, si sarebbe potuta argomentare meglio, soprattutto non denigrando le denunce del Sappe. In buona sostanza il "bravo" giornalista ha equivocato il personale del comparto ministeri (6513) con il personale di polizia penitenziaria confondendo educatori, ragionieri, assistenti sociali. ecc. con poliziotti penitenziari imboscati. Nello stesso articolo infatti l’esperto giornalista di turno, accosta il numero dei 6.513 poliziotti "imboscati" nei Ministeri, alla denuncia del Sappe che nei giorni scorsi lamentava il mancato inserimento nella Legge di stabilità, dell’assunzione di almeno 500 Poliziotti penitenziari per l’anno prossimo, così come previsto per tutte le altre Forze di Polizia. Ignoranza o malafede ? Così va l’Italia. Da un lato un Capo Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e suoi Dirigenti sottoposti, che se ne fregano delle condizioni disumane in cui lavorano i Poliziotti penitenziari e dall’altro giornalisti poco inclini alla regola della necessità di verificare le notizie prima di sbattere il "Mostro" in prima pagina. Per il Direttore de La Notizia Gaetano Pedullà e per il giornalista di "inchiesta" Clemente Pistilli, consigliamo di consultare il sito www.sappe.it e www.poliziapenitenziaria.it per farsi un’idea e magari contattare la Segreteria del più rappresentativo Sindacato della Polizia Penitenziaria, prima di scrivere simili banalità che non sono utili a nessuno, oppure consigliamo loro di aggiungere un "Falsa" dopo il titolo della loro testata La Notizia. Giustizia: Cutini (Roma); fare uscire dal carcere i bambini con le mamme è priorità Adnkronos, 23 dicembre 2013 "La condizione delle carceri italiane è davvero drammatica, in molti istituti penitenziari addirittura disumana. è assurdo accettare che ci vivano anche i bambini". Lo dichiara l’assessore al Sostegno Sociale e Sussidiarietà di Roma Capitale, Rita Cutini, dopo aver partecipato alla festa di Natale dedicata ai più piccoli nel nido di Rebibbia, organizzata da "A Roma insieme-Leda Colombini". "Le associazioni impegnate nelle carceri - aggiunge Cutini - svolgono un lavoro importantissimo di solidarietà e di proposta che va considerato con attenzione. Sono ormai troppe le strutture fatiscenti, sovraffollate, dove mancano i servizi essenziali e viene meno la dignità personale. Va ripensato del tutto il sistema carcerario italiano. è urgente intervenire prima possibile, ma è ancora più urgente pensare ai bambini". "è inammissibile che vivano e crescano in carcere. Come amministrazione capitolina - conclude l’assessore - vogliamo e dobbiamo agire subito, affinché le mamme con i bambini scontino la loro pena in case famiglia, senza dubbio più idonee alla vita dei bambini che non hanno alcuna colpa". Cosenza: Manconi (Pd) interroga il governo sul decesso del detenuto Aldo Tavola Ristretti Orizzonti, 23 dicembre 2013 Sulla morte del sessantenne Aldo Tavola, il detenuto cetrarese morto presso l’Ospedale dell’Annunziata di Cosenza, continua ad essere tenuta alta l’attenzione per addivenire all’accertamento della verità ed alla punizione dei responsabili specialmente per impedire che, quel che è successo a quest’uomo, non abbia più a ripetersi. Nei giorni scorsi, per l’ennesima volta, sulla misteriosa morte del detenuto è stata presentata una dura Interrogazione Parlamentare con richiesta di risposta scritta (atto n. 4-01397 del 18.12.2013) al Senato della Repubblica da parte del Senatore Luigi Manconi (Pd), Presidente della Commissione Straordinaria per la Tutela dei Diritti Umani. A sollecitare l’atto di Sindacato Ispettivo è stato l’ecologista radicale Emilio Quintieri che, da tempo, segue con attenzione questa vicenda. Manconi, ex Presidente Nazionale dei Verdi e Sottosegretario di Stato alla Giustizia, ha chiesto numerose delucidazioni ai Ministri della Giustizia e della Salute Annamaria Cancellieri e Beatrice Lorenzin sulla morte del cetrarese che era ristretto per questioni di droga presso la Casa Circondariale di Castrovillari e per la quale sono stati rinviati a giudizio sei medici per omicidio colposo. Più precisamente ha chiesto di conoscere tutte le informazioni in possesso del Governo con particolare riferimento "se e quali problemi di salute presentava il detenuto Aldo Tavola all’atto della visita obbligatoria di primo ingresso presso la Casa Circondariale di Paola e poi presso quella di Castrovillari ricavabili dal suo diario clinico; quali motivi abbiano determinato il trasferimento del detenuto dalla Casa Circondariale di Paola a quella di Castrovillari e da chi e per quali ragioni lo stesso fosse stato allocato in regime di isolamento, invece di essere assegnato in vita comune con gli altri detenuti; se, quando ed a quali Autorità si era rivolto il signor Tavola personalmente o, per lui, i suoi congiunti e difensori di fiducia, affinché gli venisse consentito di sottoporsi ad accertamenti e cure specialistiche presso una struttura sanitaria esterna e quali esiti abbiano avuto le relative istanze; se e come sia stata prestata l’assistenza sanitaria al detenuto durante la sua restrizione carceraria, che cosa gli fosse stato diagnosticato ed a quali trattamenti terapeutici fosse stato sottoposto visto che, in pochissimo tempo, era finito sulla carrozzella e gli era stato applicato il catetere; quando, da chi e per quali ragioni il detenuto fosse stato trasferito presso l’Ospedale di Castrovillari e, successivamente, presso quello di Cosenza specificando se il ricovero in considerazione della gravità del quadro patologico, avrebbe potuto effettuarsi prima che le condizioni del signor Tavola peggiorassero in modo fatale, come è avvenuto; se e quale sia stata l’esatta dinamica del decesso, anche in considerazione degli accertamenti effettuati dall’Autorità Giudiziaria competente che hanno portato al rinvio a giudizio dei sanitari in servizio presso la Casa Circondariale e l’Azienda Ospedaliera; se e che cosa abbia relazionato il personale di Polizia Penitenziaria preposto alla sorveglianza del signor Tavola presso il Reparto di Neurologia dell’Ospedale Annunziata di Cosenza in riferimento al decesso; quali siano gli accertamenti necroscopici effettuati dai medici legali incaricati dalla Procura della Repubblica di Cosenza sulla salma del detenuto descrivendo, altresì, che cosa sia emerso dagli stessi; se e da chi, nell’immediatezza dei tragici fatti, siano state effettuate delle visite ispettive presso la Casa Circondariale di Castrovillari per accertare eventuali responsabilità in capo al personale dell’Amministrazione Penitenziaria anche in virtù della sollecitazione fatta al Governo con l’Interrogazione Parlamentare presentata alla Camera dei Deputati dall’Onorevole Bernardini nella XVI Legislatura e quali siano gli esiti delle stesse; se i Ministri in indirizzo non ritengano opportuno verificare se vi siano ulteriori precise responsabilità oltre a quelle sino ad ora rilevate dalla magistratura e quali provvedimenti amministrativi e/o disciplinari di competenza intendano adottare nei confronti dei sanitari in servizio presso la Casa Circondariale di Castrovillari e l’Azienda Ospedaliera di Cosenza già individuati e tratti a giudizio in attesa della definizione del realativo processo." Gli Uffici dei Ministeri della Giustizia e della Salute hanno già avviato gli opportuni accertamenti per fornire al Parlamentare Manconi esaustive risposte in ordine a tutto quanto specificatamente richiesto. Il radicale Quintieri, nel frattempo, continua a puntare il dito sui Sanitari del Penitenziario e dell’Ospedale bruzio, ritenuti colpevoli di aver cagionato la morte del paziente-detenuto. "La relazione peritale è abbastanza chiara e le circostanze in essa contenute sono gravissime. Tavola