Giustizia: l'emergenza carceri e la Marcia di Natale, una questione dirimente di Gian Mario Gillio www.articolo21.org, 22 dicembre 2013 Secondo gli ultimi dati sono oltre 67 mila in Italia le persone stipate in celle che potrebbero contenerne, meglio dire dovrebbero, non più di 40 mila; Istituti di pena che definire fatiscenti sarebbe un vero eufemismo. Eppure gli allarmi lanciati - sia dai Radicali Italiani che ne hanno da sempre fatto una questione di principio e di democrazia illuminando un tema spesso ignorato da gran parte dall’establishment politico e mediatico - sono giunti negli anni anche da molte associazioni umanitarie, Istituti di pena, guardie carcerarie e detenuti, movimenti civili e religiosi, una denuncia di degrado e violazione dei diritti umani, che il Consiglio d’Europa, con il proprio Comitato antitortura (Cpt) ha mosso al nostro paese "un livello importante di sovraffollamento nei penitenziari visitati". Un tema dunque dirimente per chi ha a cuore i diritti umani e l’applicazione della nostra Carta Costituzionale. Era il 28 luglio del 2011, non l’altro ieri, quando il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, decise di lanciare dal Senato della Repubblica, in occasione di un Convegno sule tema, il suo accorato appello sulla tragedia carceraria italiana: "Una questione di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile… un’emergenza assillante, dalle imprevedibili e al limite ingovernabili ricadute, che va affrontata" e auspicava che si fosse capaci di uno "scatto, di un svolta, non fosse altro per istinto di sopravvivenza nazionale". E a solo un anno di distanza, nel 2012, Napolitano tornava a chiedere "nuove e coraggiose soluzioni strutturali e gestionali". Oggi, alle soglie del 2014, nel più assoluto immobilismo politico, Marco Pannella, nuovamente in sciopero della fame e sete, insieme alla sua compagine politica e sostenuto da una nutrita e trasversale adesione (come ricorda proprio su Articolo 21 Valter Vecellio che sul nostro sito insieme a Bruna Iacopino non hanno mai smesso di illuminare la situazione carceraria), rinnova la proposta della Marcia di Natale per l’amnistia e l’indulto, alla quale Articolo 21, ovviamente, aderirà. "Aderiamo con convinzione - rileva Giuseppe Giulietti, portavoce di Articolo 21 - e chiediamo a tutto il mondo dei media di illuminare, oltre all’evento del 25 dicembre, la situazione carceraria nazionale che noi crediamo essere una di quelle periferie dimenticate. Cerchiamo di evitare di trovarci, come spesso accade con faciloneria, nella ‘storia di una tragedia annunciata’. Il tema è emerso anche in occasione del nostro Forum di Assisi, conclusosi lo scorso 15 dicembre. Un appello, lanciato dal Forum, a non dimenticarsi della situazione, degradante e inumana, oggi nuovamente agli ‘onori della cronaca’, all’interno dei Centri di identificazione e espulsione (Cie), che non sono centri di accoglienza ma luoghi di detenzione". Articolo 21 lo ha fatto di recente. Grazie all’osservatorio permanente ha lanciato la notizia, prima che fosse disponibile, del "famoso" video di Lampedusa che poi ha fatto scalpore nazionale, passando su i Tg nazionali. Un impegno coerente, quello di Articolo 21, che proseguirà il 25 con la propria delegazione. L’appuntamento è alle 10 in Piazza San Pietro, per poi raggiungere insieme al corteo, Piazza San Silvestro. Giustizia: Napolitano a fianco dei Radicali, Camere decidano su indulto e amnistia di Teodoro Fulgione Ansa, 22 dicembre 2013 Giorgio Napolitano torna ad investire il mondo politico ed il Parlamento della necessità di intervenire per risolvere la "drammatica condizione" delle carceri italiane. Il presidente della Repubblica invia un messaggio alla segretaria radicale Rita Bernardini con il quale sposa la causa della ‘Marcia di Natale per l’amnistia, la giustizia e la libertà’ organizzata proprio dai Radicali. Ma il Capo dello Stato, evidentemente, si rivolge a tutto il mondo politico al quale ricorda il "severo pronunciamento con il quale nel gennaio scorso la Corte europea dei diritti dell’uomo ha messo in mora il nostro Paese" proprio sulle condizioni di detenzione. È al Parlamento, sottolinea, che "spetta, eventualmente sentendo il Governo", decidere se adottare o meno misure di clemenza, prendendosi la responsabilità della sua scelta. "Cambiare profondamente le condizioni delle carceri in Italia" è "un dovere morale": è il monito di Napolitano che torna, ancora una volta, a far sentire la sua voce su un tema che sta segnando questa prima parte del suo secondo settennato. Napolitano non entra nel merito dei provvedimenti necessari ma ricorda che già lo scorso 7 ottobre ha inviato un messaggio alle Camere: "In quel testo - scrive la massima Carica dello Stato - ho affrontato la drammatica questione carceraria", "situazione incompatibile con l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo". Per il capo dello Stato resta "la necessità di cambiare profondamente le condizioni delle carceri in Italia", e ciò "costituisce non solo un imperativo giuridico e politico, imposto sia dalla Convenzione Europea sia dalla nostra Carta Costituzionale, ma anche e soprattutto un dovere morale". Il presidente ricorda che "lo Stato deve farsi carico della sicurezza dei cittadini e delle sacrosante aspettative di giustizia delle vittime dei reati" ma "non deve esimersi dal dovere di far sì che i luoghi di detenzione non umilino la dignità delle persone e corrispondano alla funzione rieducativa della pena". Napolitano sottolinea "la molteplicità di possibili interventi legislativi e amministrativi" nonché la "possibilità di provvedimenti di clemenza generale, che avrebbero altresì l’effetto di accelerare i tempi di amministrazione della giustizia, anch’essi attualmente incompatibili con i principi della richiamata Convenzione europea e con l’articolo 111 della nostra Costituzione". D’altronde, il tempo stringe: La Corte Europea si attente "sostanziali riduzione del sovraffollamento delle carceri" entro "il prossimo 28 maggio". Tesi condivisa da Danilo Leva del Pd. "Ancora una volta il capo dello Stato si fa carico di riportare l’attenzione generale sulla necessità che le istituzioni e il Paese non si adagino nello stato di illegalità in cui langue il nostro sistema carcerario - spiega - Dare soluzione all’emergenza carcere significa rendere l’Italia un Paese più civile". Coglie la palla al balzo Forza Italia, proponendo una rapida riforma del sistema di carcerazione preventiva. "Il presidente reitera i suoi inviti, il governo e il Parlamento, per essere più precisi le forze politiche che sostengono l’esecutivo, latitano" sostiene la portavoce alla Camera Mara Carfagna, secondo la quale "sarebbe obbligatorio, innanzitutto dal punto di vista morale, intervenire. Senza indugi. Adesso. Subito dopo la sessione di bilancio. Facciamolo". Leva (Pd): risolvere emergenza per rendere Italia più civile "Ancora una volta il Capo dello Stato si fa carico di riportare l’attenzione generale sulla necessità che le istituzioni e il Paese non si adagino nello stato di illegalità in cui langue il nostro sistema carcerario. Dare soluzione all’emergenza carcere significa rendere l’Italia un Paese più civile". Lo afferma Danilo Leva, deputato del Pd. "Il governo -aggiunge- ha avviato una riforma per molti versi positiva, sta ora al Parlamento e quindi alle forze politiche, assumere la responsabilità di procedere su questa strada. La riforma della custodia cautelare, l’ulteriore revisione della Bossi-Fini, l’abolizione della ex Cirielli sono alcuni dei passaggi necessari per poter affrontare con coscienza il problema del sovraffollamento carcerario. In questo contesto di riforme strutturali il ricorso ad un provvedimento straordinario di clemenza non è più eludibile. La carcerizzazione è divenuta una scorciatoia presa, come in tanti altri campi, per non affrontare problemi che richiedono risposte puntuali, competenza e senso dello Stato. L’uso ideologico del diritto penale ha fatto danni enormi è ora di riportare il diritto penale alle funzioni che gli appartengono". Ferranti (Pd): più fondi per detenuti tossicodipendenti Anche per dare concreta applicazione al decreto varato dal consiglio dei ministri martedì scorso, il governo dovrà stanziare più fondi per incentivare i trattamenti alternativi al carcere per i detenuti tossicodipendenti e l’affidamento a comunità di recupero. È quanto previsto da un ordine del giorno, accolto dal governo, presentato - come informa un comunicato - da Donatella Ferranti (Pd), presidente della commissione Giustizia alla Camera, nel corso dell’approvazione della legge di stabilità. "Peraltro, affinché non finiscano nel calderone indistinto della spesa pubblica, l’Odg chiede - sottolinea Ferranti - che le risorse aggiuntive siano espressamente destinate a tale finalità mediante specifiche e vincolanti intese tra Stato e regioni. Il governo ha inoltre accettato un altro ordine del giorno a firma Pd impegnandosi a trovare altri 15 milioni di euro a favore dei 3.200 precari della giustizia (ex cassaintegrati, disoccupati e in mobilità) che hanno completato il tirocinio formativo presso gli uffici giudiziari sulla base di progetti regionali e provinciali. La legge di stabilità, raddoppiando il fondo inizialmente previsto, consente al momento di prorogare i contratti soltanto per i primi sei mesi. Il Pd chiede invece - conclude Ferranti - una