non aveva alcun problema di salute quando è stato arrestato eccetto qualche piccolo disturbo e lo si evince dal suo diario clinico penitenziario. Dopo avergli fatto una gastroscopia e perforato il duodeno in due punti, è stato riaccompagnato nella sua cella posta al quinto piano dell’Ospedale e lasciato morire. La sua agonia è stata lenta e dolorosa essendo durata 75 minuti. Avrebbero potuto salvarlo ma non ci hanno nemmeno provato. Credevano che, probabilmente, i familiari avrebbero creduto alla solita storiella della morte per "arresto cardiocircolatorio" e che sarebbe finita così. Qualcuno ha tentato anche di sabotare il computer dell’Ospedale per "aggiustare" qualcosa ma i Medici Legali incaricati dalla Procura di Cosenza avevano già fatto tutti i rilievi del caso. Vedremo se il Governo farà chiarezza su queste circostanze !" Del caso Tavola, su segnalazione di Quintieri, se ne occuperà anche il Corriere della Sera che sta realizzando, proprio in questi giorni, una inchiesta sulle numerose morti dei detenuti. Genova: perché la Cancellieri sbaglia a rimuovere il direttore Mazzeo da Marassi di Marco Menduni Il Secolo XIX, 23 dicembre 2013 Più che "temerarie", come le ha definite il ministro Cancellieri, le dichiarazioni del direttore del carcere Salvatore Mazzeo subito dopo la fuga di Bartolomeo Gagliano sono apparse sgangherate, ma tutt’altro che sufficienti per giustificare la sua rimozione. Lo si può immaginare: nel ciclone che si è scatenato nel giro di poche ore, Mazzeo ha provato a spiegare quel che era successo e sicuramente si è fatto capire male, portando su di sé il peso di una valutazione sbagliata e il timore che l’evaso potesse combinare guai peggiori di quel che poi è accaduto. Non toccava a lui intervenire in prima battuta, avrebbe potuto attendere che giungessero spiegazioni per le vie ufficiali, una nota del ministero, del dipartimento penitenziario, della magistratura di sorveglianza: perché, ricordiamolo, non è il direttore di un carcere a decidere sul permesso a un detenuto. Mazzeo però è fatto così. Non è un burocrate del tipo "io con I giornalisti e con la gente non ci parlo", sepolto e protetto da carte ammuffite, codicilli e regolamenti. Per quel carcere ha dato l’anima, non ci ha dormito, ha organizzato decine di iniziative, magari in qualche occasione può essere andato sopra le righe per troppo entusiasmo. Però ci ha provato davvero a rendere quella gattabuia ciò che tutti a parole indicano dovrebbe essere: luogo di espiazione, rieducazione, reinserimento. E anche di speranza. Ha sempre avuto un rapporto sciolto con i media, da strappo alle regole, e l’ha sempre fatto chiedendo, come tornaconto, di raccontare quel che di positivo si faceva tra le mura di Marassi. Ben diverso da tanti suoi colleghi imbalsamati e arcigni sulla sedia di un ufficio blindato. Quella mattina ha parlato, ha parlato d’istinto e anche un bel po’ turbato, e ha fatto un patatrac. Dichiarazioni "temerarie" le sue? Dichiarazioni di tale leggerezza da "leggerezza" con cui "gettare allarme sulla popolazione e discredito sulle istituzioni", così come ha affermato la Cancellieri, ridicolizzandolo davanti al Parlamento e al Paese? Dichiarazioni incaute, potremmo al limite classificarle, forse anche inopportune. Incaute e inopportune, nella stessa identica maniera di alcune telefonate partite dal telefono del ministro della Giustizia. Non hanno, le conversazioni del Guardasigilli con i Ligresti, "gettato discredito sulle istituzioni", una volta conosciute? Non hanno portato a un voto di sfiducia respinto solo da alchimie di equilibrismi di un quadro politico complicato? Non hanno lasciato il sapore amaro di un componente dell’esecutivo che fa capolino in una vicenda giudiziaria quando, nel mirino, ci sono persone amiche e potenti? Mazzeo non ha voluto sabotare il sistema giustizia, ha dato qualche spiegazione squinternata nel momento più caldo di una polemica nazionale. Ha fatto più danno lui, che ci ha messo la faccia? O certe conversazioni partite dal telefono di un Guardasigilli che poi ammette: "Ho commesso forse un’imprudenza"? La differenza sta solo nel fatto che lei, il ministro Cancellieri, pensava non fossero intercettate? Napoli: il Natale della Comunità di Sant’Egidio, iniziative per i poveri e nelle carceri www.napolitoday.it, 23 dicembre 2013 Saranno più di 50 i momenti di solidarietà che la comunità ha organizzato nelle festività natalizie: cene itineranti e non, con la partecipazione di Luigi de Magistris e del Cardinale Sepe. Pranzi con persone in difficoltà nelle chiese di Napoli, tombolate nelle carceri, iniziative per i senza dimora nelle strade della città, pranzi con gli internati dell’Opg: sono oltre 50 le iniziative natalizie programmate della Comunità di Sant’Egidio a Napoli e provincia. Il giorno di Natale oltre mille poveri saranno a tavola in quattro chiese del centro storico di Napoli, che diventerà una vera e propria cittadella della solidarietà: S. Pietro Martire a piazza Bonghi (dove sarà presente il cardinale Crescenzio Sepe), Ss. Severino e Sossio, S. Nicola, Ss. Filippo e Giacomo. Parteciperanno a queste iniziative senza dimora, immigrati di ogni nazionalità e confessione religiosa, rom, anziani, disabili, mendicanti, gente sola. Le sera della vigilia di Natale e dell’ultimo dell’anno le cene saranno itineranti, e raggiungeranno i senza dimora di Napoli a cui i volontari della Comunità di Sant’Egidio porteranno panini e pasti caldi durante tutto l’anno. I giorni seguenti il Natale ci saranno poi feste e pranzi negli istituti per anziani, nelle Rsa del Frullone e della Colonia Geremicca, con i rom a Ponticelli, con i bambini della scuola della pace (Sanità, Quartieri Spagnoli, San Giovanni a Teduccio, Ercolano, Scampia, Centro Storico, Ercolano). Molte le iniziative anche nelle carceri: il 20 dicembre tombolata al carcere femminile di Pozzuoli, il 23 dicembre grande festa per i dieci anni del pranzo a Poggioreale, il 27 dicembre pranzo con gli internati dell’Opg di Napoli con il cardinale Sepe, il 30 pranzo al penitenziario di Secondigliano con Luigi de Magistris, il 3 gennaio pranzo nel reparto clinico di Secondigliano con i detenuti ammalati e il 4 gennaio per la prima volta pranzo nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Sempre il 23 dicembre 10 ragazzi del carcere di Nisida, accompagnati dal direttore, aiuteranno a servire a tavola assieme agli universitari di Sant’Egidio un gruppo di senza fissa dimora. Pavia: i detenuti regalano addobbi e poesie ai bimbi di Binasco La Provincia Pavese, 23 dicembre 2013 Gli addobbi li hanno realizzati i detenuti di Torre del Gallo (nella foto) e i bambini dell’asilo di Binasco li hanno utilizzati per il loro albero di Natale. È questo uno dei risultati del "Progetto genitorialità" che aiuta i padri in carcere lontani dai propri figli. E l’impegno e la passione dimostrati nella realizzazione degli addobbi che i bimbi hanno appeso al grande abete illuminato conferma non solo il buon esito dell’iniziativa ma testimonia anche un momento di solidarietà con chi, dietro le sbarre, vive con difficoltà il Natale. Alcuni detenuti hanno mandato agli alunni dell’istituto comprensivo di Binasco, che riunisce due elementari, due medie e l’asilo, le poesie scritte da loro. Il progetto è stato realizzato grazie alla collaborazione tra la direttrice della casa circondariale Jolanda Vitale e Pierluigi Amato, direttore dell’ istituto comprensivo di Binasco. Milano: condannato per truffa, faceva il cancelliere in Procura Ansa, 23 dicembre 2013 Ha lavorato fino al novembre scorso nella cancelleria della Procura di Milano nell’ufficio dove transitano i documenti più o meno scottanti, allegati al lavoro dei