copertura annuale vista l’utilità di questi lavoratori per il buon funzionamento degli uffici giudiziari e lo smaltimento dell’arretrato". Carfagna (Fi): subito riforma carcerazione preventiva "Chi ha paura della riforma del sistema della carcerazione preventiva? Perché una parte - a quanto pare maggioritaria - della politica italiana fa prevalere le ragioni della convenienza elettoralistica a quelle della civiltà?". Così la portavoce del gruppo Forza Italia alla Camera Mara Carfagna. "Il Presidente della Repubblica reitera i suoi inviti, il governo e il Parlamento, per essere più precisi le forze politiche che sostengono l’esecutivo, latitano. Come se la questione fosse di secondaria importanza. Come se le incredibili condizioni nelle quali sono costretti a vivere i detenuti non riguardassero il legislatore". "Eppure - evidenzia Carfagna -, di fronte a una discrasia così evidente, che investe il sovraffollamento delle carceri e le norme sulla carcerazione preventiva, sarebbe obbligatorio - innanzitutto dal punto di vista morale - intervenire. Senza indugi. Adesso. Subito dopo la sessione di bilancio. Facciamolo". "Dimostriamo di essere donne e uomini in grado di sentire le grida d’aiuto che si levano dagli angoli più bui - solo perché non illuminati adeguatamente dai fari dei media - della nostra società e rispondiamo con i fatti". "Basta parole. Basta con l’inutile retorica paternalistica della misericordia. Lavoriamo fin da subito alla Riforma Tortora. È giusto - conclude Carfagna - che chi è stato condannato sconti la sua pena in carcere ma chi è in attesa di giudizio, tranne le dovute eccezioni legate a precise e circoscritte esigenze d’indagine per reati di grave allarme sociale, non può essere privato della sua libertà". Giustizia: dal piano carceri all’amnistia… riflessioni di un radicale di Maurizio Cei www.gonews.it, 22 dicembre 2013 Pubblico con piacere le riflessioni che Massimo Lensi, consigliere provinciale della Provincia di Firenze, radicale, ha voluto inviarmi sul Protocollo tematico sulla situazione carceraria in Toscana, sul quale ho scritto un commento in un articolo di ieri. Caro Maurizio, concordo con te nel dare spazio, sul tuo interessante blog, al Protocollo Tematico sulla situazione carceraria in Toscana. Un punto di vista regionale di un problema nazionale. La discussione è appena iniziata, ma almeno ha il pregio di individuare alcuni filoni d’intervento tematico. In un recente rapporto Istat sulla Giustizia si apprende che il numero dei crimini commessi in Italia diminuisce mentre s’innalza la percezione di insicurezza dei cittadini. Sembra un paradosso, ma non lo è. Il confronto, infatti, non è tanto in relazione alle fattispecie criminali o alla giustizia penale, organizzate o no, quanto alla considerazione di un Stato che giorno dopo giorno incrina il rapporto di fiducia con il popolo sovrano, delegittimando se stesso e le leggi che approva. Il sovraffollamento carcerario, la mancanza delle condizioni minime di vivibilità all’interno degli istituti penitenziari, e quindi l’offesa ai precetti della nostra Costituzione (art 13 e soprattutto l’art. 27 "Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato") producono un ulteriore senso di disagio del cittadino: una normale quanto patologica insicurezza. L’ordinaria eccezionalità delle situazioni straordinarie. È pur vero che esiste una parte della società che, all’opposto, chiede pene più severe, ma è minoranza; la centralità dell’insicurezza è parte integrante della maggioranza degli italiani che desidera solo uno Stato che applica le leggi e rispetta la carta costituzionale. Il Piano Tematico va nella giusta direzione: mettere mano al Pianeta Carceri. Lo fa un’istituzione territoriale, la Regione, in collaborazione con il tribunale di Sorveglianza di Firenze e l’Anci. Una meritevole iniziativa che ha come punto di caduta il tentativo di dare una mano - senza dubbio un contributo sostanzioso - al Piano Carceri che il Governo sta varando anche e soprattutto per impedire che le sentenze della Corte europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) che condannano il nostro Paese per la situazione carceraria siano effettive nel mese di maggio. È vero, ci sono alcune pecche, come la riapertura del carcere di Pianosa, che è meglio lasciare così com’è anche in nome della memoria storica del nostro paese, senza riaprire difficili e ambigui percorsi di ristrutturazioni edilizie del complesso carcerario nell’isola. Il Piano Tematico così come il Piano Carceri nazionali però non bastano. Il punto è questo, la sostanza di un’evidenza di fronte agli occhi di tutti noi. Sono provvedimenti utili e meritevoli, ma non strutturali, una sorta di arlecchino dell’emergenza. Il tentativo, anche lodevole, di mettere una pezza a un sistema che ha bisogno di ben altro: ci vuole una cura per elefanti. E, come sai, il provvedimento che noi radicali auspichiamo e per il quale lottiamo da anni è quello dell’amnistia e dell’indulto. L’unico provvedimento strutturale che potrebbe, nostro avviso, far ripartire da zero non solo il pianeta Carceri, ma anche quello della Giustizia. E se non si vede l’insieme, il sistema malato della Giustizia penale e civile in Italia e il sistema penitenziario, si perde di vista anche il particolare. E a volte si affoga, come si dice, in un bicchier d’acqua. Ecco, questo è il pericolo da evitare. Ps: stavo per dimenticare la cosa più importante. Il 25 dicembre, il giorno di Natale, noi radicali marceremo a Roma per l’amnistia, la giustizia e la libertà. Una marcia che partirà dal Vaticano (Paese che ha abolito l’ergastolo recentemente) e terminerà a largo Chigi, sede del Governo. Giustizia: Cancellieri: "Sistema funziona". Balducchi: "Mai negare possibilità di recupero" Radio Vaticana, 22 dicembre 2013 Proseguono in Italia le polemiche sul sistema carcerario, nonostante la cattura, ieri, dei due detenuti fuggiti nei giorni scorsi: un ex pentito di camorra e un serial killer, evasi dopo un permesso premio. Il ministro della Giustizia, Annamaria Cancellieri, ha sottolineato che la cattura dei due uomini dimostra che "il sistema Paese funziona". Sulla vicenda Antonella Pilia ha intervistato don Virginio Balducchi, ispettore generale dei cappellani d’Italia. R. - Sicuramente queste sono due situazioni che preoccupano molto e probabilmente c’è stata anche qualche disattenzione... Però, dall’altra parte, la Costituzione parla per chiunque di cammini di possibilità di recupero. Quando succedono questi fatti si dimentica che ci sono tante altre persone - anche con situazioni gravi - che stanno facendo dei percorsi molto positivi, responsabilizzandosi verso la propria famiglia, riparando il danno fatto, costruendo una capacità di riconciliazione sociale e anche personale molto profonda. Purtroppo l’opinione pubblica viene informata soltanto quando qualcosa non va e poco quando le cose stanno andando bene. D. - Quindi è veramente possibile un reinserimento sociale e lavorativo, anche per coloro che si sono macchiati di gravi reati? R. - Sicuramente noi non possiamo dire che questo non sia possibile, perché ci sono stati dei detenuti che hanno mostrato un cambiamento molto forte nel loro percorso di vita. Potrebbe darsi che alcune persone, che magari hanno anche problemi di malattia mentale - come nel caso di uno degli evasi - debbano in ogni caso essere seguite, accompagnate un po’ di più. Qualche rischio sicuramente si corre concedendo permessi a questi detenuti, ma potremmo dire che, anche dal punto di vista cristiano, il Padre Eterno rischia con chiunque di noi, fidandosi di noi. L’uomo è messo nella condizione di fare delle scelte libere, che possono portare a scegliere il bene o il male. Sicuramente il rischio è impossibile non correrlo, altrimenti vorrebbe dire che se qualsiasi persona commettesse qualsiasi tipo di male, non potrebbe essere mai recuperabile! Questo non è possibile dirlo né dal punto di vista cristiano né dal punto di vista della Costituzione italiana. D. - Al centro della cronaca c’è anche lo stato delle carceri in Italia, ultima in Europa per numero di detenuti, sovraffollamento e suicidi in carcere… R. - Sono anni che la situazione delle carceri sta continuamente deteriorandosi ed è chiaro che questo non permette, anche a coloro che stanno cercando di fare il possibile, di seguire bene tutte le situazioni. Più persone ci sono concentrate nel carcere, più le risorse umane in campo per aiutarle - anche nei cammini di cambiamento - sono in difficoltà. Questo è dovuto al fatto che molto del male sociale - tossicodipendenti, immigrazione clandestina e anche malati mentali - hanno oggi come una delle poche soluzioni di cura il carcere. Questo non è possibile! È una pazzia! Devono essere trovati degli strumenti di giustizia che aiutino le persone a prendere in mano la propria situazione, che sia essa problema sociale dal punto di vista dell’immigrazione, un problema socio-psicologico dal punto di vista della tossicodipendenza o il problema di essere seguiti per i malati mentali. Il carcere non è la soluzione! D. - Come giudica le misure introdotte con il decreto carceri, approvato dal governo nei giorni scorsi? R. - Le norme varate puntano a fare in modo che la pena sia svolta nel territorio e questo abbatte la concentrazione all’interno del carcere. Non è la soluzione, ma è sicuramente un alleggerimento. Ed è l’indicazione che è possibile compiere