magistrati, ma ora si scopre che Franco Mirabelli, 66 anni, quell’incarico a tempo non poteva ricoprirlo a causa dei suoi precedenti penali. A raccontare la vicenda è oggi La Repubblica. Le sue disavventure con la giustizia iniziano nel gennaio 2002, quando il tribunale di Bergamo lo dichiara fallito. Nel 2004 viene condannato a 10 mesi e 800 euro di multa per truffa, falso e sostituzione di persona, nel 2008 altri 5 anni e 11 mesi per una serie di truffe e una bancarotta, questa volta fraudolenta. Tra le pene accessorie il Tribunale di Bergamo lo interdice dai pubblici uffici per 5 anni. Un obbligo che sarebbe dovuto scadere all’inizio di quest’anno. E proprio in quei giorni Mirabelli si materializza alla cancelleria della Procura milanese. Probabilmente, visto che viene scarcerato da Bollate il 16 gennaio scorso, secondo la ricostruzione della Repubblica, gli viene garantito un lavoro agevolato per aiutarlo a reinserirsi. Nel frattempo, però, il cancelliere avrebbe partecipato a un’ulteriore truffa. Edmondo Bruti Liberati: è lavoro affidato a detenuti L’attività di scannerizzazione degli atti, non più segreti, dell’ufficio 415 bis, è affidata a detenuti ammessi al lavoro esterno. Tra questi c’era anche Luigi Mirabelli, fino a quando è stato scarcerato. Poi ha ottenuto un borsa lavoro per il reinserimento degli ex detenuti ed è stato riassegnato (prima che emergesse l’ulteriore pendenza) allo stesso ufficio come commesso. è questa la ricostruzione fornita dal procuratore della Repubblica di Milano, Edmondo Bruti Liberati, sulla vicenda segnalata da La Repubblica. "L’attività di scannerizzazione degli atti non più segreti e depositati ai difensori da diversi anni - ha spiegato Bruti Liberati - è affidata, per un accordo tra Procura della Repubblica, Tribunale e Cooperativa Cremona Labor con finanziamento della cassa delle ammende, a detenuti in espiazione di pena ammessi al lavoro esterno". Tra questi, per circa due anni, ha precisato il procuratore, vi è stato anche Luigi Mirabelli, fino al dicembre 2012, "data in cui è stato scarcerato per espiazione della pena". "I precedenti penali di tutto il personale della Cooperativa - ha ricordato Bruti - sono ben noti, trattandosi di detenuti in espiazione di pena e non certo di "cancellieri". Il compito svolto sia nella scannerizzazione sia nel trasporto dei fascicoli all’ufficio "deposito atti 415 bis" non solo riguarda atti non più segreti ma è organizzato con modalità tali da rendere pressoché impossibile la materiale presa di visione del contenuto degli atti". Mirabelli, dunque, una volta espiata la pena e finito il rapporto con la Cooperativa Cremona Labor, "si è rivolto al Celav del Comune di Milano ottenendo una borsa lavoro destinata al reinserimento degli ex detenuti ed è stato riassegnato, quando la ulteriore pendenza per truffa non era ancora emersa, svolgendo in Procura fino al novembre 2013 compito di commesso sempre per l’ufficio 415 bis. "La Procura della Repubblica di Milano - ha concluso Bruti Liberati - proseguirà nel suo impegno per il reinserimento sociale dei detenuto nella consapevolezza che rischio zero di ricadute nel reato non esiste, ma che i risultati positivi, che non fanno notizia, sono la stragrande maggioranza". Caserta: detenuto in licenza presso comunità aggredisce madre e sorella, arrestato Adnkronos, 23 dicembre 2013 Si è allontanato dalla comunità alla quale era stato affidato in licenza finale di esperimento e, recatosi a casa della madre e della sorella, ha aggredito le donne minacciandole di morte con un coltello. è successo a Casagiove, in provincia di Caserta, dove i carabinieri hanno arrestato un venticinquenne originario di Caserta. I militari del comando di Casagiove lo hanno raggiunto presso la comunità, dove gli hanno notificato il provvedimento cautelare emesso dall’Ufficio di sorveglianza del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere per l’inosservanza degli obblighi cui era sottoposto. L’uomo, detenuto al quale il giudice di sorveglianza aveva concesso l’affidamento in licenza finale di esperimento presso una comunità con sede a Carinaro, si è allontanato recandosi presso la residenza della madre e della sorella a Casagiove. Lì, brandendo un coltello, ha minacciato di morte le donne. La sorella aggredita, dopo una breve colluttazione, è riuscita a liberarsi allertando i carabinieri che sono riusciti a bloccare l’uomo mentre tentava di scappare. L’uomo, quando è stato bloccato dai carabinieri, era ancora in possesso del coltello. Il venticinquenne è stato ricollocato presso la comunità e poi trasferito su disposizione dell’autorità giudiziaria presso l’ospedale giudiziario psichiatrico di Aversa. Benevento: situazione incandescente in carcere, detenuto cerca di colpire agente con rasoio www.ilsannioquotidiano.it, 23 dicembre 2013 Situazione incandescente al carcere, detenuto cerca di colpire un agente con un rasoio. Non accenna a diminuire la tensione all’interno della casa circondariale di Capodimonte dove a distanza di pochi giorni dall’ultimo caso si è verificato un nuovo episodio di autolesionismo. Questa volta ancor più grave perché il gesto violento è sfociato in un’aggressione nei confronti del Personale di Polizia Penitenziaria. Il protagonista è un cittadino straniero detenuto da alcuni mesi presso l’Istituto di Capodimonte pare non nuovo ad atti violenti all’interno delle mura di penitenziari italiani. Pavia: i detenuti regalano addobbi e poesie ai bimbi di Binasco laprovinciapavese.it, 23 dicembre 2013 Gli addobbi li hanno realizzati i detenuti di Torre del Gallo (nella foto) e i bambini dell’asilo di Binasco li hanno utilizzati per il loro albero di Natale. È questo uno dei risultati del «Progetto genitorialità» che aiuta i padri in carcere lontani dai propri figli. E l’impegno e la passione dimostrati nella realizzazione degli addobbi che i bimbi hanno appeso al grande abete illuminato conferma non solo il buon esito dell’iniziativa ma testimonia anche un momento di solidarietà con chi, dietro le sbarre, vive con difficoltà il Natale. Alcuni detenuti hanno mandato agli alunni dell’istituto comprensivo di Binasco, che riunisce due elementari, due medie e l’asilo, le poesie scritte da loro. Il progetto è stato realizzato grazie alla collaborazione tra la direttrice della casa circondariale Jolanda Vitale e Pierluigi Amato, direttore dell’ istituto comprensivo di Binasco. Napoli: il Natale della Comunità di Sant’Egidio, iniziative per i poveri e nelle carceri www.napolitoday.it, 23 dicembre 2013 Saranno più di 50 i momenti di solidarietà che la comunità ha organizzato nelle festività natalizie: cene itineranti e non, con la partecipazione di Luigi de Magistris e del Cardinale Sepe. Pranzi con persone in difficoltà nelle chiese di Napoli, tombolate nelle carceri, iniziative per i senza dimora nelle strade della città, pranzi con gli internati dell’Opg: sono oltre 50 le iniziative natalizie programmate della Comunità di Sant’Egidio a Napoli e provincia. Il giorno di Natale oltre mille poveri saranno a tavola in quattro chiese del centro storico di Napoli, che diventerà una vera e propria cittadella della solidarietà: S. Pietro Martire a piazza Bonghi (dove sarà presente il cardinale Crescenzio Sepe), Ss. Severino e Sossio, S. Nicola, Ss. Filippo e Giacomo. Parteciperanno a queste iniziative senza dimora, immigrati di ogni nazionalità e confessione religiosa, rom, anziani, disabili, mendicanti, gente sola. Le sera della vigilia di Natale e dell’ultimo dell’anno le cene saranno itineranti, e raggiungeranno i senza dimora di Napoli a cui i volontari della Comunità di Sant’Egidio porteranno panini e pasti caldi durante tutto l’anno. I giorni seguenti il Natale ci