giustizia anche con strumenti diversi dalla detenzione. La mia speranza è che questi strumenti diventino davvero praticabili - perché non è poi così semplice - e mostrino alla gente comune che è possibile esercitare una giustizia senza costringere le persone a stare in modo quasi completamente ozioso all’interno delle carceri, ma ad assumere delle responsabilità che devono essere controllate - e questo il decreto lo prevede - e si traducono in cammini di reinserimento sociale. Giustizia: Pagano (Dap); iniquo e immotivato diniego servizi sociali per Salvatore Cuffaro Italpress, 22 dicembre 2013 "Il diniego della misura dell’affidamento ai servizi sociali nei confronti di Salvatore Cuffaro è iniquo, sia in considerazione del giudizio positivo della Procura, sia anche in considerazione dei recenti fatti di cronaca che hanno fatto emergere come tali benefici vengano concessi in mancanza dei necessari requisiti, penalizzando chi al contrario tali requisiti, come lo stesso Cuffaro, detiene". Lo afferma il deputato di Nuovo Centrodestra Alessandro Pagano. "Salvatore Cuffaro è un detenuto modello. Anche nel momento della caduta - sottolinea - si è comportato con dignità e con rispetto verso gli organi inquirenti e giudicanti. Perché allora negargli l’affidamento ai servizi sociali? Se qualche dubbio ancora persisteva, al limite la misura sarebbe potuta essere espletata a Roma. I sospetti di un trattamento sbilanciato, del tutto sfavorevole a Cuffaro, - conclude - è più che legittimo". Lettere: quelle parole ispirate di Alfano "… aiuterà solo drogati e immigrati" di Furio Colombo Il Fatto Quotidiano, 22 dicembre 2013 Caro Colombo, a ogni epoca della storia tocca il suo "grande". Questa volta è Angelino Alfano, che pronuncia la frase memorabile (da pronunciare con sprezzo) sulla mini-riforma carceraria del governo: "Aiuterà solo drogati e immigrati". Serena La memorabile frase di Alfano (attribuibile alla tradizione della destra culturale che rappresenta benché accanto ai drogati e agli immigrati, ovvero alla feccia dell’umanità, mancassero "i froci") ci introduce a una delle storie meno nobili di un governo che lascia continuamente perplessi per la clamorosa differenza fra il sorriso da bravo bambino di Letta e le cose che tutto il gruppo, appena lasciato in pace a "lavorare", combina. Avevamo appena passato lo shock degli scampati di Lampedusa, costretti, nei giorni più freddi dell’anno, a stare in fila nudi per una "disinfestazione" (stiamo parlando del governo con Lupi e Lorenzin, non con Borghezio e Giovanardi) ed ecco che arriva, prima il decreto legge sulle carceri, poi la frase del vice Alfano. Anche coloro che considerano matto il duo Pannella-Bernardini perché insistono nel dire, anche un po’ noiosamente, che quattro uomini non possono vivere in tre metri, si rendono conto che un problema o lo affronti o lasci perdere. Varie e susseguenti repubbliche italiane se la sono finora cavata abbandonando i problemi e parlando d’altro. Nuova è la strategia di Letta: il problema è grave, si affronta subito, si trova una soluzione che non ha niente a che fare con il problema, si usa l’attaccatutto della buona stampa, si annuncia la soluzione, si chiude, e si chiama un altro paziente dalla immensa sala d’attesa. L’importante è fare, non la cosa, ma una cosa, in modo da tenere in vita ciò che resta delle notizie dette "politiche". La frase di Alfano, che addirittura fa capire che si oppone alla nuova soluzione non perché sconnessa (a causa del minimalismo) dal problema, ma perché troppo audace e pericolosa, da un lato mette in luce la virtù di Letta "che, comunque, qualcosa fa", come dicono quasi tutti gli autori del commento quotidiano di ciascun giornale ogni giorno. E dall’altra ci illustra il senso delle intese, sia pure di dimensioni variabili. Tutti insieme qualcosa portano a casa, invece delle "maledette" polemiche. Per altre spiegazioni, vedi alla parola "stabilità". Trento: madre torna a chiedere di sapere le ragioni della morte in carcere del figlio Ansa, 22 dicembre 2013 La madre di un detenuto di 28 anni morto a fine ottobre torna a chiedere in una lettera aperta di sapere le ragioni della morte del figlio. Non si ritiene infatti convinta del responso di arresto cardiaco dato dal medico nel carcere di Trento. La stessa richiesta, in un’analoga lettera, era stata avanzata dalla donna a una settimana dal decesso, avvenuto lo scorso 29 ottobre. In sostanza la donna, ora in una lettera firmata anche da "parenti e amici solidali" chiede che venga eseguita l’autopsia, una procedura che però l’Autorità giudiziaria non ha potuto ordinare, dal momento che non sono stati rilevati elementi tali da avanzare sospetti che ci fossero cause di morte diverse da quelle dichiarate. In casi come questi quindi, come noto e come lo stesso procuratore capo di Trento, Giuseppe Amato, aveva ricordato in quei giorni, è la famiglia a poter decidere cosa fare e a eseguire tutti gli accertamenti che ritiene necessari. Una procedura che la donna non accetta di percorrere. Ascoli: fratello di un detenuto presenta esposto in procura, in carcere negate cure Adnkronos, 22 dicembre 2013 La storia di un detenuto, la storia di tanti detenuti. È quella di Nicola Pagano, 33 anni, raccontata all’Adnkronos dal fratello Giorgio, che ha presentato un esposto alla Procura di Ascoli Piceno, con tanto di cartelle cliniche allegate, per denunciare "gravi fatti accaduti nella Casa circondariale di Ascoli Piceno". "Non mi fermerò finché non verrà accertata la responsabilità di quanto accaduto a mio fratello e finché non avrò giustizia per Nicola, al quale sono state negate cure adeguate e necessarie - dice Giorgio - c’è stata negligenza da parte di medici e della direzione del carcere: mio fratello ha dovuto attendere nove mesi prima di avere una visita psichiatrica e ha tentato ben 5 volte il suicidio, nonostante nella sua cartella fosse stato scritto, sin dal primo tentativo, di tenerlo sotto stretta sorveglianza". "Se doveva essere sotto sorveglianza come ha fatto a tentare il suicidio così tante volte - si chiede Giorgio - hanno detto che era un modo per uscire dal carcere, ma mio fratello stava male e, al contrario di quanto affermato, non è stato curato adeguatamente. Ora si trova in un struttura specializzata e speriamo che guarisca". Tutto inizia il 19 novembre del 2012 Nicola, arrestato per reati legati alla droga e alla tossicodipendenza, entra in carcere per un fine pena, ma dopo pochi mesi entra in depressione perdendo in breve tempo molto peso. Il detenuto chiede una visita psichiatrica che gli viene concessa dopo nove mesi e la dottoressa prescrive una terapia antidepressiva con dei farmaci che però, denuncia poi Nicola, non ha effetto. Il medico del carcere cambia terapia, ma non cambia nulla: Nicola continua a perdere peso e la forte depressione lo porta a minacciare il suicidio. Chiede ancora la visita psichiatrica e il medico del carcere aggiunge farmaci alla terapia e scrive "si raccomanda max sorveglianza". A giugno 2013 Nicola minaccia il suicidio e anche se il medico del carcere modifica la terapia e consigliano la massima sorveglianza, il 9 agosto il detenuto tenta il suicidio. Il 19 agosto 2013 il medico del Sert visita Nicola, e cambia ancora una volta la terapia e chiede massima sorveglianza. Ma la direzione del carcere, in una lettera indirizzata ai vari reparti scrive che il tentato suicidio di Nicola aveva lo scopo di poter uscire e tornare a casa. Viene ritirato dalla sua cella tutto ciò che può essere pericoloso lacci delle scarpe, cinta dell’accappatoio e quant’altro: tutto inutile perché il 27 settembre compie un altro gesto autolesivo e viene ricoverato in ospedale al reparto di psichiatria, dove gli viene diagnosticato il Disturbo antisociale di personalità, Disturbo da discontrollo di personalità. Nessuno dei familiari di Nicola, nonostante egli lo avesse richiesto, viene avvertito e anche questa volta il medico sostiene che si sia trattato di un gesto manipolativo per tornare a casa. Nicola, tornato in carcere, tenta il suicidio altre due volte e il 6 dicembre i familiari vengono avvertiti che Nicola è ricoverato in ospedale a San Benedetto del Tronto, dove rimane fino al 10 dicembre scorso: giorno nel quale viene scarcerato e per ordine del Tribunale di Sorveglianza di Ancona trasferito in una comunità a Spoleto. Nell’esposto Giorgio Pagano scrive che la direttrice del carcere è stata messa a conoscenza dell’intera storia di Nicola, del trattamento subito, dei tentativi di suicidio malgrado la richiesta di massima sorveglianza, e delle mancate cure adeguate, e ha risposto che per Nicola è stato fatto tutto ciò che il caso richiedeva. Giorgio Pagano ha chiesto spiegazioni di quanto accaduto al fratello alla direzione sanitaria del carcere e all’assessore alla Sanità delle Marche che ha riferito che sono state fatte tutte le visite richieste. Alla Procura il fratello del detenuto chiede il sequestro del diario clinico della casa circondariale, dove dovrebbe esser riportato tutto l’iter delle cure del fratello e tutte le relazioni mediche. "Ora Nicola si trova in una comunità, in struttura terapeutica a Spoleto, nella speranza che possa uscire dai disturbi di cui è affetto - dice all’Adnkronos l’avvocato Felice Franchi - si tratta di un detenuto che ha tentato più volte il suicidio, l’ultima due giorni prima di essere scarcerato, e necessita di cure adeguate. Nella situazione di Nicola si trovano - sottolinea l’avvocato - tanti altri detenuti che soffrono per le difficili condizioni di salute". Genova: polemiche su rimozione direttore di Marassi dopo evasione serial killer di Chiara Carenini Ansa, 22 dicembre 2013 È amareggiato, forse deluso, definisce il provvedimento di trasferimento annunciato alle Camere dalla Guardasigilli Cancellieri "eccessivo" ma anche oggi è lì nel suo ufficio, all’ammezzato dell’istituto di pena, a lavorare. Giuseppe Mazzeo, direttore del carcere di Marassi, è stato il primo e forse sarà l’unico a pagare per l’evasione di Bartolomeo Gagliano, il serial killer evaso durante un permesso premio rilasciato dal giudice della Sorveglianza a Genova. "Certo che sono qui a lavorare - ha detto Mazzeo - poi da domani sarò in ferie fino all’8 gennaio perché sono stanco. È stato un anno duro e difficile questo". Oggi, dice, "è il tempo dei sentimenti: amarezza, tanta, se penso quanto ho fatto per questo istituto. E dall’8 gennaio vedremo il da farsi". Gagliano si è detto pentito di aver tradito la fiducia del direttore. "Io lo conosco, è un impulsivo - spiega Mazzeo - è fatto così ma è guarito, non è pazzo. Certo, ha dei problemi ma è una persona sana. Ha provocato guai a se stesso, scappando e a tanti altri, ha creato allarme sociale ma i giudizi sulle persone sono spesso fallaci. Ci possiamo sbagliare. Ma che un detenuto non rientri dal permesso premio è davvero improbabile mentre c’è sempre la possibilità che rientri. Ed è il criterio della possibilità che è più forte rispetto all’improbabilità". Il direttore di Marassi ha sempre tenuto presente la dimensione umana dei detenuti tanto che gli stessi detenuti hanno annunciato di voler fare lo sciopero della fame in solidarietà con il direttore. Molti ricordano l’ultimo suo esperimento: dopo il laboratorio teatrale e quello artistico, anche la mezza maratona attorno all’istituto di pena. Era strano vedere tutti quei detenuti correre fuori dal carcere e vederceli rientrare sempre di corsa. "È vero. Ma adesso cerchiamo di prenderci una pausa di riflessione". Parla con amarezza eppure la solidarietà non si è fatta attendere: "Sì - ammette - è arrivata da ogni parte, direi dalle Alpi alle Piramidi. Colleghi, magistrati, dalle associazioni di volontariato che lavorano dentro il carcere, sindacati di polizia penitenziaria e anche dai detenuti. Una cosa che attenua l’amarezza ma purtroppo non l’elimina". Detenuti Marassi in sciopero fame per solidarietà a Mazzeo Uno sciopero della fame dei detenuti del carcere genovese di Marassi in segno di solidarietà con il direttore della struttura, Salvatore Mazzeo, colpito da provvedimento disciplinare del Dipartimento amministrazione penitenziaria, potrebbe avere luogo nei prossimi giorni. È quanto risulta da fonti interne al carcere. Il provvedimento nei confronti di Mazzeo è stato deciso in seguito a sue dichiarazioni rilasciate alla stampa sull’evasione di Bartolomeo Gagliano. La protesta dovrebbe esprimersi nel rifiuto del vitto fornito dall’amministrazione e in altre manifestazioni come il battere oggetti sulle sbarre. Il sostegno delle associazioni e dei docenti Le associazioni culturali e di volontariato, i docenti degli istituti scolastici e gli operatori impegnati quotidianamente nelle attività trattamentali, nei corsi di formazione e nelle attività produttive a favore dei detenuti, operanti all’interno della Casa Circondariale di Marassi, invitano le SS.VV. ad intervenire autorevolmente, nei modi e nei termini ritenuti più opportuni, nei confronti del Ministro della Giustizia On. A. Cancellieri affinché non dia luogo a procedere in merito al presunto trasferimento del Direttore della Casa Circondariale di Marassi Dott. Salvatore Mazzeo. Dopo molti anni di fattiva e proficua collaborazione che ha portato il Carcere di Marassi, come anche recentemente dichiarato dal Ministro di Giustizia in occasione della sua visita del settembre scorso, ad essere definito un "carcere illuminato" nonché un modello da seguire per tutti gli altri Istituti Penitenziari, il presunto allontanamento del Direttore Dr. Mazzeo, motivato da ragioni a noi incomprensibili, provocherebbe inevitabilmente gravi conseguenze ed una possibile battuta di arresto delle attività trattamentali a favore dei detenuti. Tali attività, realizzate nel corso di lunghi anni di difficile lavoro, sono state rese possibili soprattutto grazie al clima di entusiasmo e di estrema fiducia che il Dott. Mazzeo è stato capace di instaurare con la sua alta professionalità, la sua abnegazione e il suo illuminato esempio. Alla luce di quanto sta accadendo ci domandiamo, preoccupati, come tutto questo possa rischiare di essere cancellato, frettolosamente, nel giro di poche ore. Associazione Culturale Teatro Necessario Onlus Teatro dell’Arca Bottega Solidale a.s.r.l. Associazione Culturale Fuoriscena Veneranda Compagnia di Misericordia Italforno s.a.s. I docenti degli Istituti Scolastici della Casa Circondariale Milò Bertolotto ex Ass. Provinciale con delega alle Carceri Venezia: dagli albergatori pranzo di Natale offerto alle detenute della Giudecca Ansa, 22 dicembre 2013 Pranzo di Natale offerto alle detenute del carcere della Giudecca dagli albergatori veneziani dell’associazione "Ava". I titolari d’hotel della città lagunare, guidati dal presidente Vittorio Bonacini, sono potuti entrare nella casa di reclusione femminile per preparare e servire il pranzo alle detenute. Anche le materie prime per i piatti sono state fornite dall’associazione veneziana. Al pranzo hanno preso parte 70 recluse e 10 impiegate della struttura. L’iniziativa di solidarietà era stata proposta dalla vice presidente dell’Ava, Stefania Stea. Il menu è stato studiato dallo chef Michele Potenza, dell’Hotel Cà Sagredo, tenendo presente le differenti esigenze alimentari delle carcerate. "La scelta di lasciare l’albergo e di indossare la veste di cuoco, oppure quella di cameriere - ha detto Bonacini, nasce dalla volontà di compiere un gesto di solidarietà capace di metterci in gioco singolarmente per portare una parola di speranza e di fiducia a chi sta saldando il suo debito con la società. L’iniziativa ha creato coesione e affiatamento all’interno del gruppo, dando la possibilità, a ciascuno di noi, di vivere un’esperienza molto forte che pochi dimenticheranno e che mi auguro costituisca uno spunto di profonda riflessione: esiste un preciso dovere morale ed etico nei confronti delle persone meno fortunate". Salerno: il Sindaco dopo visita al carcere "il Governo non rispetta dignità umana" di Carlo Pecoraro La Città di Salerno, 22 dicembre 2013 "Siamo un Paese incapace di dare dignità agli esseri umani. I detenuti rimangono cittadini italiani anche quando sono qui dentro". Il sindaco Vincenzo De Luca non lesina critiche al Governo e dal palco del piccolo teatro della Casa Circondariale di Salerno, dove ieri è stato invitato alla tradizionale festa di Natale per le famiglie dei detenuti, spiega: "Abbiamo in larga misura perduto quello che era l’obiettivo del carcere: la sua funzione di rieducazione e la formazione professionale. Ma non è colpa vostra - spiega De Luca - Un Governo di un Paese civile non può non rispettare la dignità umana". Il sindaco fa riferimento alla sua recente visita in qualità di viceministro al carcere minorile di Nisida "dove i ragazzi sono impegnati in laboratori e attività. Credo che quella realtà sia un esempio di eccellenza in questo ambito". Ma De Luca aggiunge: "Chi sbaglia deve scontare la sua pena secondo la legge ma non può non essere rispettato come persona". Una situazione indecente, quella delle carceri italiana, figlia di un paradosso tutto nostrano che lo stesso De Luca ha "scoperto" durante il suo lavoro al ministero: "Come ministero alle Infrastrutture e ai Trasporti abbiamo la responsabilità per l’edilizia carceraria, ma ho scoperto che anche in questo caso vi è un commissariamento. Il responsabile dell’edilizia penitenziaria - spiega De Luca - è un prefetto che però non ha responsabilità tecnica, la quale rimane incardinata al ministero e per questo non fa nulla e non si costruisce una struttura nuova da anni. Si tratta di un’altra situazione demenziale, indegna di un Paese civile. Mi auguro che, anche in questo ambito, si possa voltare pagina". Un teatro, quello della Casa Circondariale dove le famiglie si sono ritrovate. Erano 117 i bambini (dai zero agli 11 anni) che hanno partecipato allo spettacolo voluto dal direttore del carcere Alfredo Stendardo. E proprio il direttore, salutano gli ospiti (oltre al sindaco, l’assessore Nino Savastano e i consiglieri Angelo Caramanno e Horace Di Carlo, ndr) ha raccomandato all’assessore "un maggiore impegno affinché anche a Salerno si possano attuare quei laboratori formativi indispensabili all’umanizzazione dei detenuti". Sul palco, guidati dall’esperienza di Francesco Granozio (che da anni tiene laboratori teatrali all’interno del carcere, ndr) animazione e musica offerte dall’associazione Quartiere Ogliara "Chiara della Calce". Mentre la strenna per i più piccoli, anche quest’anno, è arrivata grazie all’impegno dalla Consulta delle aggregazioni laicali della Diocesi di Salerno, diretta da Peppe Pantuliano che, ha ricordato Stendardo "già due mesi prima di questo evento si mobilità con i suoi volontari per riuscire a rendere questo giorno lieto per tutti". E infine, nel dare i suo auguri