saranno poi feste e pranzi negli istituti per anziani, nelle Rsa del Frullone e della Colonia Geremicca, con i rom a Ponticelli, con i bambini della scuola della pace (Sanità, Quartieri Spagnoli, San Giovanni a Teduccio, Ercolano, Scampia, Centro Storico, Ercolano). Immigrazione: Garante Lazio; Cie, prosegue protesta migranti che si sono cuciti bocca La Presse, 23 dicembre 2013 Prosegue la protesta dei 9 ospiti del Cie di Ponte Galeria (5 tunisini e 4 marocchini) che ieri si sono cuciti la bocca per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica sui lunghi tempi di permanenza e sulle condizioni della struttura. A quanto hanno appurato i collaboratori del Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni, che settimanalmente accedono alla struttura per verificare il rispetto dei diritti degli ospiti, i dimostranti sono in buone condizioni, anche se continuano a rifiutare di incontrare gli operatori che gestiscono il Cie. "Quella di Ponte Galeria è una situazione difficile - ha detto il Garante Angiolo Marroni - ma di momenti complessi ne abbiamo vissuti molti, soprattutto quanto la struttura, che da mesi ospita una media di 100 persone, si è trovata a gestire anche 300 immigrati. Ciò che voglio sottolineare è che non siamo di fronte ad una riproposizione di quanto accaduto a Lampedusa. La correttezza ed il rispetto dei diritti di chi gestisce il Cie non sono in discussione". "I fatti di Lampedusa e quanto sta accadendo qui a Roma - ha aggiunto Marroni - hanno rilanciato il dibattito sulla necessità di superare i Cie così come sono. Ma per affrontare questa situazione di emergenza non occorrono provvedimenti straordinari, basta solo iniziare ad applicare norme e a portare a regime progetti che esistono già". Il Garante si riferisce, in particolare, ai progetti di rimpatrio volontario assistito (RAV) finanziati dal Ministero dell’Interno e di fatto inattuati nelle carceri italiane. Questi progetti, fa sapere il Garante del Lazio, consentono, a chi sceglie di tornare nel proprio Paese d’origine al termine della pena, di intraprendere un percorso assistito basato su tempi certi e senza transito nei Cie. Altro punto sul quale il Garante insiste è "il superamento dell’inerzia sulle procedure di identificazione degli immigrati in carcere, oggi lasciata alla competenza esclusiva del Ministero dell’Interno. Gli stranieri irregolari detenuti, infatti, alla fine della loro pena vengono portati nei Cie per essere identificati e rimpatriati. L’introduzione di un meccanismo di identificazione già in carcere è la premessa per permettere ai detenuti stranieri di scontare la loro pena nel Paese d’origine e di evitare il successivo passaggio al Cie". "Dal punto di vista economico - ha concluso il Garante - un immigrato in carcere costa quotidianamente allo Stato 130 euro. Applicare le norme che già esistono consentirebbe di alleggerire il sovraffollamento delle carceri, risparmiare risorse da riutilizzare per migliorare le strutture, interrompere il circolo vizioso esistente tra carcere e Cie ed avviare un percorso virtuoso volto all’effettivo miglioramento delle condizioni di vita del detenuto straniero". Sel: governo prenda atto e chiuda centri Dopo le ultime proteste dei migranti detenuti nel Cie di Ponte Galeria a Roma, è arrivata l’ora che il governo prenda atto che il sistema non funziona. I Cie, i Cara, i Cpa sono, per chi è lì rinchiuso, veri e propri carceri. E le clamorose proteste di questi giorni lo dimostrano. Lo afferma il deputato di Sel Nicola Fratoianni, firmatario della proposta di legge per l’istituzione di una commissione d’inchiesta sui centri di prima accoglienza. "è arrivato il tempo - prosegue l’esponente di Sel - che il governo si assuma la responsabilità di agire prima che si ripetano altri gesti di esasperazione: i Cie sono luoghi in cui i più elementari diritti non sono rispettati". Sel, sottolinea, "chiede al governo di intervenire per garantire che i Cie di tutta Italia, oggetto di visite parlamentari, rapporti e stigmatizzazioni da tutte le associazioni umanitarie nazionali e internazionali, si avviino verso la chiusura definitiva procedendo a una nuova politica di accoglienza e integrazione. Il compito della politica, e quindi del governo, deve essere quello di rispettare i diritti umani prima che questi siano messi in pericolo. Per questo - conclude Fratoianni - chiediamo che si proceda immediatamente alla chiusura dei Cie presenti nel nostro Paese. Non c’è più tempo da perdere". Manconi (Pd): riforma non più differibile "Una riforma radicale dei Cie, strumenti inutilmente dispendiosi e palesemente inefficaci, è non più differibile". è quanto afferma Luigi Manconi, presidente della Commissione Straordinaria per la promozione e la tutela dei diritti umani del Senato. "Sono entrato con il vicesindaco di Roma, Luigi Nieri, e con gli operatori dello sportello di mediazione legale gestito da ‘A Buon Diritto’ nel Cie di Ponte Galeria a verificare una situazione che seguiamo assiduamente ormai da anni" Marazziti (Gpi): Cie illegali, governo intervenga subito Natale da dimenticare o da ricordare, questo, per i profughi e i rifugiati scampati all’ecatombe nel Mediterraneo, per chi sta oltre i tempi previsti dalla legge nei Centri di accoglienza in un sistema ormai illegale. Un gesto da parte del governo, chiaro, prima di Natale deve fare la differenza. Attualmente è una vergogna". è il commento di Mario Marazziti, deputato del gruppo Per l’Italia, alla decisione del collega del Pd Khalid Chaouki, a Lampedusa da stamane con l’intenzione di restare a oltranza nel Cie finché i 220 ospiti che dormono all’aperto sotto la pioggia non verranno spostati in condizioni più umane. "Siamo oltre la soglia di tolleranza, come mostrano anche gli otto immigrati che si sono cuciti da soli le labbra per urlare con il proprio sangue - sottolinea Marazziti - l’orrore di una detenzione senza fine e senza motivo nel Centro di Ponte Galeria. Il Parlamento ha fatto tutto quello che si poteva", conclude. Chaouki (Pd): nel condizioni disumane, resto a oltranza Khalid Chaouki, deputato del Pd barricatosi nel centro di Lampedusa, è ostinato ad andare avanti con la sua protesta: "Non lascerà il Cie - assicura all’Adnkronos - finché non vedrò azioni concrete, finché non verrà rispettata la legge". Perché nel centro dove è rinchiuso, per sua volontà da questa mattina, "tutto è fuori dalle regole", a partire dalle 219 persone che vivono lì "e che non dovrebbero starci - rimarca - perché non si può restare all’interno del Cie per oltre 96 ore". Eppure tutte vivono lì da ben oltre 4 giorni. Tra questi 219 ci sono anche sette persone -sei uomini e una donna- scampate alla tragedia dell’ottobre scorso, quando al largo dell’isola morirono ben 366 persone, vittime di un naufragio che lasciò l’Europa senza fiato. "All’interno del Centro ci sono condizioni di vivibilità - spiega l’esponente del Pd - ben al di sotto dei criteri di accoglienza umana, e ciò nonostante lo sforzo dei volontari presenti". Gli immigrati che vi stazionano "mangiano dove dormono perché manca la mensa. Ci sono infiltrazioni d’acqua, stanze allagate, bagni non funzionanti". In breve, "una situazione disumana", che tocca anche ai "7 sopravvissuti al naufragio dell’ottobre scorso. è questa la cosa che sopra ogni altra mi ha fatto scattare la rabbia", la molla della protesta che Chaouki ha deciso di portare avanti a oltranza. Pretendendo "l’immediato intervento del governo. Ora, subito, il prima possibile". "Non si può costringere il nostro Paese a questa vergogna - denuncia - in questo Centro tutto è fuori dalle regole, per questo 6 persone sono in sciopero della fame e della sete, chiedono di essere trasferite e non comprendono cosa facciano ancora qui, dove dovevano restare non più di 96 ore". Quel che è certo, al momento, "è che io resto a oltranza - assicura - finché non verranno rispettate le regole. Dopo la figuraccia mondiale che l’Italia ha fatto" con il filmato andato in onda sul Tg2 e rimbalzato sui media internazionali, "questo è il momento di azione concrete. Oggi abbiamo il dovere di passare dalle parole ai fatti - sottolinea Chaouki - e rialzare la testa chiedendo che l’Italia ritorni ad essere quello che è sempre stata: un Paese accogliente e rispettoso dei diritti umani e dei profughi". "Sono qui per i profughi, ma soprattutto per l’Italia - dice - un Paese di cui vorrei essere fiero nel Mediterraneo, in Europa e nel mondo. è arrivato il momento di ripristinare la legalità, condizioni umane e dignitose. è finito il tempo delle attese e dei rinvii". Almeno per Chaouki: "Io, sia chiaro, da qui non mi muovo". Immigrazione: Cie, la condizione disumana di Gad Lerner La Repubblica, 23 dicembre 2013 Il gesto di un nuovo italiano che spalanca la porta sull’orrore. La scelta del deputato Khalid Chaouki, responsabile Nuovi Italiani del Pd, che si autoreclude nel Cie di Lampedusa con i 219 migranti lì trattenuti in violazione della legge e in condizioni disumane, è un gesto inedito di condivisione. Un gesto davvero onorevole perché nobilita la funzione del parlamentare, chiamato a farsi prossimo di una sofferenza che ha generato scalpore ma che finora non ha rotto il muro d’indifferenza delle istituzioni. Chaouki è un giovane cittadino italiano nato in Marocco di fede musulmana, da tempo impegnato nel dialogo contro ogni forma di integralismo. Non stupisce che incontrando i superstiti del naufragio del 3 ottobre scorso ancora detenuti a Lampedusa, e gli altri migranti in sciopero della fame contro il trattamento umiliante che loro stessi hanno filmato, sia scattato in lui un impulso d’immedesimazione. Non lo aveva programmato, aveva in tasca il biglietto aereo di ritorno a Roma. Proverà cosa vuol dire dormire al freddo e nella sporcizia di quella struttura diroccata che in troppi visitano per poi voltarle le spalle. Il suo esempio testimonia quant’è importante che sia approdata in Parlamento l’esperienza di vita dei nuovi italiani, ormai una percentuale significativa della nostra popolazione. Ma sarebbe miope relegare la sistematica violazione dei diritti umani dei migranti a questione marginale, riguardante solo una sia pur cospicua minoranza. La negligenza delle strutture amministrative coordinate dal ministero degli Interni nel tutelare profughi e richiedenti asilo, così come la prolungata reclusione nei Centri di Identificazione e Espulsione di cittadini stranieri privi di documenti in regola, configura un degrado di civiltà cui sarebbe pericoloso assuefarsi. Deturpa la natura democratica dello Stato e quindi incrina i pilastri della nostra convivenza civile. Già la legge Bossi-Fini e i suoi successivi inasprimenti col reato di clandestinità e con la proroga dei limiti di detenzione nei Cie, ha trasformato questi Centri in focolai di disperazione. Se otto ragazzi di vent’anni senza pendenze giudiziarie sono giunti a cucirsi la bocca per protesta nel Cie romano di Ponte Galeria, significa che l’infezione è degenerata, senza che le ripetute denunce abbiano mosso il governo a intervenire. Decenni di allarmismo e propaganda hanno costruito purtroppo un vasto consenso intorno alle misure discriminatorie varate dai governi di destra. Ancora ieri c’è chi ha reagito con stizza alla protesta del deputato Chaouki, compiacendosi che sia tornato "fra i suoi simili" perché non riescono ad accettare l’idea che un nativo del Maghreb possa diventare cittadino italiano e addirittura rappresentante del popolo. Soffriamo un ritardo culturale drammatico che ha incentivato la pavidità delle istituzioni. Il ministro Alfano è ancora lì che adopera espressioni anacronistiche come "prima gli italiani" per giustificare le sue inadempienze. Fingendo di ignorare che il flusso migratorio ci ha già profondamente trasformati come nazione, e che il riconoscimento dei diritti dei migranti e dei profughi rappresenta un’urgenza dell’intera comunità italiana. Chaouki è giunto a Lampedusa all’indomani della visita del segretario del suo partito, Matteo Renzi che vuole modificare la legge Bossi-Fini. Ma nel frattempo? Ci era già andato in pellegrinaggio papa Francesco, scuotendo le coscienze. Il presidente della Commissione europea Barroso e il premier Letta vi hanno versato lacrime di indignazione. Com’è possibile che in tutti questi mesi la situazione non sia cambiata, anzi, se possibile, è peggiorata? Sorge legittimo il sospetto che la nomina di un ministro dell’integrazione nella persona significativa di Cécile Kyenge sia stata escogitata come mero atto dimostrativo. Possibile che in tutti questi mesi nulla sia stato fatto per correggere l’obbrobrio dei Cie e del Centro di Lampedusa? Possibile che il governo non abbia varato alcuna modifica della Bossi-Fini e neppure un disegno di legge per la cittadinanza dei minori figli di immigrati? La stessa Kyenge dovrebbe finalmente battere il pugno sul tavolo, se non vuole apparire una foglia di fico del menefreghismo altrui, come le ha ricordato nei giorni scorsi Chaouki. Ma intanto c’è da augurarsi che l’esempio di quest’ultimo sia seguito da altri parlamentari, non solo "nuovi italiani", perché la violazione dei diritti umani è una vergogna che tutti ci accomuna. Immigrazione: il deputato barricato nel Cie "qui stanze allagate e niente mensa" di Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 23 dicembre 2013 "Non mi muoverò da qui finché non sarà trovata una soluzione e i migranti saranno trasferiti. Finché l’Italia non deciderà di adeguarsi ai trattati internazionali e di ripristinare la legalità". Dal Centro di prima accoglienza di Lampedusa, Khalid Chaouki, deputato Pd di origini marocchine, racconta da 24 ore con il telefonino la cronaca di un’occupazione senza precedenti: un parlamentare a fare la vita dei clandestini trattenuti nella struttura di contrada Imbriacola. "Un luogo indegno - racconta Chaouki, 30 anni, giornalista, padre di due bambini - dove sette eritrei, compresa una donna, sopravvissuti al naufragio del 3 ottobre, sono ancora qui e dove sei siriani, fra i quali l’autore del video mostrato dal Tg2 sul lavaggio anti scabbia, sono da due giorni in sciopero della fame e della sete". La cronaca del deputato è puntuale, inequivocabile: "Piove dai tetti, i pavimenti sono allagati, i bagni non funzionano, non c’è una mensa. Mangiamo panini, a letto o in cortile - twitta a ripetizione, allegando fotografie di quei luoghi. Non si può restare qui per più di 96 ore invece da anni gli ospiti ci soggiornano per mesi. Ai miei colleghi chiedo: presidiate tutti i centri perché è ora che dalle favole si passi ai fatti". Il suo atto d’accusa arriva nel giorno delle nuove proteste al Cie di Ponte Galeria, dopo che 10 nordafricani (fra i quali quattro ex detenuti e cinque provenienti proprio da Lampedusa) si sono cuciti la bocca in segno di protesta. C’è il timore che iniziative di questo genere, e perfino rivolte (come è già accaduto in passato), possano coinvolgere strutture simili in altre regioni. A Ponte Galeria i protagonisti della provocazione (un punto cucito sulle labbra) sono guidati dall’imam tunisino Mohamed Rmida, 32 anni, ex recluso a Roma, Civitavecchia e Viterbo. Doveva essere espulso oggi e fra le sue rimostranze c’erano i 160 euro spediti ai familiari l’estate scorsa e mai arrivati. Con lui protestano i tunisini Said Tahari, Abdellah Faouzi Abidi, Mohamed Ben Gi e Rahim Abdel Arami, e i marocchini Khaled Al Mazzouz, Marach Hicham, Karim