ai detenuti, De Luca dice: "Vi posso promettere che faremo di tutto per rendere le condizioni all’interno delle carceri più dignitose, sperando che con il nuovo anno si possa cambiare pagina". Firenze: "Una voce dal carcere", nuova rubrica di FirenzePost scritta dai detenuti di Sandro Addario www.firenzepost.it, 22 dicembre 2013 Da oggi 22 dicembre 2013 Firenze Post avvia una nuova rubrica aperta al mondo carcerario. Si chiamerà "Qui Carcere". Avrà un box fisso a disposizione nella nostra home page. Potranno scrivere tutti coloro che, a vario titolo, sono presenti "all’interno" di quei recinti murari e quei cancelli che li separano dall’indifferenza esterna. Detenuti, operatori di Polizia Penitenziaria, familiari, educatori, membri delle associazioni di volontariato, religiosi. Cominciamo dalla Casa Circondariale Mario Gozzini di Firenze, più nota come "Solliccianino", struttura carceraria a custodia attenuata unica in Toscana, che ospita circa un centinaio di persone detenute. Impareremo a conoscerla nel corso del tempo, attraverso la voce dei "protagonisti". Fermo il debito di giustizia che ciascun detenuto è tenuto a rispettare - e sul quale non entreremo mai nel merito - è necessario al tempo stesso, prima di esprimere giudizi affrettati, provare a conoscere un mondo che in molti preferiscono ignorare. Come se non esistesse. Tra le prime cose che ci sono state suggerite c’è quella di preferire l’espressione "persona detenuta" al più comune termine "detenuto". Un consiglio che accogliamo in pieno. Tra un aggettivo e un sostantivo c’è in effetti una differenza profonda. Il primo indica una situazione auspicabilmente transitoria di un soggetto condannato, il secondo un marchio quasi indelebile. Firenze Post ringrazia per la disponibilità manifestata la dottoressa Antonietta Fiorillo, Presidente del Tribunale di Sorveglianza, il dottor Carmelo Cantone, Provveditore regionale per la Toscana del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, la dottoressa Margherita Michelini, direttrice della Casa Circondariale Gozzini. E, in anticipo, tutti coloro che vorranno, a vario titolo, arricchire di contenuti questa nuova rubrica. Accogliamo con piacere un intervento della dottoressa Michelini. Per la prima volta, almeno in Toscana, un giornale on-line offre uno spazio alle persone detenute in un Istituto penitenziario. Grazie alla disponibilità manifestata dal Provveditore Regionale del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, dottor Carmelo Cantone, nasce con "Firenze Post" una collaborazione importante perché viene data la possibilità - a chi vive e opera all’interno di un istituto penitenziario - di poter esprimere il proprio pensiero, non solo sul carcere ma anche su argomenti di attualità. Anche questo è un aprire il carcere alla società esterna, come previsto dal nostro ordinamento penitenziario, per far sì che la carcerazione corrisponda davvero al dettato costituzionale di rieducazione e di reinserimento e che la pena non sia solo afflittiva. Mi auguro possa essere un’occasione per far conoscere ai lettori che il carcere non è solo quello viene presentato dai mass media in occasioni purtroppo negative. Credo invece possa essere uno spazio proficuo sia per le persone detenute ma anche per i lettori del giornale esterni che si possono fare un’idea più reale di quello che è davvero un istituto penitenziario, nella sua silenziosa quotidianità. Margherita Michelini Direttrice della Casa Circondariale "Mario Gozzini" Firenze Viterbo: il presepe dei detenuti di Mammagialla ripreso dalle telecamere di Rai3 www.viterbooggi.eu, 22 dicembre 2013 È un racconto di Natale, magari non una favola, perché quando hai delle sbarre e dei muri e delle guardie che ti separano dal mondo esterno - dalla libertà - di favole è più opportuno non parlare. E però nel carcere di Mammagialla, alcuni detenuti hanno avuto la forza, lo spirito e la creatività di allestire un presepe dentro la casa circondariale sulla Teverina. Un piccolo, grande gesto, che ha conquistato anche le telecamere della Rai: il magazine settimanale della Tgr Lazio ha dedicato un lungo servizio a questa iniziativa. È stato anche un modo per raccontare il Natale in carcere, anche attraverso le testimonianze di chi, a Mammagialla, ci vive per ragioni diverse (lavoro, volontariato, o pene da scontare). Ha spiegato la direttrice Teresa Mascolo: "Qui il Natale è vissuto con lo stesso spirito di fuori, in modo molto tradizionale. Quello che cambia è il rapporto con i famigliari, che per ovvie ragioni è limitato, ma che in un periodo come questo può essere comunque goduto in ambienti più colorati, e con un animo diverso. Ringrazio i volontari che operano all’interno della struttura, e gli aiuti da fuori, dei privati, delle catene di grande distribuzione che si ricordano sempre della popolazione carceraria. Mi sento un po’ la portavoce di questa comunità: dagli impieganti ai collaboratori fino anche, perché no, ai detenuti. E l’augurio che facciamo tutti insieme è un augurio di serenità, e di coraggio". Particolarmente toccanti, poi, le testimonianze dei detenuti stessi. Un ragazzo, probabilmente dell’est Europa: "Cerchiamo di fare il minimo per alleviare le sofferenze e per sentirci un po’ a casa, grazie alla vicinanza di Dio. Non ero credente, lo sono diventato in carcere: ora credo davvero che ci sia qualcuno, lassù". Un altro, italiano del sud: "Passare il Natale in carcere non è facile, anche perché avvertiamo ancora di più la lontananza dai nostri cari. Ci aiuta molto trascorrere le giornate insieme a chi ci porta la parola del Signore". Il cappellano di Mammagialla, don Antonio Bagnulo, ha riassunto: "Il Natale è atteso con grande trepidazione dai detenuti. Questo presepe è la dimostrazione di come sia interpretato in modo tradizionale da loro. E anche gli stranieri, che qui sono il 40 per cento, partecipano a modo loro, addobbando le celle secondo le usanze dei loro Paesi". Interessanti e definitive pure le parole della volontaria suor Floriana: "Le persone, trovandosi qui, hanno modo di immergersi nella riflessione. Di capire i loro errori, e di decidere per una vita migliore". Anche un presepe tra le sbarre può spalancare le coscienze. Libri: "Senza scampo. La mia vita rubata da faide a ‘ndrangheta", di Carmelo Gallico Ansa, 22 dicembre 2013 "Mi trovo da vent’anni al 41 bis. Mai nessuno mi ha detto precisamente di cosa sono accusato. Se non di chiamarmi Gallico". Carmelo Gallico ha una doppia vita, è un detenuto al 41 bis, ma anche una penna fine. Capace di vincere 10 anni fa, per una dotta recensione, il premio di una sezione del "Bancarella" riservato agli studenti delle scuole. E di scrivere una pièce teatrale rappresentata al teatro Eliseo a Roma. Gallico è un cognome pesante. Quello della potente ‘ndrina di Palmi, di cui è accusato di essere parte. Ed è uno stigma, come lo percepisce lui, nel suo libro "Senza scampo-la mia vita rubata da faide e ‘ndrangheta",, uscito in questi giorni e scritto dal carcere di Fossombrone. "Non so ancora come finirà questa storia", scrive, "so però com’è iniziata, dov’è il male, dove le colpe. E conosco i troppi carnefici che hanno voluto il mio cadavere, i tanti ladri che hanno rubato i miei sogni". "La colpa" la attribuisce al "nome che porto e non in ciò che ho fatto. So che la colpa è nel luogo in cui sono nato e non nel modo in cui sono cresciuto". Nel libro Gallico dà un’emblematica rappresentazione di una Calabria di ‘ndrangheta e faide dove chi non muore ammazzato muore in galera. Questa la sorte toccata a lui e ai suoi familiari. La morte si presenta quando aveva 15 anni, quando gli uccidono il fratello ventenne. Poi una notte tentano di sterminare la sua famiglia, distruggendo la loro casa. Gallico - racconta lui stesso nel libro - vorrebbe fuggire, andare in America, ma la Calabria e le vicende famigliari lo trascinano, e a 25 anni entra in carcere. Nel libro descrive la "ndrangheta come un "monolite" che lascia percepire la propria "mostruosa capacità di egemonizzare vite". Un mostro che non dà scampo. Carmelo Gallico "Senza scampo. La mia vita rubata da faide a ‘ndrangheta" (Edizioni Anordest, pp 252, euro 14.90) Cinema: "Come il vento", a Sulmona il film su Armida Miserere commuove tutti Il Centro, 22 dicembre 2013 Gli intrecci tra pezzi dello Stato e criminalità organizzata; le commistioni e le connivenze tra la politica e il malaffare legate al mondo del carcere e dei carcerati. Una pista che i giudici non hanno escluso nel corso del processo che ha portato alla condanna in via definitiva degli autori dell’omicidio di Umberto Mormile, l’educatore del carcere di Opera ucciso nel 1990 da due sicari e fidanzato dell’ex direttrice del supercarcere di Sulmona Armida Miserere. Una pista che getta dubbi anche sui motivi che avrebbero spinto la Miserere a uccidersi sparandosi un colpo di pistola alla tempia nella sua camera da letto, la sera del venerdì Santo di 10 anni fa. Il colpo di scena è venuto fuori al termine del film "Come il vento" del regista Marco Simon Puccioni, sulla storia della direttrice di ferro, da pochi giorni nelle sale cinematografiche italiane e proiettato l’altro ieri, come evento speciale, nel corso della rassegna cinematografica Sulmona Cinema Film Festival. In una sala gremita, il film ha tenuto tutti con il fiato sospeso per la drammaticità della storia ma, soprattutto, perché tra gli spettatori c’erano tante