Majjane e Yassine Chingune. Altri sono in sciopero della fame e delle terapie mediche contro quella che definiscono "una detenzione". Nei mesi scorsi altri "ospiti" avevano inscenato la stessa protesta con la cucitura della bocca. Ci sono state anche sommosse ed evasioni in massa. Sulla questione immigrazione pende la mozione approvata dalla Camera il 9 dicembre scorso che impegna il governo a compiere una serie di iniziative fra le quali la riforma della disciplina di ingresso, soggiorno, allontanamento e trattenimento degli stranieri, l’abbattimento di costi e tempi di permanenza nei Cie, l’eliminazione del trattenimento in quelle strutture di chi non è stato identificato in carcere. Primi firmatari i deputati Sandra Zampa (vice presidente Pd) e Mario Marazziti (Per l’Italia). "I Cie sono inefficaci e costosi - spiega Zampa. Un sistema fallimentare, chi non viene identificato nel primo periodo non viene identificato più. Trattenerlo al Cie è una violazione dei diritti umani e uno spreco di risorse. È assurdo, tutto quello che un tempo era politica per l’immigrazione è diventata politica di sicurezza". Per Marazziti invece "siamo oltre la soglia di tolleranza, il Parlamento ha fatto tutto quello che poteva. Ho chiesto una commissione d’inchiesta della Camera su Cie, Cara e Centri di prima accoglienza: serve un gesto chiaro del governo prima di Natale. Così è una vergogna". Ma per il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni "per affrontare l’emergenza non occorrono provvedimenti straordinari, basta solo applicare le norme e portare a regime progetti che già esistono". Immigrazione: il piano del governo per ridurre i tempi di permanenza ed evitare altre proteste di Fiorenza Sarzanini Corriere della Sera, 23 dicembre 2013 Ridurre i tempi di permanenza nei Cie per evitare che la protesta si allarghi. In attesa di una decisione definitiva sull’eventuale chiusura dei Centri di identificazione ed espulsione, il governo pensa a misure tampone che limitino a un massimo di 60 giorni il lasso concesso per conoscere la reale identità e origine dei migranti irregolari. E già nei prossimi giorni potrebbe presentare un disegno di legge, o addirittura un decreto, per fare fronte a quella che può trasformarsi in un’emergenza, anche tenendo conto del periodo delle festività natalizie. Lo dice con chiarezza il viceministro dell’Interno Filippo Bubbico quando afferma: "Si tratta di luoghi di costrizione che costano moltissimo e non hanno alcuna utilità. Sulla necessità di superarli siamo tutti d’accordo, ma intanto bisogna intervenire in fretta perché la situazione è diventata insostenibile. E dobbiamo farlo partendo da un dato incontrovertibile: se entro 30 giorni non si riesce a sapere il nome e la nazionalità dello straniero, difficilmente si otterrà un risultato. Dunque sono altre le strade che bisogna percorrere per garantire sicurezza ai cittadini e al tempo stesso offrire condizioni di vita dignitose a chi arriva in Italia e cerca di costruirsi un futuro. Ecco perché bisogna mettere subito un tetto molto più basso rispetto ai 18 mesi attualmente previsti dalla legge". Il costo 41 euro al giorno La trattativa tra Viminale e palazzo Chigi sulle modifiche alla Bossi-Fini va avanti ormai da mesi, più volte rallentata anche dalle resistenze del ministro e vicepremier Angelino Alfano che teme ripercussioni all’interno del centrodestra. Dopo il naufragio di Lampedusa il presidente del Consiglio Enrico Letta aveva assicurato che la legge sarebbe stata cambiata o addirittura eliminata. Ancora non se ne è fatto nulla, ma a questo punto sono diverse le "pressioni" per affrontare subito la questione. Al primo punto del piano di interventi c’è proprio la revisione del sistema di identificazione degli stranieri irregolari. Perché nei Cie si vive in condizioni disumane e perché la spesa non appare più sostenibile rispetto ai risultati ottenuti. Basti pensare che ogni "recluso" costa in media 41 euro al giorno e a questo bisogna aggiungere i soldi per alcune attività delle forze dell’ordine, straordinari compresi. La procedura in carcere Uno sforzo che, almeno a leggere i dati, si rivela quasi inutile. Le stime dell’Interno assicurano infatti che appena il 40 per cento delle persone espulse lascia effettivamente l’Italia soprattutto perché la maggior parte dei Paesi di origine non accetta il rimpatrio. Tutti gli altri ritirano il foglio di via, escono dalla struttura, ma poi restano senza fissa dimora e spesso tornano a delinquere non avendo alcuna possibilità di regolare la propria posizione. Un numero appare indicativo per comprendere la situazione: tra il 2005 e il 2011 sono stati rintracciati nel nostro Paese 550 mila clandestini e il 60 per cento di loro aveva già un ordine di allontanamento firmato dal questore. Nel decreto sullo svuotamento delle carceri firmato dal ministro Annamaria Cancellieri e varato la scorsa settimana c’è una norma ritenuta fondamentale dagli esperti per "alleggerire" il carico dei Cie. Impone infatti l’identificazione degli stranieri detenuti nelle carceri italiane e serve ad evitare che uno straniero senza documenti, dopo aver scontato la sua pena sconti un ulteriore periodo di detenzione presso i Centri in attesa di essere identificato dal Consolato competente, come invece avviene sempre più frequentemente. Anche perché ci sono Stati che rispondono dopo mesi alle istanze delle autorità italiane - il Senegal generalmente invia il lasciapassare al rimpatrio non prima di quattro mesi dalla comunicazione - e Stati che non forniscono alcuna risposta. I centri chiusi Da tempo Luigi Manconi, presidente della commissione Diritti Umani del Senato, effettua visite nei Cie. E non a caso ha già formulato proposte urgenti di modifica alla normativa per evitare "a queste persone di vivere in condizioni di non luogo e non tempo visto che nessuno di loro sa perché è "recluso", sa quanto rimarrà nella struttura e soprattutto sa dove andrà dopo. A tutto ciò si aggiunga che gli stranieri non hanno nulla da fare, perché non svolgono alcuna attività, non hanno neanche un libro da leggere o un corso da seguire come invece avviene nei penitenziari e vengono tenuti in condizioni anche sanitarie che non sono accettabili". In Italia esistono dodici Cie, ma soltanto sei sono ancora aperti e quattro lavorano a capienza ridotta perché sono stati danneggiati durante le proteste dei mesi scorsi. Anche le forze di polizia hanno più volte sollecitato soluzioni alternative ed è proprio Manconi a sottolineare come sia possibile ricorrere a "misure di sorveglianza individuale che sono certamente più efficaci anche per la sicurezza dei cittadini visto che garantirebbero l’effettivo controllo degli stranieri non regolari". Immigrazione: questi centri peggio delle carceri, droga, violenze e sprechi continui… di Guido Ruotolo La Stampa, 23 dicembre 2013 Lo sfogo di poliziotti e volontari: "Politici ipocriti, sanno bene cosa succede". Risponde al telefono: "È un calvario anche per noi. Siamo consapevoli che questi Cie sono carceri, anzi peggio delle carceri perché il problema non è solo la privazione della libertà. Mentre nelle carceri è organizzato il tempo libero, qui, a Ponte Galeria, non c’è nulla da fare, neppure un corso per apprendere la lingua, l’italiano. Un biliardino ? Si così poi le sbarre diventano otto corpi contundenti...". Voci di dentro, dall’universo dei Centri di identificazione ed espulsione, che di umano non hanno quasi nulla, ma dove vivono e lavorano volontari, medici, assistenti, mediatori culturali, forze di polizia. Ed è uno di loro, anzi due poliziotti, perché voci di dentro arrivano anche dal vergognoso centro di Lampedusa, che raccontano le loro realtà. Sentiamo subito Lampedusa. "Gli scandalosi trattamenti anti scabbia? Ma di cosa stanno parlando? Tutti sapevano e sanno cosa veramente accade al Centro… e davvero adesso gridano allo scandalo quelle persone che oggi occupano i più alti scranni dalla politica e che da sempre hanno voltato la faccia dall’altra parte aspettando che qualcuno mettesse la tanta troppa polvere sotto il tappeto?". Quelle immagini passate al Tg2 non vogliono essere "assolte", ma evidentemente agli operatori di questi Cie fa più male l’ipocrisia di chi, in questi anni, ha saputo e ha girato le spalle. Torniamo alla drammatica cronaca di queste ore a Ponte Galeria. Mohamed Ben Gi deve aver saputo che sarebbe stato espulso oggi. Sì, perché per oggi era programmato da Palermo il charter per Tunisi. E ha deciso con i suoi connazionali di giocarsi il tutto per tutto. E così sabato ha preso ago e filo insieme ad altri nove detenuti ha passato l’ago tra le labbra, la graffetta di un accendino raddrizzata alla bell’e meglio. L’istigatore della forma di autolesionismo è quello che si fa chiamare "imam", Mohamed Rmida. Anche lui tunisino, anche lui come Ben Gi ha 33 anni. Non è la prima volta che protesta con iniziative autolesioniste. È stato in carcere a Viterbo. Ha presentato domanda di asilo politico che è stata respinta il 19 dicembre. Nel gruppo dei dieci maghrebini che hanno iniziato lo sciopero della fame c’è anche chi ha sospeso la terapia con il metadone. Insomma, tossicodipendenti. Dice il poliziotto: "Il centro ha una capienza di 360 posti letto. Ma oggi ci sono 61 uomini e 20 donne. Molti locali sono inagibili, dopo la rivolta e l’incendio del febbraio scorso. Quando una ventina di maghrebini o nigeriani si ritrova in un Cie, è facile che dopo appena una settimana scoppi la protesta". C’è ormai un certo fatalismo anche nelle considerazioni di un normalissimo funzionario di polizia. E quello "indignato" - che non intende giustificare quelle immagini - di Lampedusa? Il suo sfogo non si è esaurito: "Perché nessuno ha gridato allo scandalo quando il centro ha ospitato più del triplo delle persone che può contenere? Qualcuno si è chiesto come vanno effettuati i trattamenti sanitari anti scabbia? E ancora: perché nessuno ha protestato nel vedere le stesse persone dormire all’aperto su dei materassi buttati in mezzo alla terra peggio dei cani randagi?". Chi lavora alla pianificazione della rete di accoglienza e poi identificazione degli extracomunitari, mette sotto accusa diverse "diseconomie" del sistema di accoglienza ed espulsione degli extracomunitari: "Quando gli sbarchi avvenivano autonomamente avevano una certa cadenza mentre ora invece le navi raccattano tutto quello che in due/tre giorni hanno recuperato in mare, sbarcando sulla terraferma nello stesso momento numeri molto elevati di stranieri. Creando paradossalmente uno sforzo organizzativo immane a chi lavora alla logistica a terra". Il tipico esempio di spreco riguarda uno degli ultimi sbarchi della "San Marco" a Lampedusa, 258 stranieri. Il gruppone doveva poi essere diviso in due per imbarcarsi gli uni per Gorizia, gli altri per Trapani. Perché non far attraccare la "San Marco" direttamente a Trapani, risparmiando un charter e dunque qualcosa come 12.000 euro a tratta?". Cina: la battaglia di David per i detenuti… di Paolo G. Brera La Repubblica, 23 dicembre 2013 Pechino è accusata di espiantare organi dai condannati in carcere. Da sette anni un avvocato canadese chiede al mondo di intervenire. Lo sapete perché la Cina, pur non avendo che una manciata di donatori volontari, è diventata in pochi anni il secondo Paese al mondo per numero di trapianti? Tenetevi forte, perché certe mostruosità fanno male anche solo a pensarle: "Uccidono un giovane detenuto compatibile, prelevano gli organi e li vendono a peso d’oro ai pazienti. Prove? Tutte quelle che volete, tutte quelle che servono". Sono sette anni e mezzo che David Matas, 70enne canadese, avvocato, libero combattente per i diritti dell’uomo, si è trasformato nel più formidabile cacciatore di trafficanti d’organo del mondo. Nel 2010 lo hanno candidato al Nobel per la Pace, per quella battaglia che somiglia a un film horror: in un rapporto firmato nel 2006 insieme all’ex segretario di Stato canadese David Kilgour ha accusato il governo cinese di avere ucciso sistematicamente migliaia di prigionieri di coscienza del Falun Gong - un movimento spirituale fondato in Cina nel 1992 e messo al bando dal 1999 - per prelevare i loro organi. David contro Golia: "Le uccisioni e i prelievi, 41.500 tra il 2000 e il 2005, dopo il nostro rapporto sono addirittura aumentate", dice. "Semplicemente, hanno alzato il livello di segretezza". Il 12 dicembre il Parlamento europeo ha approvato una proposta di risoluzione comune chiedendo la fine immediata di questa pratica disumana di "espianto coatto di organi da prigionieri di coscienza non consenzienti in Cina, in particolare da un gran numero di seguaci del movimento Falun Gong". In un’audizione alla Commissione per i diritti umani del Senato, giovedì scorso Matas ha fatto un appello perché l’Italia non si renda complice di questo crimine: occorre "cambiare la legge per punire non solo gli intermediari del traffico d’organi, come avviene oggi, ma anche i pazienti e i medici". "A maggio - spiega - anche il Comitato di bioetica italiano ha segnalato la lacuna legislativa. Per il sistema carcerario cinese questo è un business colossale: abbiamo stimato che valga un miliardo di dollari l’anno, soldi che vengono divisi tra i centri ufficiali di trapianto, in cui avvengono le operazioni chirurgiche, e le carceri che selezionano e forniscono i detenuti". Per un rene, il centro trapianti Omar Healthcare Service di Tianjin, in Cina, chiede 350mila dollari, ha scoperto un mese fa il settimanale tedesco Der Spiegel. Il fatto è che uno i trafficanti di organi se li immagina brutti e cattivi, criminali incalliti nascosti nei bassifondi di metropoli del terzo mondo, e invece sono persone che operano in cliniche regolari in cui non si commette alcun reato, a comprare un organo facendo uccidere un uomo incarcerato per il suo credo. "In Cina è tutto legale, e purtroppo pochi Paesi hanno varato leggi che sanzionino penalmente il turismo dei trapianti". La terribile "catena di smontaggio" è iniziata nel 1999, quando il governo ha messo al bando il movimento spirituale del Falun Gong. Gente pacifica che crede in tre principi fondamentali - la verità, la compassione e la tolleranza - esercitandole con quattro esercizi fisici, più uno di meditazione da eseguire nella posizione del loto. Per questo i militanti sono quasi sempre in ottima salute: seguono regole di vita sobrie e sane, etiche e fisiche. Ma la persecuzione è feroce. Quando vengono arrestati, la condanna teorica è a pochi mesi di detenzione nei "Centri per la rieducazione attraverso il lavoro". "Ed è qui che spariscono. Non solo sono luoghi di prigionia arbitraria - dice Matas - ma vere e proprie banche di organi da donatori vivi. Il governo cinese afferma che il 90 per cento degli organi proviene dai condannati a morte giustiziati: se fosse vero, se non si trattasse di uccisioni mirate, i tempi di attesa per un donatore compatibile non potrebbero essere così brevi". Le segnalazioni, i corpi restituiti con segni di "autopsie" che non avevano ragion d’essere, le denunce dei parenti e dei militanti si sono depositate sulla scrivania di Matas fino a seppellirla. E gli indizi sono lentamente diventati prove. "Alcuni investigatori hanno telefonato agli ospedali di tutta la Cina - racconta - fingendosi pazienti in cerca di trapianto e chiedendo se avessero da vendere organi di membri del Falun Gong, visto che grazie agli