persone e operatori del carcere che hanno conosciuto la Miserere e vissuto con lei i momenti più belli e intensi degli anni trascorsi a Sulmona. Un film che ha trasmesso per intatto i sentimenti e le emozioni della storia di una donna in perenne lotta con se stessa, che era riuscita a emergere e a farsi rispettare in un mondo difficile come quello carcerario. Anche se a detta di tutti nel film è venuta fuori più la figura di donna che quella di "Lady di ferro". Della direttrice che girava tra le celle in mimetica ricordando ai detenuti che il carcere non era il Jolly Hotel. In sala anche i vertici regionali del Dipartimento di amministrazione penitenziaria: il provveditore Bruna Brunetti e altri dirigenti seduti affianco alla nuova direttrice del carcere di Sulmona Silvia Pesante, che ha assunto la guida del penitenziario più importante d’Abruzzo solo da qualche settimana. Anche lei non ha potuto negare che il film l’ha colpita molto e che le "emozioni andavano via veloci". Al termine della proiezione del film il regista Puccioni ha parlato della sua esperienza insieme al direttore di Sulmona cinema, Silvestri e all’educatore del carcere di Sulmona, Frank Mastrogiuseppe. "È una storia vera, diversa dalla cronaca pura", ha tenuto a precisare il regista che ha incontrato titubanza sul film da parte del Dap, soprattutto all’inizio. "Mi piaceva la sua storia, di donna che era riuscita ad affermarsi in un mondo difficile come il carcere in un momento in cui le donne erano fuori da quel contesto così lontano dal mondo di tutti i giorni. E poi la sua tragica vicenda che l’ha costretta a vivere in prima linea in quella che è stata ed è ancora la lotta tra lo Stato e la criminalità organizzata. Ma anche della giustizia e del carcere: come funziona, come è strutturato". Anche se i problemi del carcere e dei carcerati, nel film sono stati affrontati in maniera del tutto marginale. "Di solito il carcere è visto sempre dal lato del detenuto", ha spiegato Puccioni, "in questo caso mi interessava ribaltare questo concetto e raccontarlo dal punto di vista di chi è chiamato ad amministrarlo". Poi il discorso si è incentrato sulla magistrale interpretazione di Valeria Golino. "All’inizio non voleva accettare", rivela il regista, "anche perché in quel momento stava preparando il suo primo film da regista. Alla fine il suo carattere combattivo e deciso è uscito fuori e ha accettato". "La cosa e il complimento che mi ha fatto più piacere", ha concluso Puccioni, "è stato sentire il fratello della Miserere, il quale dopo aver assistito alla prima del film mi ha detto: alla fine del primo tempo ho visto Valeria Golino che interpretava mia sorella; poi con l’andare avanti delle scene ho rivisto Armida e mi sono commosso". Claudio Lattanzio Immigrazione: lo scandalo dei Cie, dove la "clemenza necessaria" non arriva di Eleonora Martini Il Manifesto, 22 dicembre 2013 Nel Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria, a Roma, cinque immigrati per protesta si cuciono la bocca. Ma per loro nessuno si mobilita. Nemmeno a Natale. Cucirsi la bocca a volte può fare meno male che sentire il proprio grido afono, silenziato dal muro invalicabile e intangibile che avvolge i Cie. Nemmeno in carcere - quello "regolamentare" - è facile assistere a una protesta come quella adottata ieri da almeno cinque detenuti immigrati reclusi nel Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria, a Roma. Quattro cittadini tunisini e uno marocchino hanno preso per primi ago e filo e si sono cuciti le labbra per protestare contro la loro permanenza - con "fine pena" indefinito - in quel tipo di prigione tra le più dimenticate che esistano. E ieri sera dal Cie, visitato da una delegazione di Sel, è giunta la notizia di altri immigrati che hanno "aderito" a questa forma di protesta. "Cambiare profondamente le condizioni delle carceri in Italia costituisce soprattutto un dovere morale", ha scritto ieri Giorgio Napolitano in una lettera indirizzata alla segretaria nazionale dei Radicali italiani, Rita Bernardini, in occasione della Terza Marcia di Natale per l’amnistia. Ma il Capo dello Stato ha ricordato anche "l’imperativo giuridico e politico, imposto sia dalla Convenzione Europea sia dalla nostra Carta Costituzionale" a "far sì che i luoghi di detenzione non umilino la dignità delle persone e corrispondano alla funzione rieducativa della pena". E per questo torna a ricordare che solo "provvedimenti di clemenza generale" possono garantire ormai allo Stato italiano di mettersi in regola entro il termine del 28 maggio prossimo imposto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Fermo restando "ovviamente - ha specificato Napolitano - che spetta al Parlamento, eventualmente sentendo il governo, assumersi la responsabilità di ritenere essenziale o non essenziale, ai fini del rispetto delle indicazioni della Corte di Strasburgo, l’adozione delle ipotizzate misure di clemenza, anche alla luce delle misure che saranno state eventualmente adottate nel frattempo". L’amnistia e l’indulto però agiscono sul circuito penale e non amministrativo, che è quello che regola la detenzione nei Cie. Il problema delle terribili condizioni di vita di questi detenuti resterebbe quindi immutato. Ma è un tema questo sul quale sarebbe molto più difficile far confluire le tante sensibilità e i diversi schieramenti politici che saranno rappresentati nella pur encomiabile iniziativa radicale della III Marcia di Natale per la quale Giorgio Napolitano ha espresso ieri il proprio "apprezzamento". La cronaca registra però che solo Christopher Hein, direttore del Consiglio Italiano per i Rifugiati, ieri ha ricordato che "cucirsi la bocca è un atto terribile, spaventoso, che indica che queste persone devono essere veramente disperate per le condizioni in cui si trovano a vivere". Politica silente, tranne qualche sporadica eccezione, come Luigi Nieri di Sel: "I Cie - ha affermato il vicepresidente di Roma - sono luoghi disumani che vanno definitivamente superati. Pensare che alcuni esseri umani debbano passare 6 mesi in uno stato di reclusione e in condizioni di vita lesive della dignità, solo per illeciti di tipo amministrativo e senza aver commesso alcun reato, è inaccettabile. I diritti dei migranti e il superamento di una legge ignobile come la Bossi-Fini devono essere considerati una priorità per il nostro Paese". La presidente della Camera, Laura Boldrini, ex portavoce dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati, ieri mattina invece aveva sottolineato il fatto che anche la società ha tutto "l’interesse a recuperare le persone che hanno sbagliato: devono uscire uomini e donne migliori di quelli che sono entrati se la carcerazione non è tempo morto o peggio ancora abbrutimento ma rieducazione come dice la nostra Costituzione". Considerazione difficilmente estesa ai reclusi nei Cie anche se, secondo molte statistiche, non più della metà degli immigrati detenuti in quei centri di espulsione vengono poi effettivamente rimpatriati. Se non altro, per effetto del decreto legge varato martedì scorso dal governo, almeno l’identificazione degli immigrati entrati nel circuito penale comincerà appena varcata la soglia del carcere, in modo da alleggerire il passaggio nei Cie. Ma che non basti è sotto gli occhi di tutti. Immigrazione: vietato riprendere nei Cie, inchiesta su un "mondo nascosto" La Presse, 22 dicembre 2013 Girare filmati dentro i Centri di identificazione ed espulsione (Cie) è vietato. I migranti che, al momento dell’ingresso, hanno un telefonino con la telecamera, devono consegnarlo oppure lasciarlo manomettere in modo che non sia più in grado di riprendere. La prassi, che è diffusa in tutti i centri, secondo l’avvocato Gianfranco Schiavone, che di Cie si è occupato a lungo, ha una spiegazione chiara: "Se non vietassero le telecamere dentro i Cie - dice - chissà quante immagini come quelle del Tg2 ci sarebbero". Dal Viminale però danno versione diversa: a volte ci sono soggetti che sono scappati dal proprio Paese d’origine, hanno fatto richiesta d’asilo e sono in attesa di passare nei Cara. Sarebbe pericoloso per loro essere ripresi. Non c’è alcuna preclusione alle telecamere in quanto tali, sottolineano, tanto che i giornalisti possono far richiesta alle prefetture e ottenere il permesso di entrare (l’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni nel 2011 lo aveva vietato ma poi Annamaria Cancellieri, che ne prese il posto nell’esecutivo successivo, li riaprì). Schiavone è un esperto della materia: già nel 2007 fece parte della Commissione per le verifiche e le strategie dei centri guidata dall’ambasciatore Staffan De Mistura, oggi sottosegretario agli Esteri, che produsse una dettagliata relazione su quelli che allora si chiamavano Centri di permanenza temporanea (Cpt). "A Gradisca - spiega riferendosi al Cie di Gradisca di Isonzo, chiuso a metà novembre 2013 in seguito all’ennesima rivolta - ci fu un tentativo di incendio circa un anno fa. La risposta della prefettura fu in un primo tempo quella di rimuovere i materassi, così la gente doveva dormire per terra. L’assenza di foto aiutava l’invisibilità della situazione. C’è sempre stata una attenzione ossessiva a evitare che uscissero immagini di ogni tipo. Loro la giustificano con il rispetto della privacy ma è ridicolo: se fosse un problema di privacy dovrebbero essere le persone a decidere se essere riprese o meno". Quella