esercizi i praticanti sono sani: abbiamo ottenuto risposte affermative e confessioni da tutta la Cina". I militanti rilasciati raccontano che in carcere, insieme a pestaggi e torture, i praticanti del Falun Gong - solo loro - subiscono continuamente esami del sangue e controlli medici. Ma non è uno scrupolo dei carcerieri per la salute dei detenuti. "È una selezione della "merce" che si tengono pronti a prelevare. Prima della messa al bando e della violenta persecuzione del movimento e dei suoi adepti, in Cina si calcolavano cento milioni di militanti. Sono diventati un immenso giacimento vivente di organi da estirpare". Egitto: 3 anni di carcere per proteste anti-Mubarak, prima volta dal colpo di stato Agi, 23 dicembre 2013 Tre attivisti che nel 2011 guidarono le manifestazioni di piazza contro il regime di Hosni Mubarak sono stati condannati dalla magistratura del Cairo a tre anni di carcere ciascuno: è la prima volta dal colpo di stato militare del 3 luglio scorso, con cui fu deposto l’allora presidente Mohamed Morsi dei Fratelli Musulmani, in cui una sentenza del genere è pronunciata in Egitto a carico di dimostranti non islamisti. I tre, Ahmed Maher e Mohamed Adel del Movimento Giovanile "6 Aprile" e il blogger Ahmed Douma, dovranno inoltre pagare una multa di 50.00 lire egiziane, pari a quasi 5.300 euro. Egitto: rigide misure di sicurezza per Fratelli musulmani in carcere Nova, 23 dicembre 2013 Il ministero dell’Interno egiziano ha adottato rigide misure di sicurezza nella prigione in cui sono rinchiusi i leader dei Fratelli musulmani accusati di incitamento alla violenza e alto tradimento dopo le notizie su un complotto ai danni del deposto presidente Mohammed Morsi (anche lui in carcere). Le forze di sicurezza egiziane hanno montato vetri antiproiettile nelle stanze in cui i dirigenti dei Fratelli musulmani ricevono le visite esterne e ordinato di controllare ogni cosa che toccano. Ieri Morsi, che è rinchiuso nella prigione di Borg el Arab, è stato sottoposto a rigide misure di sicurezza su ordine del ministro dell’Interno, Mohammed Ibrahim, dopo la diffusione di notizie circa un complotto per assassinarlo e riguardo ad un altro piano per farlo evadere insieme ad altri membri dei Fratelli musulmani. Questa mattina invece, un’inchiesta giudiziaria ha confermato le accuse contro 130 imputati dei Fratelli musulmani, di cui fa parte anche Morsi. Oltre al rapimento e al sequestro di agenti di polizia, all’uso di artiglieria pesante e al sabotaggio delle sedi governative gli imputati sono anche accusati di aver rubato pollame e carne dalle strutture carcerarie. Lo ha denunciato l’ufficio del giudice incaricato delle indagini, che è affiliato con la Corte d’appello del Cairo. La Corte ha stabilito che Morsi e gli altri imputati saranno trasferiti al tribunale penale. Russia: Khodorkovsky; non farò politica, ma aiuterò gli altri detenuti Ansa, 23 dicembre 2013 Non si impegnerà in politica, né intende "combattere per riavere i beni" della Yukos, la seconda azienda russa prima del suo smembramento giudiziario. Dopo dieci anni di carcere e una grazia improvvisa che l’ha portato in poche ore inaspettatamente a Berlino, in Germania, l’ex magnate russo Mikhail Khodorkovski dice di non essere più interessato nemmeno agli affari. Con 36 ore da uomo libero alle spalle - "troppo poche per fare piani per il futuro", continua a ripetere nell’affollatissima conferenza stampa convocata nel museo sul Muro al Checkpoint Charlie -, Khodorkovski sa già certamente quel che non potrà fare. Incrociare la traiettoria del presidente russo Vladimir Putin, fin qui il vero protagonista del suo destino. "Era abbastanza chiaro che il mio futuro e quello dei miei colleghi sarebbe stato deciso dal presidente Putin, indipendentemente dal fatto che io fossi d’accordo, o chiedessi perdono". Invece di accusare esplicitamente per le condanne subite per evasione e frode, l’ex oligarca si limita a mettere in fila un paio di fatti. "Il 19 febbraio del 2003 c’è stata una discussione molto accesa tra me e il signor Putin, che è stata ripresa dalle telecamere ed è visibile in rete. Due settimane dopo i primi dipendenti della Yukos sono stati incriminati". Eppure Khodorkovski, dal volto inaspettatamente disteso, sembra lontano da sentimenti di rancore: "Ho scelto di essere pragmatico e la vendetta ha risvolti non pragmatici". Su Putin si concede anche una battuta, amara: "Ha detto di non voler essere presidente a vita, spero non cambi idea". Ora Khodorkovski ha altri piani per il futuro: "Vorrei impiegare il tempo che mi è rimasto a ripagare i debiti che ho nei confronti delle persone che sono ancora in prigione", spiega davanti alla stampa di tutto il mondo, ai suoi genitori e a suo figlio più grande, seduti emozionati in prima fila. "Ci sono ancora prigionieri politici, e non tutti sono connessi con il caso della Yukos". L’ex magnate cita esplicitamente l’ex premier ucraina Iulia Timoshenko, oltre al suo ex socio ancora in carcere, Platon Lebedev. Khodorkovski è tornato poi a raccontare della sua grazia, per cui ha un grande debito di riconoscenza nei confronti della Cancelliera Angela Merkel e, soprattutto, dell’ex ministro degli Esteri Hans-Dietrich Genscher, vero artefice della sua liberazione incondizionata. "Un capitano della polizia penitenziaria mi è venuto a svegliare alle due di notte per dirmi che sarei andato a casa. Durante il viaggio ho capito che sarei finito a Berlino con l’aereo privato" organizzato da Genscher. "Grazie a lui in prigione ho saputo che Putin non avrebbe più legato la possibilità della grazia a una mia ammissione di responsabilità. Tutto quel che avevo da fare era fare la richiesta di grazia", una pura formalità, ha spiegato. "Non è invece stata una formalità la questione dell’ammissione di colpa: ammettere una responsabilità per un crimine che non riconosci come tale, non avrebbe altro che dato ragione a coloro che sostengono che con Yukos abbia commesso attività illegali. Non l’avrei potuto fare, anche nell’interesse dei miei ex dipendenti, che sono tutti innocenti". Khodorkovski non sa ancora dove andrà a vivere. Tornare in patria? Non subito. Lì lo aspetta una multa pendente per circa 400 milioni di euro, che potrebbe mettere in pericolo futuri espatri. Per ora ha un visto di un anno per la Germania, dove presto lo raggiungerà la seconda moglie con i figli. Il futuro lo discuterà con loro. Russia: amnistia anche per le Pussy Riot, scarcerata Maria Alyokhina Adnkronos, 23 dicembre 2013 Maria Alyokhina, una delle due componenti del gruppo delle Pussy Riot in prigione, è stata scarcerata a seguito dell’amnistia recentemente decisa dal Cremlino. Lo ha annunciato il suo avvocato all’agenzia Ria Novosti. La 25enne Alyokhina stava scontando una condanna a due anni di carcere insieme a un’altra componente del gruppo, Nadezhda Tolokonnikova, dopo che la band nel 2012 aveva inscenato una preghiera anti Putin nella Cattedrale del Cristo Salvatore a Mosca. La legge sull’amnistia, approvata lo scorso mercoledì dal Parlamento russo, ha consentito anche la scarcerazione dell’ex oligarca e oppositore del presidente Vladimir Putin, Mikhail Khodorkovsky. Nelle prossime ore è attesa anche la liberazione di Nadezhda Tolokonnikova. La Pussy Riot Maria Aliokhina, liberata oggi dal carcere a Nizhni Novgorod, denuncia come una "farsa" l’amnistia lanciata dal presidente Vladimir Putin per i 20 anni della Costituzione russa e approvata la scorsa settimana dalla Duma. "Se fosse possibile rifiutare l’amnistia, l’avrei fatto personalmente" ha detto Aliokhina in un’intervista alla tv russa d’opposizione Dozhd all’uscita dal carcere, "perché non credo sia un atto umanitario, ma una trovata pubblicitaria".