di Gradisca, racconta, era una situazione limite, tanto che la struttura è stata chiusa: "Era in un degrado eccezionale. Le persone vivevano nelle gabbie, che si aprivano su un piccolo spazio di cemento dal quale non si poteva uscire. C’erano limitazioni permanenti alla possibilità di muoversi, la mensa era chiusa da due anni per impedire assembramenti e i pasti erano serviti nelle gabbie. Anche il campo da basket era chiuso per lo stesso motivo". Ma anche dove le condizioni non arrivano a questi limiti estremi, i problemi non mancano. Rivolte e atti di autolesionismo sono all’ordine del giorno. Ed è largamente diffusa, denunciano in molti, la somministrazione di psicofarmaci per tenere calmi i migranti. "A tutti i miei assistiti sono stati somministrati psicofarmaci", racconta Stefania Gatti, patrocinatrice di alcuni trattenuti nel Cie di Torino. Si tratta di farmaci come il Rivotril, un potente sedativo antiepilettico. "Ho sentito diverse testimonianze dirette. Non possiamo averne riscontri provati ma credo che si possa dare per certo che mettano psicofarmaci anche nel cibo", dice l’avvocato Livio Neri, che difende alcuni migranti trattenuti al Cie di Milano. "Anche qui abbiamo sempre avuto il dubbio - conferma l’avvocato Daniele Papa, referente dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) per la Sicilia -. Sono state numerose le denunce in questo senso da parte delle associazioni che lavorano in queste strutture". A Torino c’è stata anche una morìa di piccioni. "Alcuni operatori della Croce rossa", che è l’ente gestore del Cie del capoluogo piemontese, "mi dissero - racconta Gatti - di aver portato via sacchi interi di piccioni morti. ‘Gli diamo da mangiare quello che mangiamo noi e muoionò, mi raccontò uno dei miei assistiti. Ovviamente io non posso sapere perché morissero e se ci sia un collegamento, ma il fatto certamente non è tranquillizzante". "Siamo alla follia più totale, non capisco come si possa immaginare una cosa di questo genere", ribatte Antonino Calvano, presidente regionale piemontese della Croce Rossa, che è l’ente gestore del Cie di Torino. "A Torino c’è uno staff medico che turna sulle 24 ore e che prescrive i farmaci", spiega il presidente provinciale di Torino della Croce Rossa, Graziano Giardino. "Noi prepariamo tutto - aggiunge - nella cucina della Protezione civile di Settimo, dalla quale riforniamo anche i rifugiati dello Sprar" (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). "In ogni caso l’ordine pubblico non è compito nostro - conclude - quindi che interesse avremmo a esporci con una cosa tanto grave?". Una cosa del genere sarebbe una cosa di una gravità tale, sottolineano dal Viminale, che non è neanche immaginabile possa accadere. "Basterebbe un controllo dei Nas", taglia corto un altro legale, Guido Savio, referente della campagna ‘Lasciateci entrarè dell’Associazione studi giurici sull’immigrazione (Asgi). "A Bologna - spiega - hanno chiuso il centro dopo la visita dei Nas". In effetti a marzo scorso la struttura del capoluogo emiliano ha chiuso i battenti per permettere una ristrutturazione dopo che era emersa l’inadeguatezza delle condizioni igienico-sanitarie e della struttura, oltre a una serie di problemi economici dell’ente gestore, il consorzio Oasi. Un altro problema è quello dell’assistenza sanitaria: il servizio sanitario nazionale, spiega Silvia Canciani dell’Asgi, resta fuori dai Cie. È l’ente gestore che si fa carico delle esigenze di salute interne alla struttura. "E non c’è un protocollo unico", sottolinea Savio. "È il medico interno a stabilire se hai bisogno o meno degli esami. Un anno fa ci fu un tunisino che aveva una protesi all’occhio. A Milano, nel Cie di via Corelli, dissero che la protesi si infettava e lo rilasciarono perché non erano in grado di garantire cure adeguate. Lo fermarono di nuovo e finì al Cie di Torino, dove dissero che poteva restare nonostante il suo problema all’occhio. Poi approdò al Cie di Trapani. Ma quelli mi chiesero: ‘Può stare dentro?’. Io gli mandai la documentazione di Milano e lo dimisero, circa un anno fa". Dal rapporto della commissione De Mistura a oggi poco o nulla è cambiato. Nella relazione si indicava la necessità di una "maggiore trasparenza e coinvolgimento della società civile". "L’accesso ai centri - si leggeva tra i punti finali del documento - dovrebbe essere consentito alla stampa, agli enti locali e alle associazioni". Non solo, ma il testo si spingeva fino a invitare il ministero a un "progressivo svuotamento" dei centri, fino al definitivo superamento. I Cpt, istituiti da una legge del 1998 che porta anche il nome del presidente della Repubblica, la Turco-Napolitano, che ne fu estensore, negli ultimi anni hanno seguito una parabola: il ministro dell’Interno Roberto Maroni - mentre introduceva la prassi dei respingimenti e il reato di clandestinità - ne aveva cambiato il nome in Cie, esteso il limite di permanenza fino a 18 mesi e ne aveva promesso uno per Regione. Poi le cose sono andate diversamente e negli ultimi tempi sono stati diversi i centri a chiudere i battenti: prima a marzo Bologna, poi ad agosto Modena e a novembre Gradisca. Un altro punto di quel rapporto suggeriva che la "espulsione e trattenimento dell’immigrato dovrebbero passare attraverso il giudice ordinario". Problema mai superato e oggi parte di un programma in dieci punti dell’Asgi per superare le criticità del sistema della gestione dell’immigrazione: Occorre "garantire - scrive l’associazione - che ogni forma di limitazione della libertà personale sia disposta da un giudice professionale (e non più dai giudici di pace) al pari di quanto previsto per tutti i cittadini italiani". Immigrazione: nel 2012 ottomila persone sono passate nei Cie, rimpatriate la metà La Presse, 22 dicembre 2013 Sono sei i Cie in Italia. Erano tredici fino a due anni fa, ma poi hanno chiuso prima quello di Brindisi (a giugno 2012), poi Trapani Vulpitta (agosto 2012), seguito da Lamezia Terme (ottobre 2012), Bologna (marzo 2013), poi Crotone e Modena (agosto 2013) e un mese fa quello di Gradisca d’Isonzo. Restano Bari, Caltanissetta, Milano, Roma, Torino e Trapani Milo. Secondo il rapporto Arcipelago Cie, pubblicato nel maggio scorso da Medici per i diritti umani (Medu), nel 2012 nei Cie sono transitate complessivamente 7.944 persone: di queste esattamente la metà (il 50,5%) sono state rimpatriate. Quelle fuggite sono state 1.049 (cioè più di una su otto) e 415 quelle dimesse per scadenza dei termini. Solo il 5% del totale, infatti, resta dentro i Cie per 18 mesi (termine che è cumulativo e riguarda il tempo di permanenza complessivo in caso di trattenimento successivo in diverse strutture). Il motivo, spiega Guido Savio, referente della campagna ‘Lasciateci entrarè dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), è legato a un problema di efficienza: "Il Cie è una macchina che deve girare, c’è un problema di turnover. Difficilmente se la polizia non riesce a identificare una persona in cinque o sei mesi, può farlo prendendosi del tempo in più. Perciò lo fanno uscire liberando un posto per qualcun altro, il cui consolato magari collabori di più. In questo modo cercano di aumentare le percentuali di espulsione". "A Torino non li tengono mai più di otto mesi", conferma Stefania Gatti, patrocinatrice di alcuni migranti trattenuti nel Cie. "Ho incontrato persone - aggiunge - che sono state trattenute anche cinque volte". Non sempre, però, si tratta di persone che non vogliono farsi identificare. In alcuni casi il problema è burocratico. "Tanti ragazzi del Marocco - spiega - sono nati in contesti rurali e una carta di identità lì non l’hanno mai avuta. Sono arrivati qui da minorenni, e in Marocco non risultano da nessuna parte". Hanno finito per crescere in Italia senza avere la cittadinanza né qui né là. E restano in un limbo da cui non riescono più a uscire. Quanto costano queste strutture? La più dispendiosa, secondo il rapporto del Medu, è quella di Milano, gestita dalla Croce Rossa, che riceve 60 euro al giorno per trattenuto. A Torino, la stessa Croce Rossa ne chiede solo 47. Il più economico era quello di Crotone, che si faceva bastare 21,4 euro. L’anno scorso proprio a Crotone tre migranti sono saliti sul tetto della struttura per protesta, facendo sei giorni di sciopero della fame. Processati, nel dicembre 2012 sono stati assolti dal giudice che, dopo aver disposto un’ispezione, ha riconosciuto la "legittima difesa" contro il "trattamento inumano e degradante" della struttura. Immigrazione: la testimonianza "Io suora nel Cie, qui c’è troppa sofferenza, vanno chiusi" La Presse, 22 dicembre 2013 "Io sono una religiosa e sono contro la violenza. Ma se vivessi così non so dire se mi comporterei diversamente da loro. Obbligare delle persone a restare senza fare niente per mesi vuol dire esasperarle. Sono costretti ad aspettare uno che ti accenda la sigaretta e l’altro che ti autorizzi a farti la barba. Neanche in carcere si fa così. Sono completamente dipendenti dalle persone che sono lì per sorvegliarle". A parlare è suor Anna (il nome è di fantasia, preferisce che il suo vero nome non sia pubblicato). Lavora per l’ufficio pastorale migranti della diocesi di Torino ed è volontaria al Cie del capoluogo piemontese. Ha vissuto 24 anni in Tunisia. Tornata in Italia prima delle primavere arabe, nel 2011 le hanno proposto il servizio al centro. "Siamo in due - spiega - io e un padre camerunense. Lui parla bene l’inglese, io il francese e un po’ di arabo tunisino". "Io - racconta - sono stata 24 anni in Tunisia. Lo scopo delle comunità religiose in questi Paesi islamici è proprio creare dei ponti. Siamo riusciti anche a creare rapporti di amicizia. Ma qui invece siamo riusciti a farci odiare. La gente che è lì dentro odia l’Italia e odia gli italiani". Per migliorare il clima i religiosi partecipano, per quello che possono, alle ricorrenze islamiche e invitano i migranti a fare altrettanto con quelle cristiane. Funziona, c’è una buona risposta. "Domani - racconta suor Anna - andiamo con i panettoni, i periodi delle feste sono i più duri da affrontare per queste persone. Questi Cie sono diventati un grande fai da te, non ci sono regole fisse, ci adattiamo ogni volta alla situazione". "Il Cie - continua - crea delle situazioni assurde, di sofferenza e umiliazione. Non si può obbligare 25-30 persone a stare insieme 24 ore su 24. C’è solidarietà tra loro ma c’è anche tensione. Ho appena parlato con un ragazzo che minaccia di impiccarsi, ho cercato di tranquillizzarlo. Due giorni fa si è impiccato un altro ragazzo. Adesso mi hanno detto che si è salvato e che lo hanno liberato e non è più tornato. Ma non riesco a capire dove sia finito. C’è una ragazza da venti giorni in isolamento. Ha dei problemi psichiatrici e quindi la tengono lì. Certo così non va bene, ma d’altra parte se la lasciano andare fuori finisce in strada, col freddo che fa. Mi sto informando per capire se c’è una struttura che la accolga". "Gli scioperi della fame - racconta - sono continui. A settembre l’associazione Papa Giovanni ha accolto un ragazzo che si era ridotto al punto che quando è stato ricoverato non riusciva più a camminare. È stato in dialisi, l’hanno ricoverato a lungo all’ospedale Martini". Di episodi gravi come quelli del video del Tg2 su Lampedusa, dice la religiosa a mezza voce, ne ha visti anche a Torino. "Ma ho già fatto le denunce - sottolinea - ho fatto il mio dovere. E non voglio dire altro". Comunque il problema, prosegue, è anche nelle piccole cose: "Molti devono ricevere pacchi dalla famiglia e molte volte vengono respinti". C’è un abuso di psicofarmaci? "C’è un’esasperazione che è brutta e quindi crea situazioni di squilibrio anche in persone che tutto sommato sarebbero normali da un punto di vista sanitario. Molte volte sono loro che li chiedono, dicono che non ce la fanno. Di preciso non saprei dire. Però è vero che vediamo arrivare ragazzi attivi e dinamici e dopo un po’ li vediamo imbambolati". "Io - spiega - vorrei contribuire alla chiusura dei CIE. Io non accuso le persone, accuso il sistema. Non hanno nessun senso, sono uno sperpero di soldi e sono contro la dignità delle persone. Noi diamo telefoni e schede per cercare di favorire la comunicazione con l’esterno ma questi sono solo palliativi. Il problema è alla radice. Con i 50 euro al giorno che ciascuno costa al Cie si possono finanziare progetti di inserimento. L’anno scorso hanno fatto un’area nuova, hanno speso milioni. È finito tutto bruciato, adesso non c’è già più niente, è rimasta solo una stanza". Quindi cosa pensa delle manifestazioni dei centri sociali che organizzano spesso dimostrazioni all’esterno del CIE? "Quei giovani segnalano situazioni giuste, ma lo fanno nel modo sbagliato. Li incitano alla violenza, poi nelle rivolte succede di tutto e così li fanno finire al carcere delle Vallette". Immigrazione: protesta choc al Cie di Roma, immigrati si cuciono bocca Ansa, 22 dicembre 2013 Hanno modellato la parte metallica di un accendino per fare l’ago, poi hanno usato il filo preso da una coperta di fortuna e si sono cuciti le bocche. È la protesta choc di quattro africani al Centro di accoglienza immigrati di Ponte Galeria, a Roma, proprio nel giorno in cui il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, rispondeva in Aula sul caso del Cie di Lampedusa. Il sindaco di Roma, Ignazio Marino, chiede di rivedere la Bossi-Fini e contemporaneamente "riaprire il dibattito" sui Cie, definiti dallo stesso primo cittadino "luoghi disumani". Gli immigrati, tutti magrebini, hanno inscenato la clamorosa protesta per dire basta alla permanenza nel centro a sud di Roma. Uno di loro avrebbe dovuto lasciare la struttura lunedì prossimo per essere rimpatriato nel suo paese. Dei quattro africani, due hanno circa vent’anni e sono ospiti del centro da poco, gli altri due hanno oltre trent’anni. La struttura, a due passi dall’autostrada che collega la Capitale con Fiumicino, contiene al momento circa 100 ospiti. L’area più affollata è quella maschile, dove ci sono circa 70 persone. "La loro protesta ci impone con forza di riaprire il dibattito nazionale su questi luoghi disumani e su una legge, la Bossi-Fini, che equipara a criminali chi fugge da guerre, violenze e povertà - dice con forza il sindaco della Capitale, Ignazio Marino -. Non possiamo, e non vogliamo abituarci alle tragedie. Dobbiamo, al contrario, impegnarci tutti contro l’indifferenza". Proprio meno di una anno fa, il centro di Ponte Galeria era stato teatro della sommossa degli immigrati che salirono sui tetti dando fuoco a materassi e tavolini. Era lo scorso febbraio, e gli extracomunitari stavano protestando contro l’espulsione di un nigeriano. Un episodio che finì con l’arresto di otto africani ed il ferimento di una poliziotta ed un finanziere. Una protesta identica a quella andata in scena oggi a Roma venne portata avanti nel 2010 al Cie di Torino, dove cinque immigrati, anche in quel caso tutti africani, si cucirono la bocca con ago e filo contro la detenzione nel centro. Questo tipo di protesta da parte di immigrati è frequente in particolare all’estero: si segnalano casi in Belgio e Grecia, ma anche in Australia. Mondo: sono 3.103 italiani che si trovano nelle carceri all’estero di Daniela Boresi Il Gazzettino, 22 dicembre 2013 L’immagine è agghiacciate. Un carcere colombiano, ora d’aria. Un detenuto che guarda attraverso le sbarre la polvere che si alza da un campetto di calcio blindato e i piedi dei compagni di cella che calciano una sfera, alla spasmodica ricerca di centrare una rete. Tutto è confuso e concitato, grida e insulti. La palla non è di gomma e non è di cuoio. È una testa umana. Un racconto dei tanti, incredibili e a volte impossibili, riportati da chi nell’inferno di un carcere straniero c’è stato e ne è uscito. E che ora vuole solo dimenticare. Il numero è spaventoso: 3.103 italiani che si trovano nelle carceri all’estero, per i reati più diversi dall’omicidio allo stupro alla frode fiscale. Molti in attesa di giudizio, altri semplicemente fermati, altri ancora con condanne pesanti (complessivamente gli italiani sono 681), altri rientrati a casa e inghiottiti dall’anonimato dopo da una esperienza devastante. Prigionieri difficili da tutelare anche se il lavoro di diplomazia delle Ambasciate e dei Consolati, della Farnesina, è capillare. Il detenuto all’estero resta il prigioniero di un buco nero dove i diritti quasi sempre vengono negati e la barriera della lingua e della diversa legge pesa più della detenzione stessa. Non sono solo numeri, anche se lo stesso Ministero degli Esteri non ha uno scorporo con le provenienze regionali dei nostri connazionali detenuti all’estero. Per ognuno di loro c’è però un percorso avviato fatto di contatti e di in alcuni casi anche di viaggi all’estero. La presenza maggiore è in Germania, pesante anche in Spagna e Francia. Ma sono i Paesi dove le condizioni di detenzione sono meno dure. Le storie sono tante. Come quella del cinquantenne di Conegliano Veneto trovato con 250 grammi di hashish che ha subito un mese di carcere e per un anno e mezzo si è trovato in un albergo di Curro, in India, senza la possibilità di tornare in Italia nonostante le gravi condizioni di salute. "Prigionieri del Silenzio" è una associazione, ce ne sono anche altre, che costruisce un ponte tra chi si trova dall’altra parte del mondo e non ha voce e i parenti, nel tentativo di facilitare una detenzione dignitosa e umana. L’ha fondata Katia Anedda nel 2008 dopo che il suo ex convivente Carlo Parlanti fu fermato in Germania per un mandato di arresto emesso dagli Stati Uniti. Un incubo che ha distrutto una esistenza. Le detenzioni più dure sono quelle nei Paesi extra europei, Tailandia, America Latina, Sud-Est asiatico. Chi conosce racconta di carceri dove il soldo "paga" tutto, anche una falsa libertà. C’è un italiano detenuto in un carcere del Sudamerica che ha un numero di cellulare ed una e-mail (lo si raggiunge su Facebook) che gli consente di dialogare con l’esterno. La moneta lo ha reso diverso, come è diversa la surreale partita a calcio che guarda dalla finestra. "Quasi nessuno vuole rendere pubblica la propria storia - spiega Katia Anedda che ora sta seguendo le vicende di un veneto e un friulano, detenuti rispettivamente in Spagna e nello Zambia. Hanno paura delle ritorsioni, cosa che spesso è accaduta: un detenuto in un Paese dell’Est ha dovuto sottostare ad un periodo di carcere duro per aver parlato. E quindi ci muoviamo con i piedi di piombo. Tra le persone che sono incarcerate ci sono degli innocenti, ma noi come Onlus non guardiamo se hanno o meno commesso il crimine, ma se vengono violati i diritti umani, non entriamo nelle accuse e nel processo. A nostro parere essere condannati all’estero vuol dire dover avere gli stessi diritti che si hanno in Italia".